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il ritratto incosciente

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il ritratto incosciente

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Ricostruzione di un mondo perduto, quello di mio nonno Zvanì (1873-1936) e di Giovanni Pascoli (1855-1912) e di una regione, l’Emilia-Romagna tra Bologna e Rimini, visti dalla Parigi degli anni 2010 e ricordando un’esperienza personale, vissuta in questa regione negli anni 70 e 80

Si può amare una città? (pit n.3)

25 samedi Mai 2013

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Bologna, Romagna

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Jan Doets sostiene che la nostra memoria  risiede nella totalità del corpo umano, che il cervello non ha che una sola funzione, in definitiva. Non è che un un rubinetto. Lo scrittore olandese fa molto efficacemente l’esempio della suonata  « Dopo una letture de Dante » di Franz Liszt, interpretata in modo prodigioso dal pianista russo Arcadie Volodos. Egli ha pienamente ragione.

Io avevo scritto, nel 1997, un romanzo su Cesena e la Romagna (« Il quarto lato »). Un libro che non ha avuto quasi diffusione in Italia e non è stato amato da tutti con lo stesso entusiasmo o benevolenza.  Dopo una lunga riflessione, ho compreso in seguito che avevo deluso soprattutto quelli che si erano formati una certa idea di me, avendomi conosciuto « al tempo della regione Emila-Romagna », cioè in quel periodo del tutto straordinario, all’inizio degli anni Settanta, dove tutto nasceva (molti di noi erano giovani), in quei « sette anni d’oro » che si sono consumati, senza rimpianti né rimorsi, tra i ventisette e i trentaquattro anni.

A quei tempi, mi spostavo spesso da Bologna a Forlì o Cesena per i piani regolatori dei comuni grandi e piccoli, isolati in cima a una montagna, sparpagliati sul versante di una collina o concentrati nei crocevia di questa pianura dove si può ancora riconoscere la traccia dell’antica  centurazione romana. Allora, eravamo spinti a trovare sempre una soluzione positiva, anche se si aveva spesso a che fare con dei veri rompicapo giuridici e umani.  Io amavo molto scrivere e parlare alla gente. Ereditavo infatti da mia madre una orgogliosa inclinazione per la letteratura e da mio padre una certa disinvoltura avvocatesca, se non addirittura un gusto perverso per la ricerca a tutti i costi di un accordo tra interessi anche opposti.

Presto, il mio amore senza riserve fu condiviso. Fui accolto con un calore incredifile. Bologna e la Romagna – che mio padre mi aveva fatto conoscere dopo la mia infanzia – erano ormai la mia patria d’elezione, confermando in me il titolo segreto di luogo sacro dove erano nati mio nonno Zvanìn e i miei bisnonni, Cleta e Raffaele. Il linguaggio che affiorava ai miei occhi e alla mia bocca, prima di discendere nelle mie mani –  incaricate in seguito di gesticolare o di scrivere sull’Olivetti che appoggiavo disinvoltamente sulle  ginocchia -, era allora molto semplice e convincente e si adattava senza scosse quando dal parere urbanistico doveva passare al documento politico e sindacale.

Mettevo sempre molta passione nelle mie relazioni tecniche  e ancor più in quelle destiante a qualche più raro intervento pubblico. In realtà, non si trattava soltanto di passione professionale o ideale che aggiungevo alla mia tenacia naturale. Io facevo scivolare in questi scritti le mie frustrazioni letterarie. Risultato : ciò che scrivevo otteneva, qualche volta, un successo insperato durante le mie letture ad alta voce nel corso delle riunioni di lavoro.

Quando ho lasciato Bologna per rientrare a Roma, decidendomi incautamente, dopo qualche anno a passare, come Cesare, il Rubicone – fiume che d’altra parte scorre proprio in fondo alla collina di Sogliano, là dove noi abbiamo momentaneamente abbandonato i  nostri commensali, forse intenti in una accesa discussione -, e quando mi sono consacrato alla scrittura senz’altro scopo che la scrittura di per sé, ho dovuto sostenere una lotta accanita per affrancarmi da un certo ritmo « barocco », da un uso eccessivo di aggettivi e di avverbi ereditati dal mio lavoro di urbanista e da quella oziosa ricerca di frasi tecniche « dal volto umano. »

Inoltre, io non mi trovavo più là, a pochi minuti o ore dalla piazza del Popolo di Cesena. Non potevo arrivarci a piedi, senza  fastidio, direttamente dalla stazione, ripercorrendo quella gradevole passeggiata sull’antico acciottolato, lungo corso Strozzi, la Barriera, la Biblioteca Malatestiana e i portici della strada Zeffirino Re. Ciononostante, grazie a questa scrittura sfasata e fuori-tempo, ho potuto curare, se non del tutto cicatrizzare, gli strappi e le lacerazioni provocate dall’abbandono di una patria che stavo cominciando a ritrovare e assaporare. E quella piccola folla di personaggi del « quarto lato » aveva talmente popolato il luogo centrale del romanzo – la Piazza del Popolo -, che un giorno, tornando là qualche mese prima della conclusione  del libro, fui colto da una sensazione indimenticabile.

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Feci qualche passo in quel luogo, non saprei dire ora se mi semrava più grande o più piccolo, più largo o più stretto. Venivo dal mercato, che è situato al piano terra del palazzo comunale. Sotto le arcate, una stele è dedicata a mio nonno Zvànin, uno dei più gloriosi rappresentanti del socialismo riformista e dell’antifascismo italiano prima della seconda guerra mondiale. (Morì relativamente giovane, a sessantatre anni : confinato politico, per decreto di Mussolini, in un paesello sperduto del litorale jonico della Calabria.) Certo, la visione della lapide, con il ritratto in bronzo del nonno, mi aveva già colpito. Ma, al di là di lui e di tutti gli altri personaggi del romanzo, il fatto di entrare in quella piazza… Mi sentivo « nudo ». Ovvero, per essere più precisi, « sentivo » quel luogo come una persona. Una persona dolorosamente amata che mi veniva incontro, mi toccava,  attraversava i miei vestiti per aderire alla mia pelle… Caddi a terra e restai seduto lì qualche secondo. Provavo cio`che si potrebbe provare, credo, se si facesse l’amore con una donna che ci si è sforzati per tanto tempo di dimenticare e che invece, a sorpresa, si incontra di nuovo, parecchi anni dopo l’ultima telefonata.

Si può amare una città?

Ecco ciò che la citazione di Jan Doets mi ha fatto ricordare. Il mio corpo, talmente intriso dai pellegrinaggi dell’anima in questi luoghi amati e, forse, fin troppo sacralizzati, aveva assunto le informazioni prese in prestito alla città reale e le aveva fuse con le suggestioni della fantasia fino a piombare in uno stato di vero spleen stendhaliano. Con un aspetto di malinconia  erotica che solamente un corpo sano può ospitare.

Ma cosa avrebbero voluto trovare, in questo primo romanzo, i miei amici delusi? L’attualità o la verità delle nostre esperienze comuni ? Spero sempre che, rileggendolo, qualcuno di loro un giorno saprà riconoscere questa esigenza tormentosa di collocarmi in un tempo sospeso tra le generazioni. D’altronde non è un caso che là dentro, a fianco del personaggio evocato – Battista Alessandri, alias Zvànin, – e di Pio Foschi, il « capitale morale » della storia, il vero protagonista sia Libero, un equilibrista il cui temperamento, così gentile e generoso, assomiglia enormemente a quello di mio padre.

