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Destinataria sconosciuta – Segni di sopravvivenza n.1

06 mercredi Jan 2021

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Destinataria sconosciuta

«Vi auguro di rispettare le differenze degli altri,
Perché il merito e il valore di ciascuno sono spesso da scoprire.
Vi auguro di resistere all’insabbiamento, all’indifferenza
e alle virtù negative della nostra epoca…»
Jacques Brel

Nella mia mente incapace di reagire eppure affascinata dai misteri, si insinua ogni notte, ormai, la paura di dimenticare quello che ho appena capito nel bel mezzo del sogno: un sogno destinato peraltro a essere inesorabilmente cancellato.
Ci sarà sempre un interlocutore, un destinatario che condividerà le rivelazioni del mio viaggio nell’incoscienza e non dirà niente di quello che ha visto e capito standomi vicino.
Tuttavia, sapendo che lui conosce la spiegazione del mistero, gli affido il compito di aspettarmi là, vicino alla porta: quest’ombra travestita da essere umano mi aiuterà di certo nella penosa ricostruzione della mia splendida verità o allora della traballante trama dei miei sogni tenaci.
Stanotte agiva su di me il rimorso per aver subito passivamente la valanga dell’auto-rappresentazione reciproca, imposta, da Facebook e Whatsapp in particolare, ancora una volta in occasione della fine dell’anno: come fanno tutti, ormai, anch’io ho  inviato — prima a benevole persone di famiglia, poi ad interlocutori più sensibili e pronti a scattare, urtati magari dalla mia innocente vetrina di oggetti quotidiani — fotografie senza storia che per di più risentono, inevitabilmente, del peso dell’esistenza.
Per ogni ritratto, invece, bisognerebbe prepararsi in anticipo, oppure avere quella sicurezza innata e assoluta che permette, a chi ce l’ha, di “bucare lo schermo”: un talento che solo i grandi attori o i grandi impuniti sanno tenere in allenamento.
Dall’altra parte della macchina fotografica ci deve poi essere qualcuno che conosca a fondo l’arte di captare a nostra insaputa le nostre espressioni più fedeli. Se è per esempio Wim Wenders colui che ci spia ed “estrae” abilmente i tratti essenziali del nostro volto fuggitivo o assente, — assorto in pensieri definitivi oppure spaesato per l’assenza di vere riflessioni —, il nostro ritratto sarà efficace anche se l’immagine sarà sfuocata o mossa, o anche immersa in un chiaro-scuro portato alle estreme conseguenze dalla scelta di colori troppo accesi o brutali…

