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~ ritratti di persone e paesaggi del mondo

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Archives Mensuelles: janvier 2016

Quest’ultima capacità di ragionare e sognare (Zazie n. 39)

28 jeudi Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in poesie

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Zazie

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Quest’ultima capacità di ragionare e sognare

Mi confortano
questi segni di matita
su fogli a perdere
quest’ultima capacità
di ragionare
e sognare.

Mi resta
la prigione dei miei desideri
che appannano
la cornice di vetro
del mondo.

Mi resta
questo lamento introverso
questa confusione angosciosa
questa solitudine rabbiosa.

Mi resta
la delineata prospettiva
di un solitario viaggio
tra gli ubriachi
tra i derelitti
tra i focosi paladini
di inutili battaglie
tra i rami
smorti e appassiti
di un bosco di cartapesta.

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Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta da ©Copyright

TESTO IN FRANCESE

È libero chi muore libero (Zazie n. 38)

25 lundi Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in poesie

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Zazie

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È libero chi muore libero.

E’ libero chi si abitua
a rimanere solo
in mezzo agli altri.
chi sa scegliersi gli amici
le compagne, i compagni.

È libero chi sa
tenersi un segreto
chi sa farsi carico
nella giusta misura
delle proprie responsabilità
del caos
di questa società
dei suoi sfavorevoli equilibri
della repressione
che aleggia dappertutto.

E’ libero chi mai oltrepassa
il suo limite, chi non parte
né crede
ai colpi di scena
alle lettere omicide
ai ricatti morali
alle vendette
ai silenzi definitivi,
chi sa parlare
al proprio corpo,
chi sa calarsi
per gradi nella lotta
nella scoperta
di nuovi mondi,
chi riesce a mantenere intatta
la propria identità
senza pagare il prezzo
di pesanti legami
col mondo.

È libero chi vive
con distacco,
chi lavora, lotta, si schiera
si incontra con gli altri
con distacco,
chi evita con cura
di trascinare di coinvolgere
di prevaricare
gli altri.

È libero chi si spoglia
della violenza,
chi guarda in faccia la realtà
con coraggio
e determinazione,
chi cerca
di fare chiarezza.

È libero chi muore libero.

Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta da ©Copyright.

TESTO IN FRANCESE

Nient’altro che versi (Zazie n. 37)

20 mercredi Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in poesie

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Zazie

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Nient’altro che versi

Nient’altro che versi
lunghi e sbrindellati,
discesi
in fondo alla terra,
rotolati
alla fine della vita,
ricolmi
delle voglie dell’anima,
dell’eresia del corpo.

Nient’alro che versi
di dolore
e di rabbia,
in forma
di treno osceno,
di cravatta sciatta.

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Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta da ©Copyright

TESTO IN FRANCESE

«Per un punto Martin perse la cappa» (Caramella n. 5)

17 dimanche Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Caramella

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«Per un punto Martin perse la cappa»

«Per un punto Martin perse la cappa»… Dovrei essere ormai abituato a certi «incidenti di percorso» che in me nascono, quasi sempre, dall’entusiasmo e dalla fretta, pessimi consiglieri tutti e due. Dopo simili incidenti farei meglio ad avanzare con un sorriso ebete e spavaldo, scrollando le spalle in segno di indifferenza. Non ne sono capace… Ma è necessario che almeno io cerchi di fare ordine, come il povero abate Martino, che rimetta al più presto al suo posto quel benedetto punto…
La storia di Martino e della cappa mi perseguita sin da bambino. Mio padre, che era molto intonato e sapeva suonare il violoncello, me la canticchiava spesso, seguendo il ritmo di danza dolorosa di Sheherazade o, a volte, il ritmo solenne e sognatore dell’incompiuta di Schubert… Non posso dilungarmi su questo punto del punto di Martino nella storia di famiglia, ma è certo che mio nonno materno perse quasi tutti i suoi risparmi per essersi ostinato, con sacrifici inenarrabili, ad accumulare e conservare titoli di stato che, si scoprì un giorno, valevano meno che francobolli scaduti. Le sue alte conoscenze di matematica infinitesimale gli avevano forse fatto sottovalutare l’importanza dei coefficienti, dei punti e delle virgole… mentre mio nonno paterno, per aver voluto tenere il punto dell’antifascismo, perse la vita.
Quanti punti e quante virgole si dovrebbero poter rimettere al loro posto per fare giustizia, magari postuma, ai tanti Martini che si aggirano per il pianeta, vivi, morti o moribondi, ignari tutti del loro comune destino! Ma nessuna riparazione potrebbe restituire quello che hanno ormai perduto: né la borsa né la vita!
Resta la cappa, su cui mio padre amava appoggiare, musicalmente, un piccolo tocco di enfasi finale. Nella leggenda, la cappa è appunto il mantello perduto o mai ottenuto dall’abate Martino per avere scritto una frase ambigua. O per meglio dire, per aver commesso l’errore — nell’entusiasmo della sua sincera bontà e nella fretta di ricevere un premio — di mettere un punto e forse anche una virgola là dove dovevano essere messi. Col tempo, man mano che la voce perentoria e cantante di mio padre si allontanava da me, a volte senza darmi il tempo di salutare, la cappa è diventata per me un qualcosa che inevitabilmente si perde, perché è quasi impossibile ottenerla e soprattutto mantenerla. In più, se la cappa può confondersi idealmente con la gloria o con una bellissima donna che decide di punto in bianco di ricambiare il nostro amore… la cappa rappresenta anche, di per se stessa, la paura di perderla. Il flessuoso mantello di lana che potrebbe coprirci e offrirci un indimenticabile calore provvisorio si trasforma inevitabilmente in una cappa… di piombo. E, di colpo, all’illusione subentra la beffa, alla casa magnifica e confortevole subentra una prigione gelida e impenetrabile.
