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il ritratto incosciente

~ ritratti di persone e paesaggi del mondo

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Archives Mensuelles: mai 2013

Destini incrociati (Zazie n. 6)

27 lundi Mai 2013

Posted by giovannimerloni in poesie

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Zazie

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Al momento della mia partenza per Parigi, nel 2006, una mia cara amica, una françese di Bordeaux, Hélène J., si transferiva, piena di entusiasmo, in Italia. Da allora, ogni tanto, ci scriviamo delle lunghe lettere un po’ strane, dove le nostre impressioni si incrociano, si mischiano e talvolta si scontrano, fortunatamente senza arrivare alla rottura.

Destini incrociati (per Hélène J.)

Hai visto, ad amare l’Italia
si affoga nelle parole
rozze e spietate.
Parole magari fatate, vellutate
scompagnate e zozze.

E’ un mondo di traslochi
e di giochi, hai visto.
Parole vocianti
di abitanti ambulanti
parole sottaciute
trinariciute, risapute
parole scanzonate
allineate appecoronate.

Sono anch’io per davvero
un italiano intero
balzano e sboccato
senza bocca e senza fiato
cui tocca parlar tacendo.

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Roma, piena del Tevere del novembre 2005

Hai visto, ci tocca
apparecchiare il mondo
di finta erba
rassegnati sederci
tra puzzolenti rifiuti
fingendo di mangiare
romanzi di marmellata
poesie all’arrabbiata
quadri invasi da foglie
in preda a velenose doglie.

Finché giunge un nuovo amore.

Mi basterebbe un piccolo
Progresso, un’aurea-e-mediocre
civiltà una sindacabile
giustizia una insindacabile
libertà.

Ringrazierei senza scongiuri
tutti questi che hanno lavorato
per noi, digiunato
per noi posteri accannati
facendosi scannare

Celebrerei con mille inchini
questi corpi evaporati
che hanno schiuso tunnel
di luce per noi ciechi.

Hai visto, Hélène
come è scesa in basso
la gratitudine : l’uomo collettivo
non è più faber
di cattedrali e di tomi.

E ora, ad amare l’Europa
incontinente continente
nudo alla mèta
un brivido corre
di freddo e di paura:
riusciremo a tenere a mente
e sotto braccio
la futura umanità
ideale
e internazionale?

L’Europa non è una passeggiata.

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Roma, via Boncompagni

I nuovi barbari dell’occidente
dimenticano i nostri ponti
sul Gard le nostre Gioconde
le nostre bighe d’oro
il sangue nei rivoli di pioggia
l’anonimo e glorioso
lavorìo dell’umano istinto
di conservazione.
E noi analfabetizzati
dimentichiamo Voltaire
mentre ingeriamo mansueti
pillole di tivú nostrana
velenosa alla mente.

Non parliamo più, tra noi.
Festosamente fummo partoriti
nel vino e nell’olio. Ben
presto ci siamo americanizzati
arabizzati, giapponesizzati
imburrati e fast mangiati.

Né siamo stati capaci
di trattenere tra le dita
questa vita inaudita. Siamo
troppi e di troppo
rassegnati, perfino entusiasti
di starcene ammassati
in babeliche città
devote alla rischiosa bellezza
di una vulcanica vita
sull’orlo di un vulcano.

Indecisi se intraprendere un nuovo amore.

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Viaggio in Francia, 1958

Hai visto, ad amare la Francia
si affoga nelle parole
fatate e vellutate.
Parole magari rozze, spietate
zozze e scompagnate.

E’ un mondo di intendenti
e di competenti, ho visto.
Parole sibilanti
di fascinose cantanti
parole concitate
gridate, confessate
parole rivoluzionate
precise, precisate.

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Blaye, vista sulla Gironda, 2006

Hai visto, ci tocca
appallottolarci
in una Géode di finta erba
rassegnati sederci
tra gli invisibili fili
fingendo di consultare
romanzi color patata
poesie sapor carota
quadri invasi da foglie
in preda alle doglie.

Si chiama Francia il nuovo amore.

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Bar Saint-Ex, Biscarrosse (Aquitania), 1998

Giovanni Merloni

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L’arte del non incontro (Solidea n. 15)

26 dimanche Mai 2013

Posted by giovannimerloni in poesie

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Solidea

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L’arte del non incontro

Che c’entri tu
coi tuoi grandi occhi
che trapassano nuvole e pietre?
Perché proprio addosso a te
deve infrangersi
l’onda spropositata e sgonfia
del mio sconosciuto naufragio?
Quale parolina dolce
o sferzante o misteriosa
trapelò dalle tue labbra viola?
Chi sono io che mi aggiro
sotto la tua casa?