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 20 mai 2013

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Zvanì (pit n.2)

24 vendredi Mai 2013

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente di una tavola

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Bologna, Cesena, Dario Fo, Giovanni Pascoli

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

« Dalle parti di Schwann»… Quando si voleva vezzeggiare Zvàn, mio nonno,  lo si chiamava  « Zvanìn » o « Zvanì »…

Con la musica  accattivante di questo nome nel cuore, ho la sensazione che la Romagna si sposti come la zattera di pietra di Saramago e che vaghi a lungo  prima di fermarsi, in un luogo molto remoto, nella geografia dei miei sogni. Potrebbe chiamarsi altrettanto bene Samarcanda o Damasco o, anche San Pietroburgo. Io non  sentirei il peso della distanza, dato che questo luogo sarebbe sempre presente nella mia mente come i lunghi singhiozzi di Verlaine e i parapetti d’Europa di Rimbaud, vicini come questa tavola allegramente sparecchiata dove questo signore dall’aria intelligente è privilegiato dalla distribuzione, fin troppo complice, della luce.

D’altronde Zvànin è tutt’uno con gli altri partecipanti alla vigilia, a cui si rivolge  — mi sembra di sentirlo –  con una voce calma, convincente, nella loro stessa lingua cifrata, del tutto incomprensible per me. Zvànin è lo stesso di Jean, o Jan o John. È un modo di abbreviare la parola, di rendere più vicino e intimo un nome solenne come Giovanni o noioso come Johannes. Une specie di frenesia dell’abbreviazione e della variazione.

Quanto al suo linguaggio, è difficile tracciare dei confini. Certo, tutti dobbiamo, d’ora in poi,  condividere l’idea di Dario Fo di una grande, antica e originaria mescolanza delle lingue — la francese, l’italiana e anche la tedesca — che ha generato ciò che egli chiama « grammelot », un  miscuglio linguistico che concerne tutte le popolazioni della valle dal Po, da Milano al mare Adriatico. Tuttavia, si potrebbe tagliare verticalmente questa grande regione — la Val Padana —  che costeggia la riva destra del Po, il più grande fiume italiano, tracciando un’invisibile frontiera tra Piacenza e Parma. Infatti, in un certo qual modo, la Lombardia comincia a Piacenza, mentre Mantova, al di là del Po e sotto il dominio milanese, è una città senza dubbio « romagnola ». C’è qualche cosa di eccezionale in questa regione a sud del fiume. Basterebbero forse tre nomi per evocare un po’ lo spirito della sua prodigiosa cultura : Ariosto, Verdi e Fellini. Ma non si può sicuramente dimenticare Giovanni Pascoli — Zvànin, anche lui—, questo grande poeta a sua volta classico e intimamente impregnato di questa lingua musicale, di questo canto orgoglioso e « naïf », la cui eco si propaga, mescolata,  nei suoi versi.

Non bisogna neanche dimenticare l’inimmaginabile Rossini, colui che ha apportato a Parigi  la sagacia derisoria dello spirito romagnolo.

Questa lingua profondamente amata è stata la forza primordiale, il legame intimo che ha dato forza all’unicità e diversità dell’Emilia-Romagna. Una regione dove si è sempre difeso e al tempo stesso esaltato il rispetto per la cultura, la scienza, il diritto.

[Io amerei parlare in questa sede di Bologna, la più antica università d’Europa, e di ciò che sembra accadere oggi, in questo momento di riflusso  e di gravi difficoltà che turbano il mio paese…]

[In ogni caso, ancora oggi la lingua di Zvànin sembra salvarsi sotto i ciottoli degli affluenti del Po, dentro piccole grotte che la proteggono ancora per un po’di tempo  dai terremoti della terra e dalle ondate di cambiamenti e di oblio.]

La Romagna è un triangolo di campi e di pietra  dove numerose civiltà e poteri – gli imperatori, i papi, i comuni, le signorie –  si sono affrontati, senza rispetto né concessioni. Tuttavia, i vortici della Storia non hanno lasciato che delle tracce gentili in questa terra fertile, nutrita di genti naturalmente portate al lavoro e alla felicità. La strada che perfora più facilmente gli Apennini, unendo Roma a Venezia, incrocia proprio qui, poco lontano da questa riunione notturna, l’Emilia,  un asse stradale  tanto importante quanto il Reno per le popolazioni della Ruhr, che  discende perfettamente rettilineo da Piacenza, luogo molto ricco e  promettente, fino a Rimini… Non si finirebbe mai di decantare le meraviglie di questo triangolo che si disegna tra Imola, già romagnola, e Rimini e Ravenna, capitale quest’ultima dell’antico Impero bizantino… Questo triangolo esiste ancora.  Sulle sue coste  brillano a lungo, durante la notte, le voci di città dai nomi suggestivi come Imola, Faenza, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Rimini, Cesenatico, Cervia, Ravenna, Lugo, Bagnacavallo…

 A monte di questo triangolo  — che la nebbia avvolge in autunno e dove il calore s’installa senza muoversi per un’intera e interminabile estate  —, gli Appennini hanno un aspetto scosceso, talvolta minaccioso con quella alternanza di colline spoglie e di campagne simili a onde blu picchiettate di cipressi. Quando vi si sale – in auto o in moto, mentre  in passato vi si affanava un corriere titato da quattro cavalli — si è spesso  invitati a fermarsi, ad affacciarsi sui muretti per tentare di scorgere San Marino, o San Leo o Gradara, città fortificate collocate proprio in cima delle colline più aguzze e lontane. Tutto ciò fa paura e io credo che l’unicità della Romagna, il suo fascino sempre più avvincente, nasce dal contrasto tra questi mostri isolati e ben visibili e la popolazione invisibile, votata a questa terra… Da un lato, un potere minaccioso  — di uomini cattivi o di una natura talvolta temibile — , dall’altro lato un temperamento spontaneamente portato verso la vita.

Ma che differenza tra la Romagna e la Toscana ! In questa terra dove i confini non sono mai stati delle frontiere, la lingua è stata continuamente storpiata al passaggio dei numerosi invasori – provenienti da nord e da sud, ma anche dal mare, che non è mai stato un vero ostacolo – mentre l’accesso alla Toscana, circondata dalle montagne, era difeso a ovest da un mare sempre scosso dal vento, e,  a sud, dal Monte Amiata e dalle paludi malariche della Maremma.

Sia maledetta Ma-remma, Ma-remma/ Sia maledetta Maramma e chi l’ama./ L’uccello che ci va perde la penna/ Io ci ho perduto una persona cara…

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Ma, perché ho parlato della Toscana e alla fine della Maremma ? Che cosa ha a che vedere con mio nonno Zvànin e quella cena ? C’è un legame, perché io situerei questo raduno nel novembre 1913. Questa tavola non unisce due sposi e i loro invitati. Non ci troviamo alla vigilia del matrimonio di Zvànin con Mimì, che ha avuto luogo proprio all’inizio del secolo. Infatti nel 1913 la sua primogenita ha già unidici anni, la secondogenita  ne ha otto e il più piccolo, quello che porta il nome di suo padre garibaldino, ne ha sei.

Basta guardare con un pò più di attenzione questa foto per accorgersi che in questa riunione, oltre i parenti stretti di Zvànin— sua madre Cleta, al suo fianco già sofferente (sarebbe morta tre anni dopo) ; sua cugina Luisa, di cui si percepisce appena il viso affiorante dall’ombra ; Maria, la sua cugina più giovane, seduta alla destra del marito, il notaio di Sogliano e tre altri abitanti della casa, in piedi davanti alla credenza —, ci sono altri due personaggi. Si tratta probabilmente del sindaco e del parroco che non nascondono la loro estraneità alla scena.

