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Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento (Nel frattempo n. 3)

15 jeudi Sep 2016

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente, racconti

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Bologna, Emilia-Romagna, Romano Reggiani

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento

Nel frattempo, questo fiore solitario mi ha fatto pensare alla bellezza della vita e della morte…
Spero che mi perdonerete di avere osato giustapporre queste due bellezze, così diverse tra loro. Ma è molto raro che la bellezza rispecchi la felicità. Se una cosa simile accade, si tratterà il più delle volte di una felicità passeggera.
Dunque oggi questo fiore, simbolo insostituibile del carattere effimero della bellezza, non è lì per caso…

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

All’inizio, questo fiore evoca in me una camicia di seta bianca con una spilla d’oro al posto del cuore. Una bella ragazza, modella devota di un celeberrimo pittore, deve averla lasciata libera di volteggiare nel prato secondo il vento, dovendo al più presto comparire nella famosa «colazione sull’erba».
Poi mi viene da pensare a due pittori.
Uno si fa prendere dalla descrizione della scena inquietante, dove la gioia della dissacrazione si mescola alla rabbia — faticosamente tenuta a bada — della gelosia e dell’invidia di ognuno.
L’altro osserva a lungo la camicia che ondeggia su una canna, finché si decide a « rimetterla », con mani sperdute e di colpo imprecise, sul busto indimenticabile di questa « fuggitiva » ch’egli non cesserà mai di amare e rimpiangere furiosamente…
Oppure abbiamo a che fare con un solo pittore, che preferirebbe abbandonare i pennelli e distogliere lo sguardo dalla sua composizione rischiosa e blasfema per fissare, steso sull’erba, quei petali lisci e lucenti.
Istigato da questo fiore solitario, questo pittore vorrebbe saper tradurre la bellezza effimera della natura trasferendola nella realtà eterna (o quasi) del quadro. Mentre traduce, il pittore tradisce, inevitabilmente, perché deve assolutamente trovare un linguaggio adatto a fissare una volta per tutte una bellezza che non potrebbe essere più sfuggente…
Obbligando la sua donna a partecipare, nuda, alla «colazione sull’erba», egli ha tradito se stesso, anche se l’ha fatto in nome di una bellezza universale, destinata a galleggiare al di fuori dello spazio e del tempo…

003_img_9196Romano Reggiani (1942-2016)

Ma questo fiore solitario evoca anche, in me, un pietoso lenzuolo bianco steso, come un’ultima camicia, sul corpo senza vita di uno dei miei più cari amici.
Egli era al mare, in Toscana, l’8 agosto scorso, intento a nuotare tra onde appena increspate, non lontano dalla riva, a pochi metri da sua moglie e dai suoi due figli ormai grandi. All’improvviso, senza che si potesse percepire alcun segnale di malessere o di difficoltà, coloro che erano presenti hanno visto arrivare sulla battigia un corpo galleggiante, steso sul pelo dell’acqua come un «morto a galla».
« Sorrideva ! Non ha sofferto ! Non si è accorto di nulla ! » Si dice sempre così e  questa
 scena sconvolgente acquista addirittura, paradossalmente, una sua sconvolgente bellezza.
Romano Reggiani, che i suoi più vecchi amici chiamavano « Yuma« , era un uomo alto, robusto, che attingeva senza risparmio alle sue mani di « scultore di idee » per dare tanto di sé agli altri. Anche lui non era stato risparmiato dalle invisibili piaghe che il tempo scava con indifferenza sul suo cammino. Ma con tutto il suo entusiasmo e quella voglia instancabile di fare sembrava non accorgersi di nulla. Ecco quello che mi hanno raccontato, per aiutarmi a accettare questa morte violenta e inattesa. Chissà se questa ipotesi di serenità mi aiuterà anche a ricomporre le fisionomia di quest’uomo che, nel frattempo, non era cambiato rispetto ai tempi oramai lontani in cui si colloca il mio pur vivo ricordo di lui.
Mi sembra un po’ strano, sinceramente, di parlare di Romano dopo tanti anni, in cui ci eravamo per così dire « persi di vista ». Ma ho deciso lo stesso di farlo, seguendo una mia idea di cui sono un convinto assertore : nel corso della vita e anche dopo la morte, certi legami diventano dei fari indispensabili nella nostra mente. Quante volte mi sono ricordato di Romano, delle sue conversazioni con Francesco Curtarello a cui assistevo ? Ritorno anche, molto spesso, a certe parole o frasi, scambiate direttamente tra di noi, che costituiscono ormai delle vere e proprie pietre miliari lungo le vie difficili o fortunate delle nostre vite parallele. Se mi sono periodicamente fermato a ricordare la sua grande casa nel bel mezzo della campagna a San Giorgio di Piano, a ascoltare la sua voce di fumatore accanito, a ricostruire a mente il suo volto arrossato dal sole e dalle sue stesse energie vitali, se non posso dimenticare le sue certezze assolute, la sua benevolenza piena di calore nei miei confronti, è possibile, credo, che di tanto in tanto si sia ricordato anche lui di me.