Come potrei giustificare i miei versi
le mie zoppicanti serenate mute
le mie più intime agitazioni ?
Come spiegarti
che succede talvolta
(almeno una volta nella vita)
di scoprirsi perfettamente scolpiti
l’uno per l’altra
per poi restare lì, immobili
a guardare dentro l’onda
di quei corpi che non si abbracciano
di quelle mani
che non si mischiano
e di quelle bocche
che mai si sfioreranno ?

Niente. Non è successo niente,
Il silenzio ci assordava
il chiasso ci calmava,
non cercavo fortuna
nella tua testa bruna,
e tu non hai visto che difetti
nei miei modi circospetti.
Restammo al non-detto
al non-sentito
imbambolati davanti all’onda mortale
che precipitava
davanti a quella tavola sparecchiata
in attesa spiritata
che un altra coppia si fosse accomodata.

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Resto qui, oggetto imbarazzante
sotto gli sguardi arrossati
e non lascio più le case gialle
i marciapiedi  invasi di fantocci
gli stomaci ingombri di resti
di mille cartocci.
Non scendo e non salgo.
Non ho altro progetto
che scrutare il riflesso
della mia vergognosa sconfitta.

In un certo senso tu mi ospiti
mi concedi un tetto
un non luogo vicino a te
dove io possa
abbandonarmi a questo treno immobile
alla sua onda invisibile
paralizzante
e interrogarmi sul non senso della vita.
Non ho neanche avuto il tempo
di dirti che ero un marinaio
un vascello colmo
dell’acqua della vita,
mentre ora divento
un fiume in secca.
Non ho potuto dirti
da dove sono sbarcato.
Quando ti sei affacciata
sorridente e irresistibile
ho proprio dimenticato
come si fa a parlare
ma ho potuto leggerti
scendendo giù fino al fondo
nel piccolo libro aperto
e nel solitario concerto
del tuo mondo doloroso
e incerto.

Ho perduto la parola?
Forse sì, ma tu,
unica e rara, quasi al volo
intercetti le parole confuse
che potrebbero precisarsi
o perdere qualsiasi senso.
Ti guida il buon senso
o la paura di affezionarti
all’uomo sbagliato?

Tra le case della piazza
scivolano persone come acqua
tra le dita. Ti immagino
seduta su una qualunque poltrona
mentre ascolti i miei passi che salgono
e scendono le tue scale,
con una pianta grassa
e un giornale in tasca.
Ma io mi aggiro sempre per strada
e scivolo tra le case, disperato
per un naufragio mai avvenuto,
per un divorzio mai consumato,
per un matrimonio mai supposto
per un bacio appassionato
rimasto nell’anticamera
di un grande palazzo vuoto.

Sarei stato capace
di farti un furioso ritratto
giusto disegnando il tuo collo,
a mente, o navigando
nella pozza scura dei tuoi occhi.
Invece, da quando ci siamo incontrati
fuggiamo io da te tu da me
lasciando rotolare il tempo
senza osare afferrarlo
lasciando scivolare le cose
come acqua tra le dita.
Eppure eravamo attratti
da quello specchio di nebbia
dove si incrociavano distintamente
i nostri due labirinti silenziosi.

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Scalciando tra le rovine
– a testa bassa
mi capisco ti capisco
e cerco di ritirarmi
prima che questo leggero tormento
diventi pesante sofferenza.
Mi sogno allora di salire sul treno
per tornare in un altro non luogo
dove ti sarebbe difficile trovarmi,
dove non avrei la forza
di aspettarti, dove il treno della vita
non avrebbe proprio voglia
di rimettersi in moto.

Ma che c’entri tu
coi tuoi grandi occhi
che trapassano nuvole e pietre?
E io, che faccio qui
infelice sagoma errante
sotto casa tua ?

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 20 mai 2013

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Si può amare una città? (pit n.3)

25 samedi Mai 2013

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente di una tavola

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Bologna, Romagna

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Jan Doets sostiene che la nostra memoria  risiede nella totalità del corpo umano, che il cervello non ha che una sola funzione, in definitiva. Non è che un un rubinetto. Lo scrittore olandese fa molto efficacemente l’esempio della suonata  « Dopo una letture de Dante » di Franz Liszt, interpretata in modo prodigioso dal pianista russo Arcadie Volodos. Egli ha pienamente ragione.

