Trieste, l’anticamera
Non ho mai dato spiegazioni riguardo alle mie poesie e non comincerò a farlo oggi. Di fatto, tra lo stato d’animo che detta con urgenza una poesia e i fatti o le circostanze della vita, c’è uno sfasamento tale che si ha perfino paura di tradire una delle due verità… o le due insieme. E tuttavia, mi sono chiesto, di fronte a una poesia intitolata « Trieste 1971 », che diranno i miei eventuali lettori? Di sicuro, se hanno visitato personalmente Trieste o, almeno, sanno dove trovarla sulle carta d’Europa, essi si domanderanno : perché parla di Trieste, costui? (1)

Sì, certo, Trieste è a un tiro di schioppo da Venezia, la città dove mi sono recato insistentemente a ogni momento cruciale della vita. Ma una Trieste vista di sfuggita — nel « prolungamento » di una fuga a Venezia o rincasando da un viaggio in Jugoslavia o a Praga — non sarebbe bastata a produrre la voglia di parlarne in una poesia, bella o brutta, eroica o patetica che sia.
Le circostanze della vita sono contemporaneamente semplici e complesse. E quando scattano le occasioni, bisogna essere pronti ad afferrarle al volo. D’altronde, per essere pronti, deve essersi prodotta una maturazione, alla fine di une lunga attesa. Oppure si ci deve essere una vera necessità di uscire da una situazione scomoda, dolorosa…
In febbraio 1970, portavo a termine con l’ultimo esame cinque anni e mezzo di studi universitari, in cui l’entusiasmo e la sensazione di passare da un salto nel buio all’altro erano stati sempre accompagnati da un’angoscia sorda o chiassosa, per ragioni a me ben note che ora non posso spiegare se non con larghi gesti o espressioni vaghe.
In estrema sintesi, posso dire che allora ero soprattutto contento di essermi liberato da questo lustro costellato di giganteschi doveri. Ma ero sempre andato di corsa, quasi mai contento di me e, anche pensando alle scarse armi di cui disponevo per aprirmi una strada, stavo sprofondando in un una specie di frustrazione, che mi portava inesorabilmente alla solitude e al silenzio.
Ma il Destino non aspettò che un mese per interessarsi al mio caso, dandosi da fare per rimettere in piedi il mio amor proprio e la fiducia in me stesso. Tutti i miei compagni partecipavano all’esame di Stato, passaggio indispensabile per accedere alla professione di architetto. Li seguii senza troppa convinzione in quella sala enorme e stereotipata dove la maggioranza dei presenti, almeno nella prima mezz’ora, non pensò ad altro che a temperare più volte la stessa matita.
Poi, nonostante le mie gravi carenze, riuscii a lanciarmi in un’idea abbastanza organica e logica, che fu apprezzata dalla commissione esaminatrice con la mia più grande sorpresa. Superata la prova scritta, l’orale mi preoccupava meno, a condizione che non mi facessero domande troppo approfondite su certi aspetti scientifici o piuttosto tecnici.
Arrivai all’appuntamento in uno stato di euforia e di spensieratezza che mi aiutò a vendere cara la pelle, conducendo per mano i miei interlocutori là dove avevo conservato le mie principali riserve dialettiche. Scoprii allora che il presidente della Commissione era stato un carissimo amico di mio padre, scomparso da poco più di due anni. Si chiamava Pio Montesi. Mio padre lo stimava moltissimo anche se ne aveva parlato poco, secondo il suo stile.
Pio Montesi viveva a Roma e insegnava a Trieste, dove era il direttore dell’Istituto di Architettura e Urbanistica dell’Università. Subito dopo questo incontro «da una parte e dall’altra del tavolo», Montesi, ben contento di non aver dovuto esercitare la sua influenza per farmi uscire da una qualsiasi difficoltà, aveva manifestato verso di me, con la discrezione che la situazione imponeva, un atteggiamento se non paterno certo benevolo e adatto al mio temperamento orgoglioso e fin troppo sensibile.
Questa madeleinette di Proust dell’esame mi ricorda di colpo la sua voce, il suo curioso modo di attirare l’attenzione con frasi corte e taglienti, la sua inflessione dialettale che entrava in gioco in modo elegante, sempre disincantato e ironico… Dopo questo incontro avvenne per me in un solo istante la miracolosa sostituzione del padre perduto… e la compagnia di una figura carismatica, che aveva vissuto una storia personale che in qualche modo, io lo sentivo, anticipava la mia…
Ricordo rapidamente che Montesi non amava parlare a lungo al telefono… che non guidava la macchina, dunque, in modo del tutto discreto, amava essere accompagnato a casa, o al suo bellissimo studio d’architetto… Mi bastano pochi particolari… e la sua nobile figura riprende vita nella mia memoria, come in un film… capelli bianchi come la neve, occhiali da sole, un naso spirituale, un volto pallido o d’improvviso arrossito, forse per i soprassalti della pressione alta. Era sempre elegante con il suo vestito grigio, le sue camicie bianche, la sua cravatta da artista, i suoi calzini bianchi, e quella borsa, mai troppo pesante, ch’egli trasportava volentieri dalla casa di via Labicana al suo studio sulla pacifica via della piramide Cestia…

