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Le ceneri di Pasolini

04 dimanche Oct 2015

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Battaglia di Valle Giulia, Carlo Marx, Facoltà di Architettura, Giorgio Muratore, Herbert Marcuse, Italia, Pier Paolo Pasolini, Roma

001_paso 1 180 Le ceneri di Pasolini

Se scavo tra i miei ricordi degli anni ’60, ci trovo, molto prima della data del primo marzo 1968, molti episodi e circostanze che hanno contribuito all’avvio, nel mio paese, dei fenomeni politici e sociali del tutto inediti del biennio ’68-’69, i cosiddetti anni «caldi».
Si tratta talvolta di fatti a cui ho assistito in prima persona, come l’occupazione della Sapienza a Roma in aprile-maggio 1966, a seguito dell’omicidio, davanti alla facoltà di lettere, dello studente Paolo Rossi. Già quella fu una prova, e non la prima, di una tensione crescente, che durava da molto tempo, tra le istituzioni universitarie, sorde e ostili ad ogni richiesta di modernizzazione, e gli studenti, sempre più preoccupati per il loro inserimento lavorativo. Quel l’occupazione fu, per noi studenti, la svolta della piena e definitiva presa di coscienza: d’ora in poi, dovevamo tutti impegnarci, farci carico di un confronto politico che andava al di là delle nostre piccole beghe universitarie.
In ogni caso, per il cambiamento tanto atteso, bisognava che scattasse qualcosa di nuovo e di diverso. Questo scatto avvenne con la giornata del primo marzo 1968, segnata dagli scontri tra poliziotti e studenti proprio davanti alla facoltà di architettura a Valle Giulia a Roma. Una vera e propria «battaglia» che diede luogo a sua volta all’esplosione di un fenomeno che andava ben oltre ciò che si era immaginato alla vigilia. Un fenomeno, chiamato sinteticamente «il ’68», che ha toccato le nostre esistenze nel vivo, mettendo una forte ipoteca sui successivi sviluppi della vita politica in Italia.

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Nella mia recente lettera a Giorgio Muratore, avevo ricordato un episodio occorsomi durante un’assemblea degli studenti, nell’aula magna della Facoltà, qualche giorno dopo la battaglia, allo scopo di svolgere, nei successivi articoli, una riflessione sulla nostra esperienza comune — in libro-progetto intitolato «Diritto alla città» che condividemmo con altri compagni — alla luce degli impegni che ognuno di noi ha poi assunto, come il mio lavoro di urbanista presso la regione Emilia-Romagna a Bologna.
Une fase della mia vita bruscamente interrotta, in un contesto, quello di Bologna, che per forza di cose si è modificato nel tempo e comunque rappresenta, per me, la prova che certe realizzazioni molto positive sono esistite e hanno resistito a lungo. Nello stesso tempo, non posso ignorare che c’è stato un momento in cui il nostro paese ha smesso di progredire, un’ora «x» dopo la quale si assiste allo spreco delle energie e del patrimonio culturale e professionale della nostra generazione (e delle successive) fino a ridursi ad un impressionante «analfabetismo di ritorno», una vera e propria rottura nel circolo virtuoso del progresso civile e culturale. Fatto inatteso è incredibile per un paese come l’Italia, che fu per tanto tempo additata come un esempio di equilibrio e di progresso.
Tutto ciò mi addolora enormemente, tanto più che in questa regressione vedo il riflesso di una serie infinita di passi indietro con cui si deve avere a che fare da quando la corruzione ha preso il sopravvento in Italia. Una corruzione, o decadenza o degenerazione che attraversa ormai tutto il paese ed ha senza dubbio delle ragioni profonde e lontane, che meriterebbero di essere studiate a fondo. Un impegno che, per motivi di spazio e di tempo, non posso assumere in questo momento, anche se alcuni elementi per una simile analisi potrebbero facilmente scaturire da quello che ho visto e vissuto direttamente nel corso degli anni.
Del resto nel mio blog ho deciso di limitarmi soprattutto agli aspetti estetici o specifici dell’attività degli artisti, degli architetti o degli urbanisti che sono inevitabilmente sfiorati da tali trasformazioni e regressioni.
Comunque, prima di «saltare» al tema specifico dell’urbanistica e parlare del libro collettivo sul «diritto alla città», in una delle prossime pubblicazioni del «ritratto incosciente» mi soffermerò sulla famosa «battaglia di Valle Giulia».