Ah, quanto mi piacerebbe passare inosservato tra i banchi di scuola per andare a parlare un momento con il professor Steno Vazzana, di italiano… Sono certo che mi aiuterebbe a sbrogliarmela. Lui che ha trovato delle affinità tra Dante e Lucrezio e che tanto ha apprezzato l’apertura mentale di Italo Svevo, che egli amava definire «il primo scrittore italiano di portata europea»… Basterebbe pensare a Zeno Cosini e alla sua meravigliosa indecisione : due sorelle certamente diverse l’una dall’altra, ma con tantissimi punti in comune. Come fare a distinguere se si è distratti e obnubilati dalla paura di perdere la cappa? Perché scegliere? Così direbbe Steno Vazzana. Potrei raggiungerlo al suo ultimo liceo, il Vivona, nel quartiere dell’EUR dove si era trasferito… E, certo, avrei potuto chiedergli un appuntamento, l’ultima volta che lo vidi, nel 2000. Chissà se lui sapeva che presto, di lì a un anno… Il nostro professore di Italiano era una figura schiva e perfino trasparente, che vedo avanzare a passi corti e leggeri, sgusciando in mezzo a colossi come Punzi e Pagani o Manacorda senza curarsi di quello che poteva succedere alla sua povera ombra… L’ultima volta che gli parlai, non ebbi la presenza di spirito di chiedergli il perché della mia vocazione a farmi del male da solo, come direbbe Nanni Moretti. Una sua risposta mi sarebbe servita moltissimo, peccato. Ma posso forse trovare qualche spunto nel ricordo delle sue lezioni su Dante e in quello che mi disse un giorno a proposito della poesia.
Sull’onda di quelle lezioni, mi sono domandato con insistenza quello che deve aver passato Dante con Beatrice. Povero Dante! Un uomo venuto dritto per dritto dal dolce stil nuovo, uno dei fondatori di quella lingua «volgare» che finalmente si liberava dal latino raccogliendo tutte le virtù e le sfumature della «loquela», cioè della lingua parlata, un creatore così «concreto» e profondamente umano non avrebbe mai potuto «idealizzare» una donna inesistente. Colui che disse «amor che nullo amato amar perdona» non poteva elevarsi verso il divino senza portare con sé non solo la propria corporea e appassionata umanità, ma soprattutto quella dell’amata. Se per traversare l’Inferno e il Purgatorio Dante può contentarsi di un suo «pari» — il più grande dei suoi pari, Virgilio —, per ascendere nei cieli del Paradiso ha bisogno dell’aiuto di un essere «altro», di una figura diversa e complementare che faccia da tramite tra l’umano e il divino. Ed ecco che Beatrice, quella che Dante chiamava «la donna mia» diventa «l’avvocata nostra», un essere a metà umano a metà divino come la Madonna secondo tutti i Vangeli cristiani.
Certo noi due, Caramella, navighiamo, anche retrospettivamente, nella sacralità del ricordo di un passato comune, in una dimensione molto più pagana e disincantata di quella in cui viveva Dante. Siamo cresciuti in un Paese dove attraverso successive conquiste la donna ha potuto ottenere, sia pure ancora in modo insoddisfacente, una sorta di parità con l’uomo. Un paese è una società, anche qui in Francia, in cui si dà per scontata la cosiddetta «privacy», una parola divenuta secondo me orribile ma che fotografa abbastanza bene un problema…
Tornando a Dante e Beatrice, io mi domando quanto deve essere costata al nostro poeta sommo la scelta di fare della sua donna amata un personaggio e per di più l’ago della bilancia della sua gigantesca scommessa umana e letteraria. E mi domando se, allora, la cosiddetta «vox populi», invece di «seguir vertute e conoscenza» e di elevarsi, attraverso le parole di Dante, verso più ambiziosi traguardi, non abbia cercato «terra terra» di far risaltare, nella Divina Commedia la questione dell’amore sacro o profano tra Dante e Beatrice come se fosse quello e solo quello il suo motore… Mi sono visto davanti un gruppetto di sedicenti «parenti di Beatrice» assediare la Casa di Dante, a Trastevere, proprio mentre il professor Vazzana stava spiegando il canto… del Paradiso… Un gruppo armato di forconi innocui e antidiluviani, naturalmente. Ma «il modo ancor m’offende» avrà detto Dante, sentendosi mortificato da queste ingiuste e soprattutto squallide accuse.
Rileggendo la storia di Dante e Beatrice insieme a Steno Vazzana e Italo Svevo, verrebbe da dire: ma forse Beatrice aveva una sorella!
Purtroppo, Caramella, il mondo di oggi, quello che abbiamo creduto e sperato migliore per i nostri figli, sembra andare all’indietro. Non solo si impone l’intolleranza guerresca di popoli che vorrebbero inculcare ad altri popoli la loro ignoranza in cui sembrano inscindibili la violenza e il disprezzo della vita umana, in particolare delle donne. Ma anche i popoli cosiddetti evoluti sembrano scivolare e addirittura compiacersi in un colossale analfabetismo di ritorno.
Niente è scontato se ben ci ricordiamo quanto hanno sofferto D.H. Lawrence per il suo «amante di Lady Chatterley» o Vladimir Nabokov per «Lolita».
Il tempo ha dato loro ragione o, per meglio dire, qualcuno, in qualche parte del mondo civilizzato, ha dato loro una mano. E a nessuno importa se Dante fosse stato o no amante di Beatrice o della sua splendida sorella che, se fosse realmente esistita, avrebbe potuto perfettamente svolgere la parte della «donna schermo».
Ma il tempo è sempre galantuomo, con tutti? Quanti Martini, miseramente degradati e ingiustamente accusati riavranno mai la cappa?
Tutto questo giro di parole per dire che anch’io, Caramella, potrei imbattermi, per via della mia imprudenza, in qualche cupo malinteso. Come successe a Beatrice… Perché certo, se Dante avrà pianto Beatrice non avrà certo riso…
A volte le parole, o le immagini, sono ancor più gravi che i fatti reali… Purché si riesca a farli passare sotto silenzio, una vita di vera violenza e di vera e spesso grave prevaricazione può essere dimenticata o, per così dire, «condonata». Mentre le parole portano con grande facilità ai processi sommari, con il rischio sempre presente di perdere la cappa o la vita.