Care A* E* I* O* e U*,
Esattamente nove mesi dopo la mia ultima pubblicazione, comincio con voi un resoconto sotto forma di lettera, che sarà seguito da altri scritti similari, che saranno inviati di volta in volta ad ognuna di voi. Da voi mi aspetto la stessa indulgenza que in altre occasioni mi avete dimostrato, la stessa attenzione distratta che è stata sempre capace, anche da sola, di darmi la forza di portare avanti una simile avventura.
«Di che si tratta?» mi domandate. «Perché hai smesso così rudemente di darci del tu?»
Si tratta di rompere una spessa cappa di silenzio indurito, che ha assunto, col tempo, il carattere di altezzosa impenetrabilità di un Palazzo dei Papi dalle immense sale vuote, dove, da alcuni mesi — tranne i pochi addetti al controllo dei sistemi di sicurezza —, nessuno ha il diritto di avventurarsi.
Il mio racconto dei mesi appena trascorsi sarà inevitabilmente frammentario e incompleto. Innanzitutto perché non si può dire tutto e spiegare tutto. Io condivido poi, con tutti i mei corrispondenti, il silenzio di cristallo di questa interminabile battuta d’arresto, e ciò ha dato vita a une società sotterranea piuttosto orgogliosa dei suoi segreti. Infine, non è corretto lamentarsi, almeno fino a quando avremo la fortuna di sopravvivere: la cosa più importante in fin dei conti.
Ecco, mie care amiche, l’interstizio attraverso il quale osserverò d’ora in poi queste lunghe giornate di trepidazione e di solitudine passate e future: uno specchio di Alice che il mio isolamento personale e familiare non ha mai smesso di attraversare, generando abitudini, piccoli vizi, nostalgie e sogni.
Ed ecco una delle ragioni per cui mi rivolgo a voi cinque: tre di voi siete mie compatriote, voialtre due siete innamorate dell’Italia! Sta di fatto che al di là dei riquadri della mia finestra il viale parigino si lascia volentieri rimpiazzare dalle montagne e dalle acque che ci dividono gentilmente e senza scosse da quest’altro paese d’Europa colpito per primo dalla pandemia con una spaventosa concentrazione di lutti e di minacce che seminavano riguardarlo in modo esclusivo.
Grazie alla gratuità di “Free” e di “Wathsapp”, i miei rapporti con l’Italia sono molto cambiati rispetto agli anni precedenti: insieme alle telefonate, la corrispondenza affidata alle mail è da allora diventata la mia compagna quotidiana.
Se da una parte vivevo isolato in una Parigi trasfigurata, che mi diventava ancora più cara, i mille ponti virtuali, vocali o telepatici che mi raccordavano alle mie famiglie d’origine, mi obbligarono a mettere provvisoriamente da parte il mio francese d’elezione e riprendere con gran lena la mia lingua materna.
Con i miei corrispondenti — di Torino, Milano, Bologna, Genova, Perugia, Roma e Napoli — si parlava soprattutto della pandemia oppure dell’Europa durante e dopo la crisi sanitaria: «Chissà se l’Europa riuscirà a riavvicinare i paesi che la compongono; a valorizzare sul serio l’immenso patrimonio artistico prodotto nei secoli da ognuno di loro… Che ruolo avranno in essa le differenti lingue e culture letterarie?»
Per l’Italia, le tre circostanze combinate della pandemia, del Brexit e della caduta di Trump potrebbero cambiare le cose. D’altronde, l’ubriacatura mitologica e tecnologica del modello anglo-americano ha ormai toccato la vetta più alta: essa si relativizzerà davanti alla prospettiva, in Europa, d’un nuovo slancio socio-economico e culturale che non potrà trascurare la crescente domanda di uguaglianza e di giustizia sociale
Ma quanti anni o secoli dovremo aspettare prima che una solida cultura europea circoli veramente da un paese all’altro secondo il nobile principio dei vasi comunicanti?
Accanto all’ottimismo della volontà federativa bisogna riconoscere una qualche dignità al pessimismo della ragione quando si deve constatare che un tale travaso di risorse e patrimoni si verifica molto sporadicamente, anche meno che nel passato, tra Francia e Italia.
Uno dei simboli più rappresentativi degli scambi reciproci tra i nostri due paesi è il famoso Palatino, il treno di notte che ha avvicinato per decenni Roma a Parigi: protagonista tra l’altro di uno straordinario romanzo di Michel Butor —
“La modification” — questo fondamentale “link” è stato soppresso.
Nel criticare questa decisione — dovuta meno a un malinteso diplomatico che alle politiche ferroviarie dei due paesi che apparentemente decisero di abolire questa linea in funzione del progetto della rete internazionale  dell’Alta Velocità e del TGV francese, lungi dall’essere compiuta tra Torino e Lione come tra Genova e Nizza — ci si interroga anche sulle ragioni che fino ad oggi impediscono o comunque non favoriscono lo sviluppo, tra i miei due paesi, di scambi culturali effettivi, sistematici e non soltanto formali.
Storicamente, si può dire che la Francia ha vissuto fino in fondo sia il potere schiacciante dei Re sia quello sanguinario della Rivoluzione; mentre in Italia, dalla notte dei secoli, oltre alla costante presenza dei Papi, c’è stata sempre una vasta costellazione di Poteri in lotta tra di loro.
Questa differenza strutturale — geografica e storica — dà inevitabilmente luogo a due culture diversamente strutturate, per quanto riguarda la lingua, il patrimonio, i contenuti e le forme letterarie e artistiche che si sono via via imposte.
Se in Francia si assiste ad una certa rigidità e intransigenza nella difesa ad ogni costo della lingua nazionale, in Italia si è sempre riconosciuta l’importanza dei dialetti, considerati essi stessi come vere e proprie lingue. Basti ricordare il teatro veneziano di Carlo Goldoni (1707-1793), quello genovese di Gilberto Govi (1885-1966) e quello napoletano di Eduardo De Filippo (1900-1984): teatri e culture che nulla levano al prestigio dei poli culturali di Torino, Milano, Bologna, Roma come della Sicilia, dove i rispettivi dialetti sono anch’essi riconosciuti e valorizzati.
Questa ricchezza discende dall’estrema parcellizzazione geo-politica della nostra penisola fino all’unità nazionale, compiuta il 20 settembre 1870, cioè 150 anni fa, molto di recente, mentre l’unita della Francia può vantare almeno dieci secoli, se non vogliamo risalire a Carlo Magno… Bisogna poi considerare che in questo tempo così ridotto la nazione italiana ha subito, con le due guerre mondiali e il fascismo, un pesante rallentamento nella sua evoluzione economica, sociale e culturale che gli anni successivi alla Liberazione del 1945 non sono bastati a recuperare in modo soddisfacente.
In una delle prossime lettere, parlerò del ruolo della televisione nella profonda trasformazione culturale dell’Italia, caratterizzata tra l’altro da un fastidioso miscuglio di dialetti che rischiano di perdere la loro identità o se si vuole, da un gran calderone in cui la lingua italiana, contaminata dai dialetti e accresciuta dalla creatività dei popoli si alimenta sempre più di parole ed espressioni importate dalla lingua (soprattutto tecnologica) degli Stati Uniti.
In definitiva il diverso atteggiamento delle istituzioni culturali della Francia e dell’Italia riguardo alla lingua nazionale e ai dialetti è uno dei principali fattori di incomprensione tra francesi e italiani.