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Tutto sparisce, e questo mio contributo per restituire ai vivi l’immagine di quest’uomo « sparito » sarà inevitabilmente inadeguato, molto meno efficace di una sola foto. Resterà la mia lacunosa descrizione che aprirà la strada, come nel caso del pittore di cui sopra, a un nuovo tradimento. Un doppio tradimento. Perché rivolgendomi a dei lettori francesi io tradisco, inevitabilmente, la lingua dei nostri incontri, risalenti all’epoca in cui vivevo e lavoravo a Bologna ed ora, lanciando dalla Francia questo mio ricordo confuso, finisco forse per tradire anche l’immagine che i miei amici di Bologna si sono fatta di me.
«Partire è un po’ morire», dice la canzone. Dunque, andando via, all’estero, «perdendomi» nei meandri di questa Parigi «super gettonata», nella mia condizione di «profugo di lusso», sono oramai scomparso in una specie di cortina fumogena che nessuno ha voglia di attraversare. «Che vuole da noi, questo «parigino»? si domanderebbero senza dubbio, ironicamente, i miei amici se sapessero che parlo di Romano…
Ma io lo faccio lo stesso.
Romano Reggiani era giustamente orgoglioso di essere un rampollo della grande e gloriosa famiglia del partito comunista in Emilia-Romagna, mentre le mie origini romane facevano di me un « parvenu » di questo stesso mondo e «scuola di vita». Ciò non impediva che io fossi ammesso a partecipare alla stessa esperienza di buona amministrazione delle città e del territorio a cui Romano dava il suo contributo. Abbiamo condiviso gli stessi ideali e le stesse illusioni, ma anche la gioia incancellabile di vedere realizzati molti progetti che altrove sono invece rimasti lettera morta.
Noi abbiamo avuto due vite «parallele», condividendo le stesse preoccupazioni legate a una professione obbligata a confrontarsi con un mondo che cambia, dove i margini per una valida e incisiva azione politico-amministrativa si riducono o sono diventati ormai del tutto inesistenti.
L’ultima volta che ho visto Romano è stata nel 2003, in occasione di un viaggio a Bologna, conclusosi con una gita in quella stessa spiaggia toscana… Poco tempo dopo, il primo maggio del 2006, ho interrotto tutte le mie attività, mentre Romano ha continuato tenacemente, fino al giorno di questa morte così folgorante e inattesa.
«È morto senza rinunciare ai suoi progetti ! » mi ha detto il mio amico Francesco.
Ecco perché la morte di Reggiani può essere ricordata come una bella morte.

Per una coincidenza che non può essere casuale, egli è morto proprio l’8 agosto. Una giornata, quella dell’8 agosto 1848 illustrata dallo straordinario eroismo dei bolognesi, che furono capaci di sconfiggere l’esercito austriaco invasore. Se Romano lo sapesse, se ne consolerebbe. Tra le rare persone di cui ho potuto ammirare lo spirito combattivo e la coerenza ideale, Romano Reggiani è stato senza dubbio uno dei rappresentanti più sinceri e coraggiosi di un popolo che non cede mai al conformismo e all’indifferenza. E gli si deve anche riconoscere una grande ironia, che affiora con prepotenza, tra l’altro, nel suo recente libro « Et fiat porcus« , un omaggio raffinato e intelligente alla cultura del maiale, al centro della tradizione alimentare specifica dell’Emilia-Romagna.

«Quando i compagni della giovinezza e della vita ci vengono sottratti ci accorgiamo che tutto il tempo che abbiamo a disposizione lo consumiamo nell’abitudine, giorno dopo giorno a svolgere tutte le incombenze del quotidiano, a mettere a posto, a far fronte agli impegni e alle richieste della burocrazia, del fisco, dei fornitori di servizi», mi ha scritto una carissima amica di Bologna. «Una noia e un fastidio mortale.»