Io avevo scritto, nel 1997, un romanzo su Cesena e la Romagna (« Il quarto lato »). Un libro che non ha avuto quasi diffusione in Italia e non è stato amato da tutti con lo stesso entusiasmo o benevolenza.  Dopo una lunga riflessione, ho compreso in seguito che avevo deluso soprattutto quelli che si erano formati una certa idea di me, avendomi conosciuto « al tempo della regione Emila-Romagna », cioè in quel periodo del tutto straordinario, all’inizio degli anni Settanta, dove tutto nasceva (molti di noi erano giovani), in quei « sette anni d’oro » che si sono consumati, senza rimpianti né rimorsi, tra i ventisette e i trentaquattro anni.

A quei tempi, mi spostavo spesso da Bologna a Forlì o Cesena per i piani regolatori dei comuni grandi e piccoli, isolati in cima a una montagna, sparpagliati sul versante di una collina o concentrati nei crocevia di questa pianura dove si può ancora riconoscere la traccia dell’antica  centurazione romana. Allora, eravamo spinti a trovare sempre una soluzione positiva, anche se si aveva spesso a che fare con dei veri rompicapo giuridici e umani.  Io amavo molto scrivere e parlare alla gente. Ereditavo infatti da mia madre una orgogliosa inclinazione per la letteratura e da mio padre una certa disinvoltura avvocatesca, se non addirittura un gusto perverso per la ricerca a tutti i costi di un accordo tra interessi anche opposti.

Presto, il mio amore senza riserve fu condiviso. Fui accolto con un calore incredifile. Bologna e la Romagna – che mio padre mi aveva fatto conoscere dopo la mia infanzia – erano ormai la mia patria d’elezione, confermando in me il titolo segreto di luogo sacro dove erano nati mio nonno Zvanìn e i miei bisnonni, Cleta e Raffaele. Il linguaggio che affiorava ai miei occhi e alla mia bocca, prima di discendere nelle mie mani –  incaricate in seguito di gesticolare o di scrivere sull’Olivetti che appoggiavo disinvoltamente sulle  ginocchia -, era allora molto semplice e convincente e si adattava senza scosse quando dal parere urbanistico doveva passare al documento politico e sindacale.

Mettevo sempre molta passione nelle mie relazioni tecniche  e ancor più in quelle destiante a qualche più raro intervento pubblico. In realtà, non si trattava soltanto di passione professionale o ideale che aggiungevo alla mia tenacia naturale. Io facevo scivolare in questi scritti le mie frustrazioni letterarie. Risultato : ciò che scrivevo otteneva, qualche volta, un successo insperato durante le mie letture ad alta voce nel corso delle riunioni di lavoro.

Quando ho lasciato Bologna per rientrare a Roma, decidendomi incautamente, dopo qualche anno a passare, come Cesare, il Rubicone – fiume che d’altra parte scorre proprio in fondo alla collina di Sogliano, là dove noi abbiamo momentaneamente abbandonato i  nostri commensali, forse intenti in una accesa discussione -, e quando mi sono consacrato alla scrittura senz’altro scopo che la scrittura di per sé, ho dovuto sostenere una lotta accanita per affrancarmi da un certo ritmo « barocco », da un uso eccessivo di aggettivi e di avverbi ereditati dal mio lavoro di urbanista e da quella oziosa ricerca di frasi tecniche « dal volto umano. »

Inoltre, io non mi trovavo più là, a pochi minuti o ore dalla piazza del Popolo di Cesena. Non potevo arrivarci a piedi, senza  fastidio, direttamente dalla stazione, ripercorrendo quella gradevole passeggiata sull’antico acciottolato, lungo corso Strozzi, la Barriera, la Biblioteca Malatestiana e i portici della strada Zeffirino Re. Ciononostante, grazie a questa scrittura sfasata e fuori-tempo, ho potuto curare, se non del tutto cicatrizzare, gli strappi e le lacerazioni provocate dall’abbandono di una patria che stavo cominciando a ritrovare e assaporare. E quella piccola folla di personaggi del « quarto lato » aveva talmente popolato il luogo centrale del romanzo – la Piazza del Popolo -, che un giorno, tornando là qualche mese prima della conclusione  del libro, fui colto da una sensazione indimenticabile.