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Oggi, dopo aver letto e riletto molte volte «Il PCI ai giovani», poema che Pier Paolo Pasolini indirizzò ai capi del movimento studentesco all’indomani degli scontri, ho deciso di tradurlo in francese, proponendolo per una lettura che si rivelerà, credo, tanto interessante quanto indispensabile.
Questo poema di Pasolini contiene molte premonizioni. La polemica sui poliziotti — nei quali egli vede soprattutto dei figli di famiglie povere e emarginate — è ben nota. Questa polemica corrisponde peraltro alla sua peculiare tematica filosofica e poetica. Totalmente in controtendenza rispetto al mondo della politica come a quello della cultura, Pasolini si rivendica «antiborghese», alimentando i suoi capolavori di una visione, sempre originale e efficace, in cui il realismo si sposa a una ideologia della catarsi e della vittoria morale del bene sul male e del bello sul brutto, anche nelle situazioni più difficili e dolorose.
Pier Paolo Pasolini ha perfettamente ragione quando dice che è sbagliato confondere i poliziotti con la polizia. Ha ragione anche quando afferma che la polizia che interviene in una università non è la stessa polizia che fa irruzione in una fabbrica occupata.
E, di sicuro, il grande poeta e regista cinematografico ha ragione quando rileva nel movimento studentesco del ’68 un fondo di anticomunismo, di delusione o di diffidenza nei confronti di questo Partito fino ad allora indiscusso e carismatico.
Si trattava in ogni caso di un anticomunismo all’italiana, dove «il nemico PCI» era, come evidenzia Pasolini, un partito «di opposizione» che rispettava scrupolosamente le regole del sistema parlamentare di cui era, tra l’altro, il principale pilastro. Un partito che aveva sempre cercato, anche nei momenti più drammatici, di «non accettare le provocazioni», evitando con cura di affrontare la polizia durante le sue manifestazioni…
Dunque, al di là dello choc emotivo che provocano le parole aspre e sincere di Pasolini, non si può che aderire al fondo di quello che l’autore delle «ceneri di Gramsci» coraggiosamente dichiara o, per meglio dire, proclama.
Eppure, rileggendo questo testo quarant’anni dopo la scomparsa violenta del suo Autore, devo confessare di avere provato una profonda angoscia. Perché Pasolini, dopo aver consigliato a questi giovani «disorientati» di integrarsi attivamente nel più grande partito della sinistra — che poteva vantarsi di una lunga tradizione di lotte e di conquiste sociali e culturali — ha poi, da un momento all’altro, rivelato la sua tentazione personale di abbandonare la propria fede irriducibile nella rivoluzione, per aderire d’allora in poi a questa «moda» della guerra civile?
Tutti sanno che Pasolini è stato sempre al di fuori di tali logiche, pur avendo maturato nel tempo, interiormente e nelle sue opere straordinarie, una visione via via più pessimista delle derive probabili che il nostro paese stava per traversare. La sua visione, vicina a quella di Gandhi o di Anna Arendht, molto più che a quella di Herbert Marcuse, il filosofo amato dagli studenti del ’68, si collega d’altra parte all’idea di Gramsci di una interpretazione del verbo di Carlo Marx il più possibile coerente alla realtà italiana e alle sue molteplici anime e culture. Inoltre, grazie alla sua sensibilità a fior di pelle, Pasolini intuiva il «gioco pericoloso» che poteva scaturire dallo spirito guerriero degli studenti che avevano partecipato ai fatti di Valle Giulia.
E aveva anche colto la debolezza del pachiderma: questo partito comunista che non aveva saputo né probabilmente voluto aprire ai giovani, rinnovandosi come i tempi esigevano.
Tragicamente, nel finale disperato del messaggio pubblicato di seguito, la sfiducia di Pasolini nei confronti della capacità del PCI di assumere fino in fondo le sue responsabilità è perfino più forte del suo odio per i borghesi, suoi eterni nemici.
All’indomani della battaglia di Valle Giulia e delle manifestazioni che seguirono, l’estrema destra delle bombe e dei colpi di Stato non fu più sola a minacciare dall’esterno la nostra repubblica parlamentare e il suo precario equilibrio. Dopo una fase di euforia imprudente, caratterizzata da una gigantesca mescolanza di generi, si presentarono sulla scena nuovi soggetti «a sinistra della sinistra». Avevano forse l’illusione di «risolvere tutto» e «tutto capire» come «I Giusti» di Albert Camus ? O invece, come dice Pasolini, volevano accedere al potere tout court, attraverso qualche scorciatoia?

Giovanni Merloni

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Il PCI ai giovani!
La poesia dell’autore delle “ceneri di Gramsci”. I versi di Pier Paolo Pasolini sugli scontri di Valle Giulia che hanno scatenato dure repliche fra gli studenti, La Repubblica, 16 giugno 1968

Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.

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Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da sub-utopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.

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E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.

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A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
si tratta di una lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.

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Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino,
a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il movimento studentesco (?)
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
il teppismo conformista del fratello maggiore
(naturalmente avviato per la strada del padre),
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine anche se già lontane.
Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione
al potere.

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Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti,
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.

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E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi
un giovane operaio di occupare una fabbrica
senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli,
ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi
a dei giovani operai perché possano occupare,
insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.
È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza
(che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati)
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.

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Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama
vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud):
quindi, i Maestri
– che sapranno sempre di essere Maestri –
non saranno mai Maestri: né Gui né voi
riuscirete mai a fare dei Maestri.
I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti)
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, cari! Ecco,
gli Americani, vostri odorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione
del Times e del Tempo).
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale,
“più a sinistra”. Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante ereticale
ma sulla base del più basso idioma referenziale
dei sociologi senza ideologia.

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Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto (da bravi figli borghesi):
una serie di improrogabili riforme
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
e il rinnovamento di un organismo statale. I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica
borghese (con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco)
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.
Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
la noia di un’azione rivoluzionaria vera.

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Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci
del Comitato Centrale: Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…
Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!

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Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità…
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.
Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?