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Giovanni Merloni

TESTO DELL’ARTICOLO IN FRANCESE

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore (1)

01 jeudi Oct 2015

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Bologna, Emilia-Romagna, Facoltà di Architettura, Giorgio Muratore, Roma

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ASCANI Maurizio, BARBERA Luigi Maria (Mario), FIORE (Francesco Paolo), GERBINO Renato, MARCHITELLI Antonio, MERLONI Giovanni, MURATORE Giorgio, NATOLI Marina, SARACENO Andrea, QUADERNO N. UNO

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore

Caro Giorgio,
ognuno di noi, ognuno di quelli «che hanno cercato di fare qualcosa » dovrebbe spiegare le radici e le cause profonde della sua «indignazione».
Forse, nonostante le molteplici affinità elettive che ci rendono fratelli o cugini, non abbiamo esattamente le stesse idiosincrasie, le stesse rabbie per le stesse offese all’occhio e allo stomaco, all’estetica e alla morale, voglio dire.
Forse, nel tempo, le nostre rispettive battaglie sono diventate più specialistiche o si sono trovate per forza di cose imprigionate in contesti più circoscritti o comunque diversi e lontani uno dall’altro.
Certo, dopo un percorso comune, le nostre vite si sono separate. Non solo per il fatto che a due anni dalla laurea, inaugurando una nuova ondata di architetti romani emigranti a Bologna (di cui hanno fatto parte, tra gli altri, Giuseppe Manacorda, Pier Camillo Beccaria, Marco Peticca, Edoardo Pregher, Maurizio Ascani e Gian Piero Rossi) io avevo deciso di varcare gli Appennini per spezzare il cordone ombelicale con l’odiata-amata Roma, mentre tu hai fatto la scelta di restarvi, lottando, a Roma, dentro quella stessa facoltà di architettura, dando alle nuove generazioni un luminoso esempio di trasmissione democratica delle esperienze e del sapere.

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Ma io feci anche la scelta dell’urbanistica. Di quella «cosa» che da studenti avevamo guardato con sospetto, e criticato ferocemente come la principale responsabile della «non forma» delle nostre città.
Se apro, con circospezione — e paura di trovarvi chissà che — quel «libro», che volevamo intitolare «Diritto alla città», in cui riversammo le nostre speranze ma anche le nostre frustrazioni, mi rendo conto che forse, se dovessimo fare una sincera e utile autocritica, dovremmo partire proprio da lì.
Retrospettivamente, e in maniera sintetica, io vedo la nostra esperienza universitaria ipotecata da due fattori principali.
Il primo, certo il più importante nel cosiddetto «lungo periodo», è stato quello della grande svogliatezza della maggior parte dei nostri docenti e assistenti, a parte alcune luminose eccezioni, come giustamente fu l’esempio Maurizio Sacripanti, o la tenacia di Antonio Quistelli, o la serietà di Paolo Marconi e Vieri Quilici, per esempio. Alla base di tutto, con la dubbia giustificazione del numero (la nostra generazione, chiamata non a caso la generazione del baby boom, comportò, per la prima volta, l’iscrizione di 500 studenti al primo anno di Architettura) si è imposta, a danno dei futuri architettI dell’epoca, una irriducibile gelosia professionale, eccezion fatta per coloro che potevano rientrare, attraverso forme di cooptazione del tutto discrezionali, negli «atelier dei maestri».

Quindi, non si è «voluto» insegnare i segreti del mestiere di architetto alla stragrande maggioranza degli studenti e laureandi. Nel contempo, furono indicati loro degli obiettivi troppo vasti e difficili.

Non posso non ricordare Ludovico Quaroni con affetto e stima grandissima. Un uomo straordinario e carismatico che sapeva trasmettere grandi suggestioni. Sulla sua bocca e nei suoi gesti il «town design» prendeva corpo, sembrava una cosa abbordabile, a portata di mano. Ma come si fa a concepire il «town design», cioè il disegno preventivo e unitario di interi pezzi di città, ignorando o dimenticando l’urbanistica, ignorando o dimenticando che non possono essere le singole persone da sole a «risolvere tutto» con la loro bacchetta magica, se ce l’hanno?