Una piccola traccia di una serie di malintesi “culturali” tra questi due “grandi popoli” la di può ritrovare nella diversa concezione della “comicità” nella scena teatrale e cinematografica in ciascuno dei due paesi.
Se si considera per esempio il mio entusiasmo e la mia ingenua disponibilità a stupirmi e ad ammirare senza limiti le cose “fatte a regola d’arte” à règle d’art”, in Italia sono considerato un sognatore che non ha capito niente della vita, mentre il Francia rischio di essere additato come un “tipo ridicolo” che ambisce a cose che non gli appartengono.
Recentemente, a breve distanza, ho avuto l’occasione di vedere due film in cui la figure del “borghese gentiluomo” era al centro della narrazione.
Questo personaggio mi ha fatto ricordare di un famoso film, precedente, in cui Yves Montand prendeva lezioni di teatro nella speranza di conquistare l’affascinante e inafferrabile Marilyn Monroe: in questa storia, risulta in po’ patetica la goffaggine dell’uomo ricco che prende inutilmente delle lezioni di naturalezza, anche se alla fine egli raggiunge il suo scopo.
Nelle interpretazioni del borghese gentiluomo, incarnato nel primo film da Michel Serrault e nel secondo da Fabrice Luchini, si arriva a capire, una volta per tutte, la nozione di “ridicolo” che il teatro e la vita di tutti i giorni, in Francia, ereditano dalla eterna “regola del gioco” che regnava alla corte del Re Sole e regna ancora oggi nelle piccole e grandi “nicchie” dove si esercita il potere, compreso quello culturale.
Nel borghese recitato da Michel Serrault (1968) il ridicolo risiede meno nella sua passione impossibile per la marchesa Dorimène che nella sua ambizione di essere considerato un gentiluomo. Nonostante le magnifiche invenzioni che Serrault aggiunge al personaggio di Molière con un’interpretazione surreale e auto-ironica —, il suo borghese gentiluomo cozza contro il muro del potere assoluto in un’epoca in cui la Rivoluzione è ancora molto lontana.
Nell’interpretazione di Luchini (2007), si assiste ad una situazione molto differente, che si potrebbe intitolar “la vera storia del borghese gentiluomo”. Salvato dalla prigione (dove languiva per i debiti accumulati) da un ricchissimo borghese, il giovane Molière è invitato a mettere in scena una commedia che costui aveva scritto senza averne l’ispirazione né le capacità. Sottraendosi all’obbligo della fedeltà assoluta al testo del grande drammaturgo del XVII secolo, la sceneggiatura di questo secondo film tiene conto del rovesciamento storico operato nella società francese dalla Rivoluzione francese (1789-1794). Dunque, se il borghese è ridicolo in tutto ciò che gli è fondamentalmente estraneo, la nobiltà spendacciona, anzi in rovina con cui egli cerca di imparentarsi è, anch’essa, scandalosa nella sua assoluta mancanza di spina dorsale.
Col tempo, la concezione italiana della comicità, molto complessa e diversificata, ha dato luogo, tra l’altro, ad un uso sempre meno sopportabile della derisione, pesante e spesso volgare, che spesso sottintende un’ammirazione servile e del tutto acritica dei vincenti, senza fare alcuna differenza tra le persone oneste e disoneste.
Sennò, in Italia come in Francia, pareti invalicabili separano i “popoli eletti” da coloro che restano fuori. E la commedia umana, di cui Molière è uno dei padri più illuminati, si traduce dappertutto in questo incredibile spreco di energie vitali che consiste nel far finta di credere o di non credere alle “regole del gioco” secondo le situazioni e le convenienze.

Nelle lettere che riceverete, sarà sviluppata una riflessione su questi temi, allo scopo di aggiungere qualche testimonianza al quotidiano dibattito culturale tra le nazioni-sorelle d’Europa e, in particolare tra la Francia e l’Italia.
Nella consapevolezza di poter superare, almeno a livello personale, ogni sentimento di frustrazione per le possibili incomprensioni tra le mie due patrie, ho deciso di riprendere le mie pubblicazioni sul “ritratto incosciente” : il rapporto con la lingua e la cultura francese è, per me, un rapporto d’amore da cui nessuno potrà distogliermi.

