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Tira a campare (Diario di sbordo n. 11)

26 samedi Nov 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Diario di sbordo

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Tira a campare 

Per mettere un punto, certo provvisorio, alle suggestioni che produce il me, in questi giorni, il ricordo della città di Napoli e della sua stretta parentela con Parigi, conservo nel mio diario :
— l’immagine poetica di questa città che mi ha mandato un caro amico napoletano. Guido Calenda, professore di Ingegneria Idraulica alla Terza Università di Roma, anche se ha lasciato Napoli giovanissimo, ne conserva un ricordo affascinante e molto efficace ;
— un estratto del « Ventre di Napoli » di Matilde Serao (1856-1927), in cui la scrittrice fa appello agli « uomini di buona volontà », quelli che fanno sempre la storia dalla parte del popolo e di tutti i « deboli » che hanno sempre riscosso la mia ammirazione più incondizionata ;
— il testo di una famosa canzone di Edoardo Bennato : « Tira a campare ».
Giovanni Merloni

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« Mi ha colpito la tua richiesta di parlarti di Napoli. La mia Napoli è una Napoli dell’infanzia ed è quindi ancora piena di mistero, di tetti che si scaglionano in ogni direzione e che sembravano costituire un modo a parte, di vicoli che finivano nell’ignoto, una villa (1) dove ancora si vedevano degli omini raccattare i mozziconi di sigarette usando un bastone con in cima uno spillo, estrarre il tabacco e venderlo, preparando mucchietti differenti per i vari tipi di tabacco, italiano, americano, il virginia inglese… di scugnizzi che viaggiavano attaccati al retro dei tram con grande invidia mia, cui ovviamente non era consentito. E poi l’economia stratificata, con gli appartamenti borgesi in alto e i bassi sotto, in cui si vedevano negozietti con sacchi di granaglie, la pasta sfusa, il venditore che ti chiamava da sotto, e dopo la contrattazione tra strada a finestra gridava alla fine “cala o panaro!”, e giù andava il cestino con qualche moneta e tornava su con il pane o la frutta o le cipolle… e, con la nonna, impastare la farina sul tavolo di marmo di una cucina enorme – tutto era enorme, in una vecchia casa dagli infiniti recessi: gli spazi, le stanze, i mobili, i tavoli che mi ricordo con gli occhi quasi al livello del piano. E poi le terrazze – ce n’erano due – per me mondi dove potevo spaziare – una con l’affaccio sul vicolo dell’Egiziaca, l’altro su Santa Lucia e Castel dell’Ovo e il porto e un mare senza limiti, e i transatlantici che conoscevo uno per uno, sparivano per qualche settimana o un mese e poi di nuovo eccoli lì familiari, immutati, e la flotta americana… E poi infine i negozi di giocattoli, per i quali ho ancora un’infinita nostalgia e sono ciò a cui più mi piacerebbe tornare con gli occhi di allora. Questa è ancora la Napoli della mia fantasia, ma anche se ci torno spesso, a parte le infinite differenze, quello che non trovo più sguardo di allora. Tutto è noto, i contorni sono definiti, la disposizione logica (perfino a Napoli!), l’orizzonte privo di incognite. Non ti posso raccontare la Napoli di oggi perché anche se mi è familiare non mi appartiene più. »
Guido Calenda

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« Che chiedo io, infine, per i miei fratelli del popolo napoletano, che chiedo io come tutti quelli che hannocuore, e anima, salvo che finisca l’oblio e l’abbandono? Che chiedo io, in nome dell’eguaglianza umana e cristiana, salvo che il popolo di laggiù sia trattato come tutti gli altri cittadini, abbia una casa, abbia della luce, nella notte, dell’acqua, della nettezza, della sorveglianza, sia guardato e protetto contro sè stesso e gli altri? Che chiedo, io, se non l’applicazione della legge umana e sociale, trattar quelli come si trattano gli altri, dar loro quel che spetta loro, come esseri viventi, come cittadini di una grande città? Faccia il suo dovere chiunque, non altro che il suo dovere, verso il popolo napoletano dei quattro grandi quartieri, faccia il suo dovere come lo fa altrove, lo faccia con scrupolo, lo faccia con coscienza e, ogni giorno, lentamente, costantemente, si andrà verso la soluzione del grande problema, senza milioni, senza società, senza intraprese, ogni giorno si andrà migliorando,
fino a chè tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, sol perchè, chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuranza, dall’inerzia, dall’ignavia e ha fatto quel che doveva. »

Matilde Serao, « Il ventre di Napoli « , Napoli, primavera 1904

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Tira a campare

Si è bella, lo so che è bella
è la mia città…
Si è stanca ed ammalata
e forse non vivrà…

Si lo so che va di male in peggio (Oui, je sais ça va de mal en pis)
si lo so qui è tutto un arrembaggio
qui si dice: tira a campare
tanto niente cambierà… si dice:

Tira a campare, non cambierà
tutto passa bene o male
ma per noi non cambierà… si dice:
Tira a campare…

Io che sono nato, io che ho vissuto
in mezzo a questa gente
io a volte straniero in queste strade
dove non funziona niente…

Si lo so l’avevo detto io stesso
che è sbagliato e che non è giusto
che si deve fare qualcosa
ma adesso tu non capirai, se dico:

Tira a campare, non capirai
pure io che son dottore
che ho fatto l’università, si dico:

Tira a campare, è meglio qua
qua almeno, bene o mâle
c’è ancora un po’ d’umanità…

E allora dico anch’io: Tira a campare
è meglio qua, tu che vuoi
tu che ne sai, tu che non ci hai vissuto mai
io dico: Tira a campare…
Edoardo Bennato

(1) Parco pubblico al centro di Napoli.

Un Napoletano a Parigi/2 (Diario di sbordo n. 10)

25 vendredi Nov 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Diario di sbordo, Napoli, Parigi

001_alla-finestra-lebelSally Storch, immagine presa da un tweet de Laurence (@f_lebel)

Un Napoletano a Parigi/2

Prima di andare avanti bisognerebbe aprire un capitolo sulla « scaramanzia ». Quante volte, tu ed io, ci siamo chiesti se era il caso di invitare questo o quello, col solo pretesto della sfortuna. Senza contare la paura di certi personaggi dall’aria « contagiosa » :
— Quello è una specie di « Pasquale passa guai », ci trascina tutti nel suo baratro !
Ma poi ci tiravamo un po’ su con quella tipica storiella napoletana in cui succedevano fatti clamorosi a cui seguiva un’altalena di giudizi contraddittori :
« E chi ti dice che sia sfortuna ? »
« E chi ti dice che sia fortuna ? »
Ecco perché, ogni tanto, pur essendo diventato più cartesiano e scettico alla scuola di Voltaire e Diderot, io mi aggiro per il salone di rue de la Lune canticchiando, in modo che Anna mi senta, un ritornello inventato da me :
Non son sicuro che le tue venute
che mi prometti con sol due battute
sian proprio il meglio per la mia salute !
Forse sarebbe meglio ricevere una come te venuta dalla Danimarca. Alta, bionda, schietta, fedele a valori e abitudini sociali molto confortevoli. O una venuta dal Perù. Chissà perché penso che in Perù tutto avvenga in un modo speciale, leggero come l’aria dell’alta montagna di lassù. Oppure una di qui. Potrei parlarle dei « Fiori del male » e delle « Mura » di Parigi. Mi ascolterebbe, magari soltanto per vedere se metto gli accenti al punto giusto.
Ma durante le nostre traversate noi riusciremo infine a dare ai nostri passi un solo ritmo armonico ! Tu stessa constaterai che la storia di questi anni passati nella mia lontananza incosciente e fedifraga saranno più efficaci dei ricordi lasciati laggiù. Ma soprattutto andremo in giro per Parigi, e vedrai anche tu che le « promenades » che si fanno qui non sono molto diverse dalle « passeggiate » di una vita intera a Napoli.

003_banc-public« Un petit tour tout doux »,
texte et image empruntés à un tweet de Laurence (@f_lebel)

Io e Anna abbiamo imparato a eliminare tutto ciò che è superfluo, salvo i ricordi dell’Italia. Quelli, anche se non ci « azzeccano », come si dice a Napoli, rivestono sempre una certa importanza, anzi ne sono rivestiti. Per lei, si tratta soprattutto dei film di Antonioni e Bertolucci, mentre io conservo come un oracolo quelle due bottiglie per l’acqua e il vino che hanno la forma del re Ferdinando e di sua moglie… Sono delle copie senza valore che comprai con te — ti ricordi ? — in una bancarella fuori San Domenico… Ci faceva tanto ridere, il rumore che facevano l’acqua e il vino quando la bottiglia del re o quella della regina si piegava sui calici per riempirli. Sistemate nello scaffale parigino, in mezzo ai miei libri in eterno disordine, hanno perso ormai la loro funzione, pur restando importanti per me. Grazie a loro, Napoli potrà risuscitare alla prima « cena di Babette »… Altrimenti, possono contarsi sulle dita di una mano gli istanti felici in cui la luce del sole penetra nella mia libreria risvegliando dal loro sonno polveroso il re e la regina e liberandoli per un po’ dalla loro prigione d’ombra. Nella coppia regale esplode allora un sussulto di orgoglio e di intima passione, che provoca in me una gioia indescrivibile e una sorta di stupore solenne, come se assistessi al miracolo di San Gennaro !