Che cosa succede, allora? Questa sera, sul far della notte, Zvànin è il figliol prodigo che rientra all’ovile. Dopo anni di battaglie accanite e di sforzi mentali non indifferenti, non potendo i socialisti in Romagna ottenere abbastanza voti, essendo molto forti i repubblicani, egli è stato  appena eletto  nel collegio di Siena-Arezzo-Grosseto, in Toscana…

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 24 mai 2013

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Ritratto di una tavola (pit n.1)

23 jeudi Mai 2013

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Bologna, Cesena, Romagna, Sogliano al rubicone

La storia a puntate intitolata « Il ritratto incosciente di una tavola » – basata su due personaggi principali, mio nonno Zvanì (1973-1936) et il poeta Giovanni Pascoli (1855-1912), – si svolge in una parte d’ Italia da me particolarmente amata: l’Émilia-Romagna da Bologna a Rimini.

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Circa cento anni fa, nella sala da pranzo di una casa di campagna spartana,  ma accogliente, si era appena  finito di cenare. Sulla tavola, tra le salviette in disordine, una bottiglia di vino rosso dall’etichetta raffinata dominava il campo di battaglia dove le brocche vuote e le ampolle  semipiene dell’olio e dell’aceto  riflettevano à metà la luce color arancio del lampadario, acquistato a Bologna in occasione del matrimonio dei due ospiti.  Questi ultimi erano seduti di fronte, un pò discosti dalla tavola, contro la credenza con gli sportelli di vetro. Tutti i presenti, invece, erano allineati sul fondo della stanza per lasciare campo libero al fotografo. Tutte le sedie che avrebbero intralciato il primo piano della foto erano scomparse.  Questo accorgimento ideato dal fotografo crea una strano sfasamento. Infatti, sul lato destro della foto, in posizione privilegiata, un uomo in giacca nera è comodamente seduto nel posto che ha occupato per tutta la serata. È senza dubbio il protagonista di questo incontro, dove il carattere familiare dei rapporti tra le persone sembra arricchirsi o, forse, viziarsi un pò a causa di un avvenimento che i presenti stanno festeggiando o, piuttosto, celebrando. Che cosa sta accadendo? Dove ci troviamo? Fuori, fa freddo. La notte è caduta di colpo, tra stelle di ghiaccio. L’uomo giovane, in questo momento rigido e immobile nel fondo della stanza che l’unica lampada non può illuminare, farà molta attenzione a non scivolare sul  selciato, quando uscirà dal giardinetto per attraversare la strada e salire verso la sua stanza, i guanti  aggrappati alla balaustra di ferro.

Quanto al fotografo, questo uscirà dal vocio « confuso » della casa senza entusiasmo e senza pensieri. È ancora giovane  e perfettamente abituato all’accoglienza spartana della piccola pensione dove dormirà questa notte. Nessuno, in ogni caso, si occupa di lui, l’uomo invisibile, né del suo ingombrante apparecchio. Inoltre, attorno alla tavola, in quel momento, c’è un bel calduccio.

Il giorno in cui  ho trovato, avvolta in un fazzoletto, questa lastra scura — la sola instantanea a colori che io possegga del mio nonno paterno — ho subito riconosciuto la tavola, la credenza et il lampadario. Dunque, sono sicuro che questa riunione è avvenuta a Sogliano sul Rubicone, in Romagna, nella casa dei cugini del mio antenato amato et illustre, di cui porto, senza alcun merito, il nome e il cognome…

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 20 mai 2013

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Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 4/4 (pit n.22).

10 dimanche Mar 2013

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Jerôme

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Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 4/4 (pit n.22). 

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23,45.
Nei due piccoli appartamenti gemelli ormai domina il silenzio. Se si potessero strappare, come l’ultimo strato di una torta millefoglie, i due piani superiori, si vedrebbero, al centro di questa scatola da scarpe, tre teste quasi incollate tra di loro, mentre i relativi corpi apparirebbero lontani, separati da una ostinata ricerca di solitudine.
In questa « quiete dopo la tempesta » Trepaoli ha paura di qualsiasi cambiamento. Non ce la fa ad alzarsi per andare fino alla poltrona. E non ha più voglia di sentire la musica. Tasta con la mano le onde scomposte della coperta sul letto. Trova quello che gli serve :
« Sempre caro mi fu quest’ermo colle
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude… »
Legge lentamente, con una voce esile appena udibile aldilà del mur. I due amanti possono parlare: per il momento Trepaoli non muore e, perduto nel suo soliloquio, li lascia liberi.
— Ma sedendo e mirando, interminati/ Spazi di là da quella, e sovrumani/ Silenzi, e profondissima quiete/ Io nel pensier mi fingo ; ove per poco/ Il cor non si spaura…

23 juillet, Mezzanotte.
Antonia si rivolge a Jérôme, parlando pianissimo, con una strana complicità.
— Credeva che questa… felicità potesse durare. Almeno lo sperava. D’un tratto, meno di una settimana dopo questa riscossa amorosa, è scoppiata una sporca malattia, così, con uno sputo di sangue nero. Portato all’ospedale Saint-Louis, Trepaoli, tra la vita e la morte, è stato operato. Gli hanno levato un polmone. Allora si è ritirato definitivamente in questo minuscolo due-camere-e-cucina. Sua moglie non viene più a trovarlo da tanto tempo.
— Viene sua figlia, tutti i giorni, dice Jérôme. Appena arriva, apre la finestra, e si mette a discutere rumorosamente, da sola. Si direbbe che parli al muro, a questo tramezzo qui, perché, come avrai visto anche tu, la voce di Trepaoli si sente di rado. Cucina sempre lo stesso sugo a base di aglio e basilico, che provoca negli abitanti del palazzo fantasie di viaggi esotici nell’Italia meridionale. Dopo un po’, senza preavviso, se ne va con forti sbattimenti di porte e  un suo tipico rumorosissimo modo di scendere le escale…
— Mi sembra una sceneggiatura di Prévert. Lo conosci bene, meglio di me.
— Chi? Prévert o Trepaoli?
Non sopporto l’idea della morte in pubblico. D’altra parte non mi interessanto tutti quegli sforzi, così penosi, che si fanno sempre per allungare la vita dei poveri Cristi arrivati ormai al capolinea, odio sinceramente quelle ambulanze che li obbligan ad abbandonnare i loro mucchietti di piccole cose prive di senso (sempre le stesse per tutti), che però sono loro indispensabili. Tuttavia, questo tramezzo, che non ha niente da spartire con il muro spesso e  terribile del Castello d’If, che separava la cella di Edmond Dantes da quella dell’abate Faria. Questa barriera di cartapesta, moltiplicando le facoltà uditive fino all’esaltazione, ha creato, tra questi sconnosciuti e me, una sorta di promiscuità, imbarazzante ma confortevole. Certo, per salvare le apparenze, bisogna mantenere vivo un rumore di fondo, che lasci a ognuno, aldi qua o aldilà del muro, la sensazione di essere a casa propria..
Trepaoli non è credente. A undici anni, nel suo paesino delle Marche, lo avevano portato alla parrocchia. Di quelle messe e grembiuli ricamati da chierichetto, ha conservato l’abitudine di leggere con un’aria un po’ retorica, ma anche ironica, che lo aiuta a credere di avventurarsi in un labirinto di incontri positivi :
« E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando : e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei... »
Da qualche frase rivelatrice Trepaoli si accorge che Jérôme, intanto, sta provando a fare il ritratto ad Antonia:
— Ecco, te lo faccio vedere, ma sii indulgente. L’ho fatto con la penna, e così è più difficile.
— Questa… non mi somiglia affatto. Tu hai disegnato la signora che viene di nascosto da Trepaoli…
« Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio
E il naufragar m’è dolce in questo mare. »

Mezzanotte e 15.
— Ha finito, sussurra Antonia.
— Un po’ lugubre, questo infinito che va e viene attraverso le Alpi come un corridore ciclista…
— Oppure come un clandestino che attraversa questo tramezzo senza alcuna difficoltà.
— Vuoi dire che Leopardi abita in incognito da Trepaoli?
— Parliamo seriamente, Jérôme. Tu pensi che ci sia qualcun’altro oltre sua figlia, una qualsivoglia persona in carne ed ossa che venga a trovare Trepaoli ?