Giovanni Merloni

Testo in FRANCESE

Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento (Nel frattempo n. 3)

15 jeudi Sep 2016

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente, racconti

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Bologna, Emilia-Romagna, Romano Reggiani

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento

Nel frattempo, questo fiore solitario mi ha fatto pensare alla bellezza della vita e della morte…
Spero che mi perdonerete di avere osato giustapporre queste due bellezze, così diverse tra loro. Ma è molto raro che la bellezza rispecchi la felicità. Se una cosa simile accade, si tratterà il più delle volte di una felicità passeggera.
Dunque oggi questo fiore, simbolo insostituibile del carattere effimero della bellezza, non è lì per caso…

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

All’inizio, questo fiore evoca in me una camicia di seta bianca con una spilla d’oro al posto del cuore. Una bella ragazza, modella devota di un celeberrimo pittore, deve averla lasciata libera di volteggiare nel prato secondo il vento, dovendo al più presto comparire nella famosa «colazione sull’erba».
Poi mi viene da pensare a due pittori.
Uno si fa prendere dalla descrizione della scena inquietante, dove la gioia della dissacrazione si mescola alla rabbia — faticosamente tenuta a bada — della gelosia e dell’invidia di ognuno.
L’altro osserva a lungo la camicia che ondeggia su una canna, finché si decide a « rimetterla », con mani sperdute e di colpo imprecise, sul busto indimenticabile di questa « fuggitiva » ch’egli non cesserà mai di amare e rimpiangere furiosamente…
Oppure abbiamo a che fare con un solo pittore, che preferirebbe abbandonare i pennelli e distogliere lo sguardo dalla sua composizione rischiosa e blasfema per fissare, steso sull’erba, quei petali lisci e lucenti.
Istigato da questo fiore solitario, questo pittore vorrebbe saper tradurre la bellezza effimera della natura trasferendola nella realtà eterna (o quasi) del quadro. Mentre traduce, il pittore tradisce, inevitabilmente, perché deve assolutamente trovare un linguaggio adatto a fissare una volta per tutte una bellezza che non potrebbe essere più sfuggente…
Obbligando la sua donna a partecipare, nuda, alla «colazione sull’erba», egli ha tradito se stesso, anche se l’ha fatto in nome di una bellezza universale, destinata a galleggiare al di fuori dello spazio e del tempo…

003_img_9196Romano Reggiani (1942-2016)

Ma questo fiore solitario evoca anche, in me, un pietoso lenzuolo bianco steso, come un’ultima camicia, sul corpo senza vita di uno dei miei più cari amici.
Egli era al mare, in Toscana, l’8 agosto scorso, intento a nuotare tra onde appena increspate, non lontano dalla riva, a pochi metri da sua moglie e dai suoi due figli ormai grandi. All’improvviso, senza che si potesse percepire alcun segnale di malessere o di difficoltà, coloro che erano presenti hanno visto arrivare sulla battigia un corpo galleggiante, steso sul pelo dell’acqua come un «morto a galla».
« Sorrideva ! Non ha sofferto ! Non si è accorto di nulla ! » Si dice sempre così e  questa
 scena sconvolgente acquista addirittura, paradossalmente, una sua sconvolgente bellezza.
Romano Reggiani, che i suoi più vecchi amici chiamavano « Yuma« , era un uomo alto, robusto, che attingeva senza risparmio alle sue mani di « scultore di idee » per dare tanto di sé agli altri. Anche lui non era stato risparmiato dalle invisibili piaghe che il tempo scava con indifferenza sul suo cammino. Ma con tutto il suo entusiasmo e quella voglia instancabile di fare sembrava non accorgersi di nulla. Ecco quello che mi hanno raccontato, per aiutarmi a accettare questa morte violenta e inattesa. Chissà se questa ipotesi di serenità mi aiuterà anche a ricomporre le fisionomia di quest’uomo che, nel frattempo, non era cambiato rispetto ai tempi oramai lontani in cui si colloca il mio pur vivo ricordo di lui.
Mi sembra un po’ strano, sinceramente, di parlare di Romano dopo tanti anni, in cui ci eravamo per così dire « persi di vista ». Ma ho deciso lo stesso di farlo, seguendo una mia idea di cui sono un convinto assertore : nel corso della vita e anche dopo la morte, certi legami diventano dei fari indispensabili nella nostra mente. Quante volte mi sono ricordato di Romano, delle sue conversazioni con Francesco Curtarello a cui assistevo ? Ritorno anche, molto spesso, a certe parole o frasi, scambiate direttamente tra di noi, che costituiscono ormai delle vere e proprie pietre miliari lungo le vie difficili o fortunate delle nostre vite parallele. Se mi sono periodicamente fermato a ricordare la sua grande casa nel bel mezzo della campagna a San Giorgio di Piano, a ascoltare la sua voce di fumatore accanito, a ricostruire a mente il suo volto arrossato dal sole e dalle sue stesse energie vitali, se non posso dimenticare le sue certezze assolute, la sua benevolenza piena di calore nei miei confronti, è possibile, credo, che di tanto in tanto si sia ricordato anche lui di me.