Pier Paolo Pasolini

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TESTO IN FRANCESE

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore (1)

01 jeudi Oct 2015

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Bologna, Emilia-Romagna, Facoltà di Architettura, Giorgio Muratore, Roma

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ASCANI Maurizio, BARBERA Luigi Maria (Mario), FIORE (Francesco Paolo), GERBINO Renato, MARCHITELLI Antonio, MERLONI Giovanni, MURATORE Giorgio, NATOLI Marina, SARACENO Andrea, QUADERNO N. UNO

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore

Caro Giorgio,
ognuno di noi, ognuno di quelli «che hanno cercato di fare qualcosa » dovrebbe spiegare le radici e le cause profonde della sua «indignazione».
Forse, nonostante le molteplici affinità elettive che ci rendono fratelli o cugini, non abbiamo esattamente le stesse idiosincrasie, le stesse rabbie per le stesse offese all’occhio e allo stomaco, all’estetica e alla morale, voglio dire.
Forse, nel tempo, le nostre rispettive battaglie sono diventate più specialistiche o si sono trovate per forza di cose imprigionate in contesti più circoscritti o comunque diversi e lontani uno dall’altro.
Certo, dopo un percorso comune, le nostre vite si sono separate. Non solo per il fatto che a due anni dalla laurea, inaugurando una nuova ondata di architetti romani emigranti a Bologna (di cui hanno fatto parte, tra gli altri, Giuseppe Manacorda, Pier Camillo Beccaria, Marco Peticca, Edoardo Pregher, Maurizio Ascani e Gian Piero Rossi) io avevo deciso di varcare gli Appennini per spezzare il cordone ombelicale con l’odiata-amata Roma, mentre tu hai fatto la scelta di restarvi, lottando, a Roma, dentro quella stessa facoltà di architettura, dando alle nuove generazioni un luminoso esempio di trasmissione democratica delle esperienze e del sapere.

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Ma io feci anche la scelta dell’urbanistica. Di quella «cosa» che da studenti avevamo guardato con sospetto, e criticato ferocemente come la principale responsabile della «non forma» delle nostre città.
Se apro, con circospezione — e paura di trovarvi chissà che — quel «libro», che volevamo intitolare «Diritto alla città», in cui riversammo le nostre speranze ma anche le nostre frustrazioni, mi rendo conto che forse, se dovessimo fare una sincera e utile autocritica, dovremmo partire proprio da lì.
Retrospettivamente, e in maniera sintetica, io vedo la nostra esperienza universitaria ipotecata da due fattori principali.
Il primo, certo il più importante nel cosiddetto «lungo periodo», è stato quello della grande svogliatezza della maggior parte dei nostri docenti e assistenti, a parte alcune luminose eccezioni, come giustamente fu l’esempio Maurizio Sacripanti, o la tenacia di Antonio Quistelli, o la serietà di Paolo Marconi e Vieri Quilici, per esempio. Alla base di tutto, con la dubbia giustificazione del numero (la nostra generazione, chiamata non a caso la generazione del baby boom, comportò, per la prima volta, l’iscrizione di 500 studenti al primo anno di Architettura) si è imposta, a danno dei futuri architettI dell’epoca, una irriducibile gelosia professionale, eccezion fatta per coloro che potevano rientrare, attraverso forme di cooptazione del tutto discrezionali, negli «atelier dei maestri».

Quindi, non si è «voluto» insegnare i segreti del mestiere di architetto alla stragrande maggioranza degli studenti e laureandi. Nel contempo, furono indicati loro degli obiettivi troppo vasti e difficili.

Non posso non ricordare Ludovico Quaroni con affetto e stima grandissima. Un uomo straordinario e carismatico che sapeva trasmettere grandi suggestioni. Sulla sua bocca e nei suoi gesti il «town design» prendeva corpo, sembrava una cosa abbordabile, a portata di mano. Ma come si fa a concepire il «town design», cioè il disegno preventivo e unitario di interi pezzi di città, ignorando o dimenticando l’urbanistica, ignorando o dimenticando che non possono essere le singole persone da sole a «risolvere tutto» con la loro bacchetta magica, se ce l’hanno?

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Il secondo fattore di disturbo, caduto circa a metà della nostra laboriosa e tormentata «auto-formazione» è stata l’esplosione, con il movimento del 1968, di una dimensione politica trascinante ma radicalizzante, che ci obbligò a riconsiderare, alla velocità del fulmine, tutte le nostre modeste certezze.
Il fenomeno dell’università «di massa», come si diceva allora, trovò nella cosiddetta «contestazione» una specie di falso alleato. Se l’università doveva far fronte a un cambiamento quantitativo nel rapporto professori/studenti e forse anche nei sistemi formativi, educativi e di avvio professionale, il movimento di allora predicava una rottura verticale e definitiva con il «sistema», andando molto al di là della giusta ipotesi dello svecchiamento e della lotta all’autoritarismo dietro cui si celava, senza dubbio, un’idea oscurantista, elitaria e antidemocratica della scuola e delle istituzioni culturali, come Pasolini stesso l’aveva sottolineato, all’indomani della « battaglia » di Valle Giulia nel suo poema « Il PCI ai giovani« . Invece di « uccidere il padre » per assumersi fino in fondo delle vere responsabilità, gli è stata tolta l’autorità formale, salvo approfittare delle risorse reali del padre stesso per sfruttare al massimo tutti i privilegi e vantaggi possibili e immaginabili.