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Il secondo fattore di disturbo, caduto circa a metà della nostra laboriosa e tormentata «auto-formazione» è stata l’esplosione, con il movimento del 1968, di una dimensione politica trascinante ma radicalizzante, che ci obbligò a riconsiderare, alla velocità del fulmine, tutte le nostre modeste certezze.
Il fenomeno dell’università «di massa», come si diceva allora, trovò nella cosiddetta «contestazione» una specie di falso alleato. Se l’università doveva far fronte a un cambiamento quantitativo nel rapporto professori/studenti e forse anche nei sistemi formativi, educativi e di avvio professionale, il movimento di allora predicava una rottura verticale e definitiva con il «sistema», andando molto al di là della giusta ipotesi dello svecchiamento e della lotta all’autoritarismo dietro cui si celava, senza dubbio, un’idea oscurantista, elitaria e antidemocratica della scuola e delle istituzioni culturali, come Pasolini stesso l’aveva sottolineato, all’indomani della « battaglia » di Valle Giulia nel suo poema « Il PCI ai giovani« . Invece di « uccidere il padre » per assumersi fino in fondo delle vere responsabilità, gli è stata tolta l’autorità formale, salvo approfittare delle risorse reali del padre stesso per sfruttare al massimo tutti i privilegi e vantaggi possibili e immaginabili.

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Insomma Giorgio, forse tu non ricordi che nel lontano 1968 presi una volta la parola, nell’aula magna gremita, per dire, sotto lo sguardo beffardo di Sergio Petruccioli, che avremmo potuto e dovuto approfittare di un’occasione. Ricordo che i nostri compagni di università mi ascoltavano molto attentamente, anche se io ero timidissimo e parlavo a scatti. Bisognava utilizzare quel provvisorio «potere», che il ’68 ci regalava, per dire la nostra, per «metterci intorno a un tavolo» con professori e assistenti e cercare di capire, insieme, cosa non andava nella nostra sgangherata facoltà, per cercare di impostare una didattica e una ricerca più coerenti con le nuove esigenze e soprattutto con l’esigenza di una vera democrazia. Non si usava, allora, la parola «trasparenza». Per quella abbiamo dovuto aspettare l’avvento del povero grand’uomo che è stato Michail Gorbaciov, ma, ne sono sicuro, nel mio timido intervento pensavo soprattutto alla trasparenza.
Se c’eri, forse ti ricorderai che questo mio invito alla concretezza e all’onestà fu interpretato come una «azione di disturbo». Petruccioli mi attaccò, dicendo in sostanza che non avevo diritto di parlare, perché non avendo partecipato attivamente a tutte le azioni e riunioni del movimento studentesco, non sapevo di cosa stessi parlando. In verità, il leader indiscusso del movimento nella nostra facoltà era molto preoccupato, perché subito dopo accese un registratore, a tutto volume, obbligando l’uditorio ad ascoltare la voce sofferente di Oreste Scalzone. Quest’ultimo aveva rischiato la morte durante una recentissima manifestazione davanti alla facoltà di legge, essendo stato colpito sulla schiena dal lancio di un banco di scuola, che uno studente di estrema destra aveva fatto cadere da una finestra. Un episodio dolorosissimo che mi riporta alla memoria il clima spettrale di quella giornata veramente tragica.

Resta il fatto che la mia buona volontà fu zittita e ridicolizzata. Continuai a seguire me stesso e mi accorsi tra l’altro di non essere il solo a pensarla così. Renato Nicolini, per esempio, non era certo un facinoroso e fu anzi sempre lucido su questo punto, realizzando poi in prima persona, dieci anni più tardi, il rovesciamento che molti si aspettavano. Pur nell’ipotesi «effimera» dell’Estate Romana, la sua idea di cultura popolare — ma elevata, intelligente, ambiziosa, inserita nel contesto europeo — era una delle strade giuste da seguire.

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Dunque, folgorati sulla via di Damasco da questo «bel momento» del ’68, abbiamo tutti concluso i nostri studi universitari nella condizione meno serena e tranquilla possibile. Avevamo infatti davanti a noi, in questa Roma incapace di diventare capitale d’Italia, un mondo esterno sempre più latitante, dove l’autoritarismo stupido era sostituito da una burocrazia dispettosa. Dentro di noi una vocina, una strana ostinazione e quasi una volontà ci obbligavano a resistere, a cercare a tutti i costi una strada, per noi, per gli altri e forse anche per il mondo.
Ma, ripensandoci alla luce di quello che viviamo oggi, già allora c’erano tutti i germi della degenerazione futura.

Giovanni Merloni

(Continua)

TESTO IN FRANCESE

Si può amare una città? (pit n.3)

25 samedi Mai 2013

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Bologna, Romagna

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Jan Doets sostiene che la nostra memoria  risiede nella totalità del corpo umano, che il cervello non ha che una sola funzione, in definitiva. Non è che un un rubinetto. Lo scrittore olandese fa molto efficacemente l’esempio della suonata  « Dopo una letture de Dante » di Franz Liszt, interpretata in modo prodigioso dal pianista russo Arcadie Volodos. Egli ha pienamente ragione.