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Feci qualche passo in quel luogo, non saprei dire ora se mi semrava più grande o più piccolo, più largo o più stretto. Venivo dal mercato, che è situato al piano terra del palazzo comunale. Sotto le arcate, una stele è dedicata a mio nonno Zvànin, uno dei più gloriosi rappresentanti del socialismo riformista e dell’antifascismo italiano prima della seconda guerra mondiale. (Morì relativamente giovane, a sessantatre anni : confinato politico, per decreto di Mussolini, in un paesello sperduto del litorale jonico della Calabria.) Certo, la visione della lapide, con il ritratto in bronzo del nonno, mi aveva già colpito. Ma, al di là di lui e di tutti gli altri personaggi del romanzo, il fatto di entrare in quella piazza… Mi sentivo « nudo ». Ovvero, per essere più precisi, « sentivo » quel luogo come una persona. Una persona dolorosamente amata che mi veniva incontro, mi toccava,  attraversava i miei vestiti per aderire alla mia pelle… Caddi a terra e restai seduto lì qualche secondo. Provavo cio`che si potrebbe provare, credo, se si facesse l’amore con una donna che ci si è sforzati per tanto tempo di dimenticare e che invece, a sorpresa, si incontra di nuovo, parecchi anni dopo l’ultima telefonata.

Si può amare una città?

Ecco ciò che la citazione di Jan Doets mi ha fatto ricordare. Il mio corpo, talmente intriso dai pellegrinaggi dell’anima in questi luoghi amati e, forse, fin troppo sacralizzati, aveva assunto le informazioni prese in prestito alla città reale e le aveva fuse con le suggestioni della fantasia fino a piombare in uno stato di vero spleen stendhaliano. Con un aspetto di malinconia  erotica che solamente un corpo sano può ospitare.

Ma cosa avrebbero voluto trovare, in questo primo romanzo, i miei amici delusi? L’attualità o la verità delle nostre esperienze comuni ? Spero sempre che, rileggendolo, qualcuno di loro un giorno saprà riconoscere questa esigenza tormentosa di collocarmi in un tempo sospeso tra le generazioni. D’altronde non è un caso che là dentro, a fianco del personaggio evocato – Battista Alessandri, alias Zvànin, – e di Pio Foschi, il « capitale morale » della storia, il vero protagonista sia Libero, un equilibrista il cui temperamento, così gentile e generoso, assomiglia enormemente a quello di mio padre.

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 20 mai 2013

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Zvanì (pit n.2)

24 vendredi Mai 2013

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente di una tavola

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Bologna, Cesena, Dario Fo, Giovanni Pascoli

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

« Dalle parti di Schwann»… Quando si voleva vezzeggiare Zvàn, mio nonno,  lo si chiamava  « Zvanìn » o « Zvanì »…

Con la musica  accattivante di questo nome nel cuore, ho la sensazione che la Romagna si sposti come la zattera di pietra di Saramago e che vaghi a lungo  prima di fermarsi, in un luogo molto remoto, nella geografia dei miei sogni. Potrebbe chiamarsi altrettanto bene Samarcanda o Damasco o, anche San Pietroburgo. Io non  sentirei il peso della distanza, dato che questo luogo sarebbe sempre presente nella mia mente come i lunghi singhiozzi di Verlaine e i parapetti d’Europa di Rimbaud, vicini come questa tavola allegramente sparecchiata dove questo signore dall’aria intelligente è privilegiato dalla distribuzione, fin troppo complice, della luce.

D’altronde Zvànin è tutt’uno con gli altri partecipanti alla vigilia, a cui si rivolge  — mi sembra di sentirlo –  con una voce calma, convincente, nella loro stessa lingua cifrata, del tutto incomprensible per me. Zvànin è lo stesso di Jean, o Jan o John. È un modo di abbreviare la parola, di rendere più vicino e intimo un nome solenne come Giovanni o noioso come Johannes. Une specie di frenesia dell’abbreviazione e della variazione.