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Non posso sapere se noi continueremo o no, Caramella, questa nostra traversata. Ma sono contento che alcune cose essenziali si siano chiarite tra noi. Per esempio, avrei preferito lasciar credere che tu fossi la sola che potesse interessarmi tra le tante compagne e ombre vaganti della nostra strana classe… Ma cosa cambierebbe, in fondo, se d’ora in poi tu le rappresentassi tutte? D’altra parte, ora so bene con quale entusiasmo tu mi aiuteresti, con il tuo sguardo fulmineo e spiritoso, a portare a compimento la mia «Gerusalemme Liberata», proteggendomi da coloro che potrebbero cercare di convincermi a riscriverla all’infinito, e magari a rovinarla…

Giovanni Merloni

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TESTO IN FRANCESE

«Chi segue segue; chi non segue seguirà in seguito!» (Caramella n. 4)

14 jeudi Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Caramella

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«Chi segue segue; chi non segue seguirà in seguito!»

Caramella,
prima del nostro incontro di Ostia mi sembrava che tutto fosse attaccato a un filo, come nei film di Indiana Jones. Ma tu sei stata indulgente: all’altro capo della corda lì lì per spezzarsi, affacciata sull’orlo del pozzo scuro e gelato, mi hai tirato su. Quante volte ti sarai domandata «chi me lo fa fare?», ma poi il braccio l’hai allungato, preoccupandoti di far arrivare il filo fino alle mie mani. Energicamente, forse con l’aiuto di qualcuno, hai fatto passare la corda sulla carrucola e… mi hai salvato.
Ma poi, invece di correre subito ad abbracciarti, mi sono lasciato attrarre dalle sirene di Scilla e Cariddi come Ulisse. Tu eri una Penelope assediata che aspettava il suo vecchio amico. Non avrei dovuto tergiversare: questo incontro così raro, così unico, era più importante delle parole, più importante delle ansie che ingombrano la mia testa come droghe vere e proprie. Insomma, ti ho deluso.
Come Ulisse, sono arrivato sotto falso nome, rivestito di stracci e di cicatrici a te sconosciute. Non ti ho dato la possibilità di scoprirmi a modo tuo, seguendo il tuo infallibile istinto. Forse, se avessi saputo liberarmi della mia corazza di cartapesta, sarei riuscito a espugnare la tua isola!
Ora… mi ritrovo tra le mani un foglietto spiegazzato, su cui tu hai scarabocchiato una domanda: «che c’entra Punzi con Paparozzi?»
Ma tu lasci ancora sospeso tra me e te un esile filo… Un lunghissimo capello castano che, visto dall’aereo, sembra una tortuosa strada bianca che sparisce e ricompare al passaggio delle nuvole e al sottopassaggio delle montagne, per poi impaludarsi tra i riflessi accecanti dell’immenso delta del Rodano e… risalire, risalire, arrivando chissà come fino al mio portone. Già, davvero, che c’entra Punzi con Paparozzi?
Forse, qualcuno che non esiste, se fosse stato alunno dell’uno e dell’altro avrebbe potuto aiutarmi a spiegare oggettivamente e una volta per tutte una tale questione basilare o, più probabilmente, avrebbe suggerito di lasciar perdere: Punzi è Punzi e Paparozzi è Paparozzi.
Sta di fatto che per cinque anni di seguito io sono stato compagno di scuola e di classe di Paparozzi, cumulando di anno in anno la sublime esperienza di avere a che fare con un inguaribile primo della classe che era anche, cosa rara, un fuoriclasse. Nella maggior parte delle «galere chic», come io chiamo le scuole, come io le chiamo e considero, il primo o la prima della classe non è necessariamente un genio che ha la scienza infusa. Al contrario, si tratta di persone soprattutto volenterose e metodiche, spinte da un desiderio quasi religioso di primeggiare e che, se non primeggiassero, non saprebbero cosa fare.
Nella nostra classe, Caramella, se ben mi ricordo, non c’erano primi della classe né geni. Eravamo lo specchio dell’Italia pre-risorgimentale, costellata di staterelli decaduti e incapaci di primeggiare. In altre classi, come quella di mia sorella o quella di mio fratello, la regola più diffusa era rispettata, con dei «Pierini» che non perdevano un colpo e degli «elementi» capaci talvolta di exploit sorprendenti in questa o quella materia.
Nella classe da cui venivo, facevo parte dell’agguerrito gruppetto di coloro che perennemente inseguivano il fuoriclasse in fuga. Paparozzi eccelleva nelle materie letterarie e in disegno, ma se la cavava anche in matematica e in geometria. Per questa sua supremazia, perché nessuno lo copiasse, veniva relegato all’ultimo banco durante i compiti in classe. Più tardi, tra le leggende che serpeggiavamo nei corridoi fumosi all’ora delle pizzette — che i bidelli scaldavano per qualche minuto sui grandi termosifoni di ghisa —. si diceva che Musmarra, il professore di latino e greco della sezione D, faceva per lui un’ eccezione, sfidandolo a tradurre dal greco al latino e viceversa, essendo la versione in italiano troppo facile e scontata. Più tardi, quando Paparozzi era ormai una leggenda tra i professori della sua scuola, il liceo Pasteur, si raccontò che Paparozzi, non contento di decifrare testi greci e latini scoloriti e difficilissimi, aveva intrapreso una fitta corrispondenza con un professore dell’Università di Oxford che si divertiva a mandargli, dopo averli bruciacchiati qua e là, certi poemi sconosciuti. E Paparozzi rispondeva: certo si trattava di un’interpretazione… ma la soluzione era talmente brillante che ci si poteva giurare.
Ai tempi miei, Paparozzi era buono, calmo, riflessivo, silenzioso. Devoto della penna stilografica Pelikan, se ne serviva in classe per fare a tempo perso degli esercizi di calligrafia in gotico. Eravamo amici, in qualche modo, come lo si può essere quando la superiorità dell’uno sull’altro è fissata una volta per tutte. Abitava a Monte Mario, in un piccolo appartamento dietro al cinema Edelweiss. Figlio unico molto devoto, è stato sempre vicino ai suoi genitori che avranno passato la vita, io credo, a domandarsi come mai avevano potuto generare un figlio così speciale.
Dalla seconda media fino al quinto ginnasio avevo condiviso con Paparozzi la passione per il francese e la Francia. Per lui forse, questa cultura, sempre all’avanguardia dal punto di vista letterario, filosofico e scientifico, era una porta, un veicolo per introdursi e avanzare più speditamente nel suo gigantesco bisogno di sapere. Per me il francese era la chiave per entrare in un mondo che non poteva cambiare e dove, soprattutto, si respirava una particolare aria di libertà. Sia alle medie che al ginnasio avemmo la fortuna di due bravissime professoresse di francese. Ma Ortensia Lami, quella signora piccola e freddolosa con i capelli bianchi e vestito di lana nero alla Strehler, che forse avrai visto circolare per i corridoi del Mamiani seguita da un codazzo di fedelissimi «portatori» delle sue indispensabili stufe, fu un vero e proprio mito. Come non amarla, come non assimilare ogni angolo delle sue precise e indimenticabili parole francesi. Venendo a Parigi, ho poi immaginato che la Lami, se fosse rimasta in Francia con la sua famiglia, si sarebbe chiamata Hortense Lamy… ma la mia intraprendenza si ferma lì. A differenza di Paparozzi, che andava regolarmente a trovare la vecchia e arzilla professoressa, io non ci sono mai andato, se non una volta. Eppure, davanti a tante materie che amavo o odiavo in modo alterno, il francese, insieme alla geografia, erano le materie in cui ottenevo i migliori risultati. Al punto che capitò, qualche volta, in occasione di un compito in classe di francese, la Lami mi facesse sedere in fondo, vicino a Paparozzi…
Ti risparmio, Caramella, il ricordo di quegli strani e straordinari dibattiti che la Lami sapeva suscitare parlando della « religiosità » di Rousseau o della « vita reale » scritta-dipinta da Prévert, che furono tutti e due i miei primi maestri… Fatto sta che questa interminabile stagione di classi maschili, in cui si affacciava prepotentemente ma senza grosse speranze la questione amorosa, si interruppe bruscamente quando, invece di continuare a frequentare la sezione D, insieme a Paparozzi e al gruppetto dei pochi amici che pure mi ero creato, i miei genitori decisero per me, trasferendomi nella C.
Tra i nostri nuovi professori c’era Giuliano Manacorda, una persona nobilissima e carismatica che, si sapeva, era un intellettuale di sinistra… Ma non credo ci potesse essere solo questa motivazione. Perché « levarmi » da una classe dove in fin dei conti me l’ero sempre cavata? Mistero. E perché io non dissi niente? Forse perché tutto mi era indifferente? Ero diventato così, secondo loro, a forza di stare nell’ombra, e quest’ombra rischiava di diventare un alibi per non sforzarmi di primeggiare e, al limite, per non studiare.
Certo la classe con il fuoriclasse Paparazzi sembrava ipotecata da un destino implacabile. Per di più, tra la quarta e la quinta ginnasio, io avevo definitivamente perduto la cosiddetta « pace dei sensi » e non riuscivo più a studiare con la testa leggera, come prima. E Paparozzi, che mi sembrava ancora indenne da queste turbe disastrose, non poteva più essere per me lo stesso interlocutore. Ma, Caramella, i primi giorni che mi trovai catapultato nella classe dove c’eri anche tu… una classe finalmente mista, devo confessarti che, pur non avendo la consapevolezza di aver perduto, tra i vecchi compagni, qualche vero amico, mi trovavo ancora molto spaesato e confuso.