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Tutto sparisce, e questo mio contributo per restituire ai vivi l’immagine di quest’uomo « sparito » sarà inevitabilmente inadeguato, molto meno efficace di una sola foto. Resterà la mia lacunosa descrizione che aprirà la strada, come nel caso del pittore di cui sopra, a un nuovo tradimento. Un doppio tradimento. Perché rivolgendomi a dei lettori francesi io tradisco, inevitabilmente, la lingua dei nostri incontri, risalenti all’epoca in cui vivevo e lavoravo a Bologna ed ora, lanciando dalla Francia questo mio ricordo confuso, finisco forse per tradire anche l’immagine che i miei amici di Bologna si sono fatta di me.
«Partire è un po’ morire», dice la canzone. Dunque, andando via, all’estero, «perdendomi» nei meandri di questa Parigi «super gettonata», nella mia condizione di «profugo di lusso», sono oramai scomparso in una specie di cortina fumogena che nessuno ha voglia di attraversare. «Che vuole da noi, questo «parigino»? si domanderebbero senza dubbio, ironicamente, i miei amici se sapessero che parlo di Romano…
Ma io lo faccio lo stesso.
Romano Reggiani era giustamente orgoglioso di essere un rampollo della grande e gloriosa famiglia del partito comunista in Emilia-Romagna, mentre le mie origini romane facevano di me un « parvenu » di questo stesso mondo e «scuola di vita». Ciò non impediva che io fossi ammesso a partecipare alla stessa esperienza di buona amministrazione delle città e del territorio a cui Romano dava il suo contributo. Abbiamo condiviso gli stessi ideali e le stesse illusioni, ma anche la gioia incancellabile di vedere realizzati molti progetti che altrove sono invece rimasti lettera morta.
Noi abbiamo avuto due vite «parallele», condividendo le stesse preoccupazioni legate a una professione obbligata a confrontarsi con un mondo che cambia, dove i margini per una valida e incisiva azione politico-amministrativa si riducono o sono diventati ormai del tutto inesistenti.
L’ultima volta che ho visto Romano è stata nel 2003, in occasione di un viaggio a Bologna, conclusosi con una gita in quella stessa spiaggia toscana… Poco tempo dopo, il primo maggio del 2006, ho interrotto tutte le mie attività, mentre Romano ha continuato tenacemente, fino al giorno di questa morte così folgorante e inattesa.
«È morto senza rinunciare ai suoi progetti ! » mi ha detto il mio amico Francesco.
Ecco perché la morte di Reggiani può essere ricordata come una bella morte.

Per una coincidenza che non può essere casuale, egli è morto proprio l’8 agosto. Una giornata, quella dell’8 agosto 1848 illustrata dallo straordinario eroismo dei bolognesi, che furono capaci di sconfiggere l’esercito austriaco invasore. Se Romano lo sapesse, se ne consolerebbe. Tra le rare persone di cui ho potuto ammirare lo spirito combattivo e la coerenza ideale, Romano Reggiani è stato senza dubbio uno dei rappresentanti più sinceri e coraggiosi di un popolo che non cede mai al conformismo e all’indifferenza. E gli si deve anche riconoscere una grande ironia, che affiora con prepotenza, tra l’altro, nel suo recente libro « Et fiat porcus« , un omaggio raffinato e intelligente alla cultura del maiale, al centro della tradizione alimentare specifica dell’Emilia-Romagna.

«Quando i compagni della giovinezza e della vita ci vengono sottratti ci accorgiamo che tutto il tempo che abbiamo a disposizione lo consumiamo nell’abitudine, giorno dopo giorno a svolgere tutte le incombenze del quotidiano, a mettere a posto, a far fronte agli impegni e alle richieste della burocrazia, del fisco, dei fornitori di servizi», mi ha scritto una carissima amica di Bologna. «Una noia e un fastidio mortale.»

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Giovanni Merloni

TESTO DELL’ARTICOLO IN FRANCESE

Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

06 samedi Fév 2016

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Auguste Renoir, Carlo Goldoni, Carlo Levi, Casalvieri, Como, Dario Fo, Edward Hopper, Gabriella Merloni, Giorgio Strehler, I Giganti della Montagna, Isola Dovarese, Jean Genet, Ludwig van Beethoven, Luigi Pirandello, Massimo Summa, Michelangelo Antonioni, Mirella Summa, Omero, Patrizia Molteni, Pierangelo Summa, Radio Aligre, Sara Summa, Théâtre des Déchargeurs, Tiresia

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Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (regia di Giorgio Strehler)