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Mezzanotte e 25.
— Ti rispondo a malincuore, Antonia.
— Lo so quello che stai passando, il mondo ti casca addosso.
— Avrei voluto sedermi con te davanti a un paesaggio misterioso al tramonto.
— Non hau fatto nulla per attirarmici. E sono io che ti ho fatto conoscere Leopardi. D’accordo, ci si può anche consolare con qualche verso immortale, come fa il nostro Trepaoli, ma…
La mente di Jérôme corre per un attimo alla scuola di lingue a due passi dalla metropolitana, dove d’ora in poi non si vedrà più comparire questa italiana così piena di entusiasmo.
— Domani, tu non ci sarai più, non risponderai più al telefono et io sarò fottuto!
— Esatto. Anch’io sarò fottuta. Ma preferisco concentrarmi su qualcosa di reale. Sopravviveremo a questo strappo, tu prima di me. Invece, questo signor…
— D’accordo. Visto che ti interessa tanto sapere se Trepaoli può contare sull’amore di qualcuno… incontro sua figlia per le scale, di tanto in tanto, raramente. Effettivamente, quella lì cambia talmente ogni volta, che non riesco a focalizzare la sua faccia nella mia memoria. La sola cosa che ricordo sono i suoi zoccoli un po’ consumati, e, soprattutto, l’odore di sugo che, dopo un giretto per il cortile, entra da questa finestra e va a ficcarsi sempre nello stesso angolo.
— Ma tu non pensi che al sugo! Il mondo crolla… a parte questo tramezzo, grazie a Dio… tutto sprofonda e tu ti perdi dietro a questo schifosissmino odore di pasta italiana riscaldata al microonde!
— E tu, allora? Nel momento più catastrofico della nostra vita, tu vuoi sapere se un’altra donna veniva a trovare Abelardo, se dunque Abelardo tradiva la povera Eloisa?

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Mezzanotte e 40
— Tu non ce l’hai questo problema, vero? Tu sei ben aldilà di questa frontiera tra l’essere stato e non esserlo più, tu puoi prenderti una donna, se vuoi, magari due…
Vorrei essere esentato dall’ascoltare. La testa è di nuovo leggera, la fronte è imperlata di sudore. Sono vicino vicino al mio baratro annunciato. Ma un filo rosso mi lega ancora a questa Arianna. Forse, un giorno, in un’altra vita, lei potrebbe condurmi fuori dal labirinto. Se ripenso ai primi tempi! Ero infastidito, se non proprio disturbato, dai rumori che mi piombavano addosso — tutti i martedì e giovedì pomeriggio — da questa stanza dove nessuno aveva mai abitato fino ad allora, per quanto ne potevo sapere. Avevo perfino chiesto a Marina di andare a protestare dalla proprietaria! Sì, i primi tempi, consideravo gli incastri di questa coppia in preda al fuoco della passione come una violenza, forse intenzionale, contro di me. Ma poi… Disprezzo e adoro nello stesso tempo questo giovane generoso e ingenuo. Mi piacerebbe poterlo chiamare «figlio mio». Che bella idea, un fratello più grande per la povera Marina! Con ciò, al posto suo, non lascerei andar via questa donna. Trouverei di sicuro il modo di tenerla sotto chiave. Ma, se dovessi farlo ora, non ne avrei i mezzi… E non posso comunque sapere cosa avrei fatto, al posto suo.
Antonia si alza. Jérôme si accorge che lei porta lo stesso zainetto nero del giorno in cui venne a iscriversi alla scuola di lingue.
La sua voce mi è ormai familiare, la riconoscerei dovunque. Posso dire di conoscerla, di vederla ! Vorrei potermi alzare, correre alla porta, chiederle di restare un momento sul pianerottolo per darmi il tempo di guardarla. Impossibile, non posso più muovermi…
— Te ne vais? Veramente?
Antonia fa un gesto circolare e si inchina. La stessa piroetta di D’Artagnan. Sulla soglia, già voltata verso le scale, chiede:
— Ma tu, l’hai mai visto in faccia, il signor Trepaoli?
Jérôme l’aveva incontrato molto raramente, perché il poveretto faticava parecchio a salire al secondo piano. Lo aveva visto pallido, sofferente, ma ache sorridente, amabile, perfino elegante, con il suo cachemire blù cielo… Un giorno, la sola volta che si erano parlati direttamente, Trepaoli, appoggiato al muro accanto al portone, gli aveva confidati molto serenamente il suo stato:
— Vivo sulla lama di un coltello o, se vogliamo, su una frontiera invisibile.

1,10.
Siamo ormai nel cuore della notte. L’ultima metropolitana è partita.

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Giardino di Malagar (Casa-museo di François Mauriac), 2006

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 10 mars 2013

TEXTE ORIGINAL EN FRANÇAIS : http://wp.me/p2Wcn6-nA

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Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 3/4 (pit n.21)

09 samedi Mar 2013

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Jerôme, Parigi

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Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 3/4 (pit n.21)
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21,42.
Dopo alcuni minuti di silenzio assoluto, nel preciso momento in cui il cielo diventa nero, Antonia afferra la maniglia della porta, energicamente.
— Non ti faccio passare.
— Jérôme, non fare stupidaggini…
Si sentono i contraccolpi di una lotta rabbiosa, silenziosa. Ma questi due non hanno il coraggio di farsi veramente male!
— Basta, Jérôme! Chi sei, tu? Uno sconosciuto. Avevi ragione, sei un farabutto, un vigliacco…
Dio mio, che succede? Fracasso dappertutto, senza regole, punteggiato da urla, sbattimenti di porte — quella dell’appartamento e dello stanzino —, rumore di oggetti che cadono a terra. Chiunque può sentire, dal pianerottolo fino al palazzo di fronte. Che ora è? L’ora della caduta nel baratro. Sento Antonia gemere. E io comincio a tremare. L’asimmetria del mio torace si aggrava.

22.
— Ma, che state facendo? Lo sapete che ora è? Volete costringermi a chiamare la polizia?
La portiera, dal cortile, ha lanciato un avvertimento. Per un attimo ho risentito dell’assenza del telefono, che però non farebbe altro che aggiungere confusione al mio stato già critico. Ora sono del tutto privo di forze, gelato di sudore. Raggiungo faticosamente il bordo del letto (lato finestra), poi faccio scivolare il braccio verso la moquette e mi sforzo di ficcare la mano in quest’ammasso di oggetti senza personalità intasati sotto il letto. La valigia, con il suo carico più unico che raro, è ancora lì? Sì, c’è, sono riuscito a sfiorarla con la punta delle dita. D’altronde, fino a che io non ci sarò più, nessuno avrà voglia di tirarla fuori o di gettarla nel cassonetto.