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«Siete quaranta!» urlò Punzi, con quell’inflessione dialettale avellinese che fu poi l’occasione di tante e tante imitazioni. Già all’inizio del liceo, nell’ottobre 1961, eravamo in soprannumero. Tre anni dopo, al primo anno di architettura, dove si iscrissero con me altri cinque nostri compagni, eravamo cinquecento! Si parla oggi della nostra generazione, quella dei nati alla fine della guerra, come della generazione dei « baby boomers », credo più « maschi » che « femmine », se vogliamo usare il gergo scolastico. La prima generazione che ha dovuto da un giorno all’altro fare i conti con quel cambiamento radicale della società occidentale di cui vediamo oggi una fase ancora più inquietante e minacciosa. Ma Punzi non era cattivo. Era terrigno, autentico, burbero ma benefico come il personaggio di Goldoni. Legato ancora ad un’idea, arcaica ma solidale, di una società che desiderava sinceramente sana e giusta, dove si doveva continuare a «dare a Cesare quel che è di Cesare»…
Lui non mi avrebbe sgridato, come invece faceva Manacorda, per tutti i fastidiosi avverbi — energicamente, metaforicamente, oggettivamente, probabilmente, necessariamente, perennemente, talmente, speditamente, regolarmente, prepotentemente, bruscamente, definitivamente. finalmente — con cui ho condito fin qui il ricordo del mio « faticoso passaggio » alla vigilia del nostro primo incontro. Punzi non si sarebbe nemmeno scandalizzato se, nell’imbarazzo della mia ignoranza di fronte a una domanda difficile, avessi detto, durante i miei incubi ricorrenti di esami che non finiscono mai, quel fallimentare «praticamente», una vera e propria gruccia secondo il professore di storia. Punzi era un tipo essenziale, consapevole dei suoi limiti. Severo ma non troppo. Un Bignami ambulante e in definitiva un ottimo professore, se si considera che tutta la classe arrivò in modo indolore alla maturità, credendo di sapere poco o niente e invece…
«Anacreonte viaggiò molto, oriente… occidente…» questa fu una delle sue frasi più celebri, insieme a quel «Non accetto più, non accetto più!» che rimbombava nel fondo della classe mentre la sua voce diventava gracchiante al momento topico del ritiro dei nostri compiti appena scodellati. Qualche giorno dopo, quest’uomo spelacchiato con gli occhiali spessi, piccolo e cicciottello nel suo abito grigio, entrava in classe sbattendo la cartella con i compiti, urlando: «Non ci avete capito un cazzo!»
Nel ricordo, questo suo comportamento era alla fine liberatorio, se si pensa che nell’interregno tra il compito e il voto le sue dichiarazioni erano spesso minacciose: «sto correggendo i vostri compiti col bilancino», oppure «la stretta di viti sarà ancora più sanguinolenta», oppure ancora «chi segue segue, chi non segue seguirà in seguito»…
Il ricordo di Punzi, che condividiamo con tantissimi ex alunni del Mamiani e si è tradotto in numerose «punzeidi» e, insieme agli amori segreti e forse inventati tra Pagani e la Rizzo — cioè tra il carismatico e tossicchiante professore di matematica e la vispa è un po’ algida professoressa di scienze — una delle poche cose vive e forti del nostro tempo trascorso su quei banchi senz’anima.
Per fortuna, oltre alla paura di dire «praticamente» o altri avverbi e parole di cui avremmo dovuto diffidare come di altrettante grucce verbali e alla certezza di essere di punto in bianco stigmatizzati per la nostra mancanza di… tutto, la cosiddetta « pace dei sensi » era da tutti, di comune tacito accordo, identificata con la polvere dei libri. Nella nostra «prima C», a parte la «signorina» Di Giulio e pochissimi altri, nessuno studiava. O per meglio dire nessuno strafaceva. Da questo punto di vista, andando a ritroso con la macchina del tempo, devo correggere il giudizio che mi sono portato dietro per tanto tempo. Quella classe apatica, amorfa, divisa in tanti staterelli come l’Italia all’indomani del congresso di Vienna del 1815, quella classe che Metternich avrebbe chiamato « mera espressione geografica »; questa classe formatasi nel 1961, che poteva assimilarsi all’Italia che si era formata proprio cento anni prima, in cui si dovevano ancora fare gli italiani… era in realtà quanto di meglio avrei potuto desiderare. Lo specchio delle mie e delle nostre brame.
Perché allora, in un epoca in cui già aleggiava la contestazione e l’insofferenza verso questo mondo adulto « imbalsamato », nessuno di noi avrebbe voluto uno specchio che gli dicesse «tu sei il più bravo e il più bello», perché tutti, invece, desideravamo, sotto sotto, che lo specchio ci dicesse, come ci diceva : «vedi? tutto scorre senza cambiamenti e tu, ancora una volta, sei passato inosservato!»
Vedi, Caramella, che cosa può produrre la solitudine e lo strano rimorso per delle colpe che sono certo di non avere commesso ? Finché tu non ti rifarai viva, io non farò altro che entrare e uscire da quello specchio.

Giovanni Merloni

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Sessantadue poesie per Ambra, «idolo della notte»

12 mardi Jan 2016

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Ambra

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Sessantadue poesie per Ambra, «idolo della notte»

Cari lettori e lettrici,
 aspetto una risposta, da parte di Caramella, che considero molto importante per la nostra corrispondenza e per il seguito del mio impegno, reale e virtuale, con il nostro lontano passato comune… Un’epoca adatta ai canti poetici da rivolgere a donne misteriose come Caramella o anche a donne inesistenti o legate a granelli di sabbia… Un’epoca in cui la pagina bianca era destinata alle lacrime più disperate mentre la pagina grigia, verde e rosa della realtà quotidiana non mancava, invece, di momenti inattesi di allegra spensieratezza…
Ma voglio approfittare di questa momentanea interruzione per parteciparvi oggi un secondo risultato del mio oscuro lavoro… che mira a rendere il mio blog sempre più trasparente e aperto ad una consultazione più soddisfacente e organica.
Dopo avervi messo in relazione con l’insieme delle poesie della raccolta «Ossidiana», d’ora in poi voi potrete trovare qui, se vi interessa, la totalità delle 62 poesie della raccolta «Ambra», che potete anche leggere «d’infilata», rovesciate rispetto all’ordine cronologico, a partire dal tag-parola d’ordine Ambra che del resto figura nella «nuvola» sul lato sinistro della pagina di ingresso.
Non sono in grado di inquadrare «storicamente» questo gruppo di poesie, in maggioranza indirizzate alla ragazza che condivideva le mie prime vicende, meno passionali che sentimentali. Posso semplicemente certificarvi che Ambra, con i suoi capelli lunghi alla Catherine Spaak e il suo humour napoletano era riuscita talmente bene a farmi uscire dal mio bozzolo, che per amor suo ho talvolta rasentato la follia se non l’idolatria. Due sue espressioni resteranno scolpite nella mia memoria insieme ad un fondo di incredulità. La prima riguardava Venezia, la più bella città del mondo secondo me, dove vorrei poter correre almeno una volta all’anno se fosse possibile. Ma per Ambra «Venezia puzzava di uova marce…»! La seconda era un po’ il suo biglietto da visita: «c’è sempre l’eccezione che conferma la regola!». Sconcertato da queste due frasi, ho sempre resistito su Venezia, senza però mai convincerla a seguirmi lassù… quanto all’eccezione e alla regola, ho provato a seguire la regola quando lei si aspettava da me l’eccezione, e viceversa. Ma, contro la matematica applicata alla vita di un giovanotto esuberante e maldestro, non c’è niente da fare! 
Come per Ossidiana, anche per Ambra l’impegno che mi aspetta, prima di poter considerare assolti i miei compiti verso questo pezzo ancora vivo e importante della mia «vita ormai vissuta» — corrispondente alla prima metà degli anni sessanta del secolo scorso —, sarà soprattutto quello di rielaborare una a una le poesie ancora imperfette o per così dire «incomplete».
Per concludere, un breve accenno al ©Copyright. Ho abbandonato il sistema Créative Commons in considerazione del fatto che la quasi totalità dei testi e delle opere grafiche che pubblico qui sono mie opere originali che ho assoggettato a una doppia tutela: sia affidando il blog alle cure di Copyright France, sia depositando periodicamente i testi e le immagini. Dunque, fatta salva la piena libertà di consultazione, chiedo a tutti i visitatori del «ritratto incosciente» di rispettare i miei diritti d’autore dei testi e delle immagini grafiche qui pubblicati.