Quanto al suo linguaggio, è difficile tracciare dei confini. Certo, tutti dobbiamo, d’ora in poi,  condividere l’idea di Dario Fo di una grande, antica e originaria mescolanza delle lingue — la francese, l’italiana e anche la tedesca — che ha generato ciò che egli chiama « grammelot », un  miscuglio linguistico che concerne tutte le popolazioni della valle dal Po, da Milano al mare Adriatico. Tuttavia, si potrebbe tagliare verticalmente questa grande regione — la Val Padana —  che costeggia la riva destra del Po, il più grande fiume italiano, tracciando un’invisibile frontiera tra Piacenza e Parma. Infatti, in un certo qual modo, la Lombardia comincia a Piacenza, mentre Mantova, al di là del Po e sotto il dominio milanese, è una città senza dubbio « romagnola ». C’è qualche cosa di eccezionale in questa regione a sud del fiume. Basterebbero forse tre nomi per evocare un po’ lo spirito della sua prodigiosa cultura : Ariosto, Verdi e Fellini. Ma non si può sicuramente dimenticare Giovanni Pascoli — Zvànin, anche lui—, questo grande poeta a sua volta classico e intimamente impregnato di questa lingua musicale, di questo canto orgoglioso e « naïf », la cui eco si propaga, mescolata,  nei suoi versi.

Non bisogna neanche dimenticare l’inimmaginabile Rossini, colui che ha apportato a Parigi  la sagacia derisoria dello spirito romagnolo.

Questa lingua profondamente amata è stata la forza primordiale, il legame intimo che ha dato forza all’unicità e diversità dell’Emilia-Romagna. Una regione dove si è sempre difeso e al tempo stesso esaltato il rispetto per la cultura, la scienza, il diritto.

[Io amerei parlare in questa sede di Bologna, la più antica università d’Europa, e di ciò che sembra accadere oggi, in questo momento di riflusso  e di gravi difficoltà che turbano il mio paese…]

[In ogni caso, ancora oggi la lingua di Zvànin sembra salvarsi sotto i ciottoli degli affluenti del Po, dentro piccole grotte che la proteggono ancora per un po’di tempo  dai terremoti della terra e dalle ondate di cambiamenti e di oblio.]

La Romagna è un triangolo di campi e di pietra  dove numerose civiltà e poteri – gli imperatori, i papi, i comuni, le signorie –  si sono affrontati, senza rispetto né concessioni. Tuttavia, i vortici della Storia non hanno lasciato che delle tracce gentili in questa terra fertile, nutrita di genti naturalmente portate al lavoro e alla felicità. La strada che perfora più facilmente gli Apennini, unendo Roma a Venezia, incrocia proprio qui, poco lontano da questa riunione notturna, l’Emilia,  un asse stradale  tanto importante quanto il Reno per le popolazioni della Ruhr, che  discende perfettamente rettilineo da Piacenza, luogo molto ricco e  promettente, fino a Rimini… Non si finirebbe mai di decantare le meraviglie di questo triangolo che si disegna tra Imola, già romagnola, e Rimini e Ravenna, capitale quest’ultima dell’antico Impero bizantino… Questo triangolo esiste ancora.  Sulle sue coste  brillano a lungo, durante la notte, le voci di città dai nomi suggestivi come Imola, Faenza, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Rimini, Cesenatico, Cervia, Ravenna, Lugo, Bagnacavallo…

 A monte di questo triangolo  — che la nebbia avvolge in autunno e dove il calore s’installa senza muoversi per un’intera e interminabile estate  —, gli Appennini hanno un aspetto scosceso, talvolta minaccioso con quella alternanza di colline spoglie e di campagne simili a onde blu picchiettate di cipressi. Quando vi si sale – in auto o in moto, mentre  in passato vi si affanava un corriere titato da quattro cavalli — si è spesso  invitati a fermarsi, ad affacciarsi sui muretti per tentare di scorgere San Marino, o San Leo o Gradara, città fortificate collocate proprio in cima delle colline più aguzze e lontane. Tutto ciò fa paura e io credo che l’unicità della Romagna, il suo fascino sempre più avvincente, nasce dal contrasto tra questi mostri isolati e ben visibili e la popolazione invisibile, votata a questa terra… Da un lato, un potere minaccioso  — di uomini cattivi o di una natura talvolta temibile — , dall’altro lato un temperamento spontaneamente portato verso la vita.

Ma che differenza tra la Romagna e la Toscana ! In questa terra dove i confini non sono mai stati delle frontiere, la lingua è stata continuamente storpiata al passaggio dei numerosi invasori – provenienti da nord e da sud, ma anche dal mare, che non è mai stato un vero ostacolo – mentre l’accesso alla Toscana, circondata dalle montagne, era difeso a ovest da un mare sempre scosso dal vento, e,  a sud, dal Monte Amiata e dalle paludi malariche della Maremma.