002_promenade-lebel« Una breve camminata sotto la pioggia fina per schiarirsi le idee »,
testo e immagine presi da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Spiegherò ad Anna chi sei e capirà che non è il caso di mandarti a dormire in albergo. D’altra parte tra me e lei non c’è mai stato niente, ci comportiamo come uno zio e una nipote, adottando come unica confidenza la stretta di mano. Spero che approverai la mia iniziativa… La notte, se non riesci a dormire, ti farò vedere le foto delle nostre lontane gite a Procida… Oppure, ti meraviglierò con il resoconto delle mie giornate. Inevitabilmente tutto ciò mi porterà a chiederti che cosa dicono di me i miei amici, che sono anche i tuoi. Di sicuro, mi avranno sistemato, e in fretta, in uno scaffale mentale che chiamano Parigi, o la Francia, dove io non sono altro che un nome-e-cognome ammantato di vaghi ricordi. Non si interrogano mai su di me, ma di certo io qui faccio l’esatto contrario di quello che loro potranno mai immaginare. Vado molto poco a teatro, nonostante lo desideri con tutto il cuore ; non trovo il coraggio né la forza per andare all’opera, nemmeno per vedere e ascoltare coloro che amo più profondamente : Mozart, Rossini, Tchaïkovski… e non sono nemmeno un assiduo frequentatore di tante bellissime mostre che fanno al Luxembourg, al Grand Palais o al Beaubourg. Inutile dirti che non approfitto mai dei saldi di fine stagione o delle presentazioni dei libri. E, cosa ancor più grave, non riesco ad avere lo stesso entusiasmo cieco dei miei concittadini quando il sole, così raro, si istalla per intere mezze giornate… Cosa so fare, allora ? Bighellonare davanti ai banchi dei bouquinistes e camminare !
In passato, con le mie pulsioni di giovanotto o di uomo maturo, camminavo come un forsennato risalendo dai Quartieri Spagnoli alla Villa di Capodimonte, o di notte sul lungomare di via Caracciolo e di Chiaia, e mi sentivo un eroe se arrivavo all’alba nella brutta piazza della stazione, dove però c’era un chioschetto che vendeva le « sfogliatelle » calde.
Ora, a Parigi, benché invecchiato e indebolito nelle mie certezze fisiche, cammino come un ossesso dalla Bastiglia a place de la Concorde, dal bassin della Villette a place de Clichy… A Batignolles, mi sono affezionato a un alberghetto di rue des Dames, a quel giardinetto interno dove sognavo di sedermi con te, dove tante volte ho creduto di vederti negli sguardi di sconosciute o nei loro particolari modi di acconciarsi i capelli, di alzarsi e di afferrare la borsa, la borsetta o lo zainetto… Del resto, alla mia età, l’interesse improvviso per una giovane fanciulla che magari ti somiglia può di punto in bianco mutarsi nell’insospettata curiosità per una vetrina, per un gruppo di passanti o per un vecchio palazzo nobile…
Da un « villaggio » all’altro, prendendo una via disadorna o una via più attraente, non si riesce mai a scoprire da dove vengano, in questa straordinaria città, quel « suspense » da romanzo poliziesco o quell’aspro piacere che si insinua in noi come un reiterato racconto di amori proibiti. Di chi è il merito o la colpa di ciò ? Dei suoi abitanti, intrappolati contro loro stessi da una vitalità che sfiora la disperazione ? Della sua storia, così bella e terribile ? O forse è alla pioggia, a questa « sputazzella » che ci penetra nell’intimo, che daremmo volentieri il premio Goncourt e la maglia gialla con il giro d’onore al Parco dei Principi ? Proprio come Napoli, grande capitale del sud, questa immensa capitale del nord dell’Europa è sempre prodiga di sorprese. Tante variaIoni su pochissimi temi, come nell’aria di Carmen :
Parigi è un uccello ribelle
che non ha mai avuto legge…
Tanti colori, il rosso e il blu in testa, che si distinguono nettamente contro il grigio uniforme delle case e del cielo. I colori dei portoni, dei negozi e e delle botteghe, insieme alle sciarpe multicolori di certe graziose passanti, spezzano l’atavica monotonia delle strade e delle facciate. Del resto, lo dicevi anche tu : « solo le stranezze, le rotture e i gesti irriverenti possono rendere interessante e unica una città. È sempre l’eccezione che conferma la regola ! »

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Ci sono, certo, delle enormi differenze. Parigi è ancora una capitale mentre Napoli non lo è più. A Parigi devi bussare a molte porte prima di poter svolgere una discussione approfondita con qualcuno, prima di entrare in una comunità che poi si rivelerà accogliente, aperta, conviviale e ciarliera. Napoli non aspetta che tu la cerchi, ti viene subito incontro, ti precede anzi, con le sue storie, i suoi drammi, il suo happening quotidiano. Se a Parigi tu sei obbligato a cercare l’incontro, a Napoli ti devi ritrarre, riparandosi in un angolo silenzioso che forse non esiste più.
Ma, chissà perché, nessuno si è accorto di quanto Napoli abbia « preso » da Parigi e viceversa,. Le vetrine di legno dipinto un po’ lugubri delle vie del centro, per esempio. Nonostante la loro crescente rarità, esse esprimono lo stesso spirito spettacolare e intimo della vita. Lo stesso teatro, a Parigi come a Napoli. E quante parole francesi sono entrate nella lingua napoletana ! Potrei fartene una lunga lista : dalla « buatta » (boîte) alle « spingule francese » (épingles françaises) e, naturalmente, ai « supplì »  :
— Te ne supplico, comprami questa palla di riso che brucia dentro mentre dalla sua crosta profumata emana un calore appena percettibile !
A Napoli, abbiamo ancora l’usanza di dare del voi, come in Francia : « Ma voi casa ne tenete ? »
Ti ricordi ? Ridendo, a me e agli altri amici, quando traccheggiavamo a casa tua dopo la mezzanotte, tu ci dicevi :
— Mi sembra che non abbiate la minima intenzione di tornarvene a casa vostra !

004_automne-lebel« Ancora qualche beneficio dell’autunno »,
testo e immagine presi da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Mi vedo la tua reazione : avrei fatto tutto questo lungo discorso soltanto per dirti che qui non sei gradita ! Ma no, assolutamente ! Anche se al posto di « gradita », preferisco dire a me stesso che tu sei « bene accetta », che sarai accolta a braccia aperte e a occhi chiusi. Non dimentichiamo però che, a tua volta, sei stata piuttosto recalcitrante prima di accettarmi fino in fondo, prima di prendermi « in braccio » come un trovatello abbandonato in una valigia in fondo alle scale.
Questa mia digressione su « Parigi napoletana » è venuta fuori da sola, del tutto spontaneamente. Del resto, è tale l’agitazione che ha preceduto e accompagna questa lettera, che ho dovuto lasciarli uscire dal loro covo segreto, come perle di un rosario, i ricordi di questa Napoli che « c’è l’ha con me » per le mie rumorose avventure di  « scugnizzo » espatriato di nascosto, senza salutare nessuno, come un ladro ! Cerco di tranquillizzarmi prendendo le distanze dalla mia casa natale all’ultimo piano di via Caracciolo, a due passi dalla stazione di Mergellina. Mi ricordo allora del mio nonno materno, sempre in pigiama, che si divertiva a creare delle diaboliche correnti d’aria aprendo di qua una delle finestre che guardano il mare e, di là, l’oblò di uno stanzino affacciato sulla chiostrina. Un tale accorgimento rendeva più sopportabile il calore provocato dalla grande terrazza che ci faceva da tetto. Poi corro, col cuore smarrito, ai volti sfuocati di mia madre, di mio padre e dei miei fratelli. Tutto è sparito, seppellito o frullato, disperdendosi come ceneri parlanti in altri luoghi perduti di questa Italia dal volto sfuocato anch’essa.
I miei ricordi più dolorosi si collocano alla metà degli anni ’80, che furono terribili, nel nostro paese. Ad una velocità spaventosa, la televisione aveva inghiottito tutto, sostituendosi alle nostre innumerevoli vie e piazze e ai tradizionali luoghi di incontro tra gli umani. Tutto avveniva dentro o dietro questo schermo sempre acceso e mai silenzioso, dove la nostra lingua napoletana si mescolava agli astrusi dialetti della val padana, al siciliano, al genovese, al veneziano, al toscano, mentre, diffondendosi ovunque, la cadenza tipica degli abitanti della capitale — questa lingua della Roma di oggi caratterizzata da un accento sempre più marcato e violento — diventava un collante vischioso e tenace. È là dentro che noi tutti siamo diventati ogni giorno più ignoranti, se non dei veri e propri analfabeti. Nel frattempo, sono sparite la maggior parte delle librerie, le vecchie gloriose librerie di Napoli. Ora, dovrei vergognarmi di vivere in una città, Parigi, dove i libri circolano e la lingua nazionale è accanitamente difesa contro le contaminazioni dei dialetti ? Dovrei considerarmi un traditore e un presuntuoso per aver fatto questa scelta egoista di andare incontro alla civiltà e alla libertà di espressione ?
Non è per la mancanza di libertà o per una libertà ridotta a metà che ho lasciato Napoli. Ci sarei rimasto fino alla fine dei miei giorni se avessi avuto la benché minima possibilità di svolger un’azione positiva, con la speranza che cambiasse qualcosa. Ho cercato, per tutta la vita, a prezzo di ogni sacrificio, di adoperarmi per il meglio, per contribuire con il mio lavoro al piccolo progresso che era lecito sperare per una società in difficoltà, ma indubbiamente piena di qualità e risorse. Ma tu sai bene che in fondo al mio cammino avevo esaurito tutte le mie carte. Era diventato ormai impossibile ottenere qualcosa dall’interno di quell’organismo malato. Non c’era quasi più nessuno che non si trovasse prima o poi costretto a fare il patto col diavolo, a subire la prepotenza di gente disonesta… 
Oppure no ! Si può sopravvivere, dopo una vita di lavoro incessante, con una piccola pensione che ti salva dalla fame. Ma si deve tacere, starmene in un angolo, morire in anticipo… Oppure… si può beneficiare degli ultimi fuochi, gettarsi a corpo morto nel grande amore della vita, in una passione splendida e straziante. E allora Napoli si rivelerà il luogo più adatto. Quale palcoscenico può superare quello di Napoli in bellezza ? Chi può sfoderare meglio i suoi sapori intensi e misteriosi ? Non esiste nessuna città al mondo, nemmeno Venezia, che sia propizia quanto Napoli alle rovine dell’amore ! Ma tu l’hai visto, tu lo sai : ne sei tu stessa la protagonista fatale e l’autrice. Anche l’amore ha vincoli che non si possono eludere né aggirare. L’amore è la gioia e forse anche la morte, ma non è la libertà ! E noi — dopo tutto quello che è successo, dopo aver dovuto inghiottire questa « impossibilità » di essere felici e di sottrarci, attraverso l’amore, alla quotidiana consapevolezza di un destino infelice —, che possiamo fare, noi due ?