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Insomma Giorgio, forse tu non ricordi che nel lontano 1968 presi una volta la parola, nell’aula magna gremita, per dire, sotto lo sguardo beffardo di Sergio Petruccioli, che avremmo potuto e dovuto approfittare di un’occasione. Ricordo che i nostri compagni di università mi ascoltavano molto attentamente, anche se io ero timidissimo e parlavo a scatti. Bisognava utilizzare quel provvisorio «potere», che il ’68 ci regalava, per dire la nostra, per «metterci intorno a un tavolo» con professori e assistenti e cercare di capire, insieme, cosa non andava nella nostra sgangherata facoltà, per cercare di impostare una didattica e una ricerca più coerenti con le nuove esigenze e soprattutto con l’esigenza di una vera democrazia. Non si usava, allora, la parola «trasparenza». Per quella abbiamo dovuto aspettare l’avvento del povero grand’uomo che è stato Michail Gorbaciov, ma, ne sono sicuro, nel mio timido intervento pensavo soprattutto alla trasparenza.
Se c’eri, forse ti ricorderai che questo mio invito alla concretezza e all’onestà fu interpretato come una «azione di disturbo». Petruccioli mi attaccò, dicendo in sostanza che non avevo diritto di parlare, perché non avendo partecipato attivamente a tutte le azioni e riunioni del movimento studentesco, non sapevo di cosa stessi parlando. In verità, il leader indiscusso del movimento nella nostra facoltà era molto preoccupato, perché subito dopo accese un registratore, a tutto volume, obbligando l’uditorio ad ascoltare la voce sofferente di Oreste Scalzone. Quest’ultimo aveva rischiato la morte durante una recentissima manifestazione davanti alla facoltà di legge, essendo stato colpito sulla schiena dal lancio di un banco di scuola, che uno studente di estrema destra aveva fatto cadere da una finestra. Un episodio dolorosissimo che mi riporta alla memoria il clima spettrale di quella giornata veramente tragica.

Resta il fatto che la mia buona volontà fu zittita e ridicolizzata. Continuai a seguire me stesso e mi accorsi tra l’altro di non essere il solo a pensarla così. Renato Nicolini, per esempio, non era certo un facinoroso e fu anzi sempre lucido su questo punto, realizzando poi in prima persona, dieci anni più tardi, il rovesciamento che molti si aspettavano. Pur nell’ipotesi «effimera» dell’Estate Romana, la sua idea di cultura popolare — ma elevata, intelligente, ambiziosa, inserita nel contesto europeo — era una delle strade giuste da seguire.

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Dunque, folgorati sulla via di Damasco da questo «bel momento» del ’68, abbiamo tutti concluso i nostri studi universitari nella condizione meno serena e tranquilla possibile. Avevamo infatti davanti a noi, in questa Roma incapace di diventare capitale d’Italia, un mondo esterno sempre più latitante, dove l’autoritarismo stupido era sostituito da una burocrazia dispettosa. Dentro di noi una vocina, una strana ostinazione e quasi una volontà ci obbligavano a resistere, a cercare a tutti i costi una strada, per noi, per gli altri e forse anche per il mondo.
Ma, ripensandoci alla luce di quello che viviamo oggi, già allora c’erano tutti i germi della degenerazione futura.

Giovanni Merloni

(Continua)

TESTO IN FRANCESE

Password : Prato

29 samedi Août 2015

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Roma

001_alpe di siusi 2003 180

Password : Prato

La notte scorsa, in mezzo a un sogno di ascensori che diventavano funicolari e di piastre urbane che si trasformavano in sotterranei a perdita d’occhio, mi sono detto, « PRATO », una parola capace di sprigionare, per me, la forza prodigiosa di dissolvere ogni bruttura ricacciandola sotto il cuscino.
Nel mio immaginario « PRATO » non è esattamente il « PRATONE » di cui parla Claudia Patuzzi nel suo ultimo romanzo inedito, « Non disturbare il mare ». Quando sogno un PRATO, infatti, io non muoio dalla voglia di assaggiarne tutte le erbacce né di graffiarmi le mani e i piedi al brusco contatto con le ortiche e le piante selvagge.
Il mio PRATO è un morbido tappeto ondulato, accogliente e ordinato come se ne incontrano per esempio sulle Dolomiti, all’altitudine di circa 1200 metri, lì dove comincia il bosco. Oppure una radura dove la luce ondeggia sospinta da una brezza leggera.
« Rotolarsi nei prati », ecco un piacere assoluto per me, lo stesso che « tuffarsi nella paglia o in uno specchio di mare blu ». Come « stendersi a terra » nella piazza del Campo di Siena o sui gradini del sagrato di San Petronio nel bel mezzo di piazza Maggiore a Bologna.
Che importa se nei prati dei miei ricordi innocenti ci si può imbattere nelle pozzanghere di escrementi e d’erba lasciate dalle vacche pascolanti ! Ci sarà sempre qualcuno che dirà « ecco l’oro dei campi »…
Dunque, se parlo di un Prato, è per fare allusione a un Prato verde. Una specie di antidoto poetico alle brutture del mondo : fino a quando l’uomo si manterrà capace di salvare e conservare « almeno i prati indispensabili », l’umanità resterà fuori da un vero pericolo…

