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In copertina: « Manifestazione », della pittrice Francesca Gargano Neri.
Il 29 aprile 2023, si tenne a Roma un Convegno (curato da Francesco Neri e patrocinato dal comune di Sant’Apollinare (FR), dal Comune di Cassino e dall’Università degli Studi di Cassino) che aveva due scopi fondamentali: ricordare, a otto anni dalla morte, Giuseppe Neri “innovatore dell’informazione radiofonica della Rai”; celebrare, vent’anni dopo la sua pubblicazione, “Il sole dell’avvenire”, il romanzo che il grande giornalista e scrittore dedicò alla sua terra di Ciociaria. In questi giorni, due anni dopo, ho avuto occasione di leggere un nuovo bellissimo testo di Neri, “Il pericolo viene da Kafka”, di cui parlerò in un prossimo articolo, che sarà presentato a Roma il prossimo 5 giugno: in tale incontro saranno senz’altro ricordate anche le altre sue opere.
Eccovi di seguito il commento “a ruota libera” e a tutto campo (fino ad oggi inedito) che inviai al caro amico Peppino Neri il 21 dicembre 2003.
Giuseppe Neri – « Il sole dell’avvenire«
Quando si chiude “Il sole dell’avvenire” di Giuseppe (Peppino) Neri, con lo stesso dispiacere che si prova quando una nave o un treno in partenza ci costringe a separarci da un caro amico o da un pezzo della nostra vita, la prima cosa che viene in mente è che, fortunatamente, ci sono ancora, in Italia, persone che rispettano i morti e la storia e che, nonostante tutto, continuano ad amare la vita e a concepire il mondo come un luogo di incontro e di confronto civile.
Peppino Neri mette dunque la propria sicurezza di scrittore e la propria viva e profonda sensibilità al servizio della verità storica, andando inevitabilmente controcorrente, in un’epoca in cui, soprattutto in Italia, vanno di moda le storie posticce e i revisionismi di comodo. Un’epoca in cui tutti i paesaggi originari sono stravolti e gli uomini che li abitano sono disorientati e confusi.
“Il sole dell’avvenire” è la ricostruzione fedele di un passaggio particolarmente delicato e complesso della vicenda italiana tra le due guerre. Un bellissimo racconto-romanzo, che si aggiunge ai pochi che hanno già celebrato, non sempre con la semplicità e la devota stringatezza di cui dà prova Neri, le radici “socialiste” e “democratiche” del nostro paese più unico che raro.
Siamo nel 1920. Anche Colleforte, un piccolo paese nella piana del fiume Liri in provincia di Frosinone, ha avuto la sua rivolta contadina di ispirazione socialista, il suo primo “sciopero”, che ha dato luogo, qui come in altre parti d’Italia, a positivi risultati per i contadini, da allora, anch’essi, un po’ meno sfruttati ed emarginati.
Il libro scorre senza incertezze in un crescendo di emozioni e di aspettative: limpido come un film di Visconti o di Rosi, privo di retorica e, anzi, alimentato dall’avvincente fascinazione delle “prove” a cui l’uomo – che non si contenta di “viver come bruto” – spontaneamente si assoggetta. A volte si tratta di piccole prove, di eroismi inutili – come quello di Giapone che traversa il fiume aggrappandosi al tirante d’acciaio della “scafa” – oppure di incontri-scontri con il “potere costituito” pieni di buon senso e di umani dubbi.
Ma è evidente che i personaggi positivi di Neri, coloro che percepiscono l’importanza del sociale, dell’unione-che-fa-la-forza e, allo stesso tempo, l’amore per il lavoro e per la propria terra, stanno tutti dalla stessa parte.
Per l’avvocato Nardone, che scende a Colleforte dopo la disastrosa alluvione che ha distrutto il lavoro di un anno, non ci vuole molto ad accendere gli animi: il socialismo era la risposta attesa, la medicina necessaria, il legante umano e culturale capace di conferire all’azione dirompente il carattere di una vera e propria liberazione.
Due personaggi, tra i contadini, coagulano l’attenzione e diventano punto di riferimento e di snodo per l’azione narrativa: il ribelle Giapone e il prudente Francesco del Turco. Il primo potrebbe essere inquadrato come un estremista generoso, ma incapace di qualsiasi strategia; il secondo come un riformista e un paziente organizzatore: la sua aia e la sua casa sono il luogo di incontro del gruppo dirigente dello sciopero. Del Turco, del resto, ha potuto recepire subito, senza difficoltà, il significato profondo del messaggio dell’avvocato Nardone, perché lui, solo lui, a Colleforte e forse in un vastissimo territorio circostante, ha avuto l’avventura di trovarsi a Torino il giorno del comizio di Antonio Gramsci.