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Scusami per tutte queste parole, per queste riflessioni che si ripetono senza produrre apprezzabili novità. Ma potrò ben concedermi qualche illusione ! Accendere qualche luce per festeggiare il tuo arrivo ! Lo sai che sono un ateo impenitente e considero le religioni come maschere tanto necessarie quanto pericolose, a dir poco. A parte il povero Budda in bronzo che mia sorella mi scagliò in testa, provocando in me il bernoccolo della ribellione, questa anomalia che mi ha poi dato tante soddisfazioni.
Ma, se gli uomini di tutti gli angoli del mondo si danno impunemente ognuno un dio differente, non vedo perché non posso anch’io dirti serenamente che tu sei il mio dio quando sono a Napoli, ma non potresti mai esserlo a Parigi…
Su questo punto, noi discuteremo a lungo, la notte, mentre Anna dormirà, ignara. Per fortuna, esiste ancora la possibilità, per gli esseri umani, di vedersi, di toccarsi, di stringersi la mano, di guardarsi negli occhi, di studiarsi l’un l’altro, ognuno a suo modo. Così possiamo indovinare, dopo averci un po’ riflettuto, i sentimenti dell’altro, le sue idee, cosa sta ognuno facendo della sua esistenza. Ora, per esempio, scrivendoti, invoco la tua presenza qui come una cosa ambita, desiderata da tempo, mentre, in verità, non faccio altro che accettare il mio destino. Cerco allora di ammansirti, mostrandomi migliore di quello che sono, ben sapendo che tu mi conosci molto meglio di quanto mi conosca io stesso. Fortunatamente, quando sarai qui in carne e ossa, con tutte le tue curve e i tuoi profumi rari, basterà uno sguardo, o un piccolo incidente quando ti accenderò una sigaretta, perché tutto questo preambolo sparisca in un lampo !
Del resto è sempre stato così. Tocca a tutti, prima o poi, di dover portare una croce, anche se non si hanno sentimenti religiosi né superstizioni nella testa. E allora anch’io, ubbidendo a questa legge, sono pronto : ti aspetto a piè fermo !

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Giovanni Merloni

Un Napoletano a Parigi/1 (Diario di sbordo n. 9)

25 vendredi Nov 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Diario di sbordo

001_tete-bien-coiffee-180Giovanni Merloni, novembre 2016

Un Napoletano a Parigi/1

Mi farebbe davvero piacere vederti arrivare, anche all’improvviso. Incontrarti a una qualsiasi stazione del métro. Sedermi con te a un bar all’angolo e fare colazione insieme. Dedicarti un po’ del mio tempo. Abbiamo molte cose da raccontarci, ma mi piacerebbe, per una volta, soprassedere, aspettare, osservarti in silenzio mentre ritrovi beatamente i rumori, gli odori e i sapori dimenticati di Parigi, questa città di cui fosti tu la prima a parlarmi, facendomela amare ancor prima di conoscerla !
Ora si sono invertite le parti perché tante cose sono successe e tu, ne sono certo, mi parleresti di Napoli, delle persone ancora vive che cercano di fare del loro meglio, di quelle che non fanno altro che danni, di quelle che non possono più fare niente perché sono sparite, puf ! da un giorno all’altro… Ma questi discorsi, io lo so già dove andrebbero a finire : « Ma perché te ne sei andato ? Ti trovi davvero bene a Parigi ? Dimmi la verità !… » Mentre io, guarda un po’ ! vorrei proprio evitare di parlare di quello che « ho lasciato » e di quello che « mi sono perso ». Non ne posso più della « strada vecchia » che sarebbe più sicura e fedele di quella nuova…
Ma non voglio mettere il carro davanti ai buoi, si vedrà, anzi vedremo ! Cercherò di liberarmi dai miei impegni e, se proprio sarò costretto ad andare da qualche parte, ti porterò in giro con me, senza però asfissiarti con l’obbligo della mia presenza : se vorrai girare da sola per Parigi, sentiti libera. Ci daremo via via degli appuntamenti, a cui, certo, io correrò sempre con il fiato in gola.
Mi piacerebbe essere io a decidere che cosa fare, dove andare, almeno il primo giorno. Ma non voglio prevedere troppo, né anticiparti troppo quello che penso, quello che faccio, chi sono diventato. Soprattutto, non voglio sapere nei minimi dettagli le tue prodezze o i tuoi fallimenti. Me ne hai parlato nelle tue lettere, che non mi hanno lasciato indifferente. Anzi, ti ho sempre detto che sono solidale con te. Ma adesso, se vieni qui a Parigi, se vieni per vedere me, non ti portare dietro tutta la tua casa, il tuo ufficio e la città di Napoli. Del resto, lo sai come la penso : per me, quando le cose vanno male, trovo sempre il modo di rassegnarmi e di ricominciare… Quando ormai tutto è stato detto, fatto, bruciato, perduto… quando non c’è più niente da fare, prima di tutto mi dò una bella lavata di faccia, poi, di slancio, mi avventuro subito per una strada nuova, anche straniera, dove posso affidarmi al mistero di facce nuove, di nuovi malintesi forse, ma almeno intravvedo un appiglio, una speranza. Invece tu sei sempre sicura di avere ragione, e secondo te gli altri hanno sempre torto. Non sei veramente disposta a scavare a fondo, per vedere se per caso anche tu hai qualche responsabilità, magari involontaria, in quello che ti succede… Anche con me, ti inalberi subito… E va magari a finire che è colpa mia di tutto, anche se io proprio non c’entro. No, mia cara, parlare di certi argomenti non servirebbe a niente. Anzi, peggiorerebbe la situazione.
Dunque spero proprio che Parigi ci offra qualche distrazione, qualche cosa di bello da vedere o da fare. Finora non ci ha mai tradito.
Già, perché ho scritto « ci » ? Tu non sei mai tornata, per quel che so, da quando sono qui.

002_kees-van-dongen-1923Kees Van Dongen (1923), immagine presa da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Ti ho sognato tante volte. Ti ficcavi nel letto e appoggiavi la tua testa castana alla mia spalla, facendomi male. Oppure cantavi, come Marylin :
I wanna be loved by you…
Ero affascinato e, allo stesso tempo, interdetto. Quando mi svegliavo cercavo di capire chi eri. Non potevi certo essere Marylin. Indossavi la sua morbida silhouette per uno scopo che non capivo. La cosa sicura è che eri tu. Dopo ogni risveglio una tremenda nostalgia si incastrava nelle mie lunghe giornate.
Ho scritto che mi farebbe piacere vederti arrivare, ma non sono stato sincero, non ti ho detto fino in fondo quello che penso. Tu mi porterai l’Italia, e questo è un lasciapassare formidabile. Chi va là ? Italiani. Entrate, presto, ma senza fare rumore. Riflettendo credo che chiunque arrivi dall’Italia sia benvenuto nel mio cuore, anche quando non ho tempo. E’ come se rivedessi i primi giorni passati qui, i primi mesi in cui tutto era nuovo e il francese, che credevo di conoscere un po’, si rivelava uno scoglio difficile, se non insormontabile.
Ma non è solo questo. Anzi, per essere sincero, non è affatto questo. Tu verrai dall’Italia, un giorno o l’altro, a portarmi tutto quello che ho lasciato per sempre laggiù con tanta leggerezza. Ma, lo sappiamo benissimo, io e te, la ragione del tuo viaggio sarà un’altra. Tu non sei mai stata il tipo della turista. Dunque dovrei avere i brividi all’idea di vederti comparire davanti a me.
Avrei potuto scriverti, più seccamente : non mi fa piacere vederti arrivare. Soprattutto se avrai l’aria minacciosa di un giudice all’inizio di un processo. Quante volte, la sera tardi, accingendomi a dormire, girandomi sul fianco, trascinando la coperta con la spalla verso il muro, mi viene da pensare : di là che c’è ? E di qua ? Speriamo che non sia lei, che non sia ancora arrivata !

003_arsenique-sansMiles Hyman Lettera d’amore e arsenico (Le Monde, 2010), immagine presa
da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Vedi, ormai sono installato qui. Nella mia nuova lingua, pur così penalizzata dall’accento di uomo del sud, mi ci trovo bene. E le nuove letture mi aiutano molto a capire, a ricostruire la storia e la geografia di questo paese, a capire meglio l’Europa e anche la nostra povera Italia. Se i « Miserabili » e i « Fiori del male » mi hanno accompagnato in un corpo a corpo con questa città di tutti, la « Libertà che guida il popolo » e le « Grandi Bagnanti » mi hanno aiutato a sentirmi meno straniero e meno solo.
E poi, che vuol dire « essere stranieri » ? In fondo tutti sono stranieri quando hanno un progetto, un sogno, un talento da assecondare. Anche laggiù dove sei tu, quelli che si ritengono profeti in patria rinunciano ogni giorno a un pezzo importante di loro stessi, in cambio del successo, tanto più tracotante quanto più effimero. E gli altri ? Gli altri sublimano la loro rabbia in sogni di isole inesistenti, raggiungibili con ponti di barche che l’invidia dei potenti si incarica regolarmente di affondare. Evviva, affiora l’isola. Abbasso, crolla il ponte. Qui invece ci sono scrittori, poeti, pittori e musicisti di tutto il mondo a cui non si impedisce di lasciare la loro impronta, piccola o grande. Li sento respirare, di notte, nei vari villaggi di questa sterminata città.
Insomma, proprio ora dovevi venire ? Ora che, dopo dieci anni, cominciavo a farmi una ragione di questo cambiamento, di questa operazione di pulizia che ho finalmente potuto svolgere su me stesso, buttando via tanti oggetti, ricordi e pensieri angosciosi, per lasciare un po’ di posto all’essenziale ? D’altronde, te l’ho detto, credo, le case qui sono piccolissime !
Tu arrivi in un momento in cui mi sto proiettando nel presente, se non nel futuro… eliminando la zavorra e chiudendo le porte ai dubbi… Invece, lo so già, tu vorrai darmi e chiedermi delle spiegazioni, riportando qui il « nostro passato », come tu lo chiami. Credi di portare una valigetta mezza vuota, ma poi che farai, quando ti accorgerai di essere schiava di un baule pieno di sassi ? Io non posso impedirtelo, capisco le tue ragioni, ma lo sai che non amo rivangare i ricordi dolorosi. E lasciami dire sinceramente che non ho mai creduto nel giorno del giudizio.
A meno che tu non sia d’accordo con me nel dire che il giorno del giudizio è tutti i giorni.