Di questo passato perduto io ricordo ogni dettaglio: non mi preoccupavo quasi mai delle difficoltà economiche o dell’incertezza nel lavoro, anche se ero un giovane padre appena uscito, traumaticamente, da un primo ciclo lavorativo come professore supplente in un liceo.
Quando Pio Montesi mi invitò a Trieste, dandomi così la chance di rendermi utile in un gruppo di ricerca sulle università straniere — la francese e la russa in particolare — io ne fui felice e riconoscente. Si susseguirono i viaggi, le amicizie, la scoperta di questa città incantatrice e ospitale… Il rapporto numerico equilibrato tra professori e alunni favoriva un certo clima di scambio sereno e sempre stimolante, costellato di seminari, gite culturali e scientifiche, cene comunitarie, piacevoli serate a casa degli uni e degli altri… Era una vita privilegiata, che mi lasciava credere, in quei giorni almeno, a un riconoscimento più solido rispetto a quelli che ottenevo nella realtà (o « irrealtà ») romana. Trieste era anche quell’accento del tutto particolare, che dava una consistenza e un colore preciso a questa piccola libertà, protetta e garantita, di cui potevo usufruire almeno una volta al mese…

Qui ho appena lo spazio per citare un aneddoto che lo stesso Montesi raccontava per esprimere, con grande sincerità, la diversità tra i suoi due mondi: arrivando a Trieste era accolto con tutti gli onori e, se era il caso, con la banda… mentre a Roma, alla stazione Termini, non c’era mai nessuno ad attenderlo… Diventava allora un viaggiatore qualsiasi, uno sconosciuto con la valigia pesante o leggera come tutti gli altri…
Per comprendere anche la mentalità del tutto particolare e l’onestà intellettuale del mio «secondo padre», Montesi arrivò un giorno a Roma con i suoi alunni, deciso a portare a compimento un’idea assai paradossale in cui mi trovai coinvolto: era l’idea della scoperta di una Roma del tutto insolita… Obbligò infatti il pullman — e i suoi devoti alunni triestini — a percorrere un anello studiato a tavolino attraverso la città degli anni ’50 e ’60… senza mai uscire dalla periferia! Per quelli che non avevano mai visitato la Roma monumentale e privilegiata, e sapevano che non ci sarebbe stato il tempo per vederla, fu un vero choc. Una « grande abbuffata » di palazzoni e palazzine precocemente invecchiati che si traduceva in una specie di incubo… con alcune luminose eccezioni che Montesi aveva previsto come altrettanti premi di consolazione… Ecco un ricordo che avevo ricacciato chissà dove, che meriterebbe, per le sue ombre e le sue luci, di essere ripreso un giorno e salvato dall’oblio definitivo…