Seducente è poi la figura del maestro Cocchiara, una specie di esiliato volontario che trova nell’umanità dell’insegnamento e nella solitudine della caccia una sua personale catarsi. Sarà Cocchiara a dare il “la” al popolo di Colleforte, dicendo a Francesco del Turco la semplice frase: “Dovete essere tanti, una fiumana”.
La fiumana dei contadini che decidono di scioperare il primo giorno e tornano più numerosi il secondo giorno sotto le finestre dell’inaccessibile palazzo del padrone don Tricò… è identica alla fiumana dei manifestanti raffigurati nel “quarto stato” di Pelizza da Volpedo. Ma è anche il grande fiume degli uomini che, in un momento irripetibile e fatidico, prendono coscienza e contribuiscono a deviare il corso della storia, quasi cancellando le tremende devastazioni operate dalla fiumana inarrestabile della grande alluvione abbattutasi poco prima sulla conca a valle dell’abitato di Colleforte.
Giuseppe Pellizza da Volpedo, « Il quarto stato » (1901, particolare)
La semplificazione “filmica” operata da Neri, per cui l’insurrezione è scatenata dall’incontro tra Francesco del Turco e il maestro Cocchiara, sta a significare che la storia è sempre fatta dagli uomini, dagli incontri e dagli scontri tra di essi: la “scintilla” del socialismo forse, chissà, non avrebbe incendiato i cuori e messo in moto gambe braccia e bandiere nel piccolo e isolato paese di Colleforte se non vi fosse tornato Francesco del Turco (reduce dall’esperienza torinese e dalla “visione” di Gramsci) e se non vi fosse arrivato il maestro Cocchiara, volto “istruito” dell’egualitarismo socialista (che ha “visto” Pelizza da Volpedo mentre realizzava il più celebre “poster” della sinistra italiana).
Ci sono poi alcuni essenziali capisaldi simbolici — come la bandiera rossa, come le donne – tratteggiati con lo stesso amore e lo stesso rispetto che dovevano avere per loro questi personaggi “realmente esistiti” che, pur senza mai smettere di “ascoltare” gli altri, hanno avuto il coraggio di “pensare-e-agire” con la propria testa. D’altra parte, tutto lo svolgimento del romanzo è governato dal dialogo a distanza tra il “sole dell’avvenire” (imprigionato nella copertina) e “l’alba del secolo appena tramontato” (citata nel prologo e all’inizio del racconto vero e proprio). Nel 1920 (l’alba del secolo) la tensione ideale verso un futuro più giusto e più umano (“l’internazionale futura umanità”) poteva identificarsi nell’attesa operosa, nella costruzione inarrestabile di un mondo migliore, che avrebbe di sicuro premiato gli sforzi, le rinunce e l’adesione all’ideale socialista. Il premio atteso era simboleggiato proprio dal sole dell’avvenire. In questa proiezione non c’era solo l’aspettativa di un mondo senza classi, ma anche, intrinsecamente connessa, l’entusiastica ed ingenua fiducia nel progresso scientifico e tecnologico: ciò che ha diviso unirà, e le macchine saranno messe al servizio della causa dei deboli e degli sfruttati.
Ma, come dice Neri, questo secolo (il Novecento) è ormai, da poco tramontato. Forse anche prematuramente finito, nel 1989, con la caduta del muro di Berlino e la diaspora del socialismo reale. Nella parola “tramonto” è insita l’espressione di un malessere profondo, di una grave incertezza: il progresso si è rivelato una forza buona e cattiva e anche gli uomini sono buoni e cattivi. Dunque “il sole dell’avvenire” rappresenterebbe, ormai, una chimera, una nostalgica bandiera che sventola in una piazza senza popolo. Ma è proprio da questo dialogo a distanza — “alba”, “sole dell’avvenire”, “secolo tramontato” — che può scaturire, invece, il seme di una nuova tensione ideale, come quella che ha mobilitato milioni di italiani negli ultimi due anni, all’alba di questo XXI secolo. Di fronte a coloro che oggi tentano di riscrivere la storia del Novecento — cercando di ridimensionare la portata del movimento socialista, la resistenza al fascismo e al nazismo, negando le lotte sindacali e di difesa della democrazia che hanno impegnato le forze di sinistra in tutto il XX secolo, senza mai dare luogo, in Italia, a nessuna esperienza in alcun modo confrontabile con quelle, negative, osservate nel sistema sovietico o in altri “paesi socialisti” — il libro di Neri si fa dunque portavoce della passione e della riconoscenza dei posteri, ma apre anche la strada ad una riflessione non scritta su ciò che è accaduto “dopo”.