004_menilmontantHenri Cartier-Bresson Ménilmontant, Parigi immagine presa
da un tweet di Anna Urli-Vernenghi (@urlivernenghi)

Sai, vivendo, mese dopo mese, anno dopo anno in una realtà estranea, si cessa d’un tratto di essere l’italiano buffo e gentile, il personaggio sorridente che non rinuncia a gesticolare con spreco di energie. Si comincia a possedere delle cose, a ricevere delle lettere, dei pacchi, insieme al giornale e alla pubblicità, come dappertutto. Le nostre case microscopiche si riempiono come uova e anche noi, come gli altri, finiamo per abbandonare per strada le nostre poltrone sfondate e i nostri forni a microonde arrugginiti. Qualcuno li porta via, e la vita va avanti, alleggerita dallo sgorgare periodico di guizzanti ruscelli d’acqua lungo i marciapiedi e, qualche rara volta, dal sole.
Parigi è una città piena di vita, malgrado la miseria e la morte sempre incombenti, come a Napoli. Anche qui si avverte la fragilità di infiniti fili che si possono spezzare da un momento all’altro. Senza processo. A meno che colui che è diventato clochard perché non può pagare l’affitto, non debba sentirsi in dovere di farsi il processo perché mangia e beve quello che trova o perché deve dormire tutte le notti al gelo.
Certo sono sconvolto da questa brutale verità da insignificanti formiche. Ma se le cose vanno tanto spesso male, possono anche andare bene ! Vedere la gente che lavora per fare girare il métro, per esempio. Questa sorta di moto perpetuo che rende viva la città e fa sì che i bar, i ristoranti, gli alberghi, i negozi e le botteghe artigiane sopravvivano guadagnando ogni giorno qualcosa, è il risultato dell’immenso lavoro di milioni di formiche. Certo, la vita di ognuna di queste insignificanti formiche è un mistero.
Ma il solo fatto di vivere in mezzo a loro, di potermi considerare anch’io una insignificante formica, mi allarga il cuore.

005_napoliNapoli panorama

Tu arriverai, un giorno, portandomi il panorama di Napoli con il pino, o la madonna vestita di Procida, o l’odore dei supplì. Ma forse non sarò affatto contento di ricevere tutte queste belle cose così presto, dopo averti tanto aspettato.
Del resto, te lo potevi immaginare : non abito da solo qui, adesso, e tu mi vieni a trovare come se niente fosse, magari vestita in modo anacronistico, sconvolgendo i miei programmi e le mie nuove abitudini.
Ma farò lo stesso gli onori di casa. Ti offrirò la colazione sotto i portici di place des Vosges. Ti porterò a passeggio per il Marais. Entrerò con te in un negozio che voglio farti conoscere, dove vendono cappelli di tutte le fogge e di tutte le epoche, e, in nome del piccolo principe di Saint-Exupéry, ti regalerò un casco da aviatore e una stella…
Poi, potremo girare per ore dentro il Louvre, dove sicuramente incontreremo qualche italiano, magari un napoletano, con cui potrai parlare.. Ma non sarò così maleducato da lasciarti sola con lui davanti alle toilettes dell’Orangerie o nella libreria della Gare d’Orsay. Berrò il tuo calice, come un buon amico, al café all’angolo tra rue du Bac e rue de Varennes, a due passi dal Centro Culturale Italiano. Oppure, se mi darai il tempo e non vorrai subito ripartire, ti inviterò a mangiare una pizza a Montparnasse. Lo so che la pizza che fanno qui non è quella di Napoli ! Ma se sarò con te, mi sembrerà di stare a Napoli. Quanto mi piacerebbe poterti parlare a lungo, facendo finta che ci porteranno anche i « supplì », la « pastiera » e la « granita di caffè con panna » !
Poi, finita la prima schermaglia, raggiungeremo, mi auguro, una specie di intesa. Tu mi dirai francamente quanto tempo pensi di restare. Solo tre giorni ? Un mese ? Sarai tu a dirlo. Ne sono certo, durante il nostro primo incontro tu parlerai pochissimo. Ti preoccuperai soltanto di concedermi un po’ di tempo per prendere una « decisione ». È il tuo tipico modo di fare, e lo rispetto. Ma che cosa dovrei decidere esattamente ? Ritornare a Napoli ?

Ma forse mi sbaglio. Tu mi dirai che non sono poi così importante, che sei venuta soprattutto per cambiare aria e desideri che ti accompagni a vedere qualche mostra o qualche negozio alla moda come facevano le nostre bisnonne viaggiatrici. Non mi resta che mettere in ordine e fare sì che la tua permanenza qui sia tranquilla e confortevole. Starai con me, nell’appartamento molto bohémien di rue de la Lune. Dormirai su un canapè nel saloncino. Anna, la mia giovane coinquilina bolognese, non dirà niente. Di giorno non potremo starci, perché lei lavora in casa. Ma non ti preoccupare, se sarai stanca, ti farò riposare sul mio letto e io andrò a farmi un giro.

Giovanni Merloni

(Continua)

Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento (Nel frattempo n. 3)

15 jeudi Sep 2016

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente, racconti

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Bologna, Emilia-Romagna, Romano Reggiani

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento

Nel frattempo, questo fiore solitario mi ha fatto pensare alla bellezza della vita e della morte…
Spero che mi perdonerete di avere osato giustapporre queste due bellezze, così diverse tra loro. Ma è molto raro che la bellezza rispecchi la felicità. Se una cosa simile accade, si tratterà il più delle volte di una felicità passeggera.
Dunque oggi questo fiore, simbolo insostituibile del carattere effimero della bellezza, non è lì per caso…

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

All’inizio, questo fiore evoca in me una camicia di seta bianca con una spilla d’oro al posto del cuore. Una bella ragazza, modella devota di un celeberrimo pittore, deve averla lasciata libera di volteggiare nel prato secondo il vento, dovendo al più presto comparire nella famosa «colazione sull’erba».
Poi mi viene da pensare a due pittori.
Uno si fa prendere dalla descrizione della scena inquietante, dove la gioia della dissacrazione si mescola alla rabbia — faticosamente tenuta a bada — della gelosia e dell’invidia di ognuno.
L’altro osserva a lungo la camicia che ondeggia su una canna, finché si decide a « rimetterla », con mani sperdute e di colpo imprecise, sul busto indimenticabile di questa « fuggitiva » ch’egli non cesserà mai di amare e rimpiangere furiosamente…
Oppure abbiamo a che fare con un solo pittore, che preferirebbe abbandonare i pennelli e distogliere lo sguardo dalla sua composizione rischiosa e blasfema per fissare, steso sull’erba, quei petali lisci e lucenti.
Istigato da questo fiore solitario, questo pittore vorrebbe saper tradurre la bellezza effimera della natura trasferendola nella realtà eterna (o quasi) del quadro. Mentre traduce, il pittore tradisce, inevitabilmente, perché deve assolutamente trovare un linguaggio adatto a fissare una volta per tutte una bellezza che non potrebbe essere più sfuggente…
Obbligando la sua donna a partecipare, nuda, alla «colazione sull’erba», egli ha tradito se stesso, anche se l’ha fatto in nome di una bellezza universale, destinata a galleggiare al di fuori dello spazio e del tempo…

003_img_9196Romano Reggiani (1942-2016)

Ma questo fiore solitario evoca anche, in me, un pietoso lenzuolo bianco steso, come un’ultima camicia, sul corpo senza vita di uno dei miei più cari amici.
Egli era al mare, in Toscana, l’8 agosto scorso, intento a nuotare tra onde appena increspate, non lontano dalla riva, a pochi metri da sua moglie e dai suoi due figli ormai grandi. All’improvviso, senza che si potesse percepire alcun segnale di malessere o di difficoltà, coloro che erano presenti hanno visto arrivare sulla battigia un corpo galleggiante, steso sul pelo dell’acqua come un «morto a galla».
« Sorrideva ! Non ha sofferto ! Non si è accorto di nulla ! » Si dice sempre così e  questa
 scena sconvolgente acquista addirittura, paradossalmente, una sua sconvolgente bellezza.
Romano Reggiani, che i suoi più vecchi amici chiamavano « Yuma« , era un uomo alto, robusto, che attingeva senza risparmio alle sue mani di « scultore di idee » per dare tanto di sé agli altri. Anche lui non era stato risparmiato dalle invisibili piaghe che il tempo scava con indifferenza sul suo cammino. Ma con tutto il suo entusiasmo e quella voglia instancabile di fare sembrava non accorgersi di nulla. Ecco quello che mi hanno raccontato, per aiutarmi a accettare questa morte violenta e inattesa. Chissà se questa ipotesi di serenità mi aiuterà anche a ricomporre le fisionomia di quest’uomo che, nel frattempo, non era cambiato rispetto ai tempi oramai lontani in cui si colloca il mio pur vivo ricordo di lui.
Mi sembra un po’ strano, sinceramente, di parlare di Romano dopo tanti anni, in cui ci eravamo per così dire « persi di vista ». Ma ho deciso lo stesso di farlo, seguendo una mia idea di cui sono un convinto assertore : nel corso della vita e anche dopo la morte, certi legami diventano dei fari indispensabili nella nostra mente. Quante volte mi sono ricordato di Romano, delle sue conversazioni con Francesco Curtarello a cui assistevo ? Ritorno anche, molto spesso, a certe parole o frasi, scambiate direttamente tra di noi, che costituiscono ormai delle vere e proprie pietre miliari lungo le vie difficili o fortunate delle nostre vite parallele. Se mi sono periodicamente fermato a ricordare la sua grande casa nel bel mezzo della campagna a San Giorgio di Piano, a ascoltare la sua voce di fumatore accanito, a ricostruire a mente il suo volto arrossato dal sole e dalle sue stesse energie vitali, se non posso dimenticare le sue certezze assolute, la sua benevolenza piena di calore nei miei confronti, è possibile, credo, che di tanto in tanto si sia ricordato anche lui di me.