Io avevo scritto, nel 1997, un romanzo su Cesena e la Romagna (« Il quarto lato »). Un libro che non ha avuto quasi diffusione in Italia e non è stato amato da tutti con lo stesso entusiasmo o benevolenza.  Dopo una lunga riflessione, ho compreso in seguito che avevo deluso soprattutto quelli che si erano formati una certa idea di me, avendomi conosciuto « al tempo della regione Emila-Romagna », cioè in quel periodo del tutto straordinario, all’inizio degli anni Settanta, dove tutto nasceva (molti di noi erano giovani), in quei « sette anni d’oro » che si sono consumati, senza rimpianti né rimorsi, tra i ventisette e i trentaquattro anni.

A quei tempi, mi spostavo spesso da Bologna a Forlì o Cesena per i piani regolatori dei comuni grandi e piccoli, isolati in cima a una montagna, sparpagliati sul versante di una collina o concentrati nei crocevia di questa pianura dove si può ancora riconoscere la traccia dell’antica  centurazione romana. Allora, eravamo spinti a trovare sempre una soluzione positiva, anche se si aveva spesso a che fare con dei veri rompicapo giuridici e umani.  Io amavo molto scrivere e parlare alla gente. Ereditavo infatti da mia madre una orgogliosa inclinazione per la letteratura e da mio padre una certa disinvoltura avvocatesca, se non addirittura un gusto perverso per la ricerca a tutti i costi di un accordo tra interessi anche opposti.

Presto, il mio amore senza riserve fu condiviso. Fui accolto con un calore incredifile. Bologna e la Romagna – che mio padre mi aveva fatto conoscere dopo la mia infanzia – erano ormai la mia patria d’elezione, confermando in me il titolo segreto di luogo sacro dove erano nati mio nonno Zvanìn e i miei bisnonni, Cleta e Raffaele. Il linguaggio che affiorava ai miei occhi e alla mia bocca, prima di discendere nelle mie mani –  incaricate in seguito di gesticolare o di scrivere sull’Olivetti che appoggiavo disinvoltamente sulle  ginocchia -, era allora molto semplice e convincente e si adattava senza scosse quando dal parere urbanistico doveva passare al documento politico e sindacale.

Mettevo sempre molta passione nelle mie relazioni tecniche  e ancor più in quelle destiante a qualche più raro intervento pubblico. In realtà, non si trattava soltanto di passione professionale o ideale che aggiungevo alla mia tenacia naturale. Io facevo scivolare in questi scritti le mie frustrazioni letterarie. Risultato : ciò che scrivevo otteneva, qualche volta, un successo insperato durante le mie letture ad alta voce nel corso delle riunioni di lavoro.

Quando ho lasciato Bologna per rientrare a Roma, decidendomi incautamente, dopo qualche anno a passare, come Cesare, il Rubicone – fiume che d’altra parte scorre proprio in fondo alla collina di Sogliano, là dove noi abbiamo momentaneamente abbandonato i  nostri commensali, forse intenti in una accesa discussione -, e quando mi sono consacrato alla scrittura senz’altro scopo che la scrittura di per sé, ho dovuto sostenere una lotta accanita per affrancarmi da un certo ritmo « barocco », da un uso eccessivo di aggettivi e di avverbi ereditati dal mio lavoro di urbanista e da quella oziosa ricerca di frasi tecniche « dal volto umano. »

Inoltre, io non mi trovavo più là, a pochi minuti o ore dalla piazza del Popolo di Cesena. Non potevo arrivarci a piedi, senza  fastidio, direttamente dalla stazione, ripercorrendo quella gradevole passeggiata sull’antico acciottolato, lungo corso Strozzi, la Barriera, la Biblioteca Malatestiana e i portici della strada Zeffirino Re. Ciononostante, grazie a questa scrittura sfasata e fuori-tempo, ho potuto curare, se non del tutto cicatrizzare, gli strappi e le lacerazioni provocate dall’abbandono di una patria che stavo cominciando a ritrovare e assaporare. E quella piccola folla di personaggi del « quarto lato » aveva talmente popolato il luogo centrale del romanzo – la Piazza del Popolo -, che un giorno, tornando là qualche mese prima della conclusione  del libro, fui colto da una sensazione indimenticabile.