Giovanni Merloni

002_spaak - copie

Perdono, cantata da Catherine Spaak, testo e musica di Gino Paoli

ARCHIVi TAG: AMBRA

AMBRA in italiano

Prenderò questi stracci, 1962 (Ambra n. 1)
02
Mercredi
Jan 2013

La mia vocazione alla vita, 1962 (Ambra n. 2)
30
Mercredi
Jan 2013

Vanno a riprendersi i vestiti smessi, 1962 (Ambra n. 3)
31
Jeudi
Jan 2013

Camminavo da solo col sole alla nuca, 1962 (Ambra n. 4)
04
Lundi
Feb 2013

Una nuvola, e tu dentro, 1962 (Ambra n. 5)
28
Jeudi
Feb 2013

Mi racconti i tuoi ricordi, 1963 (Ambra n. 6)
12
Mardi
Mar 2013

La sigaretta, 1963 (Ambra n. 7)
15
Vendredi
Mar 2013

Piedi per terra, 1963 (Ambra n. 8)
16
Samedi
Mar 2013

Amore e asfalto, 1963 (Ambra n. 09)
14
Dimanche
Jul 2013

Mi parli di un’altra città, 1963 (Ambra n. 10)
05
Lundi
Aug 2013

Qui / là, 1963 (Ambra n. 11)
06
Mardi
Aug 2013

Frammenti I/II, 1963 (Ambra n. 12)
10
Samedi
Aug 2013

Frammenti II/II, 1963 (Ambra n. 13)
11
Dimanche
Aug 2013

La tenda nera, 1963 (Ambra n. 14)
16
Samedi
Nov 2013

Al museo, 1963 (Ambra n. 15)
17
Dimanche
Nov 2013

Non smetto di amarti, 1963 (Ambra n. 16)
29
Vendredi
Nov 2013

Partiremo un giorno, 1963 (Ambra n. 17)
01
Dimanche
Dec 2013

La mia chitarra ha mille voci, 1963 (Ambra n. 18)
01
Dimanche
Dec 2013

Nemmeno una carezza, 1963 (Ambra n. 19)
01
Dimanche
Dec 2013

Avevo sperato, 1963 (Ambra n. 20)
01
Dimanche
Dec 2013

Nel chiuso della notte, 1964 (Ambra n. 21)
02
Lundi
Dec 2013

Mi addormentavo col corpo riverso, 1964 Ambra n. 22)
02
Lundi
Dec 2013

Un saluto sbagliato, 1964 (Ambra n. 23)
02
Lundi
Dec 2013

Lo straniero, 1964 (Ambra n. 24)
02
Lundi
Dec 2013

Sprofondiamoci, 1964 (Ambra n. 25)
02
Lundi
Dec 2013

Io somiglio, 1964 (Ambra n. 26)
08
Dimanche
Dec 2013

So di amarlo, 1964 (Ambra n. 27)
17
Mardi
Dec 2013

Mi parli in inglese, 1964 (Ambra n. 28)
18
Mercredi
Dec 2013

Aspettiamo, 1964 (Ambra n. 29)
19
Jeudi
Dec 2013

Quando tu non ci sei, 1964 (Ambra n. 30)
20
Vendredi
Dec 2013

L’alba entra nel fiume, 1964 (Ambra n. 31)
21
Samedi
Dec 2013

Il grigio mattino, 1964 (Ambra n. 32)
22
Dimanche
Dec 2013

Idolo della notte, 1964 (Ambra n. 33)
02
Jeudi
Jan 2014

No, 1964 (Ambra n. 34)
07
Mardi
Jan 2014

Tu che passi da sola, 1964 (Ambra n. 35)
07
Mardi
Jan 2014

Mi innamoravano, ricordo, 1964 (Ambra n. 36)
07
Mardi
Jan 2014

Il treno è partito, ci ha separati, 1964 (Ambra n. 37)
28
Vendredi
Mar 2014

Nel cuore buio e nero della via, 1964 (Ambra n. 38)
29
Samedi
Mar 2014

Addio, amore del vero amore, 1964 (Ambra n. 39)
28
Mercredi
May 2014

Per noi che tutto dimentichiamo, 1964 (Ambra n. 40)
06
Vendredi
Jun 2014

La polizia sfondò la porta, 1964 (Ambra n. 41)
16
Lundi
Jun 2014

« Papà è morto », 1964 (Ambra n. 42)
17
Mardi
Jun 2014

Rinchiudete in quattro linee precise, 1964 (Ambra n. 43)
20
Vendredi
Jun 2014

Mi sono accodato a una fila di passi, 1965 (Ambra n. 44)
20
Vendredi
Jun 2014

Ombre rosa e celesti, 1965 (Ambra n. 45)
20
Vendredi
Jun 2014

La periferia accende luci smisurate, 1965 (Ambra n. 46)
20
Vendredi
Jun 2014

Davvero nessuno, 1965 (Ambra n. 47)
20
Vendredi
Jun 2014

Gente, gente, 1965 (Ambra n. 48)
20
Vendredi
Jun 2014

Si apre il sipario, 1965 (Ambra n. 49)
22
Dimanche
Jun 2014

Vieni di nuovo, 1965 (Ambra n. 50)
25
Mercredi
Jun 2014

Giorno e sera, 1965 (Ambra n. 51)
26
Jeudi
Jun 2014

Aspetto, 1965 (Ambra n. 52)
27
Vendredi
Jun 2014

Ho scritto sulla roccia, 1965 (Ambra n. 53)
30
Lundi
Jun 2014

La grotta a forma d’orecchio, 1965 (Ambra n. 54)
01
Mardi
Jul 2014

Su quel tavolo i fogli, 1965 (Ambra n. 55)
08
Mardi
Jul 2014

Carrozze sotto i piedi, 1965 (Ambra n. 56)
09
Mercredi
Jul 2014

Sarò un nomade, 1965 (Ambra n. 57)
22
Mardi
Jul 2014

Non dire niente, 1965 (Ambra n. 58)
23
Mercredi
Jul 2014

I cani li restituisco alla pioggia, 1965 (Ambra n. 59)
26
Samedi
Jul 2014

Adesso, 1965 (Ambra n. 60)
29
Mardi
Jul 2014

Il saluto del vento, 1965 (Ambra n. 61)
29
Mardi
Jul 2014

Ti sono debitore (Ambra n. 62)
13
Mardi
Jan 2015

Giovanni Merloni

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TESTI IN FRANCESE

Di che parlava, il film della tua vita ? (Caramella n. 3)

09 samedi Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Caramella

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Di che parlava, il film della tua vita ?

Caramella,
le lettere sono andate perdute. Scusami questa espressione « napoletana » per dire che il nostro epistolario è sparito. Come se non fosse mai esistito. Perché, se è vero che il disco rigido del tuo computer non dà più segni di vita, nel mio caso è successa una cosa ancora più grave e definitiva. Mi ero illuso che i nostri messaggi sarebbero stati eternamente conservati in quella specie di biblioteca virtuale dove andavo a cercarli. Ma avevo sottovalutato l’infernale meccanicità della macchina : sono bastati sei mesi di inattività… perché « quelli » mi cancellassero tutto! Mi sembra la tragica storia di mia sorella, a cui mancavano solo tre esami per laurearsi in giurisprudenza. Aveva passato tanti guai, si era ammalata… finché un giorno ricevette una lettera in cui le dissero piuttosto seccamente che ormai tutti gli esami che aveva fatto non valevano più un fico secco. Era come se non li avesse mai fatti… Ma anche noi, Caramella, nello scrigno spezzato della nostra corrispondenza avevamo riversato tante lacrime insanguinate…

Potrei decidermi a prendere l’aereo. Si tratta solo di due ore di volo, in fondo. Per di più, a Fiumicino, posso affittare una macchina… Mi darebbero, se gliela chiedessi, quella Nuova Fiat 500 che finora ho visto solo da fuori. Poi, dall’aeroporto, se ben mi ricordo, c’è la scorciatoia… di via della Scala! Una via lunga, abbastanza trafficata ma confortevole che costeggia lo specchio d’acqua esagonale dell’antico porto di Traiano, poi l’abitato di Isola Sacra, per attraversare alla fine il Tevere sull’ultimo ponte prima della foce…
Caramella, quante emozioni mi evoca la sola idea di questo viaggio da un aeroporto a un bivio! Ma ti devo confessare, se non fosse per la macchina a nolo e il timore di strusciarla contro qualche paracarro, che non resisterei all’imperioso richiamo della gita al Faro più squallido che si possa immaginare, o alle quattro casette sbilenche della via del passo della Sentinella… Questi soli nomi, pur attirandomi come una specie di calamita, mi fanno rabbrividire, riportandomi dei ricordi in cui la piccola gioia di essermi sentito vivo si fonde a un’angosciosa sensazione di pericolo. Genio e sregolatezza, terrore e attrazione, sotterranea paura e coraggio insensato… Passato il ponte, la strada diventa più anonima, fino all’Ostiense ovvero la « via del Mare ». Sarei ormai quasi arrivato a casa tua.