Sia maledetta Ma-remma, Ma-remma/ Sia maledetta Maramma e chi l’ama./ L’uccello che ci va perde la penna/ Io ci ho perduto una persona cara…

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Ma, perché ho parlato della Toscana e alla fine della Maremma ? Che cosa ha a che vedere con mio nonno Zvànin e quella cena ? C’è un legame, perché io situerei questo raduno nel novembre 1913. Questa tavola non unisce due sposi e i loro invitati. Non ci troviamo alla vigilia del matrimonio di Zvànin con Mimì, che ha avuto luogo proprio all’inizio del secolo. Infatti nel 1913 la sua primogenita ha già unidici anni, la secondogenita  ne ha otto e il più piccolo, quello che porta il nome di suo padre garibaldino, ne ha sei.

Basta guardare con un pò più di attenzione questa foto per accorgersi che in questa riunione, oltre i parenti stretti di Zvànin— sua madre Cleta, al suo fianco già sofferente (sarebbe morta tre anni dopo) ; sua cugina Luisa, di cui si percepisce appena il viso affiorante dall’ombra ; Maria, la sua cugina più giovane, seduta alla destra del marito, il notaio di Sogliano e tre altri abitanti della casa, in piedi davanti alla credenza —, ci sono altri due personaggi. Si tratta probabilmente del sindaco e del parroco che non nascondono la loro estraneità alla scena.

Che cosa succede, allora? Questa sera, sul far della notte, Zvànin è il figliol prodigo che rientra all’ovile. Dopo anni di battaglie accanite e di sforzi mentali non indifferenti, non potendo i socialisti in Romagna ottenere abbastanza voti, essendo molto forti i repubblicani, egli è stato  appena eletto  nel collegio di Siena-Arezzo-Grosseto, in Toscana…

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 24 mai 2013

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Ritratto di una tavola (pit n.1)

23 jeudi Mai 2013

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente di una tavola

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Bologna, Cesena, Romagna, Sogliano al rubicone

La storia a puntate intitolata « Il ritratto incosciente di una tavola » – basata su due personaggi principali, mio nonno Zvanì (1973-1936) et il poeta Giovanni Pascoli (1855-1912), – si svolge in una parte d’ Italia da me particolarmente amata: l’Émilia-Romagna da Bologna a Rimini.

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Circa cento anni fa, nella sala da pranzo di una casa di campagna spartana,  ma accogliente, si era appena  finito di cenare. Sulla tavola, tra le salviette in disordine, una bottiglia di vino rosso dall’etichetta raffinata dominava il campo di battaglia dove le brocche vuote e le ampolle  semipiene dell’olio e dell’aceto  riflettevano à metà la luce color arancio del lampadario, acquistato a Bologna in occasione del matrimonio dei due ospiti.  Questi ultimi erano seduti di fronte, un pò discosti dalla tavola, contro la credenza con gli sportelli di vetro. Tutti i presenti, invece, erano allineati sul fondo della stanza per lasciare campo libero al fotografo. Tutte le sedie che avrebbero intralciato il primo piano della foto erano scomparse.  Questo accorgimento ideato dal fotografo crea una strano sfasamento. Infatti, sul lato destro della foto, in posizione privilegiata, un uomo in giacca nera è comodamente seduto nel posto che ha occupato per tutta la serata. È senza dubbio il protagonista di questo incontro, dove il carattere familiare dei rapporti tra le persone sembra arricchirsi o, forse, viziarsi un pò a causa di un avvenimento che i presenti stanno festeggiando o, piuttosto, celebrando. Che cosa sta accadendo? Dove ci troviamo? Fuori, fa freddo. La notte è caduta di colpo, tra stelle di ghiaccio. L’uomo giovane, in questo momento rigido e immobile nel fondo della stanza che l’unica lampada non può illuminare, farà molta attenzione a non scivolare sul  selciato, quando uscirà dal giardinetto per attraversare la strada e salire verso la sua stanza, i guanti  aggrappati alla balaustra di ferro.

Quanto al fotografo, questo uscirà dal vocio « confuso » della casa senza entusiasmo e senza pensieri. È ancora giovane  e perfettamente abituato all’accoglienza spartana della piccola pensione dove dormirà questa notte. Nessuno, in ogni caso, si occupa di lui, l’uomo invisibile, né del suo ingombrante apparecchio. Inoltre, attorno alla tavola, in quel momento, c’è un bel calduccio.