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Feci qualche passo in quel luogo, non saprei dire ora se mi semrava più grande o più piccolo, più largo o più stretto. Venivo dal mercato, che è situato al piano terra del palazzo comunale. Sotto le arcate, una stele è dedicata a mio nonno Zvànin, uno dei più gloriosi rappresentanti del socialismo riformista e dell’antifascismo italiano prima della seconda guerra mondiale. (Morì relativamente giovane, a sessantatre anni : confinato politico, per decreto di Mussolini, in un paesello sperduto del litorale jonico della Calabria.) Certo, la visione della lapide, con il ritratto in bronzo del nonno, mi aveva già colpito. Ma, al di là di lui e di tutti gli altri personaggi del romanzo, il fatto di entrare in quella piazza… Mi sentivo « nudo ». Ovvero, per essere più precisi, « sentivo » quel luogo come una persona. Una persona dolorosamente amata che mi veniva incontro, mi toccava,  attraversava i miei vestiti per aderire alla mia pelle… Caddi a terra e restai seduto lì qualche secondo. Provavo cio`che si potrebbe provare, credo, se si facesse l’amore con una donna che ci si è sforzati per tanto tempo di dimenticare e che invece, a sorpresa, si incontra di nuovo, parecchi anni dopo l’ultima telefonata.

Si può amare una città?

Ecco ciò che la citazione di Jan Doets mi ha fatto ricordare. Il mio corpo, talmente intriso dai pellegrinaggi dell’anima in questi luoghi amati e, forse, fin troppo sacralizzati, aveva assunto le informazioni prese in prestito alla città reale e le aveva fuse con le suggestioni della fantasia fino a piombare in uno stato di vero spleen stendhaliano. Con un aspetto di malinconia  erotica che solamente un corpo sano può ospitare.

Ma cosa avrebbero voluto trovare, in questo primo romanzo, i miei amici delusi? L’attualità o la verità delle nostre esperienze comuni ? Spero sempre che, rileggendolo, qualcuno di loro un giorno saprà riconoscere questa esigenza tormentosa di collocarmi in un tempo sospeso tra le generazioni. D’altronde non è un caso che là dentro, a fianco del personaggio evocato – Battista Alessandri, alias Zvànin, – e di Pio Foschi, il « capitale morale » della storia, il vero protagonista sia Libero, un equilibrista il cui temperamento, così gentile e generoso, assomiglia enormemente a quello di mio padre.

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 20 mai 2013

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Zvanì (pit n.2)

24 vendredi Mai 2013

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente di una tavola

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Bologna, Cesena, Dario Fo, Giovanni Pascoli

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

« Dalle parti di Schwann»… Quando si voleva vezzeggiare Zvàn, mio nonno,  lo si chiamava  « Zvanìn » o « Zvanì »…

Con la musica  accattivante di questo nome nel cuore, ho la sensazione che la Romagna si sposti come la zattera di pietra di Saramago e che vaghi a lungo  prima di fermarsi, in un luogo molto remoto, nella geografia dei miei sogni. Potrebbe chiamarsi altrettanto bene Samarcanda o Damasco o, anche San Pietroburgo. Io non  sentirei il peso della distanza, dato che questo luogo sarebbe sempre presente nella mia mente come i lunghi singhiozzi di Verlaine e i parapetti d’Europa di Rimbaud, vicini come questa tavola allegramente sparecchiata dove questo signore dall’aria intelligente è privilegiato dalla distribuzione, fin troppo complice, della luce.

D’altronde Zvànin è tutt’uno con gli altri partecipanti alla vigilia, a cui si rivolge  — mi sembra di sentirlo –  con una voce calma, convincente, nella loro stessa lingua cifrata, del tutto incomprensible per me. Zvànin è lo stesso di Jean, o Jan o John. È un modo di abbreviare la parola, di rendere più vicino e intimo un nome solenne come Giovanni o noioso come Johannes. Une specie di frenesia dell’abbreviazione e della variazione.

Quanto al suo linguaggio, è difficile tracciare dei confini. Certo, tutti dobbiamo, d’ora in poi,  condividere l’idea di Dario Fo di una grande, antica e originaria mescolanza delle lingue — la francese, l’italiana e anche la tedesca — che ha generato ciò che egli chiama « grammelot », un  miscuglio linguistico che concerne tutte le popolazioni della valle dal Po, da Milano al mare Adriatico. Tuttavia, si potrebbe tagliare verticalmente questa grande regione — la Val Padana —  che costeggia la riva destra del Po, il più grande fiume italiano, tracciando un’invisibile frontiera tra Piacenza e Parma. Infatti, in un certo qual modo, la Lombardia comincia a Piacenza, mentre Mantova, al di là del Po e sotto il dominio milanese, è una città senza dubbio « romagnola ». C’è qualche cosa di eccezionale in questa regione a sud del fiume. Basterebbero forse tre nomi per evocare un po’ lo spirito della sua prodigiosa cultura : Ariosto, Verdi e Fellini. Ma non si può sicuramente dimenticare Giovanni Pascoli — Zvànin, anche lui—, questo grande poeta a sua volta classico e intimamente impregnato di questa lingua musicale, di questo canto orgoglioso e « naïf », la cui eco si propaga, mescolata,  nei suoi versi.