«Ho avuto molti problemi fisici e sono stata molto triste. Non mi sentivo all’altezza di raccontare niente che ti potesse interessare. Non avevo neppure più il mio habitat.: la bella scrivania di cristallo e bambù… la mia poltrona, dalla quale vedevo fuori la campagna. Avevo lasciato la mia villetta e mi ero trasferita nell’appartamento dove vivo tuttora. È carino, dentro, anche se piccolissimo, ma situato in un palazzo squallido…»

Arrivo, arrivo… Ma prima, permettimi di fare una piccola deviazione, devo correre a via dell’Idroscalo per fare una breve visita a Pasolini… Qui in Francia si parla tanto del suo genio straordinario… Se non colgo la palla al balzo, rischio di by-passare per sempre questo luogo così angosciosamente « pasoliniano », dove il grande regista-filosofo è morto quarant’anni fa. Eh sì, Caramella, è passato già tanto tempo da quella notte di cupi presagi che passò come un’ombra gelida in mezzo ai nostri entusiasmi. Nessuno aveva voluto credere al Tiresia contemporaneo che aveva capito tutto in anticipo, sulla sua pelle, mentre noi, nella nostra giovanile incoscienza, non sapevamo di essere così presuntuosi e astratti. Abbiamo voluto continuare a illuderci sulla capacità del nostro paese di uscire da solo dalle innumerevoli imboscate che lo facevano vivere in una eterna agonia. Niente mi sembra cambiato, in questa località che ho già visitato una volta : un luogo senza personalità dove si è consumato un efferato delitto, impunito, contro l’umanità. Ma vorrei lo stesso andarci, scendere un attimo dalla macchina nuova di zecca e… chiudere gli occhi per ascoltare le grida dei gabbiani in transito su questa via derelitta e risentire la voce stridente del poeta mentre scandisce una delle sue disperate ribellioni…

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Forse, in quel momento irripetibile, mi piomberebbero addosso, come in un film di Pasolini, le frammentarie visioni dell’acciottolato romano di Ostia antica, il silenzio dei pini contro il cielo spensierato… insieme a un’altra voce inascoltata, quella del mio amico Ascani. Chino ore e ore sul suo incredibile pachwork di foto aeree in fotocopia, Ascani aveva ricostruito pezzo per pezzo le tracce dell’antica città di Portus, che sorgeva lì vicino, oltre il vecchio Idroscalo, in un territorio che non esiste più, enormemente cambiato anche per il sensibile arretramento della linea costiera. Duemila anni fa, tra l’Isola Sacra e il mare, esisteva un’immensa Rotterdam donde partivano le temibili flotte dell’antica Roma… Ma nessuno ha mai voluto dare retta ad Ascani né esaminare qualcuna delle sue scoperte…
Caramella, tu forse sei gelosa di questa mia tendenza a rifugiarmi in digressioni e in giri viziosi da cui tornerò annichilito e stanco. Ma questi pensieri hanno dato uno scopo alla solitudine delle mie corvée su e giù per l’Italia, generando dentro di me questo mio tipico bisogno di raccogliere le sfide, anche quelle più difficili. Col tempo questa mia seconda natura è diventata una compagna di viaggio fin troppo esigente, ma sempre pronta a perdonare le mie fughe… Spero che mi perdonerai anche tu, quando busserò, un giorno, alla tua porta…

«I primi mesi, ogni volta che percorrevo il lungo corridoio che portava alla mia porta e finiva in fondo con una portafinestra con una tendina, piangevo. Sia nella vendita della vecchia che nell’acquisto della nuova casa, avevo avuto tanti problemi. C’è molta gente disonesta e quando si fanno dei cambiamenti si rischia di imbattersi in qualcuno che non si vorrebbe mai aver conosciuto, compresi i professionisti che ti assistono. E poi sono sola. Il cambiamento di zona mi aveva allontanato dai miei amici. La mia famiglia era ormai andata in pezzi. Nel 2011, anche la mia dolce cagnolina era morta.»

