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Introduco oggi, per la prima volta nel mio « panorama poetico », un poeta italiano, Mario Quattrucci.
Un personnaggio che « viene da lontano », sia come artista (egli è anche pittore) e poeta-scrittore, sia come uomo politico che ha ricoperto incarichi importanti nella pubblica amministrazione e nell’ex partito comunista a Roma e nel Lazio.
Da molti anni lontano dalla politica attiva, soprattutto dopo il suo trasferimento a Fiano Romano, Quattrucci si è dedicato interamente alla scrittura e alla vita letteraria, dando vita a una vasta serie di iniziative, tra cui il Premio letterario Feronia — con Stefano Paladini e il compianto Filippo Bettini —, diventato col tempo una importante occasione di incontro e diffusione della poesia e della letteratura italiana, con una significativa apertura per gli autori stranieri.
Devo la conoscenza e l’amicizia di Mario Quattrucci a un amico comune, Angelo Zaccardini, recentemente scomparso, che frequentavo all’epoca della libera professione per questioni urbanistiche nel comune di Capena, vicinissimo a quello di Fiano. Zaccardini mi propose un giorno di incontrare « il poeta ». Nel suo modo di dire « il poeta » c’era certamente una stima grande e sincera per l’amico Mario. Ma c’era anche una sfumatura di ironia piena d’affetto.
Mario Quattrucci ama la Francia. Questo amore appare evidente se si considera il nome e le abitudini del suo personaggio più illustre, il commissario Maré, che anima una serie di romanzi polizieschi molto seguita.
Per fare conoscere ai lettori francesi il poeta, ma anche l’uomo in tutte le sue molteplici sfaccettature, ho scelto, tra le numerose opere in versi di Mario Quattrucci, lette in diverse epoche, un testo molto originale e in qualche modo unico nell’ambito del suo lavoro.
« Una cronaca’ per Antonio Gramsci non è soltanto un bellissimo poema-epopea. È anche la testimonianza di chi ha vissuto drammaticamente, e dall’interno, l’alterna inflenza del pensiero di Gramsci sulla vita politica italiana. Come Pasolini — che si rivolgeva a Gramsci per reinterpretare la società italiana negli anni sessanta-inizio settanta —, Quattrucci si interroga sul destino dell’immenso patrimonio rappresentato dalla sinistra italiana, ora in via di dissoluzione, di cui Gramsci era il simbolo e il principale « fondatore » (oltreché il più rispettato). Un patrimonio che riguarda almeno tre generazioni di uomini e donne che hanno creduto nel socialismo sempre lottando per difendere la giovane democrazia e le istituzioni repubblicane nel nostro paese.

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Mario Quattrucci

UNA CRONACA, per A. G.

(Un poemetto in forma di prosa, lo ha definito il suo autore. Poggiato su un ritmo da dolente meditazione, eppure celato, spezzato, perfino negato, da ricorrenti inversioni, soprassalti, cesure, dissonanze sintattiche e armoniche. Come era richiesto, o così fu inteso, dalla dolorosa e faticosa riflessione sulle tragiche nostre aporie: nostre individuali, nostre della nostra storia comune.)

Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età,
perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini,
quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo
in quanto si uniscono tra loro in società
e lavorano e lottano e migliorano se stessi
non può non piacerti più di ogni cosa.
Ma è così?

Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, CCXIII, (a Delio)

002_gramsci_fond nenni 480 I
[ancòra]
solo ciò che perdura. (e qui il crepuscolo che invioletta
i vetri? il cielo che si ripiega a stingere
il rosso delle mura?). ma non risuona (più ─ ancora)
la frattura il battito. tornano dopo un’era i nomi
i rumori dei passi tutto è fuori
della definizione cieco alla teoria perso nel bollore
della vita. e sia (se poi la vita è un ardere). ma nulla
s’infutura se la scure al ceppo alla radice
e multipla non si pone la distesa mano
se non misuri il meno il senza il divenuto
inutile lo sguardo perso nello specchio
o il pianto riversato: assilla la domanda inquieta.
inutile il sussurro rapido di labbra
nei consessi né i gridi né torna il verso
del concetto nudo stilo dell’intelletto pratico
prodotto dell’uno analizzante e del plurale moto.

solo ciò che perdura. opporre al dato nuova negazione
e norma che sa la negazione forma
che è necessità ma non bastante
(l’essenza è nell’insieme dei rapporti eccetera…)
ed invariante in tempi di rovesci. mercificati.

solo ciò che perdura. ed un pensare acuto
che torni a interpretarlo questo astuto mondo
e con pazienza ancora grado a grado
il movimento in re che gli ordini trasmuta.