22,15.
Una voce sconosciuta perfora il muro come farebbe un coltello con il burro. Ma lo conosco, questo-qui? Ah, è lui! Sta leggendo :
— Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
— Tu non sai nulla di questo immenso poeta, dice Antonia, irritata.
— Ma li terrò sempre qui, nel mio cuore… i tuoi occhi ridenti et fuggitivi.
— Comunque, tra noi due, non sono certo io la fuggitiva!
Riconosco lo stridio del letto — Jérôme deve essersi alzato — e, subito dopo, il rumore inconfondibile della mezza finestra, seguito dall’esplosione dei rumori tipici del cortile. E questa musica? È la nipote della portiera, che si esercita su un pianoforte scordato. Anche di notte. Ma… è per proteggere il suo lavoro che la signora Martins ha minacciato di chiamare la polizia? Jérôme continua a fare rumore, per coprire il proprio imbarazzo e risalire la china. Antonia, invece, non parla. La immagino in ritirata, rattrappita in un angolo lontano del letto, concentrata nella rassegna dei suoi lividi come se fossero altrettanti soldati feriti in battaglia.
— Ho sempre amato questa ringhiera, è la sola cosa graziosa, qua dentro. Per me è come la siepe dell’infinito di Leopardi.
— Il momento giusto è passato. Te lo sei fatto scappare. Scendiamo nella notte, ormai.
— Tu resterai sempre italiana e io… parigino?
— Malgrado le tue radici a Montpellier, potrai diventare parigino, un giorno. Io, essendo un’autentica marchigiana, molto probabilmente lo resterò. Del resto questa parola, “marchigiana” tu non riuscirai mai a pronunciarla.
— Hai ragione: l’infinito di Leopardi non ha niente a che fare con l’infinito di Baudelaire.
— “L’immaginazione si sposa positivamente con l’infinito”. Come sono studiosa!
Ecco una delle loro conversazioni abituali che prende il sopravvento. Si sono conosciuti così, in una scuola di lingue… È banale!
In questo preciso istante, Trepaoli tossisce, prima in sordina, poi rumorosamente, assalito da un singhiozzo violento. La pasta con la besciamella che Marina gli ha cucinato gli risale alla bocca.

22,40.
Dall’altra parte del muro, Jérôme e Antonia si guardano negli occhi:
— Si sente tutto quello che succede da Trepaoli, dice Jérôme, fingendosi meravigliato. Anche il battito d’ali di una mosca. È proprio un muro di carta !
— Allora ha sentito tutto, osserva seriamente Antonia.
— Chissà, magari si è divertito con la nostra disputa sull’infinito!
— L’infinito, chissenefrega, ha sentito tutto, prima…
— Mi sembra che stia male, in questo momento. Non smette di tossire.
— E allora, che pensi di fare?
Con uno sforzo Trepaoli si siede sul letto, si alza e si dirige verso la poltrona di velluto. Prima di accomodarcisi, accende il vecchio gira-dischi. È la sola cosa, insieme all’antica edizione delle opere complete di Leopardi, che ha conservato con sé al momento della separazione da Hélène.
Nella stanza gemella, mentre la canzone “Non lasciarmi, Non lasciarmi” esplode a tutto volume, Antonia si è completamente rivestita ed è pronta a uscire per avvertire la portiera. Esita un momento, poi inforca un paio di anacronistici occhiali da sole stile anni 50 che tiene sempre nella borsa a sacco. Servono a nascondere i lividi.
— Lèvati gli occhiali, la notte avanza e tu non vedresti nulla. Lo senti? Ha messo la canzone di Brel per tranquillizzarci. Puoi restare.

23.
La musica sembra inarrestabile. Possono anche costatare che sono ancora vivo, poiché cambio regolarmente il disco.
— Allora, tu non hai alcun rimpianto?
— Sì, io rimpiango, rimpiangerò sempre, ma posso sopravvivere, perché non mi aspetto più niente.
— Tu mi fai paura.
— Intanto, Trepaoli ci lancia dei segnali. È la terza volta che mette la stessa canzone.

23,10.
—… Sta confessando che ci spia. In ogni caso non lo nasconde!
In fin dei conti, loro sanno da tanto tempo che io sto qui, che li ascolto. E loro hanno sempre parlato, senza mostrare di preoccuparsene, anche a voce alta.
— Si è affezionato…
— È soprattutto lui che non vuole essere lasciato… Ma che ti succede, Antonia? Sei talmente pallida… Pensi che Trepaoli stia morendo?
— Mi domando se esiste qualcuno che gli vuole veramente bene.
— Io non so quasi niente di lui. Credo che abbia degli amici, forse tra i clienti del bar. Ma ho l’impressione che sia diventato diffidente, negli ultimi tempi…
— Quando ero giù, in quel bar tristanzuolo della via Poissonnière, ho sentito parlare di una Dama bianca. Chissà, forse c’è una suora che va a trovarlo la notte, quando la metropolitana si ferma…
— Perché nasconde con tanta precisione la sua vita privata?
— È un uomo discreto.