Ho bussato alla porta. Nel silenzio prolungato dell’attesa, vedevo Pasolini come un padre,  ucciso a tradimento da una masnada di figli ingrati, proprio come Cesare… quando la tua porta si è aperta da sola e ha preso a ruotare verso sinistra, rivelando un pavimento luminoso, un grande divano e, in fondo, una portafinestra dietro cui si indovinava un balcone. Schiacciata dietro la porta spalancata, trattenendo il respiro, aspettavi che entrassi e mi avvicinassi alla luce naturale.
— Siediti.
— Caramella…
— Lo vedi, è molto piccolo. Ma mi sto abituando.
Ricordo che abbiamo parlato delle lettere. Tu ne avevi conservata una, scritta da me nel febbraio 2011. La lettera parlava di Manacorda, il nostro amato professore di storia e filosofia… quello che ci sorprese mentre stavo abbottonandoti il grembiule.
— Ma quanti bottoni, Caramella!
— Un vero e proprio strazio, se si pensa che a quei tempi Catherine Spaak andava in giro in minigonna!
— Caramella, sono passati più di cinquant’anni… e tu continui a vagare nella mia testa…
— Solo nella testa?
— No, dappertutto… Ma la sabbia di Ostia è ancora nera?
— Sì, è nera, c’è il ferro!
— Trovo inquietante questa « cosa » che si incolla ai piedi, alle mani e finisce per cambiare il nostro aspetto!
— Invece… avevi replicato, questo lato selvaggio ci rende più umili e concreti. Nei film di Pasolini che tu ami tanto, non troverai mai la sabbiolina invisibile dei serial televisivi, ma la sabbia nera che abbiamo qui.
— Durante la mia lontana parentesi a Ostia, la sabbia nera, pesante e pungente, mi sembrava quasi scandalosa… Era la fine dell’estate del 1962, cominciata con la nostra famosa passeggiata nei prati di Villa Borghese… Tornando da Cesenatico, non ero andato subito a casa, ma avevo raggiunto qui mia madre e mia sorella.
— Ostia fu una delusione, vero?
— A Cesenatico avevo finalmente baciato una ragazza e, per mantenere il ricordo, avevo smesso di farmi la barba e di cambiare maglietta… Alla stazione di Cesena, mio padre mi aveva preso in giro, mentre mia madre, appena arrivato a Ostia, mi aveva portato dal barbiere.
— Ma tu ci sei venuto anche qualche altra volta, birichino che non sei altro! Sempre con tua madre e tua sorella… o con qualche altra donna ?
— Pochissime volte. Di corsa, in macchina, per allontanarmi un po’ da Roma, per assaporare l’ebbrezza dello sradicamento…
Avrei voluto parlarti della lentezza incredibile dei miei progressi, della mia graduale emancipazione attraverso i piccoli gesti della vita quotidiana, quando ero ancora molto lontano dai grandi gesti dell’amore. Quanto tempo ci avevo messo prima di trovare il coraggio di spezzare i cordoni che mi legavano come liane robuste o serpenti! Avrei voluto raccontarti che, durante l’ora di ginnastica, facendo comunella con due dei nostri compagni, Bodo e Cassetti, mi nascondevo negli spogliatoi in mezzo ai cappotti. Cassetti si puliva le scarpe con la sciarpa di qualche compagno distratto dalla palla a volo, Bodo leggeva un libro di Faulkner o di Steinbeck mentre io sgattaiolavo fuori dalla porta posteriore e, come un cospiratore — il cancello era sempre aperto —, uscivo dalla scuola. Ma non osavo andare oltre il nostro bar-chioschetto e l’annessa fontanella presso il glorioso platano dove si formavano sempre gruppi e capannelli. Solo una volta, tutti e tre, osammo spingerci, durante l’ora di ginnastica, fino al muretto che si affaccia sul Tevere in piazza delle Cinque Giornate!
Ironia della sorte… esattamente in quel punto là ti avevo incontrata, qualche anno dopo l’uscita dal liceo. Quel giorno tu eri con delle amiche, presa da un’animata discussione. Nonostante ciò, prima di lanciarti sul ponte in direzione del Ministero della Marina, tu mi regalasti uno smagliante sorriso che mi fece venire la pelle d’oca. Vedi, avevo dimenticato questo saluto fuggitivo e la benevolenza del tuo ultimo sguardo. Ma questo sorriso nella luce complice di Roma si perde, ormai, nella notte dei tempi. Ora…
A questo punto, levandomi la parola, tu hai detto, bruscamente: — stavamo parlando di Ostia, una piccola « colonia sprovvista di volontà propria » come tu dici… Ma davvero conosci questa « colonia » soltanto dal di fuori, superficialmente, come una pura e semplice cartolina? Devo crederti?
— Be’, se ci penso meglio… un ricordo affiora. Ed è piuttosto intenso. Alla fine di una passeggiata sul lungomare di Ostia con una persona che ti somigliava, insistevo per andare in un alberghetto che avevo adocchiato. Un posto anonimo, senza altro che una scritta sbilenca fatta con in neon blu. Seduti in macchina, lei mi rimproverò a lungo, dicendomi che con il mio amore assoluto, sconfinato e premuroso, non le lasciavo il tempo di prendere lei stessa un’iniziativa qualsiasi…
— Perché me ne parli ? dicesti.
— Perché anche poco fa, quando sono arrivato, avrei voluto abbracciarti come se fossi tornato dalla guerra. Ma mi sono imposto, come in quell’episodio che ti stavo raccontando, di calmarmi, di aspettare che tu ti abituassi a questa… sorpresa.
— Non mi sono abituata e non sono affatto tranquilla !
— Allora stiamo ancora un po’ qui, seduti in poltrona, senza dire una parola, aspettando che la tensione si calmi prima di stringerci affettuosamente la mano!
— Ma quella tua fuga, come è andata a finire ?
— Lei mi sgridò. Più insisti, mi disse, più mi chiudo nel mio guscio! Rassegnato, allargai le braccia, mi accasciai sul sedile e dissi: Va bene, hai vinto tu, andiamo via!
— Ma, subito dopo questa rinuncia clamorosa e definitiva, tu scendesti dalla macchina e ti avviasti verso il neon blu della scritta, vero?
— Come fai a saperlo?
— Io so tutto.

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Ora, da quest’altissima poltrona solitaria che mi riporta alla mia realtà, mentre osservo il mare dietro l’ala argentata del Boeing 707, cerco invano di ripercorrere i fili e i suoni di quel colloquio lunghissimo in cui, la mano nella mano, io e te eravamo riusciti a sconfiggere la banalità del tempo…
Guardando fuori dalla finestra come si fa quando ci si parla in macchina, come due vecchi-adolescenti, avevamo lasciato finalmente scorrere delle vere parole, insieme a vere lacrime di gioia, scoprendo che quelle lettere erano rimaste indelebili su una pellicola invisibile che scorreva davanti ai nostri occhi, alle nostre bocche, alle nostre mani.
— Di che parlava, il film della tua vita?

Giovanni Merloni

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TESTO IN FRANCESE

Vieni, c’è un pacco in cima alle scale ! (Caramella n. 2)

06 mercredi Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Caramella

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Vieni, c’è un pacco in cima alle scale !

Caramella,
Sto facendo un po’ di confusione. Tu mi hai detto: — Vieni, c’è un pacco da scartare in cima alle scale ! Ma senza altre spiegazioni questo invito vaga nella mia testa agitata come quegli aeroplanini di carta che si facevano in classe durante l’ora di religione e vedo ora volteggiare sul mare di Ostia.
Di quali scale intendevi parlare ? Forse dei cento ventiquattro gradini che portano all’Aracœli ? Là dove ci mandò una volta la professoressa Cellini con quel suo perentorio « da riconoscere » ? C’eri anche tu in quella specie di orda di vandali? Tanti gradini tutti d’un fiato non sono uno scherzo, ma ne valeva la pena. Lassù, chi pensava al panorama di Roma? Nessuno di noi aveva il tempo o la voglia di scalfire la solida scorza della nostra beata ignoranza per accorgersi di quella mostruosità. Quella povera chiesa, quasi nascosta dietro una modesta facciata di mattoni, sembrava una bella paesanotta presa in trappola, così brutalmente incastrata tra i marmi del palazzo michelangiolesco e quelli, di un bianco ancora più falso, dell’immenso monumento al Milite Ignoto. Anche tu chiamavi questa assurdità urbanistica e architettonica  « la macchina da scrivere », e ridevi, illuminandoti tutta. Ma, in quella giornata che fu a lungo indecisa tra il sole e la pioggia, tu ti trinceravi dietro un impermeabile, come del resto le altre due o tre compagne che erano con te. Questo vostro riso complice formava un cerchio invalicabile. E io, per spezzarlo, non avevo nemmeno la scusa delle sigarette. Allora, nel marzo del 1962, in piedi nell’esiguo sagrato della chiesa di Santa Maria in Aracoeli, voi quattro non fumavate di certo. Ma vi ricordo benissimo, infagottate nei vostri grembiuli neri, entrare e uscire fumando dai gabinetti delle donne…
Ma forse quella mattina tu non c’eri, forse sono io che voglio a tutti i costi imprigionarti in questo ricordo così nitido. Può anche darsi che quell’antico altare romano issato sul bordo del cielo fosse invece un tuo luogo segreto e che ora, idealmente, vorresti tornarci con me.
Forse sono su una falsa pista. Ma mi ricordo che la tua scrittrice preferita era Elsa Morante e tu hai letto di sicuro «Aracœli», pubblicato vent’anni dopo la nostra visita. E mi ricordo che durante un’interrogazione raccontasti a Vazzana quanto ti era piaciuta «L’isola di Arturo», che si svolgeva nell’isola di Procida, l’isola degli amori proibiti…
Ti vedo scuotere la testa e dire «no». Impossibile aspettarsi di trovare questo pacco misterioso sul sagrato di una qualsiasi chiesa in cima a una scalinata.
Ma sono irresistibilmente attirato dalla tua natura di lettrice accanita. Tutto ciò mi condurrà in un labirinto parallelo, in un cul de sac… ma non posso farci niente. Sono qui, e ti osservo dal mio quarto banco… Io e te abbiamo in comune il corridoio tra i banchi e tu sei là, seduta al terzo banco della fila, tutta femminile, che costeggia il muro dove si apre la porta della classe…
Leggevi sempre, o forse, come me, studiavi forsennatamente da un’ora all’altra. Oppure ti guardavi intorno, interrogativa, roteando lentamente il tuo lungo collo di giraffa castana come se fosse il periscopio del sottomarino dipinto di rosa di « Operazione sottoveste » con Cary Grant e Tony Curtis… Mi piaceva la tua aria distratta, la leggera patina di polvere scolastica che proteggeva i tuoi eventuali colori. In quell’epoca avevo sempre sottomano due libretti che mia madre aveva portato da Parigi con alci i capolavori di Renoir e Degas. Per me, Caramella, tu eri una delle bagnanti di Renoir, quella con i capelli tirati su.