003_Gramsci giustizia e libertà 480 II
[il prigioniero]
ma lui
che poteva sapere adesso immaginare (il tempo
fermato il tempo precipitato) oltre la bocca di lupo
nei riquadri stretti della luce barrata
che poteva udire (il tempo senza futuro senza passato)
del brusio delle sere che poteva di là
da quel bianco dei muri? solo
tetti assiepati stretti riverbero screziato o forse
anche un fiotto di mare anche un verde
di memoria ─ olivi (il tempo solo memoria) pascoli
carrubi ─ o forse solo
uno squincio muro perenne anch’esso bianco
di calcinata luce meridionale.

spazio di metri due per tre una branda una
panchetta di legno e il male gli sgretolava le ossa
i denti perforava i polmoni il gelo tenebroso
di quegli anni di quel mondo così terribile e grande
il gelo (il tempo rovesciato) di sapersi escluso eppure:
io penso che la storia ti piace come piaceva a me

004_gramsci orgosolo iPhoto 480Murales di Orgosolo, foto Catherine Develotte

III
[falsa progressione]
la nostra storia. dicono di città
che attraversammo il sapido del secolo le notti
laboriose i giorni così abbaglianti attese
della grand soirée dell’unico
fiato liberatorio scarlatti pomeriggi a quel sicuro
vento forti i muscoli rifiorenti le guance
smemorati del sangue dell’inganno persi
anche noi nel bosco (d’iniquità di sogni) ma come
dove tenevamo le sue parole la sua vista
spinta così per tempo oltre l’insania
di una pietosa religiosa norma?
perché non in tutto e solo dall’aperto lato solo
per necessità dell’agire condizione intuito?
e fu un bene per noi salute
per noi per tutti anni fecondati ma anche
quanti mai decenni quante innecessarie cadute
perdite e ora nel rovello (religio depopulata)
lo ritrovammo? lo ritroviamo? quasi un occulto
tempio un drappo lacerato.

005_lettere dal carcere 480 IV
[l’incontro]
da poco nato quando lui nel giorno
fangoso lui disfatto senza nessuno a un’ombra
fredda di muraglioni umida celato quando
quando l’avrei incontrato? e come? ed era
in qualche luogo scritto?
non lui persona il suo figliolo musicista un giorno
il suo fratello sopravvissuto quale colpo
volti così evocanti così simili l’uno
a quell’immagine vanescente di lontana
persa consorte l’altro a lui come appare
in quella foto di Formia quale
insostenibile stretta attorno ai polsi alle tempie.

ma lui per altra via per uso di parole per quelle
lettere quei quaderni ardenti brulicanti
a segnare la vita a volgerla in un solo
verso questa mia insignificante esistenza eppure
un po’ significante anche lei a ragione di quelle
sue così forti ragioni così immensi pensieri.

006_Gramsci_Pasolini 480 V
[frantumi]
come furono gli anni? ora so che è un’altra
l’aspra contraddizione altra
dove scendemmo per misurare immagini
o salimmo dove ci conobbero i giorni. ora
so la frattura e sebbene con lui con lui nel cuore
in luce ed anche (come fu) con lui nelle buie viscere
so. ma anche il non sapere è esistere
qui dove ascende (sordo) il tramestio dei vivi
persi feroci (o spenti) nell’ascesa e dove lei
la classe meno apprende e si scompone e solo
a sé offesa smemorata attende. sola
nella spietata grascia di città che montano
s’intorbida con l’aria l’occhio si frantuma
la sua secolare coscienza.

è il mondo che in frantumi in vortice ci sfugge
quanto più cercammo delle cose un senso
unico quanto più credemmo a un fine volto
al regno (spento alla fine il regno
della necessità) nuovo dell’uomo volto
per storia ineluttabile il mondo. né sento
che l’attesa potrà mai più rendermi (e rendere)
una vigilia il fioco apprendersi d’un barlume.
e non per una loro finis historiae o per la quiete
candida del mondo: ma perché ferrigno
con spigoli di pena passa il mille
novecento novantuno e vanno
precipitano insieme col millennio
gli anni.

000a_Piero,_flagellazione_part 1 480

VI
[la flagellazione] (1)
convenerunt in unum.   e da lì discosto
─ serrato in bianche architetture in ferree
prospettive vincoli solenni multipli
della ragione architettante al centro
del palazzo innanzi al trono indifferente
complice al mandante ignoto (ma
ne conosci le vesti il portamento) sotto
al braccio dell’idolo (proteso
l’ideologico braccio il globo nella mano)
da luce d’altra fonte illuminato ─ l’uomo:
il povero Cristo il flagellato irriso l’ecce
homo guardato sorvegliato a vista in spine
incoronato e sempre in ogni tempo figlio
del suo sociale umano ed istorico stato.