Mi viene spesso da pensare che ogni persona di genio, alla fine della sua esistenza, viene punita con un male che lo colpisce, inesorabilmente, proprio nel punto più vivo e essenziale della sua espressione artistica.
A volte la natura si sbaglia, privando per esempio Edward Hopper dell’udito invece che della vista o dell’uso delle mani e dandogli, per così dire, in cambio la possibilità di raccontare ai posteri il suo speciale mondo ovattato, la sua visione «spaesata» dei rapporti umani al di qua e al di là del baratro.
Anche Omero, privato degli occhi, ha potuto sviluppare meglio la sua drammaturgia poetica imparando e restituendo a memoria le sue edificanti battaglie. E Tiresia, per veder meglio il futuro, poteva rinunciare senza troppe tragedie alla sua vista di uomo o di donna.
Ma non potrei mai sminuire la sofferenza di Ludwig van Beethoven, colpito nell’organo più importante per un musicista, l’udito, o per quel grande corridore dei cento metri che finì sulla sedia a rotelle, o per Auguste Renoir che cadendo dalla bicicletta compromise gravemente l’uso della spina dorsale perdendo progressivamente l’uso delle mani.
Certo Renoir dipinse fino alla morte e Beethoven riuscì à vedere nel buio della sua sordità le note della nona sinfonia senza perderne una battuta né la minima sfumatura.
Ma come doveva sentirsi Carlo Levi, un grande pittore (e scrittore) italiano del novecento, quando, diventato ormai cieco, cercava lo stesso di lasciare un’impronta del suo discorso interrotto, dipingendo all’interno di una speciale griglia sospesa sulla tela che lui chiamava «quaderno a cancelli»?
Altri grandi, come Michelangelo Antonioni, hanno dovuto passare gli ultimi anni della loro vita in uno stato di confusione o di assenza, privati dal solo clic di una malattia invisibile dell’acuta e inesauribile forza del loro ragionare, inventare, scandalizzare, rovesciare i parametri e finalmente trasmettere una nuova forma di arte e di cultura.

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Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

Pierangelo Summa fa parte di quei geni unici e straordinari che vengono interrotti lungo il loro generoso percorso artistico da un male subdolo che non si limita a colpire un organo o un senso, ma aggredisce progressivamente tutto il corpo. Guarda caso, Pierangelo Summa era appunto un artista che aveva il proprio fondamentale strumento di espressione nel corpo, in tutto il corpo: il corpo umano nella sua straordinaria elasticità e adattabilità alle più diverse azioni e emozioni; il corpo in maschera delle marionette o pupazzi più o meno elastici o smidollati che lui stesso creava o che lui faceva rivivere nel corpo di attori veri o improvvisati. Mettendo in moto la «seconda vita» di ognuno di noi, quella appunto del corpo, Pierangelo Summa ha inventato e fatto conoscere un teatro «al rovescio» o «all’improvvista» in cui l’antica tradizione della commedia dell’arte italiana si fonde «dialetticamente» e aggiungerei «ironicamente» con il teatro impegnato, dalla tragedia greca fino a Jean Genet.

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Creatore di maschere e animatore di spettacoli di strada per vocazione naturale, Pierangelo Summa è stato senza dubbio uno dei capofila del movimento teatrale italiano degli anni ’70, svolgendo gran parte della sua attività artistica in Lombardia, dove una ricchissima tradizione di canti e spettacoli popolari trovava un riscontro teatrale autorevole in figure carismatiche come Giorgio Strehler e Dario Fo, tra gli altri. Se la famosa messa in scena dell’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler non fu indifferente al giovane Summa per l’importanza conferita al ruolo della maschera, il «teatro della parola» di Dario Fo, con il suo straordinario recupero del mélange linguistico dei dialetti della valle Padana, divenne il secondo polo della formazione del Summa più adulto e aperto al nuovo. Ma bisogna attendere un evento assai importante e direi cruciale per lo sviluppo organico di una forma originale unica di espressione e di messa in scena teatrale da parte di Pierangelo Summa: il suo trasferimento a Parigi. Forse la piena consapevolezza dell’importanza dialettica e ironica del corpo rispetto alla maschera e alla parola non si sarebbe sviluppata così prodigiosamente in Pierangelo Summa se l’artista non si fosse profondamente calato anche nella cultura francese e nel suo vasto e stimolante mondo teatrale.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

Pierangelo Summa e il suo fratello gemello, Massimo, sono cresciuti, hanno studiato e lavorato a Como, ma fanno parte di una famiglia di Casalvieri, un piccolo paese della Ciociaria (provincia di Frosinone) a sud di Roma, situato in un paesaggio di montagna ancora oggi integro e selvaggio. Dunque, tutte le estati, la famiglia Summa si recava a Casalvieri per passarvi dei lunghi periodi di vacanza e di piena libertà. Rispetto alla «città» di Como, lambita da uno dei più bei laghi d’Italia, Casalvieri rappresentava la natura allo stato primitivo, ancestrale. Oltre all’affetto di una famiglia tradizionale molto calorosa, i fratelli Summa trovarono a Casalvieri le loro prime «fidanzate». Pierangelo vi conobbe Mirella, di tre anni più piccola, sin dalla più tenera adolescenza. Mirella, nata a Parigi, dove passava tutto l’anno con la sua famiglia che vi si era recentemente trasferita, parlava da sempre un perfetto francese senza accento, ma era perfettamente bilingue, la madre avendogli trasmesso l’italiano e, forse, anche qualche frase del dialetto ciociaro. Ma d’estate, il richiamo di Casalvieri valeva anche per la famiglia di Mirella che, tutti gli anni era presente.