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Tutto sparisce, e questo mio contributo per restituire ai vivi l’immagine di quest’uomo « sparito » sarà inevitabilmente inadeguato, molto meno efficace di una sola foto. Resterà la mia lacunosa descrizione che aprirà la strada, come nel caso del pittore di cui sopra, a un nuovo tradimento. Un doppio tradimento. Perché rivolgendomi a dei lettori francesi io tradisco, inevitabilmente, la lingua dei nostri incontri, risalenti all’epoca in cui vivevo e lavoravo a Bologna ed ora, lanciando dalla Francia questo mio ricordo confuso, finisco forse per tradire anche l’immagine che i miei amici di Bologna si sono fatta di me.
«Partire è un po’ morire», dice la canzone. Dunque, andando via, all’estero, «perdendomi» nei meandri di questa Parigi «super gettonata», nella mia condizione di «profugo di lusso», sono oramai scomparso in una specie di cortina fumogena che nessuno ha voglia di attraversare. «Che vuole da noi, questo «parigino»? si domanderebbero senza dubbio, ironicamente, i miei amici se sapessero che parlo di Romano…
Ma io lo faccio lo stesso.
Romano Reggiani era giustamente orgoglioso di essere un rampollo della grande e gloriosa famiglia del partito comunista in Emilia-Romagna, mentre le mie origini romane facevano di me un « parvenu » di questo stesso mondo e «scuola di vita». Ciò non impediva che io fossi ammesso a partecipare alla stessa esperienza di buona amministrazione delle città e del territorio a cui Romano dava il suo contributo. Abbiamo condiviso gli stessi ideali e le stesse illusioni, ma anche la gioia incancellabile di vedere realizzati molti progetti che altrove sono invece rimasti lettera morta.
Noi abbiamo avuto due vite «parallele», condividendo le stesse preoccupazioni legate a una professione obbligata a confrontarsi con un mondo che cambia, dove i margini per una valida e incisiva azione politico-amministrativa si riducono o sono diventati ormai del tutto inesistenti.
L’ultima volta che ho visto Romano è stata nel 2003, in occasione di un viaggio a Bologna, conclusosi con una gita in quella stessa spiaggia toscana… Poco tempo dopo, il primo maggio del 2006, ho interrotto tutte le mie attività, mentre Romano ha continuato tenacemente, fino al giorno di questa morte così folgorante e inattesa.
«È morto senza rinunciare ai suoi progetti ! » mi ha detto il mio amico Francesco.
Ecco perché la morte di Reggiani può essere ricordata come una bella morte.

Per una coincidenza che non può essere casuale, egli è morto proprio l’8 agosto. Una giornata, quella dell’8 agosto 1848 illustrata dallo straordinario eroismo dei bolognesi, che furono capaci di sconfiggere l’esercito austriaco invasore. Se Romano lo sapesse, se ne consolerebbe. Tra le rare persone di cui ho potuto ammirare lo spirito combattivo e la coerenza ideale, Romano Reggiani è stato senza dubbio uno dei rappresentanti più sinceri e coraggiosi di un popolo che non cede mai al conformismo e all’indifferenza. E gli si deve anche riconoscere una grande ironia, che affiora con prepotenza, tra l’altro, nel suo recente libro « Et fiat porcus« , un omaggio raffinato e intelligente alla cultura del maiale, al centro della tradizione alimentare specifica dell’Emilia-Romagna.

«Quando i compagni della giovinezza e della vita ci vengono sottratti ci accorgiamo che tutto il tempo che abbiamo a disposizione lo consumiamo nell’abitudine, giorno dopo giorno a svolgere tutte le incombenze del quotidiano, a mettere a posto, a far fronte agli impegni e alle richieste della burocrazia, del fisco, dei fornitori di servizi», mi ha scritto una carissima amica di Bologna. «Una noia e un fastidio mortale.»

Version 3

Giovanni Merloni

TESTO DELL’ARTICOLO IN FRANCESE

Istante blu (Lettrici n. 2)

19 vendredi Fév 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Lettrici

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Photo empruntée à un tweet de Laurence @f_lebel

Istante blu

« Mi sono sdraiata sul letto, tutta vestita, a volte senza nemmeno levarmi le scarpe. » Questa frase, giusto con le varianti linguistiche o dialettali determinate dal tempo, avrebbero potuto dirla tre donne importanti della mia famiglia : la mia irraggiungibile nonna Mimì, che si «buttava» sul letto credo per disperazione ; mia madre Pia, che vedevo assopirsi col gomito sul cuscino e la testa inclinata sui gialli di Agata Christie o sulla Settimana Enigmistica per allentare la tensione dei suoi fervidi d altruistici pensieri ; mia moglie Claudia, lettrice indefessa in segreto, anche lei, forse, per rimuovere qualche pensiero angoscioso…
Questa circostanza era ormai un’abitudine, la ricerca fiduciosa di un porto sicuro di fronte ai tormenti, ai fantasmi minacciosi e alle voci agitate che accompagnano, ahimé, ogni vita, sia essa esageratamente impegnata, sia essa invece semplice e discreta. Nella mia famiglia, questo «bisogno di stendersi »», del resto diffuso a macchia di leopardo dappertutto nelle case di tutto il mondo — e, avvalorata da inconfutabili testimonianze —, mi fa pensare che forse questi tre mariti — un figlio, un padre, un nonno — avevano qualcosa in comune. Qualcosa che costringeva queste mogli «travolte» a rifugiarsi sul letto come su un prato fiorito, almeno il tempo di un istante blu.

Giovanni Merloni

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TESTO IN FRANCESE

Il mio libro più bello lo hai scritto tu (Zazie n. 60)

13 samedi Fév 2016

Posted by biscarrosse2012 in poesie, racconti

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Lettrici

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Immagine presa al volo da qualche parte su Twitter…

Il mio libro più bello lo hai scritto tu

Da qualche parte
brucia una candela
mentre grida
o soffia
o si rotola
dal ridere
dal piangere
qualcuno che crede
di sentire la mia voce.

Forse
il mio libro
più bello
lo hai scritto tu
credendo davvero
che fosse il mio.

Altrove, forse
più vicino, più lontano
la mia mano ti cerca
uscendo dal foglio
afferrando una nuvola
confusa docilmente
a quell’ombra straniera
che balla follemente
tra una fila di candele
o di veri lampioni
sul muretto di un ponte.
O invece, si tratta
di una sagoma nera
che correndo si dispera,
stanca di leggere, ogni sera
tante storie di cera.

Tra i fili del cielo
camminando in equilibrio
sta ripetendo a memoria
le parole di un libro
scolpito nel cuore
quella bella protettrice
svagata, impulsiva
che potresti essere tu,
mia devota lettrice,
ma quel volto pensoso
che volteggia lassù
non puoi essere tu.

Qui dentro
il mio libro imbrigliato
esita a uscire
le mie parole sghembe
gridano a vuoto
la mia penna
senza inchiostro
scricchiola.

La mia mano
stecchita dal gelo
ha paura
di tornare sul foglio
i miei occhi
accecati dal buio
hanno paura
di trovare
sorridente
il tuo nome.

Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta da ©Copyright

Di che parlava, il film della tua vita ? (Caramella n. 3)

09 samedi Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Caramella

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Di che parlava, il film della tua vita ?

Caramella,
le lettere sono andate perdute. Scusami questa espressione « napoletana » per dire che il nostro epistolario è sparito. Come se non fosse mai esistito. Perché, se è vero che il disco rigido del tuo computer non dà più segni di vita, nel mio caso è successa una cosa ancora più grave e definitiva. Mi ero illuso che i nostri messaggi sarebbero stati eternamente conservati in quella specie di biblioteca virtuale dove andavo a cercarli. Ma avevo sottovalutato l’infernale meccanicità della macchina : sono bastati sei mesi di inattività… perché « quelli » mi cancellassero tutto! Mi sembra la tragica storia di mia sorella, a cui mancavano solo tre esami per laurearsi in giurisprudenza. Aveva passato tanti guai, si era ammalata… finché un giorno ricevette una lettera in cui le dissero piuttosto seccamente che ormai tutti gli esami che aveva fatto non valevano più un fico secco. Era come se non li avesse mai fatti… Ma anche noi, Caramella, nello scrigno spezzato della nostra corrispondenza avevamo riversato tante lacrime insanguinate…

Potrei decidermi a prendere l’aereo. Si tratta solo di due ore di volo, in fondo. Per di più, a Fiumicino, posso affittare una macchina… Mi darebbero, se gliela chiedessi, quella Nuova Fiat 500 che finora ho visto solo da fuori. Poi, dall’aeroporto, se ben mi ricordo, c’è la scorciatoia… di via della Scala! Una via lunga, abbastanza trafficata ma confortevole che costeggia lo specchio d’acqua esagonale dell’antico porto di Traiano, poi l’abitato di Isola Sacra, per attraversare alla fine il Tevere sull’ultimo ponte prima della foce…
Caramella, quante emozioni mi evoca la sola idea di questo viaggio da un aeroporto a un bivio! Ma ti devo confessare, se non fosse per la macchina a nolo e il timore di strusciarla contro qualche paracarro, che non resisterei all’imperioso richiamo della gita al Faro più squallido che si possa immaginare, o alle quattro casette sbilenche della via del passo della Sentinella… Questi soli nomi, pur attirandomi come una specie di calamita, mi fanno rabbrividire, riportandomi dei ricordi in cui la piccola gioia di essermi sentito vivo si fonde a un’angosciosa sensazione di pericolo. Genio e sregolatezza, terrore e attrazione, sotterranea paura e coraggio insensato… Passato il ponte, la strada diventa più anonima, fino all’Ostiense ovvero la « via del Mare ». Sarei ormai quasi arrivato a casa tua.