Il giorno in cui  ho trovato, avvolta in un fazzoletto, questa lastra scura — la sola instantanea a colori che io possegga del mio nonno paterno — ho subito riconosciuto la tavola, la credenza et il lampadario. Dunque, sono sicuro che questa riunione è avvenuta a Sogliano sul Rubicone, in Romagna, nella casa dei cugini del mio antenato amato et illustre, di cui porto, senza alcun merito, il nome e il cognome…

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 20 mai 2013

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Quanto tempo

22 mercredi Mai 2013

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Luna

bruttina 2004 740 Quanto tempo (1991)

Quanto tempo
tra le nostre rovine.
Più esperti
ma ancora ingenui
vulnerabili
ancora presi dal grande sogno
del mondo che cambia.
Più vecchi, in fondo
costretti a mille sotterfugi
per avviare la nostra
macchina deteriorata
tra le mille muraglie
per spingerla a scontrarsi
con finta gentilezza
contro il muro giallo e grigio
di un’ottusa, malefica
assenza di pensiero e azione.

Quanto tempo
prigionieri in questa città
di cartone e di sputo
(speriamo che almeno non crolli)
senza poterci elargire gentilezze
comode conversazioni, saluti, carezze…
002_combien de tempsQuanto tempo nei rigidi formalismi
nella finta professionalità
nei dignitosi vestiti grigi
negli articoli lunghi e concettosi
di giornali inflazionati.

Quanto tempo sta passando
tra un bel ricordo
un impossibile rimpianto
una rassegnata, modestissima speranza…

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 20 mai 2013

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Storia d’ufficio

21 mardi Mai 2013

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Solidea

001_storia d'ufficio def 740Storia d’ufficio (1994)

Come lui è impossibile
diventarci.
La sua giacchetta lisa
a grandi quadrati
il suo occhio arrossato
cisposo
il suo parlare assennato
lamentoso.
I suoi sabati che si consumano
con le sue vittime
quei Dioscuri entusiasti
della sua portentosa memoria
dei suoi altisonanti dettati
fitti di fantasiose risposte
lunghissime, al muro.

Grisaglia, indossato il cappottino
aggrappato alla semivuota cartella
sempre accompagnato
ha spesso viaggiato.
Ha anche perlustrato, indagato
e da qualche parte abitato.

Si incontra talvolta
furtivamente
con il più anziano Romandini
e curvi, dandosi piccole pacchette
entrano nel negozio
del vinaio.
Bevendo si fa strada
il ricordo dolce
imbiondito dal sole riflesso
che illumina il bordo
del bicchiere.
«Quella volta del concorso
nemmeno un rimborso,
quella volta dell’esame
tutto quel ciarpame
di inutili fogli protocollo
tanto già si sapeva.
Quella volta del Comitato
il Presidente era agitato
gli mancò il fiato
ma il progetto sbagliato
fu lo stesso approvato».

Grisaglia singhiozza
ridendo disperato
e Romandini l’osserva
annoiato.
«Eravamo pressati
schiacciati dalla terribile morsa
di quel Duca mantovano
che ancora sta lì, a darsi
dannose arie».
Quasi ogni giorno
su quel tram stridente
si cercava di capire
come fare a reagire.
«Capivamo, mio duca sovrano
ma tu restavi lì
ineffabile dietro occhialetti Beria
a studiare un nuovo
impunito imbroglio
per mortificarci».

Tra gli scaffali metallici
del vinaio
si è potuta trovare una sedia gialla
per Romandini esausto
affannato.
Grisaglia guarda inerme
inebetito:
oltre il vetro
sulla via di cacche di cani
passa la ducale carrozza
che tira-correndo
pratiche incendiarie.
002_storia d'ufficio 740Ora si dileguano
fanciullescamente aggrappati
in un ricordo gassato, alticcio
i due colleghi sconfitti
finalmente incuranti
di inservibili dignità.
Ex tenaci conservatori
di ordinati scaffali
e disordinati protocolli
nonché
di geniali incaute soluzioni tecniche
ex orgogliosi
e rovinosamente onesti
disprezzati per questo
gesticolano rabbiosi
lanciando, sconfitti
all’implacabile
orditore di ricatti
un sospiro di invidia.

Come loro è impossibile
diventarci.