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Pierangelo Summa incontra Patrizia Molteni di Focus In, Parigi, 2011

Da allora, Mirella è stata la compagna della vita di Pierangelo Summa. Per circa venti anni hanno vissuto a Como, dove ambedue lavoravano. Pierangelo, nelle ore libere dal suo impiego «alimentare», fabbricava le sue straordinarie maschere e allestiva spettacoli dove il teatro «improvvisato» e di strada si legava ad attività più tipicamente circensi, popolate di mangiatori di fuoco e di funamboli che avanzavano sui trampoli. Mirella, la «matematica» della famiglia, seguiva con entusiasmo suo marito in tutte le sue iniziative teatrali, partecipando attivamente, tra l’altro, ad un importante e approfondito lavoro di raccolta di canti tradizionali e storie popolari in molte realtà regionali del Nord Italia. In questo periodo Pierangelo Summa fu chiamato a sovrintendere la Festa di Isola Dovarese, dove per un’intera settimana si succedono ancor oggi spettacoli teatrali e musicali insieme ad attrazioni di vario tipo.

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Quando Mirella ottenne un incarico universitario a Parigi, Pierangelo la seguì con i due figli Sara e Robin, decidendo di dedicarsi a tempo pieno alla regia di spettacoli teatrali, con l’intenzione, tra l’altro, di introdurvi maschere e pupazzi del suo ricco universo fantastico.
Senza mai interrompere i legami con il mondo della sua ispirazione originaria, che egli fece conoscere ed apprezzare ai nuovi amici francesi, Pierangelo Summa trovò a Parigi e in Francia un contesto estremamente favorevole alle sue interpretazioni originali dei testi di autori già di per se stessi originali. È il caso delle «Bonnes» di Jean Gênet, un testo che Summa rende ancora più provocatorio e dirompente attraverso il paradosso della sostituzione del personaggio di Madame con un fantoccio a grandezza naturale, costruito dallo stesso regista.

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È il caso di Dario Fo… Si inserisce qui, da parte mia, una testimonianza diretta risalente all’ultimo trimestre del 2011. Sotto la guida di Pierangelo Summa, mia figlia Gabriella ha interpretato la parte di Maria in «Una donna sola» di Dario Fo al teatro dei Déchargeurs a Parigi. Personalmente, con l’aiuto artistico e manuale di mio figlio Paolo, ho partecipato anch’io a questa esperienza, realizzando alla bell’e meglio, secondo le benevole ma chiare indicazioni di Pierangelo, i modestissimi decori da lui concepiti : due o tre cornici dipinte di rosso, una specie di «quadro svedese» da collocare sul fondo, uno sgabello, un telefono grigio e una pistola giocattolo. Tutto ciò è stato più che sufficiente…
Non potrò mai dimenticare la voce di Pierangelo né il suo intendo sguardo blu-celeste (Piero era forse un Angelo?), capace di ascoltare gli altri, il suo coraggio dissimulato da una continua ironia e autoironia.
Già allora Pierangelo Summa combatteva con il Parkinson, questo male che si serve di un nome quasi divertente e invece, purtroppo, è una delle più terribili torture che possano capitare a un essere umano.
Durante lo spettacolo di Gabriella, che fu coronato da un certo successo di pubblico e di critica, Pierangelo era sempre presente, attento, a volte severo, ma sempre sorridente. Avevamo fatto amicizia, lui disse anche una volta, forse in ragione della vicinanza d’età, che per lui ero un fratello. Ma lui si era molto affezionato soprattutto a Gabriella e a Paolo.
Dopo lo spettacolo, per i tanti stupidi doveri che ci sembrano importanti, e anche per l’insorgere di preoccupazioni e dolori familiari, ci perdemmo di vista.

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Andammo con tutta la famiglia a trovare Pierangelo e Mirella Summa verso la fine del 2014. Fummo tutti felici di incontrarci, commossi e contrariati vedendo sul volto sereno e indomito di quest’uomo generoso le tracce evidenti dell’aggravamento del suo stato. Nonostante la fatica e l’emozione, Pierangelo disse una parola affettuosa ad ognuno di noi. Riuscimmo perfino a brindare all’italiana e a «incontrare» via Skype sua figlia Sara, in quel momento a Berlino
Poi Mirella si prese il carico di parlare per tutti, raccontandoci tutto quello che era successo, trasmettendoci contemporaneamente, e fedelmente, quello che Pierangelo, ne sono sicuro, avrebbe voluto dire egli stesso. Mirella parlò del calvario che suo marito stava subendo, ma anche le straordinarie attività artistiche che egli aveva saputo portare a termine, con la complicità della figlia Sarà, che aveva del resto splendidamente recitato negli ultimi drammi da lui creati e/o diretti, aiutandolo anche in un altro progetto più importante, lanciato verso il futuro: Pierangelo Summa non rinunciava a trasmettere, fino all’ultimo, il suo sapere coraggioso.