«Ho avuto molti problemi fisici e sono stata molto triste. Non mi sentivo all’altezza di raccontare niente che ti potesse interessare. Non avevo neppure più il mio habitat.: la bella scrivania di cristallo e bambù… la mia poltrona, dalla quale vedevo fuori la campagna. Avevo lasciato la mia villetta e mi ero trasferita nell’appartamento dove vivo tuttora. È carino, dentro, anche se piccolissimo, ma situato in un palazzo squallido…»

Arrivo, arrivo… Ma prima, permettimi di fare una piccola deviazione, devo correre a via dell’Idroscalo per fare una breve visita a Pasolini… Qui in Francia si parla tanto del suo genio straordinario… Se non colgo la palla al balzo, rischio di by-passare per sempre questo luogo così angosciosamente « pasoliniano », dove il grande regista-filosofo è morto quarant’anni fa. Eh sì, Caramella, è passato già tanto tempo da quella notte di cupi presagi che passò come un’ombra gelida in mezzo ai nostri entusiasmi. Nessuno aveva voluto credere al Tiresia contemporaneo che aveva capito tutto in anticipo, sulla sua pelle, mentre noi, nella nostra giovanile incoscienza, non sapevamo di essere così presuntuosi e astratti. Abbiamo voluto continuare a illuderci sulla capacità del nostro paese di uscire da solo dalle innumerevoli imboscate che lo facevano vivere in una eterna agonia. Niente mi sembra cambiato, in questa località che ho già visitato una volta : un luogo senza personalità dove si è consumato un efferato delitto, impunito, contro l’umanità. Ma vorrei lo stesso andarci, scendere un attimo dalla macchina nuova di zecca e… chiudere gli occhi per ascoltare le grida dei gabbiani in transito su questa via derelitta e risentire la voce stridente del poeta mentre scandisce una delle sue disperate ribellioni…

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Forse, in quel momento irripetibile, mi piomberebbero addosso, come in un film di Pasolini, le frammentarie visioni dell’acciottolato romano di Ostia antica, il silenzio dei pini contro il cielo spensierato… insieme a un’altra voce inascoltata, quella del mio amico Ascani. Chino ore e ore sul suo incredibile pachwork di foto aeree in fotocopia, Ascani aveva ricostruito pezzo per pezzo le tracce dell’antica città di Portus, che sorgeva lì vicino, oltre il vecchio Idroscalo, in un territorio che non esiste più, enormemente cambiato anche per il sensibile arretramento della linea costiera. Duemila anni fa, tra l’Isola Sacra e il mare, esisteva un’immensa Rotterdam donde partivano le temibili flotte dell’antica Roma… Ma nessuno ha mai voluto dare retta ad Ascani né esaminare qualcuna delle sue scoperte…
Caramella, tu forse sei gelosa di questa mia tendenza a rifugiarmi in digressioni e in giri viziosi da cui tornerò annichilito e stanco. Ma questi pensieri hanno dato uno scopo alla solitudine delle mie corvée su e giù per l’Italia, generando dentro di me questo mio tipico bisogno di raccogliere le sfide, anche quelle più difficili. Col tempo questa mia seconda natura è diventata una compagna di viaggio fin troppo esigente, ma sempre pronta a perdonare le mie fughe… Spero che mi perdonerai anche tu, quando busserò, un giorno, alla tua porta…

«I primi mesi, ogni volta che percorrevo il lungo corridoio che portava alla mia porta e finiva in fondo con una portafinestra con una tendina, piangevo. Sia nella vendita della vecchia che nell’acquisto della nuova casa, avevo avuto tanti problemi. C’è molta gente disonesta e quando si fanno dei cambiamenti si rischia di imbattersi in qualcuno che non si vorrebbe mai aver conosciuto, compresi i professionisti che ti assistono. E poi sono sola. Il cambiamento di zona mi aveva allontanato dai miei amici. La mia famiglia era ormai andata in pezzi. Nel 2011, anche la mia dolce cagnolina era morta.»

Ho bussato alla porta. Nel silenzio prolungato dell’attesa, vedevo Pasolini come un padre,  ucciso a tradimento da una masnada di figli ingrati, proprio come Cesare… quando la tua porta si è aperta da sola e ha preso a ruotare verso sinistra, rivelando un pavimento luminoso, un grande divano e, in fondo, una portafinestra dietro cui si indovinava un balcone. Schiacciata dietro la porta spalancata, trattenendo il respiro, aspettavi che entrassi e mi avvicinassi alla luce naturale.
— Siediti.
— Caramella…
— Lo vedi, è molto piccolo. Ma mi sto abituando.
Ricordo che abbiamo parlato delle lettere. Tu ne avevi conservata una, scritta da me nel febbraio 2011. La lettera parlava di Manacorda, il nostro amato professore di storia e filosofia… quello che ci sorprese mentre stavo abbottonandoti il grembiule.
— Ma quanti bottoni, Caramella!
— Un vero e proprio strazio, se si pensa che a quei tempi Catherine Spaak andava in giro in minigonna!
— Caramella, sono passati più di cinquant’anni… e tu continui a vagare nella mia testa…
— Solo nella testa?
— No, dappertutto… Ma la sabbia di Ostia è ancora nera?
— Sì, è nera, c’è il ferro!
— Trovo inquietante questa « cosa » che si incolla ai piedi, alle mani e finisce per cambiare il nostro aspetto!
— Invece… avevi replicato, questo lato selvaggio ci rende più umili e concreti. Nei film di Pasolini che tu ami tanto, non troverai mai la sabbiolina invisibile dei serial televisivi, ma la sabbia nera che abbiamo qui.
— Durante la mia lontana parentesi a Ostia, la sabbia nera, pesante e pungente, mi sembrava quasi scandalosa… Era la fine dell’estate del 1962, cominciata con la nostra famosa passeggiata nei prati di Villa Borghese… Tornando da Cesenatico, non ero andato subito a casa, ma avevo raggiunto qui mia madre e mia sorella.
— Ostia fu una delusione, vero?
— A Cesenatico avevo finalmente baciato una ragazza e, per mantenere il ricordo, avevo smesso di farmi la barba e di cambiare maglietta… Alla stazione di Cesena, mio padre mi aveva preso in giro, mentre mia madre, appena arrivato a Ostia, mi aveva portato dal barbiere.
— Ma tu ci sei venuto anche qualche altra volta, birichino che non sei altro! Sempre con tua madre e tua sorella… o con qualche altra donna ?
— Pochissime volte. Di corsa, in macchina, per allontanarmi un po’ da Roma, per assaporare l’ebbrezza dello sradicamento…
Avrei voluto parlarti della lentezza incredibile dei miei progressi, della mia graduale emancipazione attraverso i piccoli gesti della vita quotidiana, quando ero ancora molto lontano dai grandi gesti dell’amore. Quanto tempo ci avevo messo prima di trovare il coraggio di spezzare i cordoni che mi legavano come liane robuste o serpenti! Avrei voluto raccontarti che, durante l’ora di ginnastica, facendo comunella con due dei nostri compagni, Bodo e Cassetti, mi nascondevo negli spogliatoi in mezzo ai cappotti. Cassetti si puliva le scarpe con la sciarpa di qualche compagno distratto dalla palla a volo, Bodo leggeva un libro di Faulkner o di Steinbeck mentre io sgattaiolavo fuori dalla porta posteriore e, come un cospiratore — il cancello era sempre aperto —, uscivo dalla scuola. Ma non osavo andare oltre il nostro bar-chioschetto e l’annessa fontanella presso il glorioso platano dove si formavano sempre gruppi e capannelli. Solo una volta, tutti e tre, osammo spingerci, durante l’ora di ginnastica, fino al muretto che si affaccia sul Tevere in piazza delle Cinque Giornate!
Ironia della sorte… esattamente in quel punto là ti avevo incontrata, qualche anno dopo l’uscita dal liceo. Quel giorno tu eri con delle amiche, presa da un’animata discussione. Nonostante ciò, prima di lanciarti sul ponte in direzione del Ministero della Marina, tu mi regalasti uno smagliante sorriso che mi fece venire la pelle d’oca. Vedi, avevo dimenticato questo saluto fuggitivo e la benevolenza del tuo ultimo sguardo. Ma questo sorriso nella luce complice di Roma si perde, ormai, nella notte dei tempi. Ora…
A questo punto, levandomi la parola, tu hai detto, bruscamente: — stavamo parlando di Ostia, una piccola « colonia sprovvista di volontà propria » come tu dici… Ma davvero conosci questa « colonia » soltanto dal di fuori, superficialmente, come una pura e semplice cartolina? Devo crederti?
— Be’, se ci penso meglio… un ricordo affiora. Ed è piuttosto intenso. Alla fine di una passeggiata sul lungomare di Ostia con una persona che ti somigliava, insistevo per andare in un alberghetto che avevo adocchiato. Un posto anonimo, senza altro che una scritta sbilenca fatta con in neon blu. Seduti in macchina, lei mi rimproverò a lungo, dicendomi che con il mio amore assoluto, sconfinato e premuroso, non le lasciavo il tempo di prendere lei stessa un’iniziativa qualsiasi…
— Perché me ne parli ? dicesti.
— Perché anche poco fa, quando sono arrivato, avrei voluto abbracciarti come se fossi tornato dalla guerra. Ma mi sono imposto, come in quell’episodio che ti stavo raccontando, di calmarmi, di aspettare che tu ti abituassi a questa… sorpresa.
— Non mi sono abituata e non sono affatto tranquilla !
— Allora stiamo ancora un po’ qui, seduti in poltrona, senza dire una parola, aspettando che la tensione si calmi prima di stringerci affettuosamente la mano!
— Ma quella tua fuga, come è andata a finire ?
— Lei mi sgridò. Più insisti, mi disse, più mi chiudo nel mio guscio! Rassegnato, allargai le braccia, mi accasciai sul sedile e dissi: Va bene, hai vinto tu, andiamo via!
— Ma, subito dopo questa rinuncia clamorosa e definitiva, tu scendesti dalla macchina e ti avviasti verso il neon blu della scritta, vero?
— Come fai a saperlo?
— Io so tutto.

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Ora, da quest’altissima poltrona solitaria che mi riporta alla mia realtà, mentre osservo il mare dietro l’ala argentata del Boeing 707, cerco invano di ripercorrere i fili e i suoni di quel colloquio lunghissimo in cui, la mano nella mano, io e te eravamo riusciti a sconfiggere la banalità del tempo…
Guardando fuori dalla finestra come si fa quando ci si parla in macchina, come due vecchi-adolescenti, avevamo lasciato finalmente scorrere delle vere parole, insieme a vere lacrime di gioia, scoprendo che quelle lettere erano rimaste indelebili su una pellicola invisibile che scorreva davanti ai nostri occhi, alle nostre bocche, alle nostre mani.
— Di che parlava, il film della tua vita?

Giovanni Merloni

Queste lettere sono protette da ©Copyright 

TESTO IN FRANCESE

Vieni, c’è un pacco in cima alle scale ! (Caramella n. 2)

06 mercredi Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Caramella

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Vieni, c’è un pacco in cima alle scale !