002_malagar amori 740

23,20.
Dalla mattina alla sera, ho lasciato l’appartamento sul viale, per vivere da solo qui, a via della Luna. Il primo anno, ho provato un sentimento di spensieratezza, preso com’ero da quel piccolo slancio di fiducia che viene sempre quando ci si trasferisce in un palazzo più vecchio, pieno di tubi rotti e di voci misteriose. Hélène e Marina, anche loro coinvolte da questa novità, venivano spesso a trovarmi. Io imparavo piano piano a prepararmi dei piatti. Avevo comprato un surgelatore, un forno a microonde… Una volta io le invitai e fu molto gradevole, anche se eravamo tutti imbarazzati. I primi tempi, passeggiavo molto. Tutte le mattine, uscivo presto, sotto l’impulso di una strana euforia, con una vecchia pianta di Parigi sottobraccio. Divoravo con gli occhi e le gambe queste città di cui non avevo, fino allora, sospettato i tesori. Sì, è vero, negli anni ‘60 e ‘70, per tenermi in forma, l’avevo percorsa in lungo e in largo in bicicletta. Ma non era la stessa cosa. E poi, avevo dimenticato tutto. Mi proponevo ogni giorno un percorso più azzardato, frontiere sempre più lontane. Quando tornavo a casa, la sera, mi lasciavo cadere nella poltrona, e restavo seduto lì per delle ore, senza mangiare né accendere il vecchio lampadario dipinto. Dalla mattina alla sera, non aprivo mai la finestra. Nel mio appartamento di bambola, preferivo la debole luce del paralume decorato con i fiordalisi. Leggevo un solo libro, ormai, i “Canti” di Leopardi. Non facevo altro che guardare il libro, aprirlo e richiuderlo, come farebbe chi cambia sempre canale quando guarda la televisione. Inutile dire che non avevo mai voluto la televisione, da me. Ero contento così. Mi preparavo a morire nel modo migliore possibile, a prendere il volo senza troppa zavorra da gettare all’ultimo minuto. Tuttavia, un giorno, qualcosa è cambiato. Leggendo per l’ennesima volta il mio unico testo, la mia Bibbia poetica, ho cominciato a capire… la relatività dell’infinito. Mi sono reso conto del potere immenso della poesia, che può afferrare l’infinito, rendere accettabile la morte, fornendoci anche gli strumenti per difenderci da noi stessi. Per la prima volta nella vita, cominciai a frequentare una biblioteca. La notte, vivevo qui, in questa specie di pensionato… Di giorno, il mio quartiere d’elezione era Saint-Médard, un’isola felice di libertà. Poi, piano piano…
Si ferma per cambiare il disco. Nella scarsissima luce, riconosce immediatamente la copertina delle “Foglie morte”. La voce di Yves Montand riempie la stanza di Trepaoli e dilaga in quella del giovane professore.
Un inno alla vita. Chissà se la passeranno insieme, questa vita che è sempre il contrario di quello che ci si aspetta? Chissà se ancora una volta il mare cancellerà “sulla sabbia i passi degli amanti divisi”? Sì, lo confesso, ero felice, ma mi lasciavo prendere da una felicità di cui avevo vergogna. È vero che ogni traversata di Parigi finiva sempre in via Daubenton, proprio al momento della pausa pranzo. Ma nessuno poteva immaginare che, nel mio stato, io potessi aspirare alle gioie del corpo. Perché mi si poteva perdonare tutto, ma non l’amore. Del resto, non avevo forse abbandonato il mio tetto coniugale per una dolorosa e insopportabile mancanza di efficienza amorosa? Hélène non ci avrebbe certo pensato. Lei aveva rispettato, in uno slancio di generosità, questo mio allontanamento, che si era trasformato, col tempo, in una rottura. Lei ne aveva molto sofferto. Ma più tardi, la sua facilità a dimenticare, la sua inclinazione forsennata per le letture più disimpegnate l’aveva aiutata a seppellire tutto sotto lo strato arlecchino del vecchio plaid delle nostre scappatelle di una volta. Le prime volte che andavo in questo piccolo bistrot sempre invaso da professori e studenti della facoltà di Lettere, ero tranquillo. Là, io passavo delle ore, gratificato da quell’insalata della casa e da quel bicchiere di Bordeaux che riuscivo a far durare tutto il tempo del pasto, tenuto in vita dall’interesse disinteressato che Marguerite, la padrona, mi riservava. D’altronde, nel mio quartiere, nessuno l’aveva mai vista avvicinarsi all’angolo della mia strada, suonare al citofono o salire le scale. Solo il cameriere del bar aveva dei sospetti…

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 8 mars 2013

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Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 2/4 (pit n.20)

08 vendredi Mar 2013

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente di una tavola, racconti

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Jerôme

001_donna che saluta_luminosa_740 Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 2/4 (pit n.20).
episodio_1 episodio_3

19,45.
— Però, ci siamo amati veramente…
Antonia non risponde.
— Non sono capace di vederti senza saltarti addosso.
— Se vuoi, possiamo essere amici.
— Un’amicizia amorosa…
— No. Un’amicizia e basta.
— Una cosa simile, sarebbe impossibile, per me. Lo sai…

20.
Sparito il rumorino della pioggia, sento dei colpi. In questa vera e propria bagarre, ho quasi l’impressione che Jérôme voglia imprigionare Antonia nelle sue braccia, sotto il suo peso. Ma lei resiste, batte le mani, si getta fuori dal letto.
— Ascolta, dobbiamo smettere di vederci. Io lo sapevo. Ritiro la mia proposta di amicizia.
— Hai ragione. Sono un farabutto. L’hai detto, l’altro giorno.
— No, non credo, tu sei soltanto egoista…
— Che facciamo, allora?
— Oggi, sono venuta. Ma era l’ultima volta. Dopo, tu puoi riprendere la tua strada… verso il tuo caro infinito… pieno di persone que ti aspettano.
— Senza di te, non avrò mai la forza.

20,20.
Ho veramente avuto la forza di vivere, senza di lei? Non so più in quali divagazioni sto galleggiando. Le sensazioni e le emozioni improvvise si mescolano ai ricordi… Ma fatico a ricordarmi di Hélène, del suo volto, del suo corpo… Ho lasciato tutte quelle fotografie a Marina, dicendole che non le volevo, che in fondo non erano che zavorra… Anche quella di Hélène in costume da bagno, stesa sulla spiaggia di Civitanova. Per tanto tempo il solo ricordo di quel giorno — lei era, soprattutto, una straniera in vacanza — aveva avuto il potere inatteso di calmarmi.
Trepaoli chiude gli occhi e li riapre sul manubrio della sua bicicletta, sull’asfalto che scorreva sotto le sue gambe lisce… Quante montagne ha scalato così, naso-e-bocca a due centimetri dal fanale? Se avesse saputo scrivere — in questa indomabile lingua francese, accidentata e pericolosa come una strada dissestata —, se avesse avuto le capacità per spiegare tutto! Che idea assurda inseguire il tramonto del sole, ingaggiare una lotta frenetica per fermarne la caduta, correndo con tutte le sue forze spasmodiche verso ovest, mentre la terra, arrotolandosi con un rumore spaventoso, se ne allontana! Ora, nel suo ricordo quasi violento, la strada sfiora un grande lago svizzero, minacciato da nuvole nere. Il sole è ormai soltanto una linea accecante sull’orizzonte. In questo specchio increspato, la sagoma scura di Hélène sparisce sotto i suoi piedi, confondendosi con l’ombra della bicicletta in movimento. Non facevo alcuno sforzo, una corda robusta mi calamitava verso di te!

20,30.
— Ho deciso di tornare a Macerata. Là, ritroverò il mio posto alla biblioteca. Mi spetta di diritto.
— Ma tu avevi deciso di sistemarti qui! Hai fatto dei grandi progressi in francese, ti resta solo un piccolissimo accento…
— Ti sei dimenticato quante volte mi hai trattata da povera idiota?
— Ma tu stai lasciando il tuo professore di francese…

20 h 40.
Trepaoli attende inutilmente un seguito dopo queste ultime parole. I due amanti si consolano, si calmano un po’, giusto per fermare il caravanserraglio di emozioni violente e contraddittorie che da un momento all’altro potrebbero trasportarli nell’entusiasmo o renderli immobili di dolore.
Trepaoli ha seguito, sin dall’inizio, tutte le svolte di questa storia d’amore impossibile. È per questo che la sua tosse si calma e gli ritorna il respiro quando Jérôme, questo professorino (meno ostinato che smarrito) parla, racconta e si perde nei suoi sogni. Una leggera agitazione, invece, s’impadronisce di lui quando la voce ritmata di Antonia, questa alunna di età indecifrabile (sempre più disturbata) cerca di districarsi, col suo accento incancellabile, in mezzo al fumo delle loro sigarette. Perché tutti e due fumano. Molto. Continuamente. Lo si vede benissimo quando aprono la finestra per pochi secondi, alla fine dei loro incontri.
Uno scontro di lingue e parole mute, o invece una banale lotta di due gatti in amore? Ciò mi riguarda, stranamente. Forse ripercorro a ritroso gli ultimi anni, alla ricerca di qualcosa di simile accaduto a me. Ma ci sono mai stati, nella mia vita, degli alti-e-bassi così violenti? Che cosa mi è successo, esattamente? È vero, avevo avuto, nei confronti di Hélène, un comportamento nobile e orgoglioso, prendendo atto di quell’impedimento a vivere che non avrei potuto condividere a lungo con lei. Tre anni dopo, ho conosciuto Marguerite, una giovane vedova, proprietaria di un piccolo bistrot dietro il Panthéon. All’inizio, Marguerite non ha voluto che si parlasse di amore. Preferiva un’amicizia basata sul rispetto. Poi, ha deciso di occuparsi di me. Io ho accettato i suoi piccoli regali, piacevolmente stupito dal vigore fisico che risorgeva grazie a questa relazione. Da un lato, non volevo che venisse a stare con me, dall’altro, questo secondo unico amore della mia vita aveva fatto sparire tutti i miei impedimenti. Senza essere mai stato veramente malato, ero dunque guarito?