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Ecco perché, nel 1994, quando creai la mia prima mail d’ufficio, io scelsi « prato » per la mia password.
Mi ero appena trasferito dall’assessorato ai Lavori pubblici a quello dell’Urbanistica. Mi avevano affidato la direzione dell’ufficio regionale che si occupava delle questioni urbanistiche del comune di Roma… Dalla vetrata del mio ufficio godevo della splendida veduta di un bellissimo Prato ondulato, in salita, costellato di pini e cipressi, curato alla perfezione, senza l’ombra di esseri umani e invece denso di animali visibili e invisibili. Questo prato faceva parte di un’area verde più vasta, che si ricollegava, più in là, all’immenso parco della via Appia Antica, principale « polmone verde » nel territorio a sud della capitale.
Mi recavo in questo ufficio attraversando Roma da nord-ovest a sud-est, quasi da un estremo all’altro : dalla Balduina a Tormarancia. Nel mio perenne stato di esaltazione e di stanchezza, questa traversata diventava ogni giorno di più un’avventura. La scoperta di ogni piccolo nuovo particolare — una scritta, un muro, un portone, un semaforo, un albero o un cespuglio aggredito dal gas delle macchine — mi obbligava a riflettere o, più spesso, a cercare una via di fuga.

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A nord ovest del parco di Tormarancia, i due edifici bianchi ospitavano nel 1994 gli uffici dell’Urbanistica della Regione Lazio
a Roma  

Non posso spiegare qui, oggi, la bellezza contraddittoria del quartiere di Tormarancia dove arrivavo, trafelato o indaffarato, al mio lavoro quotidiano. E non posso neppure fare un bilancio qualsiasi di quello che significavano per me, nell’insieme degli impegni da fronteggiare, le trasformazioni reali o invisibili che avvenivano sotto i miei occhi in questa particolarissima zona di Roma.
Non posso farlo, perché — su una mappa di Roma appropriata, aiutandomi con foto e un minimo di documentazione — dovrei spiegare fino in fondo le mie affermazioni e i miei sentimenti. Avrei dovuto raccogliere tutto ciò è conservarlo all’epoca del mio impegno di allora, per ricavarne ora una sintesi che non fosse noiosa e per di più incompleta.
Non l’ho fatto. Nel 1994 mi sono calato nella realtà politica e amministrativa di Roma senza spogliarmi del tutto della mentalità e dell’esperienza che avevo acquisito durante gli anni di Bologna. Pur facendo dei notevoli sforzi, non ne ho forse fatti abbastanza. D’altronde, era molto difficile agire in un contesto che non condivideva le mie stesse idee e convinzioni.
Durante i miei cinque anni di permanenza all’urbanistica sono stato sempre trattato con fiducia e rispetto. Ho potuto così avere la soddisfazione di qualche piccolo risultato, senza dover rinunciare ai miei principi e alla mia visione delle cose. Ma, indubbiamente, non ho mai avuto la possibilità di esprimere il mio punto di vista se non sotto forma di proposte corrette e di calorosi suggerimenti, condivisi peraltro da una minoranza molto esigua di persone sensibili.
Non si trattava di incapacità di questo o di quello. Avevo soprattutto a che fare con l’impotenza o la mancanza di volontà di andare fino in fondo e, soprattutto, di stabilire nuove regole più coerenti e vantaggiose per la collettività.
Non era dunque questione di persone. Di gente onesta e bene intenzionata ce n’era, questo è sicuro. A cominciare dal mio ultimo assessore all’urbanistica, l’unica persona al mondo che poteva assumersi la decisione di affidarmi la direzione, per due anni, dell’intero settore della pianificazione dei comuni del Lazio.
Roma avrebbe potuto e dovuto, più di tutte le altre città d’Europa, trarre vantaggio da una più rigorosa e lungimirante amministrazione delle sue immense risorse naturali e culturali. Ma non ha voluto e ha invece impedito, con ogni mezzo, che si facesse seriamente alcunché, che ci si mettesse al lavoro con la necessaria continuità…

004_mot de passe prato 180

Quando mi sono svegliato dalle peripezie verbali del mio « incubo urbanistico », la parola PRATO si era volatilizzata. Con questa parola era anche sparita la gigantesca facciata degli uffici di via del Giorgione, lo stesso palazzo dove Elio Pétri aveva girato «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» con il grande Gian Maria Volontè.
Aprendo Twitter, mi sono subito collegato con una persona che stimo: Laurence. Oltre a rilanciare ogni giorno espressioni e riflessioni piene di attualità di poeti e filosofi straordinari, Laurence « appende » al suo muro alcune frasi particolarmente efficaci e profonde. Stamattina, vi ho letto :

« … a volte, all’improvviso, resto stupefatto e ho l’impressione di essere solo ad accorgermi della stranezza di tutto ciò che ci circonda. »