ma chi è qui in primo piano sul piano cioè
che primamente coglie il nostro
occhio contemporaneo il giovane sbiancato
di imminente morte chi è se un’immanente
morte lo tiene vanamente angelico e dotto
non sensibilmente veduto non presente
corporalmente e quasi ignudo
nella sua rozza tunica amaranto
scalzo come si addice a un’anima a una nuda
memoria a un richiamo d’affetti chi questo giovane in cui
malgrado le nostre rughe e gli anni così evidenti
del nostro corpo della nostra caduca mente
ci sentiamo ritratti tu io che guardiamo e tutti
noi che nascemmo in quel vicino mille
e ottocento quaranta o meglio quarantotto o forse
più verosimilmente nel mille novecento e ventuno
e dunque ancora sul limitar già tratti
a una storica morte tu io uno
qualunque di costoro che nascenza o scelta
ai flutti di ferro di passione nei marosi
e secche del secolo ventesimo gettarono?

non parla né sente non può intendere (se anche
ascolta seppure attende
che scenda ancora da parole un chiaro
un fiotto di futuro) è solo è bianco nel suo puro
esserci non essente (un mito) al centro
dei gravi convenuti.
l’altro a sinistra il saggio in abiti solenni
invita: dirumpamus vincula ma guarda
grave fisso anche lui nel punto che oltre il tempo
fuori da quel suo spazio (e nostro) si raggruma

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VII
[da ciò che in noi]
ma siamo in questo luogo, in questo tempo, qui
la nostra vita ha un senso: qui dunque l’animo
di nuovo ad ascoltare, a intendere, a quella
fatica che ogni pianta richiede.   e ancora
─ e anche se lo grava il tormento di sotto ─
ancora, qui, da ciò che in noi perdura,
ricominciare.

Mario Quattrucci

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Il Secolo Breve moriva. Nel 1991, precisamente. Quando l’alternativa storica cedeva e anzi ignominiosamente crollava. Dopo la caduta del Muro il dissolvimento dell’URSS. E lì, e in tutto l’Est, la restaurazione feroce del più selvaggio capitalismo finanziario.
Chi, dal 1956 in poi, rimanendo nell’alveo della Rivoluzione d’Ottobre, e in Italia nel Partito Comunista, aveva sperato in, e lottato per, una nuova rivoluzione democratica e socialista la quale, abbattuto lo stalinismo, ne superasse in un tempo non secolare, un tempo di decenni, le conseguenze storiche sociali e politiche; chi aveva sperato in, e lottato per, la ripresa del cammino verso quella nuova organizzazione della società e quel nuovo mondo di libertà e di giustizia di cui erano le premesse nel grande evento del ’17; chi aveva sperato in, e lottato perché la storia potesse ricevere una nuova spinta propulsiva; quegli ostinati marxisti gramsciani (benché sempre animati brechtianamente dal dubbio) che noi eravamo stati e ancora eravamo, apprendevano (senza più dubbi) non essere il loro che un sogno. O, se si preferisce, un’eroica disperata speranza.
Complice il tempo, l’umano tempo della vita personale che scorre e volge al suo compimento, alla generazione che aveva retto con tenaci certezze ai tragici marosi e alle feroci ragioni di fedi feroci del secolo grande e terribile, non restava che prendere atto della catastrofe e darsi ragione, una qualche lancinante ragione, di come sparisse nel vortice aperto dalla sconfitta il sogno e l’attesa di una vigilia… e perfino l’apprendersi di un pur fioco barlume.
Ripensare Gramsci, o meglio riandare all’incontro con Gramsci, diveniva allora il modo per rivelare a se stessi l’errore, il vizio assurdo, le ragioni della sconfitta storica che si stava compiendo. E, allo stesso tempo, rivalutare e rivendicare a ragione la propria non insignificante esistenza fatta di lotta ideale e sociale, e di prassi politica, nel segno di Marx e di Gramsci. E, forse, mutato ciò che andava mutato, il perdurante valore di quella filosofia della prassi.
Per giungere alla necessità ─ posta l’insuperata, anzi smisuratamente maggiore, iniquità del mondo sotto il globale dominio del capitalismo finanziario ─ di riprendere l’analisi e, da ciò che perdura, ricominciare la lotta, ridare vita al movimento. Per abolire lo stato di cose presente? Ma non è questa, fuori da ogni abiura di debole pensiero, secondo il suo fondatore, la sostanza del socialismo e la sua necessità?
Speranza contro ogni speranza? Può darsi. Ma noi per speranza non abbiamo che il fare: né la pur umana paura può indurci a gridare Elì, Elì, lemà sabactàni.

Mario Quattrucci

(1) La flagellazione, si rifà al capolavoro di Piero della Francesca che è nel Palazzo di Urbino, allegoricamente letto alla luce delle scoperte e interpretazioni che ne dà Carlo Ginzburg in Indagini su Piero.

Traduzione di questo articolo in FRANCESE

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première publication et Dernière modification 27 avril 2014

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