Parlerò anche, un’altra volta, dei «giovani» miei coetanei che avevo conosciuto a Trieste in questa indimenticabile e, ahimé, breve stagione, tra cui Aurelio, nipote di Scipio Slataper, un grande poeta triestino, autore tra l’altro di un libro-cult, «Il mio Carso», Giorgio et Diana De Rosa, Costantino Giorgetti.
Purtroppo, dopo una breve «rimpatriata» nel 1994, non ho potuto né saputo mantenere il contatto con queste persone speciali. Oggi, l’inevitabile ricerca di notizie su ciascuno di loro mi ha arrecato un vero dolore : Giorgio De Rosa è scomparso nel 2010 ! Non potrò mai dimenticare le parole che quest’uomo intelligente e pieno d’ironia mi disse al momento dei saluti, nel suo dialetto spiritoso: «comportite bèn!», «comportati bene !» Ma io, ho poi seguito i suoi consigli?
Ciò che poi mi colpisce, oggi, ritrovando nei miei fogli ingialliti la mia poesia in onore di Trieste, qui sotto, è realizzare che questa città straordinaria è stata per me l’anticamera di Bologna. Bologna non sarebbe mai esistita, nella mia vita, se non ci fosse stata Trieste…
Dopo un anno e mezzo circa, le nostra tesi collettiva sulle università straniere era bene o male finita e i miei viaggi a Trieste divenivano sempre più rari, quando fu lanciato un concorso per assumere degli architetti alla regione Friuli-Venezia Giulia. I miei amici di Trieste, conoscendo il mio interesse per l’urbanistica e la mia difficile situazione di lavoro a Roma, insistettero con Montesi perché mi incoraggiasse a presentare la mia candidatura. Era molto facile, allora, una cosa che sembrerebbe del tutto inverosimile oggi. Ma, parlando di me, Montesi disse : «Non credo che lascerebbe Roma per venire quassù!»
Questa frase cambiò la mia vita. Sulle prime, restai deluso: sarei partito immediatamente per vivere a Trieste, o a Milano, o a Torino, o anche in una qualsiasi città straniera se i miei titoli e le mie conoscenze linguistiche l’avessero permesso…
Nel 1970, con 22 anni di « ritardo », fu realizzata, in Italia, una delle più importanti riforme previste dalla Costituzione repubblicana: le Regioni.
Tra il 1970 e il 1972, tutte le Regioni dovevano assumere importanti poteri in materia di urbanistica e assetto del territorio. All’epoca, preso com’ero dalla ricerca incessante di lavoro e dalle contrarietà esistenziali sempre più palesi, non avrei forse saputo niente di tutte queste opportunità.
Non mi fu difficile convincere Montesi, quest’uomo generoso che sapeva farsi carico della vita di un altro. Ormai, la possibilità di partecipare al concorso della regione Friuli-Venezia Giulia si era dissolta. Forse il mio maestro aveva ragione: il mio trasferimento a Trieste non sarebbe stato una buona idea… Montesi mi aiutò invece, con entusiasmo, nella decisione che mi condusse, in poco tempo, tra soprassalti psicologici che andavano al di là delle difficoltà effettive, in quella Bologna d’elezione di cui non finirò di tessere le mie lodi più sincere.
Se penso soltanto che quest’uomo è scomparso nel 1981, solo undici anni dopo il nostro primo incontro… E trentaquattro anni sono trascorsi, ormai, da quell’ultimo addio, nella sua bella casa che non avevo mai visto prima !
Mentre voi leggerete questa poesia, io la rileggerò con voi. Certo, una poesia, da sola, non può restituire interamente un pezzo di vita intenso e ricco di meraviglie… Forse un giorno la riscriverò, o la trasformerò in un racconto, cercando di riversare in esso questo sentimento di angoscia frenetica e di compulsiva gioia di vivere che accompagnava i miei giorni di attesa, i miei lunghi viaggi solitari, i miei incontri con questi personaggi, notevoli per molteplici aspetti, le mie passeggiate distratte con Diana e Giorgio, Costantino e Aurelio, i miei appunti, mai sereni, mai organici…
Giovanni Merloni

Trieste 1971
Di ogni città trattieni
le incerte memorie:
passa dentro al tuo corpo
allungato, bianco e grigio
l’inquieto incrocio delle colline e del mare.
Dalla tua bocca scolorita
sussurri onde calme e salate,
descrivi, in un fumo azzurro
strane piazze palladiane
finite, infinite, estranee, parenti.
Di ogni città accogli
il gesto e la parola:
chiuso tra i vetri e gli stucchi
di vecchi caffè affacciati alla bora,
confidi l’antico sapore viennese
l’antico rituale di statue sepolte
di nascondigli di ebrei e di poeti
il lento passaggio d’infiniti esili.
Di ogni parola dei poeti
di ogni foto autentica di Freud o di Svevo
conservi la distratta ordinata scansia:
ma c’è stata anche Roma, anche qui
a travolgere l’esile bacio
il sottile fazzoletto dipinto
del Carso nel debole mare.
Di ogni città rifai
le forme moltiplicate e sfuggenti,
ma intanto conservi, attenta,
una tua aria segreta, un confine
inesistente di infinite lingue diverse
e questo paesano andare sui monti
rotolando, ridendo, tra rocce e sterpi,
arido e luminoso destino
che il mare di cartolina
rimanda tenue, vivo, bello.
Nei giardini discreti di glicini incantati
tu ricrei, in una mattina di debole sole,
questa nostra terra di nostalgia
di malinconica decadenza.
Di ogni memoria vagabonda
di ogni passaggio eroico tra i fuochi
tra le parole più vive
tu sei il corpo infelice che amo.

Giovanni Merloni
TESTO IN FRANCESE