Questa frase di Lambert Schlechter, uno scrittore lussemburghese molto acuto, esprime perfettamente lo stato d’animo che avevo al mio risveglio. Quante volte avevo colto questa « stranezza », provando a sensibilizzare il maggior numero di persone possibile, con la dovuta energia e insistenza! Nessuno ascolta nessuno, forse…
Oggi, leggendomi, voi avete sicuramente notato quale imbarazzo si produce in me quando inizio un sondaggio qualsiasi su questo momento cruciale della mia vita. Il fatto è che è difficile spiegare (anche a me stesso) per quale ragione avevo allora bisogno di sognare un Prato verde ! E come rimasi sorpreso, perfino interdetto, trovandolo là, a disposizione dei miei occhi per tutto il tempo che potessi desiderare, proprio là, nel luogo dove le contraddizioni dei nostri destini urbani e umani raggiungevano la punta massima della loro attualità e frequenza!
Questo spettacolo era riservato alle finestre orientate a sud-est, mentre tutte le altre dovevano scontrarsi ogni giorno con la banalità di una strada priva di fascino e gli scherzi di un traffico anonimo.
Ora capisco che questo prato verde, beatamente steso sotto i miei occhi in tutta la sua meravigliosa realtà, io non lo guardavo mai, non lo vedevo nemmeno. Né vedevo le piccole sfumature prodotte dalle innumerevole trasformazioni del cielo. Se mi affacciavo alla vetrata, non vedevo che questa Roma inafferrabile e indomabile, con i suoi Alti e Bassi, con i suoi abitanti per lo più rassegnati e contenti, soddisfatti del loro provvisorio benessere e perfino convinti di avere afferrato l’intimo sapore dell’esistenza. Assicurarsi questo benessere, questa vita « a parte e da parte ». Forse tutte queste persone che passeggiavano, indaffarate, sul marciapiedi alle mie spalle, avevano anche loro un Prato privato nelle loro teste. O invece nei loro computers. Un Prato passe-partout, per aprirsi al mondo oppure per chiudere a doppia mandata il mondo fuori da casa loro.

Giovanni Merloni

TESTO IN FRANCESE

Una cronaca per Gramsci, la poesia di Mario Quattrucci

27 dimanche Avr 2014

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente

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Antonio Gramsci, Mario Quattrucci, Pier Paolo Pasolini, Roma

Introduco oggi, per la prima volta nel mio « panorama poetico », un poeta italiano, Mario Quattrucci.
Un personnaggio che « viene da lontano », sia come artista (egli è anche pittore) e poeta-scrittore, sia come uomo politico che ha ricoperto incarichi importanti nella pubblica amministrazione e nell’ex partito comunista a Roma e nel Lazio.
Da molti anni lontano dalla politica attiva, soprattutto dopo il suo trasferimento a Fiano Romano, Quattrucci si è dedicato interamente alla scrittura e alla vita letteraria, dando vita a una vasta serie di iniziative, tra cui il Premio letterario Feronia — con Stefano Paladini e il compianto Filippo Bettini —, diventato col tempo una importante occasione di incontro e diffusione della poesia e della letteratura italiana, con una significativa apertura per gli autori stranieri.
Devo la conoscenza e l’amicizia di Mario Quattrucci a un amico comune, Angelo Zaccardini, recentemente scomparso, che frequentavo all’epoca della libera professione per questioni urbanistiche nel comune di Capena, vicinissimo a quello di Fiano. Zaccardini mi propose un giorno di incontrare « il poeta ». Nel suo modo di dire « il poeta » c’era certamente una stima grande e sincera per l’amico Mario. Ma c’era anche una sfumatura di ironia piena d’affetto.
Mario Quattrucci ama la Francia. Questo amore appare evidente se si considera il nome e le abitudini del suo personaggio più illustre, il commissario Maré, che anima una serie di romanzi polizieschi molto seguita.
Per fare conoscere ai lettori francesi il poeta, ma anche l’uomo in tutte le sue molteplici sfaccettature, ho scelto, tra le numerose opere in versi di Mario Quattrucci, lette in diverse epoche, un testo molto originale e in qualche modo unico nell’ambito del suo lavoro.
« Una cronaca’ per Antonio Gramsci non è soltanto un bellissimo poema-epopea. È anche la testimonianza di chi ha vissuto drammaticamente, e dall’interno, l’alterna inflenza del pensiero di Gramsci sulla vita politica italiana. Come Pasolini — che si rivolgeva a Gramsci per reinterpretare la società italiana negli anni sessanta-inizio settanta —, Quattrucci si interroga sul destino dell’immenso patrimonio rappresentato dalla sinistra italiana, ora in via di dissoluzione, di cui Gramsci era il simbolo e il principale « fondatore » (oltreché il più rispettato). Un patrimonio che riguarda almeno tre generazioni di uomini e donne che hanno creduto nel socialismo sempre lottando per difendere la giovane democrazia e le istituzioni repubblicane nel nostro paese.

001_la descente_bis 480

Mario Quattrucci

UNA CRONACA, per A. G.

(Un poemetto in forma di prosa, lo ha definito il suo autore. Poggiato su un ritmo da dolente meditazione, eppure celato, spezzato, perfino negato, da ricorrenti inversioni, soprassalti, cesure, dissonanze sintattiche e armoniche. Come era richiesto, o così fu inteso, dalla dolorosa e faticosa riflessione sulle tragiche nostre aporie: nostre individuali, nostre della nostra storia comune.)

Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età,
perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini,
quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo
in quanto si uniscono tra loro in società
e lavorano e lottano e migliorano se stessi
non può non piacerti più di ogni cosa.
Ma è così?

Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, CCXIII, (a Delio)

002_gramsci_fond nenni 480 I
[ancòra]
solo ciò che perdura. (e qui il crepuscolo che invioletta
i vetri? il cielo che si ripiega a stingere
il rosso delle mura?). ma non risuona (più ─ ancora)
la frattura il battito. tornano dopo un’era i nomi
i rumori dei passi tutto è fuori
della definizione cieco alla teoria perso nel bollore
della vita. e sia (se poi la vita è un ardere). ma nulla
s’infutura se la scure al ceppo alla radice
e multipla non si pone la distesa mano
se non misuri il meno il senza il divenuto
inutile lo sguardo perso nello specchio
o il pianto riversato: assilla la domanda inquieta.
inutile il sussurro rapido di labbra
nei consessi né i gridi né torna il verso
del concetto nudo stilo dell’intelletto pratico
prodotto dell’uno analizzante e del plurale moto.

solo ciò che perdura. opporre al dato nuova negazione
e norma che sa la negazione forma
che è necessità ma non bastante
(l’essenza è nell’insieme dei rapporti eccetera…)
ed invariante in tempi di rovesci. mercificati.

solo ciò che perdura. ed un pensare acuto
che torni a interpretarlo questo astuto mondo
e con pazienza ancora grado a grado
il movimento in re che gli ordini trasmuta.

003_Gramsci giustizia e libertà 480 II
[il prigioniero]
ma lui
che poteva sapere adesso immaginare (il tempo
fermato il tempo precipitato) oltre la bocca di lupo
nei riquadri stretti della luce barrata
che poteva udire (il tempo senza futuro senza passato)
del brusio delle sere che poteva di là
da quel bianco dei muri? solo
tetti assiepati stretti riverbero screziato o forse
anche un fiotto di mare anche un verde
di memoria ─ olivi (il tempo solo memoria) pascoli
carrubi ─ o forse solo
uno squincio muro perenne anch’esso bianco
di calcinata luce meridionale.

spazio di metri due per tre una branda una
panchetta di legno e il male gli sgretolava le ossa
i denti perforava i polmoni il gelo tenebroso
di quegli anni di quel mondo così terribile e grande
il gelo (il tempo rovesciato) di sapersi escluso eppure:
io penso che la storia ti piace come piaceva a me

004_gramsci orgosolo iPhoto 480Murales di Orgosolo, foto Catherine Develotte

III
[falsa progressione]
la nostra storia. dicono di città
che attraversammo il sapido del secolo le notti
laboriose i giorni così abbaglianti attese
della grand soirée dell’unico
fiato liberatorio scarlatti pomeriggi a quel sicuro
vento forti i muscoli rifiorenti le guance
smemorati del sangue dell’inganno persi
anche noi nel bosco (d’iniquità di sogni) ma come
dove tenevamo le sue parole la sua vista
spinta così per tempo oltre l’insania
di una pietosa religiosa norma?
perché non in tutto e solo dall’aperto lato solo
per necessità dell’agire condizione intuito?
e fu un bene per noi salute
per noi per tutti anni fecondati ma anche
quanti mai decenni quante innecessarie cadute
perdite e ora nel rovello (religio depopulata)
lo ritrovammo? lo ritroviamo? quasi un occulto
tempio un drappo lacerato.

005_lettere dal carcere 480 IV
[l’incontro]
da poco nato quando lui nel giorno
fangoso lui disfatto senza nessuno a un’ombra
fredda di muraglioni umida celato quando
quando l’avrei incontrato? e come? ed era
in qualche luogo scritto?
non lui persona il suo figliolo musicista un giorno
il suo fratello sopravvissuto quale colpo
volti così evocanti così simili l’uno
a quell’immagine vanescente di lontana
persa consorte l’altro a lui come appare
in quella foto di Formia quale
insostenibile stretta attorno ai polsi alle tempie.

ma lui per altra via per uso di parole per quelle
lettere quei quaderni ardenti brulicanti
a segnare la vita a volgerla in un solo
verso questa mia insignificante esistenza eppure
un po’ significante anche lei a ragione di quelle
sue così forti ragioni così immensi pensieri.

006_Gramsci_Pasolini 480 V
[frantumi]
come furono gli anni? ora so che è un’altra
l’aspra contraddizione altra
dove scendemmo per misurare immagini
o salimmo dove ci conobbero i giorni. ora
so la frattura e sebbene con lui con lui nel cuore
in luce ed anche (come fu) con lui nelle buie viscere
so. ma anche il non sapere è esistere
qui dove ascende (sordo) il tramestio dei vivi
persi feroci (o spenti) nell’ascesa e dove lei
la classe meno apprende e si scompone e solo
a sé offesa smemorata attende. sola
nella spietata grascia di città che montano
s’intorbida con l’aria l’occhio si frantuma
la sua secolare coscienza.

è il mondo che in frantumi in vortice ci sfugge
quanto più cercammo delle cose un senso
unico quanto più credemmo a un fine volto
al regno (spento alla fine il regno
della necessità) nuovo dell’uomo volto
per storia ineluttabile il mondo. né sento
che l’attesa potrà mai più rendermi (e rendere)
una vigilia il fioco apprendersi d’un barlume.
e non per una loro finis historiae o per la quiete
candida del mondo: ma perché ferrigno
con spigoli di pena passa il mille
novecento novantuno e vanno
precipitano insieme col millennio
gli anni.