002_aracoeli muratoreFoto di copertina dell’articolo « 2.000 anni… circa… » pubblicato sul blog di Giorgio Muratore, Archiwatch

A volte, ridendo, esprimevi una tua particolare saggezza…
— Santa Sabina, da riconoscere ! aveva detto la Cellini con gentile autorevolezza, e noi, con l’idea di fare una scampagnata, ci eravamo intrufolati nel giardino degli aranci, quel rettangolo di pace su cui incombe il fianco solenne di una delle più belle chiese del mondo: — Santa Sabina, sull’Aventino! ci cantava la Cellini, mostrandoci la foto sul librone. Quest’usanza, di mettere la mano sulla didascalia e pretendere di avere spiattellato il nome del palazzo o della chiesa la ritrovai poi in Zevi e Portoghesi, convinti torturatori entrambi, agli esami di storia dell’architettura.
Ma se ben mi ricordo ci siamo andati da soli a Santa Sabina, su un tappeto volante. La scalinata blanda e verdeggiante l’ho fatta dopo, da solo, dopo averti tristemente salutato. Tu eri attesa da una zia che abitava all’EUR…
Eh sì, ci fu negato quel tempo minimo che mi sarebbe bastato per inchiodarti contro un albero o prenderti soltanto la mano su una panchina in forma di triclinio. Le mie agguerrite speranze dovettero frantumarsi subito dopo, quando «dovesti» fuggire via. Ma prima, come dimenticare quei passi invisibili nel portico semibuio, quell’attimo lunghissimo in cui tu ti sedesti vicino a me su una di quelle seggioline di paglia così pratiche per i nostri paganissimi matrimoni all’italiana… Forse, nel silenzio luminoso di quella incantevole navata tu sentisti il battito del mio cuore. Perché ti voltasti di scatto e mi guardasti negli occhi.
Che strano, forse tutto ciò deriva dall’aver avuto un padre schivo e gentile e una madre affabulatrice e di conseguenza ammaliatrice… Forse tutto, in me, dipende dal fascino di quella voce che doveva arrivare senza preavviso, affacciandosi sul mio letto come una fata turchina.
Sta di fatto che già allora, in quel minuto e mezzo che tu mi regalasti in mezzo ai fiori di un matrimonio celebrato da poco, io mi ero già assuefatto a vivere il presente con fatalismo e rassegnazione. Pronto a cogliere l’attimo di distrazione di un marito o di un padre, per godere il «bel momento». Del resto, in quel meriggio digiunante sospeso tra la campanella scolastica e il ritorno a casa, fosti tu a dire : — peccato, io sono negata per la fotografia… ma questo sarebbe proprio un momento da fermare!
Avrei dovuto risponderti qualcosa di intelligente, ma, in quel momento, la mia testa galleggiava nel vuoto come quella di un merlo spaurito. Ti feci cascare letteralmente le braccia quando dissi: — così avremmo fatto vedere alla professoressa di storia dell’arte che ci siamo venuti davvero, a Santa Sabina!
Ma, intanto, io vivevo una parentesi di gioia intensa, incommensurabile. Se fossimo rimasti chiusi lì dentro fino al giorno dopo non avremmo avuto paura di niente.

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Ecco, che stupido! Ora capisco quello che mi volevi dire in mezzo al sogno di stazioni parigine e di elicotteri piombanti sulla rotonda di Ostia: tu parli di un vero e proprio pacco che, a quanto pare, è ancora lassù, in cima alle scale del Mamiani!
Volevi farmi una sorpresa? Oppure cercavi soltanto di rimandare « sine die » l’amaro disinganno? È inutile, Caramella, continuare a illudersi che là dentro ci siano  le nostre lettere che, invece, ahimè, sono andate perdute!

Giovanni Merloni

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TESTO IN FRANCESE

Dovremmo avviarci, prima che faccia di nuovo buio! (Caramella n. 1)

03 dimanche Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Caramella

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Dovremmo avviarci, prima che faccia di nuovo buio!

Caramella,
per prima cosa, mi piacerebbe fare una passeggiata con te sul lungomare di Ostia. Questo confine tra l’asfalto e le bizze del mare selvaggio che nel ricordo mi sembra unico e pieno di bellezza. Una bellezza forse invisibile, o perduta nei meandri di qualche film fatto in casa. Un quartiere di Roma sbattuto fino al pelo dell’acqua. Stranamente, nel ricordo, la pineta che aleggia alle spalle con la sua macchia irsuta e i suoi ombrelli verdi e grigi, mi fa paura. Preferisco quella pacifica desolazione traversata da aeroplanini di carta e strani profumi femminili. Il fatto è che per passeggiare ci vuole un muretto, un mondo circostante di gente che va e viene, di automobili e motociclette che sfrecciano indifferenti e, dall’altra parte, un quadro vivente ma immobile, cangiante ma denso di una precisa personalità: il panorama. O soltanto il colpo d’occhio su quel l’orizzonte bianco e grigio. Camminare con te, respirando il vento con i suoi odori, assaporare un senso di provvisorietà e di smarrimento, vinto a tratti da una specie di eroismo… A Ostia c’è tutto questo e forse c’è anche di più!
Dovrei scapicollarmi, montare su un elicottero e piombare sulla rotonda bianca di mussoliniana memoria, alla fine della Cristoforo Colombo, gridando il tuo nome mentre tu sventoli un fazzoletto bianco.
Ma il mio carattere riflessivo, senza spegnerli, cerca sempre di incanalare i miei impulsi in una corrente di pensieri più realistici. Seduto nella poltrona Frau foderata di giallo acceso e ricoperta di un vecchio plaid che fu dei miei genitori, come la poltrona del resto, sbircio le doghe del parquet a spina di pesce di questo salone parigino… e, attraverso le mie cinque finestre, passo in rassegna la quinta della case grigio-avana del viale, così ben visibili dietro i platani nudi di gennaio. Un costante fruscio mi assicura che l’anno nuovo è cominciato, La gente, giù in strada, cerca di fare qualcosa. Certo è sabato, domani sarà di nuovo domenica, portatrice di nuove immobilità e di giri viziosi… Come faccio a partire? Non potresti venire tu?
Verrei a prenderti alla Gare de Lyon, ti aiuterei a sbrogliartela con la valigia e le borse e ti trascinerei subito nel metrò. Poi, ti accompagnerei in albergo. Avrei scelto per te l’hôtel Chopin. Si trova nel bel mezzo del Passage Jouffroy, una splendida galleria di negozi dove il suono dei tacchi e il rumore del carrello della valigia non passerebbero inosservati. Nonostante l’inquietante vicinanza del museo delle cere. Del resto, Parigi non ama gli spettri. Tutto è vivo, qui. E i «grandi defunti» rivivono gioiosamente insieme ai «piccoli vivi» come noi, in un continuo scambio di suggestioni e pulsioni di amore reciproco.
Purtroppo, il mio realismo odierno non riesce ad immaginare altro che una passeggiata ritardataria come la nostra… Una lenta, magica e forse lunghissima passeggiata. Perché siamo sempre stati costretti, tutti e due, a frenare i nostri impulsi più pericolosi, confinandoli in una specie di timidezza o di goffaggine rinunciataria…
Oppure, chissà… Se le terribili vicissitudini delle nostre vite nomadi ci hanno scaraventato su queste due rive lontane… che oggi sembrano di punto in bianco vicine, vicinissime, al punto quasi di toccarsi…
Dovremmo avviarci, prima che faccia di nuovo buio.

Giovanni Merloni

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