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 21 mai 2013

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Essere, malessere

20 lundi Mai 2013

Posted by giovannimerloni in poesie

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001_il tram 81 1994 740Essere, malessere (1994)

Essere, malessere
questo è il problema.
Sentire tuo malgrado
l’incauto che vocia il suo
ripetitivo “non-c’è-problema”
questo è il problema.

Diventare Romandini
identicamente invecchiare
dietro spesse lenti appannate
camminare incurvati
farfugliando da soli
il fastidio
del quotidiano viaggio pendolare
questo è il problema.

Sentirsi morto
per la vitalità grigia
degli usurpatori
questo è il problema.

Sorridere di nascosto
tra piacevoli suoni
cercando di distendere la mente
su remoti prati e fiori
stringendo nella memoria
il ricordo di un bacio
segreto e sconcio
questo è il problema.

Ingrigire in silenzio
dietro un vetro impolverato di smog
ricordando qualche eroismo
qualche piroetta
qualche insospettata bravura
qualche bravo
magari  meritato
questo è il problema.

Seguire dalla finestra
lo zoppicante Romandini
prima che volti l’angolo
e decidere, come nella cabala
se io e lui potremo mai
diventare uguali
questo è il problema.
002_essere malessere 740Trovarsi fuori
nella grande piazza informe
mani e piedi e gambe e braccia
che rimbalzano incerte
tra facce sornione o disgustate
silenziose, marroni
distanti mille miglia.
Entrare nell’abitacolo infuocato
e appuntare
su un foglietto imbrattato
con la biro squagliata
una insistente domanda
questo è il problema.

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 20 mai 2013

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La nuova vita III/III

19 dimanche Mai 2013

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Solidea

001_trenino balduina 740

La nuova vita III/III (1992)

Ricomincia una nuova vita:
quantunque possa durare essa è nuova
compiacente e quasi dolce, ardua ma decifrabile
perfino lusinghiera.
Ha la dolorosa dolcezza dei ricordi
che affiorano a frotte
accarezzando il mio remoto orgoglio.

Ricomincia la vita, dopo la vita.
Una vita che sembra grigia
dopo i mille colori esplosi verso il cielo.
Le mille luci ora sprofondano nella nebbia
e i mille suoni giacciono, inerti
in una coltre di stoffa.

Ma sopravvivo, nonostante
le morse, gli stritolamenti, le cattiverie
l’assenza di entusiasmo e di distacco
l’assenza di gioia e stupore, l’assenza di parole
l’assenza di passeggiate. Sopravvivo
strisciando, accorto, contro il muro di mattoni
scacciando i pensieri nei giri viziosi, negli andirivieni
nelle lunghe inutili attese, nelle sale d’attesa
di mille stazioni.

002_portico ottavia 740

Ricomincia la vita
da questa agenda di numeri e nomi
da riempire o perdere, gettandola giù dal ponte
dove il treno immobile aspetta,
spento, nella notte.

003_eur ridotto antique 740

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 19 mai 2013

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La nuova vita II/III

18 samedi Mai 2013

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Solidea

001_due donne 740 La nuova vita II/III (1992)

Camminiamo sbirciandoci appena
senza vera curiosità, ancora
intorpiditi, segnati, lacerati
da precedenti disastri.

Comincia un secondo tragitto
dentro il luccicante vetro e i tubi
di un’architettura costruita in fretta.

Comincia senza fretta il tran tran.
Cominciano i ragionamenti muti,
meschini, inconfessati.
Ricominciano, nei tempi morti
i piccoli sterili progetti di fuga
le piccole infime strategie di sopravvivenza.
002_istruzione 740Ricomincia un viaggio
a braccetto con altri simili, dissimili,
dentro i logoranti contrasti
gli inchini da automi,
le proteste da automi
acquistando in sè l’apatia
e quasi l’allegria
per questo grande accomodamento
per questo collettivo delirio
che toglie – elargisce
toglie – elargisce
toglie – elargisce.
003_circo massimo 740Affacciato alla notte
che corre dietro il finestrino
ritorno a casa.

Mentre il treno rasenta le case
le montagne di terra, i lavori,
io sfioro
con la bocca ferma
le visioni improvvise e custodisco,
chiusa nel veloce pensiero, la famiglia
che appena mi saluta,
sventolando i capelli, che mi aspetta,
muta, dietro il finestrino, tra i bagliori.
004_garbatella 740(continua)

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 14 mai 2013

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