000a_Piero,_flagellazione_part 1 480

VI
[la flagellazione] (1)
convenerunt in unum.   e da lì discosto
─ serrato in bianche architetture in ferree
prospettive vincoli solenni multipli
della ragione architettante al centro
del palazzo innanzi al trono indifferente
complice al mandante ignoto (ma
ne conosci le vesti il portamento) sotto
al braccio dell’idolo (proteso
l’ideologico braccio il globo nella mano)
da luce d’altra fonte illuminato ─ l’uomo:
il povero Cristo il flagellato irriso l’ecce
homo guardato sorvegliato a vista in spine
incoronato e sempre in ogni tempo figlio
del suo sociale umano ed istorico stato.

ma chi è qui in primo piano sul piano cioè
che primamente coglie il nostro
occhio contemporaneo il giovane sbiancato
di imminente morte chi è se un’immanente
morte lo tiene vanamente angelico e dotto
non sensibilmente veduto non presente
corporalmente e quasi ignudo
nella sua rozza tunica amaranto
scalzo come si addice a un’anima a una nuda
memoria a un richiamo d’affetti chi questo giovane in cui
malgrado le nostre rughe e gli anni così evidenti
del nostro corpo della nostra caduca mente
ci sentiamo ritratti tu io che guardiamo e tutti
noi che nascemmo in quel vicino mille
e ottocento quaranta o meglio quarantotto o forse
più verosimilmente nel mille novecento e ventuno
e dunque ancora sul limitar già tratti
a una storica morte tu io uno
qualunque di costoro che nascenza o scelta
ai flutti di ferro di passione nei marosi
e secche del secolo ventesimo gettarono?

non parla né sente non può intendere (se anche
ascolta seppure attende
che scenda ancora da parole un chiaro
un fiotto di futuro) è solo è bianco nel suo puro
esserci non essente (un mito) al centro
dei gravi convenuti.
l’altro a sinistra il saggio in abiti solenni
invita: dirumpamus vincula ma guarda
grave fisso anche lui nel punto che oltre il tempo
fuori da quel suo spazio (e nostro) si raggruma

000_Piero,_flagellazione_recadrée 480

VII
[da ciò che in noi]
ma siamo in questo luogo, in questo tempo, qui
la nostra vita ha un senso: qui dunque l’animo
di nuovo ad ascoltare, a intendere, a quella
fatica che ogni pianta richiede.   e ancora
─ e anche se lo grava il tormento di sotto ─
ancora, qui, da ciò che in noi perdura,
ricominciare.

Mario Quattrucci

009_quattrucci 02 rect 480
Il Secolo Breve moriva. Nel 1991, precisamente. Quando l’alternativa storica cedeva e anzi ignominiosamente crollava. Dopo la caduta del Muro il dissolvimento dell’URSS. E lì, e in tutto l’Est, la restaurazione feroce del più selvaggio capitalismo finanziario.
Chi, dal 1956 in poi, rimanendo nell’alveo della Rivoluzione d’Ottobre, e in Italia nel Partito Comunista, aveva sperato in, e lottato per, una nuova rivoluzione democratica e socialista la quale, abbattuto lo stalinismo, ne superasse in un tempo non secolare, un tempo di decenni, le conseguenze storiche sociali e politiche; chi aveva sperato in, e lottato per, la ripresa del cammino verso quella nuova organizzazione della società e quel nuovo mondo di libertà e di giustizia di cui erano le premesse nel grande evento del ’17; chi aveva sperato in, e lottato perché la storia potesse ricevere una nuova spinta propulsiva; quegli ostinati marxisti gramsciani (benché sempre animati brechtianamente dal dubbio) che noi eravamo stati e ancora eravamo, apprendevano (senza più dubbi) non essere il loro che un sogno. O, se si preferisce, un’eroica disperata speranza.
Complice il tempo, l’umano tempo della vita personale che scorre e volge al suo compimento, alla generazione che aveva retto con tenaci certezze ai tragici marosi e alle feroci ragioni di fedi feroci del secolo grande e terribile, non restava che prendere atto della catastrofe e darsi ragione, una qualche lancinante ragione, di come sparisse nel vortice aperto dalla sconfitta il sogno e l’attesa di una vigilia… e perfino l’apprendersi di un pur fioco barlume.
Ripensare Gramsci, o meglio riandare all’incontro con Gramsci, diveniva allora il modo per rivelare a se stessi l’errore, il vizio assurdo, le ragioni della sconfitta storica che si stava compiendo. E, allo stesso tempo, rivalutare e rivendicare a ragione la propria non insignificante esistenza fatta di lotta ideale e sociale, e di prassi politica, nel segno di Marx e di Gramsci. E, forse, mutato ciò che andava mutato, il perdurante valore di quella filosofia della prassi.
Per giungere alla necessità ─ posta l’insuperata, anzi smisuratamente maggiore, iniquità del mondo sotto il globale dominio del capitalismo finanziario ─ di riprendere l’analisi e, da ciò che perdura, ricominciare la lotta, ridare vita al movimento. Per abolire lo stato di cose presente? Ma non è questa, fuori da ogni abiura di debole pensiero, secondo il suo fondatore, la sostanza del socialismo e la sua necessità?
Speranza contro ogni speranza? Può darsi. Ma noi per speranza non abbiamo che il fare: né la pur umana paura può indurci a gridare Elì, Elì, lemà sabactàni.

Mario Quattrucci

(1) La flagellazione, si rifà al capolavoro di Piero della Francesca che è nel Palazzo di Urbino, allegoricamente letto alla luce delle scoperte e interpretazioni che ne dà Carlo Ginzburg in Indagini su Piero.

Traduzione di questo articolo in FRANCESE

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première publication et Dernière modification 27 avril 2014

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