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Edward Hopper (1882-1967) : Chop Suey (1929)

21,10.
È passata una mezz’ora. Nel silenzio, Trepaoli dimentica forse questi due stranieri sprofondati nel sonno o nell’abbandono della serata appena cominciata. Ma sente avvicinarsi nuove minacce…
— È troppo facile, Jérôme !
— Che debbo fare, allora?
— Se veramente mi vuoi, ecco qua, prendimi. Tutta intera. Perché io ti voglio interamente per me.
Lui esita. Lei deve essere di una bellezza incredibile.
— Non voglio più condividerti con un’altra, capito?
— Ma Antonia…
—Tu hai due figli, no?
Lui è bloccato nel marmo, come Mosè prima che Michelangelo lo tirasse fuori.
— Che fai?
— Me ne vado.
— Non puoi uscire così, senza gonna né camicia.
— Non mi fa nessuna paura!
— Tieni, ti restituisco i tuoi vestiti, sei libera!

21,30.
Come qui da me, vicino al letto, in un angolo della stanza oltre il muro, c’è uno stanzino dove il proprietario ha fatto mettere una doccia. Sento appena il suo fruscio particolare, che forse non si ripeterà mai più. Questa doccia, questa cosa in fondo banale, sta suonando… la rottura. Ora, grazie a questa donna coraggiosa e quasi sfrontata, diventa il centro di gravità… anche della mia vita. In mezzo agli scoppiettii e al silenzio che la circonda come un’ombra scura, io indovino la sua andatura, la sua pelle matura, la sua capigliatura. Tutto il resto diventa spazzatura…

003_thérèse 1 antique 740 Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 8 mars 2013

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Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 1/4 (pit n.19)

07 jeudi Mar 2013

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente di una tavola, racconti

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Jerôme

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Cara Catherine,
Il mio ritratto incosciente si moltiplica e si complica, a quanto pare. In verità mi ha lui stesso, il ritratto, un po’ troppo scombussolato con suggestioni e digressioni che mi hanno indotto : innanzitutto a abbandonare mio nonno per parlare di Pascoli ; poi ad abbandonare Pascoli e suo padre, giusto alle soglie della Repubblica romana del 1849, per tornare indietro al Leopardi di Recanati e finalmente a Foscolo, disperato come Aiace davanti al paesaggio aspro e doloroso degli Appennini. Nel mio viaggio a ritroso, ero ormai risalito alla Repubblica cisalpina del 1797…
D’altronde, Catherine, non si chiama forse ritratto incosciente? Se da una parte è difficile controllare un «incosciente», dall’altra è difficile sottomettere il «ritratto» a regole diverse da quelle dell’ispirazione. In più, questo ritratto incosciente si sviluppa all’interno di un blog che qualcuno legge un giorno sì uno no. Un ritratto vivente, che va precisando man mano la sua personalità.
Ci sono state anche delle coincidenze. Non soltanto coincidenze esterne, come la pubblicazione su publie.net dell’ultimo lavoro di Isabelle Pariente-Butterlin, «L’infini», che ho scoperto proprio il giorno dell’uscita della 18a puntata di questo «ritratto di una tavola» dedicata all’infinito del Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. C’è stata anche l’esperienza dei «vasi comunicanti» di marzo con Élisabeth_Chamontin. Un incontro molto positivo, almeno per me. Io la seguivo su Twitter e avevo molto apprezzato un racconto a sorpresa che la Chamontin aveva scritto a proposito di un muro e di una bicicletta.
Questo muro è arrivato al momento giusto, incontrandosi col nostro desiderio di parlare della traduzione e, attraverso la traduzione, della complessità dei rapporti tra le lingue, in particolare tra il francese e l’italiano, e vice versa. Dunque, abbiamo deciso di scambiarci testi imperniati sul tema del muro-frontiera. Un muro che unisce e separa due mondi che hanno tra l’altro molti punti in comune tra loro. Un muro divisorio, un tramezzo.
Sarei rientrato diligentemente nel mio antico impegno, ritrovando Foscolo e la sua idea molto attuale della morte e dell’eternità, oppure avrei parlato, finalmente, di un altro grande esule, Giuseppe Mazzini — il principale protagonista della Repubblica romana, nonché vero padre della patria italiana —, se a un tratto non mi fossi ricordato, mia cara Catherine, di quel racconto che avevo scritto tre anni dopo il mio arrivo a Parigi. Ti ricordi il titolo, Il tramezzo e l’infinito?
C’è una specie di magia, che guida le mie mani, anzi le mie dita sulla tastiera del computer. Questo racconto parla di un muro divisorio, di un balconcino, di una ringhiera, del piccolo infinito di un cortile parigino e del grande infinito imperscrutabile di Leopardi. E uno dei protagonisti… è venuto dall’Italia in bicicletta, superando tantissimi muri!
Ti chiedo dunque di avere ancora un po’ di pazienza. Infatti, dopo la piccola digressione, non ancora conclusa, sull’infinito e sulle infinite ringhiere possibili, questo messa in scena sul tema dell’infinito contribuirà, credo, alla coerenza finale del quadro. Dopo le quattro puntate di questa piccola tragedia, ritorneremo alla nostra appassionante routine.
Ciao, ti abbraccio
G.

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Il tramezzo e l’infinito 1/4 (2011)
episodio_2 episodio_3