Caramella,
Sto facendo un po’ di confusione. Tu mi hai detto: — Vieni, c’è un pacco da scartare in cima alle scale ! Ma senza altre spiegazioni questo invito vaga nella mia testa agitata come quegli aeroplanini di carta che si facevano in classe durante l’ora di religione e vedo ora volteggiare sul mare di Ostia.
Di quali scale intendevi parlare ? Forse dei cento ventiquattro gradini che portano all’Aracœli ? Là dove ci mandò una volta la professoressa Cellini con quel suo perentorio « da riconoscere » ? C’eri anche tu in quella specie di orda di vandali? Tanti gradini tutti d’un fiato non sono uno scherzo, ma ne valeva la pena. Lassù, chi pensava al panorama di Roma? Nessuno di noi aveva il tempo o la voglia di scalfire la solida scorza della nostra beata ignoranza per accorgersi di quella mostruosità. Quella povera chiesa, quasi nascosta dietro una modesta facciata di mattoni, sembrava una bella paesanotta presa in trappola, così brutalmente incastrata tra i marmi del palazzo michelangiolesco e quelli, di un bianco ancora più falso, dell’immenso monumento al Milite Ignoto. Anche tu chiamavi questa assurdità urbanistica e architettonica  « la macchina da scrivere », e ridevi, illuminandoti tutta. Ma, in quella giornata che fu a lungo indecisa tra il sole e la pioggia, tu ti trinceravi dietro un impermeabile, come del resto le altre due o tre compagne che erano con te. Questo vostro riso complice formava un cerchio invalicabile. E io, per spezzarlo, non avevo nemmeno la scusa delle sigarette. Allora, nel marzo del 1962, in piedi nell’esiguo sagrato della chiesa di Santa Maria in Aracoeli, voi quattro non fumavate di certo. Ma vi ricordo benissimo, infagottate nei vostri grembiuli neri, entrare e uscire fumando dai gabinetti delle donne…
Ma forse quella mattina tu non c’eri, forse sono io che voglio a tutti i costi imprigionarti in questo ricordo così nitido. Può anche darsi che quell’antico altare romano issato sul bordo del cielo fosse invece un tuo luogo segreto e che ora, idealmente, vorresti tornarci con me.
Forse sono su una falsa pista. Ma mi ricordo che la tua scrittrice preferita era Elsa Morante e tu hai letto di sicuro «Aracœli», pubblicato vent’anni dopo la nostra visita. E mi ricordo che durante un’interrogazione raccontasti a Vazzana quanto ti era piaciuta «L’isola di Arturo», che si svolgeva nell’isola di Procida, l’isola degli amori proibiti…
Ti vedo scuotere la testa e dire «no». Impossibile aspettarsi di trovare questo pacco misterioso sul sagrato di una qualsiasi chiesa in cima a una scalinata.
Ma sono irresistibilmente attirato dalla tua natura di lettrice accanita. Tutto ciò mi condurrà in un labirinto parallelo, in un cul de sac… ma non posso farci niente. Sono qui, e ti osservo dal mio quarto banco… Io e te abbiamo in comune il corridoio tra i banchi e tu sei là, seduta al terzo banco della fila, tutta femminile, che costeggia il muro dove si apre la porta della classe…
Leggevi sempre, o forse, come me, studiavi forsennatamente da un’ora all’altra. Oppure ti guardavi intorno, interrogativa, roteando lentamente il tuo lungo collo di giraffa castana come se fosse il periscopio del sottomarino dipinto di rosa di « Operazione sottoveste » con Cary Grant e Tony Curtis… Mi piaceva la tua aria distratta, la leggera patina di polvere scolastica che proteggeva i tuoi eventuali colori. In quell’epoca avevo sempre sottomano due libretti che mia madre aveva portato da Parigi con alci i capolavori di Renoir e Degas. Per me, Caramella, tu eri una delle bagnanti di Renoir, quella con i capelli tirati su.

002_aracoeli muratoreFoto di copertina dell’articolo « 2.000 anni… circa… » pubblicato sul blog di Giorgio Muratore, Archiwatch

A volte, ridendo, esprimevi una tua particolare saggezza…
— Santa Sabina, da riconoscere ! aveva detto la Cellini con gentile autorevolezza, e noi, con l’idea di fare una scampagnata, ci eravamo intrufolati nel giardino degli aranci, quel rettangolo di pace su cui incombe il fianco solenne di una delle più belle chiese del mondo: — Santa Sabina, sull’Aventino! ci cantava la Cellini, mostrandoci la foto sul librone. Quest’usanza, di mettere la mano sulla didascalia e pretendere di avere spiattellato il nome del palazzo o della chiesa la ritrovai poi in Zevi e Portoghesi, convinti torturatori entrambi, agli esami di storia dell’architettura.
Ma se ben mi ricordo ci siamo andati da soli a Santa Sabina, su un tappeto volante. La scalinata blanda e verdeggiante l’ho fatta dopo, da solo, dopo averti tristemente salutato. Tu eri attesa da una zia che abitava all’EUR…
Eh sì, ci fu negato quel tempo minimo che mi sarebbe bastato per inchiodarti contro un albero o prenderti soltanto la mano su una panchina in forma di triclinio. Le mie agguerrite speranze dovettero frantumarsi subito dopo, quando «dovesti» fuggire via. Ma prima, come dimenticare quei passi invisibili nel portico semibuio, quell’attimo lunghissimo in cui tu ti sedesti vicino a me su una di quelle seggioline di paglia così pratiche per i nostri paganissimi matrimoni all’italiana… Forse, nel silenzio luminoso di quella incantevole navata tu sentisti il battito del mio cuore. Perché ti voltasti di scatto e mi guardasti negli occhi.
Che strano, forse tutto ciò deriva dall’aver avuto un padre schivo e gentile e una madre affabulatrice e di conseguenza ammaliatrice… Forse tutto, in me, dipende dal fascino di quella voce che doveva arrivare senza preavviso, affacciandosi sul mio letto come una fata turchina.
Sta di fatto che già allora, in quel minuto e mezzo che tu mi regalasti in mezzo ai fiori di un matrimonio celebrato da poco, io mi ero già assuefatto a vivere il presente con fatalismo e rassegnazione. Pronto a cogliere l’attimo di distrazione di un marito o di un padre, per godere il «bel momento». Del resto, in quel meriggio digiunante sospeso tra la campanella scolastica e il ritorno a casa, fosti tu a dire : — peccato, io sono negata per la fotografia… ma questo sarebbe proprio un momento da fermare!
Avrei dovuto risponderti qualcosa di intelligente, ma, in quel momento, la mia testa galleggiava nel vuoto come quella di un merlo spaurito. Ti feci cascare letteralmente le braccia quando dissi: — così avremmo fatto vedere alla professoressa di storia dell’arte che ci siamo venuti davvero, a Santa Sabina!
Ma, intanto, io vivevo una parentesi di gioia intensa, incommensurabile. Se fossimo rimasti chiusi lì dentro fino al giorno dopo non avremmo avuto paura di niente.

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Ecco, che stupido! Ora capisco quello che mi volevi dire in mezzo al sogno di stazioni parigine e di elicotteri piombanti sulla rotonda di Ostia: tu parli di un vero e proprio pacco che, a quanto pare, è ancora lassù, in cima alle scale del Mamiani!
Volevi farmi una sorpresa? Oppure cercavi soltanto di rimandare « sine die » l’amaro disinganno? È inutile, Caramella, continuare a illudersi che là dentro ci siano  le nostre lettere che, invece, ahimè, sono andate perdute!

Giovanni Merloni

Queste lettere sono protette da ©Copyright
TESTO IN FRANCESE

Dovremmo avviarci, prima che faccia di nuovo buio! (Caramella n. 1)

03 dimanche Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Caramella

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Dovremmo avviarci, prima che faccia di nuovo buio!

Caramella,
per prima cosa, mi piacerebbe fare una passeggiata con te sul lungomare di Ostia. Questo confine tra l’asfalto e le bizze del mare selvaggio che nel ricordo mi sembra unico e pieno di bellezza. Una bellezza forse invisibile, o perduta nei meandri di qualche film fatto in casa. Un quartiere di Roma sbattuto fino al pelo dell’acqua. Stranamente, nel ricordo, la pineta che aleggia alle spalle con la sua macchia irsuta e i suoi ombrelli verdi e grigi, mi fa paura. Preferisco quella pacifica desolazione traversata da aeroplanini di carta e strani profumi femminili. Il fatto è che per passeggiare ci vuole un muretto, un mondo circostante di gente che va e viene, di automobili e motociclette che sfrecciano indifferenti e, dall’altra parte, un quadro vivente ma immobile, cangiante ma denso di una precisa personalità: il panorama. O soltanto il colpo d’occhio su quel l’orizzonte bianco e grigio. Camminare con te, respirando il vento con i suoi odori, assaporare un senso di provvisorietà e di smarrimento, vinto a tratti da una specie di eroismo… A Ostia c’è tutto questo e forse c’è anche di più!
Dovrei scapicollarmi, montare su un elicottero e piombare sulla rotonda bianca di mussoliniana memoria, alla fine della Cristoforo Colombo, gridando il tuo nome mentre tu sventoli un fazzoletto bianco.
Ma il mio carattere riflessivo, senza spegnerli, cerca sempre di incanalare i miei impulsi in una corrente di pensieri più realistici. Seduto nella poltrona Frau foderata di giallo acceso e ricoperta di un vecchio plaid che fu dei miei genitori, come la poltrona del resto, sbircio le doghe del parquet a spina di pesce di questo salone parigino… e, attraverso le mie cinque finestre, passo in rassegna la quinta della case grigio-avana del viale, così ben visibili dietro i platani nudi di gennaio. Un costante fruscio mi assicura che l’anno nuovo è cominciato, La gente, giù in strada, cerca di fare qualcosa. Certo è sabato, domani sarà di nuovo domenica, portatrice di nuove immobilità e di giri viziosi… Come faccio a partire? Non potresti venire tu?
Verrei a prenderti alla Gare de Lyon, ti aiuterei a sbrogliartela con la valigia e le borse e ti trascinerei subito nel metrò. Poi, ti accompagnerei in albergo. Avrei scelto per te l’hôtel Chopin. Si trova nel bel mezzo del Passage Jouffroy, una splendida galleria di negozi dove il suono dei tacchi e il rumore del carrello della valigia non passerebbero inosservati. Nonostante l’inquietante vicinanza del museo delle cere. Del resto, Parigi non ama gli spettri. Tutto è vivo, qui. E i «grandi defunti» rivivono gioiosamente insieme ai «piccoli vivi» come noi, in un continuo scambio di suggestioni e pulsioni di amore reciproco.
Purtroppo, il mio realismo odierno non riesce ad immaginare altro che una passeggiata ritardataria come la nostra… Una lenta, magica e forse lunghissima passeggiata. Perché siamo sempre stati costretti, tutti e due, a frenare i nostri impulsi più pericolosi, confinandoli in una specie di timidezza o di goffaggine rinunciataria…
Oppure, chissà… Se le terribili vicissitudini delle nostre vite nomadi ci hanno scaraventato su queste due rive lontane… che oggi sembrano di punto in bianco vicine, vicinissime, al punto quasi di toccarsi…
Dovremmo avviarci, prima che faccia di nuovo buio.