Non bisogna neanche dimenticare l’inimmaginabile Rossini, colui che ha apportato a Parigi  la sagacia derisoria dello spirito romagnolo.

Questa lingua profondamente amata è stata la forza primordiale, il legame intimo che ha dato forza all’unicità e diversità dell’Emilia-Romagna. Una regione dove si è sempre difeso e al tempo stesso esaltato il rispetto per la cultura, la scienza, il diritto.

[Io amerei parlare in questa sede di Bologna, la più antica università d’Europa, e di ciò che sembra accadere oggi, in questo momento di riflusso  e di gravi difficoltà che turbano il mio paese…]

[In ogni caso, ancora oggi la lingua di Zvànin sembra salvarsi sotto i ciottoli degli affluenti del Po, dentro piccole grotte che la proteggono ancora per un po’di tempo  dai terremoti della terra e dalle ondate di cambiamenti e di oblio.]

La Romagna è un triangolo di campi e di pietra  dove numerose civiltà e poteri – gli imperatori, i papi, i comuni, le signorie –  si sono affrontati, senza rispetto né concessioni. Tuttavia, i vortici della Storia non hanno lasciato che delle tracce gentili in questa terra fertile, nutrita di genti naturalmente portate al lavoro e alla felicità. La strada che perfora più facilmente gli Apennini, unendo Roma a Venezia, incrocia proprio qui, poco lontano da questa riunione notturna, l’Emilia,  un asse stradale  tanto importante quanto il Reno per le popolazioni della Ruhr, che  discende perfettamente rettilineo da Piacenza, luogo molto ricco e  promettente, fino a Rimini… Non si finirebbe mai di decantare le meraviglie di questo triangolo che si disegna tra Imola, già romagnola, e Rimini e Ravenna, capitale quest’ultima dell’antico Impero bizantino… Questo triangolo esiste ancora.  Sulle sue coste  brillano a lungo, durante la notte, le voci di città dai nomi suggestivi come Imola, Faenza, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Rimini, Cesenatico, Cervia, Ravenna, Lugo, Bagnacavallo…

 A monte di questo triangolo  — che la nebbia avvolge in autunno e dove il calore s’installa senza muoversi per un’intera e interminabile estate  —, gli Appennini hanno un aspetto scosceso, talvolta minaccioso con quella alternanza di colline spoglie e di campagne simili a onde blu picchiettate di cipressi. Quando vi si sale – in auto o in moto, mentre  in passato vi si affanava un corriere titato da quattro cavalli — si è spesso  invitati a fermarsi, ad affacciarsi sui muretti per tentare di scorgere San Marino, o San Leo o Gradara, città fortificate collocate proprio in cima delle colline più aguzze e lontane. Tutto ciò fa paura e io credo che l’unicità della Romagna, il suo fascino sempre più avvincente, nasce dal contrasto tra questi mostri isolati e ben visibili e la popolazione invisibile, votata a questa terra… Da un lato, un potere minaccioso  — di uomini cattivi o di una natura talvolta temibile — , dall’altro lato un temperamento spontaneamente portato verso la vita.

Ma che differenza tra la Romagna e la Toscana ! In questa terra dove i confini non sono mai stati delle frontiere, la lingua è stata continuamente storpiata al passaggio dei numerosi invasori – provenienti da nord e da sud, ma anche dal mare, che non è mai stato un vero ostacolo – mentre l’accesso alla Toscana, circondata dalle montagne, era difeso a ovest da un mare sempre scosso dal vento, e,  a sud, dal Monte Amiata e dalle paludi malariche della Maremma.