Peppino Neri, va ricordato, da giovanissimo ha vissuto in una Colleforte molto più simile a quella del 1920 che a quella di oggi. Nonostante ciò, la sua accurata ricostruzione non sembra volersi limitare alla lettura retrospettiva e statica di un anno cruciale. Si sa, ad esempio, che dopo ottant’anni dalla vicenda del libro non si è ancora posto un valido rimedio al rischio che una nuova altrettanto terribile alluvione si abbatta su questa piana oggi infarcita di case e di capannoni industriali. Si sa, d’altra parte, che una simile “trasformazione” del paesaggio, decretando una nuova marginalità per l’agricoltura, non ha spezzato l’antico isolamento. Sulla carta, nell’epoca della globalizzazione, ognuno può muoversi, andare dovunque e trovare ovunque occasioni di confronto e di crescita individuale e collettiva. Sta di fatto che questa possibilità, più “virtuale” che reale, è negata del tutto dal bombardamento mediatico che sciaguratamente si sposa alle difficoltà degli individui, ovunque essi abitino. Dunque, la metafora del paesino tagliato fuori dai traffici, raggiungibile solo nelle ore di va-e-vieni della “scafa”, ben si adatta alla metafora implicita del libro di Neri: gli inurbati consumisti di oggi, prigionieri di un rigido va-e-vieni tra casa e lavoro somigliano come gocce d’acqua ai contadini sfruttati e isolati di allora. L’ignoranza che faceva un gran comodo a don Tricò è la stessa che oggi rimpingua le casse di un’oligarchia di nuovi ricchi e giocatori d’azzardo. Francesco del Turco, nel momento decisivo del romanzo, soffia dentro la “tufa”, una specie di corno arcaico che sembra arrivare da lontane civiltà sconfitte-e-recuperate dai dominatori romani. È proprio lui che, forte delle parole del maestro Cocchiara, accende la “scintilla”. Peppino Neri, che nella sua mite saggezza incarna sia la “vis politica” di Francesco del Turco sia l’umanità “disincantata ma incorruttibile” del maestro Cocchiara, sembra soffiare anche lui, con tutte le sue forze, dentro la tufa, che gli restituisce tutte intere le sue radici. E accende la scintilla della letteratura, che si distingue nettamente nel panorama del romanzo contemporaneo, abbandonando la “fiction” ed evitando con cura ogni possibile esercitazione barocca.
“Ho sempre pensato e sostenuto che la scrittura è l’elemento più importante in una costruzione letteraria« , dice Peppino Neri ad Armando Adolgiso in un’intervista rilasciata dopo la pubblicazione del romanzo (2003). « È la scrittura che invera e legittima ogni narrazione. Ne “Il sole dell’avvenire”, sia la materia sia la natura dei personaggi mi hanno consentito di spingere più avanti la mia ricerca linguistica sul versante dell’espressionismo, mi hanno permesso degli innesti lessicali, dei recuperi dialettali, delle sprezzature di stile e tutto questo lavorio ha lo scopo di vivificare, di rinsanguare, di conferire nuovo vigore espressivo alla trama di una lingua resa sempre più inerte e inespressiva dall’uso, spesso sconsiderato, che ne fanno i mass-media”. D’altra parte, Neri si fa sempre carico di coniugare la sua originale forma espressiva con un impegno civile e politico netto e intransigente dalla parte degli sfruttati e degli esclusi. “Io mi considero« , dice, « un intellettuale (anche se la parola è ormai alquanto screditata) che tenta di leggere la realtà attraverso il filtro dell’intelligenza, che non crede nelle verità rivelate e dunque antepone il dubbio alle certezze. Da buon Capricorno, sono schivo, poco cerimonioso, di parco eloquio. Credo di essere leale, fedele alle amicizie, tenace nei sentimenti. Non tollero gli stupidi, anche perché sono pericolosi.”
In questo quadro “Il sole dell’avvenire” svolge dunque una funzione militante nel tramandare la verità storica, riuscendo a risvegliare le coscienze grazie ad una scrittura elegante e persuasiva dove l’uso della metafora e della sottile ironia convive armoniosamente con una parabola dolorosa e solenne e, a tratti, fiabesca.
Giovanni Merloni