Giovanni Merloni

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Queste lettere sono protette da ©Copyright

TESTO IN FRANCESE

Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 4/4 (pit n.22).

10 dimanche Mar 2013

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente di una tavola, racconti

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Jerôme

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Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 4/4 (pit n.22). 

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23,45.
Nei due piccoli appartamenti gemelli ormai domina il silenzio. Se si potessero strappare, come l’ultimo strato di una torta millefoglie, i due piani superiori, si vedrebbero, al centro di questa scatola da scarpe, tre teste quasi incollate tra di loro, mentre i relativi corpi apparirebbero lontani, separati da una ostinata ricerca di solitudine.
In questa « quiete dopo la tempesta » Trepaoli ha paura di qualsiasi cambiamento. Non ce la fa ad alzarsi per andare fino alla poltrona. E non ha più voglia di sentire la musica. Tasta con la mano le onde scomposte della coperta sul letto. Trova quello che gli serve :
« Sempre caro mi fu quest’ermo colle
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude… »
Legge lentamente, con una voce esile appena udibile aldilà del mur. I due amanti possono parlare: per il momento Trepaoli non muore e, perduto nel suo soliloquio, li lascia liberi.
— Ma sedendo e mirando, interminati/ Spazi di là da quella, e sovrumani/ Silenzi, e profondissima quiete/ Io nel pensier mi fingo ; ove per poco/ Il cor non si spaura…

23 juillet, Mezzanotte.
Antonia si rivolge a Jérôme, parlando pianissimo, con una strana complicità.
— Credeva che questa… felicità potesse durare. Almeno lo sperava. D’un tratto, meno di una settimana dopo questa riscossa amorosa, è scoppiata una sporca malattia, così, con uno sputo di sangue nero. Portato all’ospedale Saint-Louis, Trepaoli, tra la vita e la morte, è stato operato. Gli hanno levato un polmone. Allora si è ritirato definitivamente in questo minuscolo due-camere-e-cucina. Sua moglie non viene più a trovarlo da tanto tempo.
— Viene sua figlia, tutti i giorni, dice Jérôme. Appena arriva, apre la finestra, e si mette a discutere rumorosamente, da sola. Si direbbe che parli al muro, a questo tramezzo qui, perché, come avrai visto anche tu, la voce di Trepaoli si sente di rado. Cucina sempre lo stesso sugo a base di aglio e basilico, che provoca negli abitanti del palazzo fantasie di viaggi esotici nell’Italia meridionale. Dopo un po’, senza preavviso, se ne va con forti sbattimenti di porte e  un suo tipico rumorosissimo modo di scendere le escale…
— Mi sembra una sceneggiatura di Prévert. Lo conosci bene, meglio di me.
— Chi? Prévert o Trepaoli?
Non sopporto l’idea della morte in pubblico. D’altra parte non mi interessanto tutti quegli sforzi, così penosi, che si fanno sempre per allungare la vita dei poveri Cristi arrivati ormai al capolinea, odio sinceramente quelle ambulanze che li obbligan ad abbandonnare i loro mucchietti di piccole cose prive di senso (sempre le stesse per tutti), che però sono loro indispensabili. Tuttavia, questo tramezzo, che non ha niente da spartire con il muro spesso e  terribile del Castello d’If, che separava la cella di Edmond Dantes da quella dell’abate Faria. Questa barriera di cartapesta, moltiplicando le facoltà uditive fino all’esaltazione, ha creato, tra questi sconnosciuti e me, una sorta di promiscuità, imbarazzante ma confortevole. Certo, per salvare le apparenze, bisogna mantenere vivo un rumore di fondo, che lasci a ognuno, aldi qua o aldilà del muro, la sensazione di essere a casa propria..
Trepaoli non è credente. A undici anni, nel suo paesino delle Marche, lo avevano portato alla parrocchia. Di quelle messe e grembiuli ricamati da chierichetto, ha conservato l’abitudine di leggere con un’aria un po’ retorica, ma anche ironica, che lo aiuta a credere di avventurarsi in un labirinto di incontri positivi :
« E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando : e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei... »
Da qualche frase rivelatrice Trepaoli si accorge che Jérôme, intanto, sta provando a fare il ritratto ad Antonia:
— Ecco, te lo faccio vedere, ma sii indulgente. L’ho fatto con la penna, e così è più difficile.
— Questa… non mi somiglia affatto. Tu hai disegnato la signora che viene di nascosto da Trepaoli…
« Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio
E il naufragar m’è dolce in questo mare. »

Mezzanotte e 15.
— Ha finito, sussurra Antonia.
— Un po’ lugubre, questo infinito che va e viene attraverso le Alpi come un corridore ciclista…
— Oppure come un clandestino che attraversa questo tramezzo senza alcuna difficoltà.
— Vuoi dire che Leopardi abita in incognito da Trepaoli?
— Parliamo seriamente, Jérôme. Tu pensi che ci sia qualcun’altro oltre sua figlia, una qualsivoglia persona in carne ed ossa che venga a trovare Trepaoli ?

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Mezzanotte e 25.
— Ti rispondo a malincuore, Antonia.
— Lo so quello che stai passando, il mondo ti casca addosso.
— Avrei voluto sedermi con te davanti a un paesaggio misterioso al tramonto.
— Non hau fatto nulla per attirarmici. E sono io che ti ho fatto conoscere Leopardi. D’accordo, ci si può anche consolare con qualche verso immortale, come fa il nostro Trepaoli, ma…
La mente di Jérôme corre per un attimo alla scuola di lingue a due passi dalla metropolitana, dove d’ora in poi non si vedrà più comparire questa italiana così piena di entusiasmo.
— Domani, tu non ci sarai più, non risponderai più al telefono et io sarò fottuto!
— Esatto. Anch’io sarò fottuta. Ma preferisco concentrarmi su qualcosa di reale. Sopravviveremo a questo strappo, tu prima di me. Invece, questo signor…
— D’accordo. Visto che ti interessa tanto sapere se Trepaoli può contare sull’amore di qualcuno… incontro sua figlia per le scale, di tanto in tanto, raramente. Effettivamente, quella lì cambia talmente ogni volta, che non riesco a focalizzare la sua faccia nella mia memoria. La sola cosa che ricordo sono i suoi zoccoli un po’ consumati, e, soprattutto, l’odore di sugo che, dopo un giretto per il cortile, entra da questa finestra e va a ficcarsi sempre nello stesso angolo.
— Ma tu non pensi che al sugo! Il mondo crolla… a parte questo tramezzo, grazie a Dio… tutto sprofonda e tu ti perdi dietro a questo schifosissmino odore di pasta italiana riscaldata al microonde!
— E tu, allora? Nel momento più catastrofico della nostra vita, tu vuoi sapere se un’altra donna veniva a trovare Abelardo, se dunque Abelardo tradiva la povera Eloisa?

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Mezzanotte e 40
— Tu non ce l’hai questo problema, vero? Tu sei ben aldilà di questa frontiera tra l’essere stato e non esserlo più, tu puoi prenderti una donna, se vuoi, magari due…
Vorrei essere esentato dall’ascoltare. La testa è di nuovo leggera, la fronte è imperlata di sudore. Sono vicino vicino al mio baratro annunciato. Ma un filo rosso mi lega ancora a questa Arianna. Forse, un giorno, in un’altra vita, lei potrebbe condurmi fuori dal labirinto. Se ripenso ai primi tempi! Ero infastidito, se non proprio disturbato, dai rumori che mi piombavano addosso — tutti i martedì e giovedì pomeriggio — da questa stanza dove nessuno aveva mai abitato fino ad allora, per quanto ne potevo sapere. Avevo perfino chiesto a Marina di andare a protestare dalla proprietaria! Sì, i primi tempi, consideravo gli incastri di questa coppia in preda al fuoco della passione come una violenza, forse intenzionale, contro di me. Ma poi… Disprezzo e adoro nello stesso tempo questo giovane generoso e ingenuo. Mi piacerebbe poterlo chiamare «figlio mio». Che bella idea, un fratello più grande per la povera Marina! Con ciò, al posto suo, non lascerei andar via questa donna. Trouverei di sicuro il modo di tenerla sotto chiave. Ma, se dovessi farlo ora, non ne avrei i mezzi… E non posso comunque sapere cosa avrei fatto, al posto suo.
Antonia si alza. Jérôme si accorge che lei porta lo stesso zainetto nero del giorno in cui venne a iscriversi alla scuola di lingue.
La sua voce mi è ormai familiare, la riconoscerei dovunque. Posso dire di conoscerla, di vederla ! Vorrei potermi alzare, correre alla porta, chiederle di restare un momento sul pianerottolo per darmi il tempo di guardarla. Impossibile, non posso più muovermi…
— Te ne vais? Veramente?
Antonia fa un gesto circolare e si inchina. La stessa piroetta di D’Artagnan. Sulla soglia, già voltata verso le scale, chiede:
— Ma tu, l’hai mai visto in faccia, il signor Trepaoli?
Jérôme l’aveva incontrato molto raramente, perché il poveretto faticava parecchio a salire al secondo piano. Lo aveva visto pallido, sofferente, ma ache sorridente, amabile, perfino elegante, con il suo cachemire blù cielo… Un giorno, la sola volta che si erano parlati direttamente, Trepaoli, appoggiato al muro accanto al portone, gli aveva confidati molto serenamente il suo stato:
— Vivo sulla lama di un coltello o, se vogliamo, su una frontiera invisibile.

1,10.
Siamo ormai nel cuore della notte. L’ultima metropolitana è partita.

004_malagar x cloison 740

Giardino di Malagar (Casa-museo di François Mauriac), 2006

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 10 mars 2013

TEXTE ORIGINAL EN FRANÇAIS : http://wp.me/p2Wcn6-nA

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