22 luglio 2011, ore 17,30.
Un banale tramezzo separa due testate di letto assai malridotte e due camere analogamente sordide. Da un lato di questo muro divisorio, nella stanza più buia, abita da anni un italiano, ex corridore ciclista di salute sofferente e afflitto da vari disturbi. Dall’altro lato, nella stanza che invece beneficia di un pigro e impietoso raggio di sole, si trova di tanto in tanto un francese del sud di una quarantina d’anni, professore di lingue. Ambedue i confinanti sono a terra, schiacciati sotto il peso di pensieri sempre più difficili.
Se il giovane professore si volta sulla sua sinistra, aldilà dell’esigua tavola di legno sovraccarica di pennelli e di tele arrotolate, vede la sua lunga finestra chiusa, circondata da un alone giallo o rosa denotante la piccola contrarietà del sole di fronte all’obbligo di dover tramontare. Durante questi lunghi pomeriggi silenziosi, quando va a chiudersi in questa stanza, non è sicuro di avere il tempo di godersi un pò, da solo, quest’arietta incostante che si diverte a cambiare velocità, a frugare negli angoli più reconditi per cogliervi gli odori, buoni o cattivi e le rare voci. Egli ama moltissimo questo balcone di ferro battuto che avrebbe però bisogno di qualche mano di vernice. Gli piace affacciarsi, guardare attentamente le finestre del cortile, perdendosi alla fine nel piccolo rettangolo dove l’infilata dei palazzi si interrompe e si può indovinare, dietro la grande magnolia, la confusione del viale.
Aldilà del muro, il vicino può sentire benissimo i suoi movimenti maldestri, lo stridio dei cavalletti e il rumore tipico della barra di ferro, che anche oggi deve sollevare, per sbloccare la sua metà di portafinestra.
Subito dopo, il giovane professore si proietta nel vuoto del cortile dove la sua voce, il suo avambraccio e il telefonino restano sospesi.
— Sì, ti aspetto da tre ore. Riesco benissimo ad ammazzare il tempo, ma… perché non vieni?
Attraversato da impulsi prevedibili e improvvisi, sprofonda in una leggera angoscia. Niente gli impedirebbe di riflettere in modo serio e appropriato a tutto ciò che si offre alla sua vista : alla gerarchia delle sporgenze e rientranze (condannate dall’ombra o ancora protette dal sole) che sprofondano nel suo sguardo. La sua testa è altrove. Dopo aver richiuso un po’ bruscamente la finestra, egli scarabocchia una frase su un pezzo di carta: “Mio padre aveva ragione, io sono un delinquente”.
Nel silenzio di quest’ora “che volge al desio e ai naviganti intenerisce il core”, il vecchio ciclista, seduto al centro del suo letto sgangherato, deve voltarsi invece sulla destra, se vuole vedere cosa succede aldilà della sua mezza finestra. Ma resta immobile. Non ha fretta, ha tutto il tempo per riflettere al firmamento di ricordi e di sogni che volteggiano alle sue spalle, in casa del professore.
Respira a fatica. Sua figlia Marina è salita, ha riscaldato al forno a microonde la pasta al gratin che aveva cucinato a casa sua, obbligandolo a mangiare troppo presto, a un’ora più adatta a una leggera merenda. Rimasto solo, con lo stomaco dolorante, osserva il triangolo grigio sulla sua testa. Quando l’appartamento fu diviso in due, gli stucchi furono rifatti e un gancio munito di filo elettrico fu piazzato al centro del nuovo soffitto. No, non ha nessuna voglia di accendere la luce e nemmeno di aprire la finestra: Non vale la pena. Quando si comincia a morire, si ha diritto all’inerzia e all’immobilità.

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18,30.
Lassù, in quegli appartamenti del secondo piano che voltano le spalle a rue della Lune per affacciarsi sul grande cortile, queste finestre ostinatamente chiuse soffocano un pò i rumori del resto lontani del viale. Ma oggi sembra di galleggiare in un silenzio spettrale quando una voce femminile trapassa senza alcuna difficoltà il muro a cui si appoggia pesantemente la grossa testa dell’uomo anziano:
— Ecco, sono venuta… Sta per piovere.
— Era ora! Io ho la febbre.
— Mi dispiace, ma ti devo parlare…
— Attenzione, dice il giovane professore, abbassando la voce, il nostro vicino ci sente.
— E allora? Tanto meglio! Non mi fa né caldo né freddo.
— Fino a un certo punto.
— Comunque sia, questo… vicino, ha tali e tanti problemi, che non trova certo il tempo per occuparsi di noi due.

18,45.
Quello che fu un giorno campione non sente più nulla. I due amanti, in un grido soffocato, sono caduti sul letto. Crede di riconoscere i rumori della sua infanzia, quando, nella grande casa nelle Marche, si spostavano i mobili oppure delle persone di fatica portavano dentro la farina e l’olio per sistemarli in cantina. In quest’onda sinuosa, che gli sfiora la nuca come una carezza, sente le loro frasi spezzate e solitarie perdersi in una invisibile nuvola di fumo.

19,00.
— Ma guarda, piove!
— Ho saputo un sacco di cose sul tuo vicino!
— Cosa?
— Ha traversato l’Italia e la Francia in bicicletta. Per amore!
— Si chiama Trepaoli, dice lui gravemente. Cinque anni fa, dall’oggi al domani, si è strappato dalla famiglia.
— Non so perché, ma questo Trepaoli mi incuriosisce.
— Vuoi conoscerlo? Suona alla sua porta. Ti aprirà.
— Vorrei solo sapere cosa pensa di noi. E parlargli un pò di quello che ho sentito giù al bar, prima di salire.
— Qualcuno ti ha parlato?
— Non direttamente. Erano in quattro, in un angolo, c’era una donna. Mi hanno sicuramente riconosciuta. Io bevevo il mio tè, non mi decidevo a venire…

19,15.
Dopo due o tre minuti di silenzio, sento di nuovo la voce del giovane professore. È agitatissimo e non riesce a controllare la valanga di parole che gli spuntano sulle labbra.
— Dunque, non mi ami? Perché allora mi fai credere il contrario?
— Perché riporti sempre tutto all’amore, a questo benedetto amore?
— Ho capito, tu sei arrabbiata con me…
— No, io non sono arrabbiata, e nemmeno offesa. È che non ce la faccio… non ce la faccio più!
— E io, come faccio?
— Tu non sei nemmeno capace di dirlo: fac-cio, fac-cio.
— Tu sei bella, Antonia.
— Anche tu sei bello, Jérôme. Ma è inutile cincischiare… È finita!
È proprio un’italiana… È strano che non me ne sia mai accorto fino ad ora… Antonia! Ha detto «è finita» una sola volta. Ma è come se continuasse a dirlo, ininterrottamente, anche adesso che non parla.
— Tu vuoi la rottura? È così?

19,30.
Questo Jérôme è decisamente straordinario. Vuole sentirla dire : Sì, io rompo ! Tremo a questa parola che da chissà quanto tempo giace in un angolo del mio diario segreto. Rottura fa rima con avventura, frattura, ingessatura… Ed è certo una parola che non rassicura… Fu di luglio, la mia personale rottura si è svolta in modo del tutto differente se non opposto. All’inizio, fui io a tagliare il cordone ombelicale. Nell’incidente che ha segnato le mia vita… avevo perduto certe facoltà vitali di cui non si apprezza mai abbastanza l’esistenza. Io ho dovuto abbandonare la bicicletta… ma, poco a poco, ho ritrovato il respiro, poi il pieno uso delle mani e la scioltezza del passo. Tuttavia, avevo perduto, insieme alle forze, tutti i tipi d’appetito, come il desiderio amoroso… Sì, ero diventato una larva. Una larva amata certo, benvoluta e rispettata anche, ma pur sempre una larva. Ogni tanto, cercavo di avvicinarmi ad Hélène, ma sbagliavo sempre il momento… Cominciai a pensare che quella parte essenziale di me non si sarebbe più espressa. Un’ultima volta, provai con lei, ma fu un disastro. Hélène non si era mostrata né stupita né delusa: avevo avuto un terribile incidente, dunque era una cosa normale! Protestai che invece non c’era niente di normale. Avevo perso la mia spontaneità, era come il povero Abelardo ma non potevo mettere Hélène sotto chiave in un convento. Non ne esistono più, del resto! Quel giorno, io ho varcato per l’ultima volta la soglia del mio appartamento di viale Voltaire.

Giovanni Merloni

«Potrebbe esserci virtù senza l’immaginazione?» (Baudelaire)

«Nonostante fosse molto ricco, l’artista viveva semplicemente, in una casa con giardino nel quartiere di Notting Hill, dove aveva anche il suo atelier, al primo piano. L’artista, che non sopportava i vincoli della vita familiare, ha passato i suoi ultimi anni da celibe, avendo avuto due spose poi varie compagne successive, una decina di figli e nipoti.» (« Il pittore inglese Lucian Freud è morto » Le Monde 22.07.2011)

«Anche Trepaoli non sopportava i vincoli della vita familiare.»
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écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 7 mars 2013

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