Sia maledetta Ma-remma, Ma-remma/ Sia maledetta Maramma e chi l’ama./ L’uccello che ci va perde la penna/ Io ci ho perduto una persona cara…

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Ma, perché ho parlato della Toscana e alla fine della Maremma ? Che cosa ha a che vedere con mio nonno Zvànin e quella cena ? C’è un legame, perché io situerei questo raduno nel novembre 1913. Questa tavola non unisce due sposi e i loro invitati. Non ci troviamo alla vigilia del matrimonio di Zvànin con Mimì, che ha avuto luogo proprio all’inizio del secolo. Infatti nel 1913 la sua primogenita ha già unidici anni, la secondogenita  ne ha otto e il più piccolo, quello che porta il nome di suo padre garibaldino, ne ha sei.

Basta guardare con un pò più di attenzione questa foto per accorgersi che in questa riunione, oltre i parenti stretti di Zvànin— sua madre Cleta, al suo fianco già sofferente (sarebbe morta tre anni dopo) ; sua cugina Luisa, di cui si percepisce appena il viso affiorante dall’ombra ; Maria, la sua cugina più giovane, seduta alla destra del marito, il notaio di Sogliano e tre altri abitanti della casa, in piedi davanti alla credenza —, ci sono altri due personaggi. Si tratta probabilmente del sindaco e del parroco che non nascondono la loro estraneità alla scena.

Che cosa succede, allora? Questa sera, sul far della notte, Zvànin è il figliol prodigo che rientra all’ovile. Dopo anni di battaglie accanite e di sforzi mentali non indifferenti, non potendo i socialisti in Romagna ottenere abbastanza voti, essendo molto forti i repubblicani, egli è stato  appena eletto  nel collegio di Siena-Arezzo-Grosseto, in Toscana…

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 24 mai 2013

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Ritratto di una tavola (pit n.1)

23 jeudi Mai 2013

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente di una tavola

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Bologna, Cesena, Romagna, Sogliano al rubicone

La storia a puntate intitolata « Il ritratto incosciente di una tavola » – basata su due personaggi principali, mio nonno Zvanì (1973-1936) et il poeta Giovanni Pascoli (1855-1912), – si svolge in una parte d’ Italia da me particolarmente amata: l’Émilia-Romagna da Bologna a Rimini.

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Circa cento anni fa, nella sala da pranzo di una casa di campagna spartana,  ma accogliente, si era appena  finito di cenare. Sulla tavola, tra le salviette in disordine, una bottiglia di vino rosso dall’etichetta raffinata dominava il campo di battaglia dove le brocche vuote e le ampolle  semipiene dell’olio e dell’aceto  riflettevano à metà la luce color arancio del lampadario, acquistato a Bologna in occasione del matrimonio dei due ospiti.  Questi ultimi erano seduti di fronte, un pò discosti dalla tavola, contro la credenza con gli sportelli di vetro. Tutti i presenti, invece, erano allineati sul fondo della stanza per lasciare campo libero al fotografo. Tutte le sedie che avrebbero intralciato il primo piano della foto erano scomparse.  Questo accorgimento ideato dal fotografo crea una strano sfasamento. Infatti, sul lato destro della foto, in posizione privilegiata, un uomo in giacca nera è comodamente seduto nel posto che ha occupato per tutta la serata. È senza dubbio il protagonista di questo incontro, dove il carattere familiare dei rapporti tra le persone sembra arricchirsi o, forse, viziarsi un pò a causa di un avvenimento che i presenti stanno festeggiando o, piuttosto, celebrando. Che cosa sta accadendo? Dove ci troviamo? Fuori, fa freddo. La notte è caduta di colpo, tra stelle di ghiaccio. L’uomo giovane, in questo momento rigido e immobile nel fondo della stanza che l’unica lampada non può illuminare, farà molta attenzione a non scivolare sul  selciato, quando uscirà dal giardinetto per attraversare la strada e salire verso la sua stanza, i guanti  aggrappati alla balaustra di ferro.

Quanto al fotografo, questo uscirà dal vocio « confuso » della casa senza entusiasmo e senza pensieri. È ancora giovane  e perfettamente abituato all’accoglienza spartana della piccola pensione dove dormirà questa notte. Nessuno, in ogni caso, si occupa di lui, l’uomo invisibile, né del suo ingombrante apparecchio. Inoltre, attorno alla tavola, in quel momento, c’è un bel calduccio.

Il giorno in cui  ho trovato, avvolta in un fazzoletto, questa lastra scura — la sola instantanea a colori che io possegga del mio nonno paterno — ho subito riconosciuto la tavola, la credenza et il lampadario. Dunque, sono sicuro che questa riunione è avvenuta a Sogliano sul Rubicone, in Romagna, nella casa dei cugini del mio antenato amato et illustre, di cui porto, senza alcun merito, il nome e il cognome…

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 20 mai 2013

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