Il 2015 è stato un anno spaventoso per tutti. Ma è stato particolarmente terribile per Pierangelo Summa, reso sempre più debole dalla malattia che gli rendeva sempre più difficile il mangiare e il bere.
Ho avuto perfino l’impressione che le istituzioni ospedaliere lo abbiano «lasciato morire». Fino all’ultimo, questo povero corpo così difficile da dirigere e governare, avrebbe voluto vivere in pace, mentre la sua povera anima sensibile non avrebbe desiderato che le cure normali che si adottano per combattere la febbre, la fame e la sete.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

In una delle sue ultime degenze in un ospedale parigino, il famoso «protocollo» che si stabilisce per «evitare cure eccessive o inutili» si era tradotto in una frase significativa che compariva sulla sua cartella clinica: «il paziente Pierangelo Summa non parla in francese». Un falso che serviva da pretesto per non dare al malato, tra l’altro, una qualsivoglia assistenza psicologica.
Un tale atteggiamento corrisponde forse a una delle tante prevenzioni ancestrali che non si possono discutere, come le tradizioni orali o i proverbi. Un luogo comune come quello di mettere insieme due italiani nella stessa stanza dando per scontato che saranno subito amici e si aiuteranno a vicenda. (Laddove la mia amicizia ricambiata con Pierangelo, per esempio, è senza dubbio un’eccezione alla regola che dice l’esatto contrario…)
Pierangelo Summa viveva a Parigi da più di trent’anni, una città che amava e conosceva bene già prima della definitiva installazione. Dunque, quando la recalcitrante psicologa, trascinata da Mirella, si recò al suo capezzale e gli disse:
— Di cosa ha bisogno, signor Summa?
Pierangelo aveva subito risposto, in perfetto francese:
— Vorrei che qualcuno mi aiuti a venire a patti con questo cervello che se ne va per conto suo…
Si può essere tutti d’accordo contro il cosiddetto «accanimento terapeutico», ma senza rinunciare a quel minimo di «umanità» che fa la differenza: a volte basterebbe molto poco.

« Pierangelo Summa, scultore di maschere e di marionette e regista teatrale, ha chiuso gli occhi mercoledì 15 luglio 2015 — scrive Sara Summa, la figli primogenita, attrice e regista teatrale —. Quelli che l’hanno conosciuto sanno che, leggero ormai come l’aria, egli resta con noi per sempre, per tutto quello che ci ha trasmesso e perché siamo tutti impregnati da quella forza creatrice che lo ha sempre animato. »

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Pierangelo Summa con Gabriella Merloni, Parigi, 2011

Pensando ora a questo amico che ha tanto sofferto, resto esterrefatto al ricordo delle marionette a dimensione umana di Pierangelo Summa che ho visto nelle «Bonnes» di Jean Gênet e poi nell’«Edipo Re» di Sofocle del 2012. Quelle maschere «molli» o smidollate, che non erano fatte per stare in piedi come delle statue, ma per essere trascinate, abbracciate, malmenate, aggrappate a un chiodo o addossate a una spalliera… quelle maschere nate per contestare, rivoltare il senso scontato delle cose, erano, senza che lui lo sapesse fino in fondo, un presagio di quello che sarebbe, alla fine, capitato al suo corpo. Il suo corpo un dì sano e scattante sarebbe diventato sempre più dispettoso e incontrollabile col progredire della malattia.
Metaforicamente, egli stesso si sarebbe trasformato, suo malgrado, in uno dei suoi «pupazzi umani». Mentre la sua mente, fortunatamente per lui e tutti quelli che lo amavano, sarebbe restata sempre lucida, serena, attenta fino all’ultimo a cogliere ogni attimo di questa meravigliosa cosa che si chiama Vita.
Se dunque questo «vero artista» è stato colpito in quello che aveva più caro è necessario per il suo lavoro di artigiano e di maestro — il suo corpo, che gli era servito per tutta la vita a «insegnare» agli attori e alle stesse marionette come interpretare, «al rovescio», il mistero della rappresentazione teatrale — non si può non constatare che la sua intelligenza, intatta fino alla fine, ha saputo in un certo senso «prendersi gioco» del corpo stesso, invertendo per una volta la procedura da lui stesso creata per il suo straordinario «anti-teatro dal volto umano».

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Mirella Summa, Théâtre des Déchargeurs, 2011

Nel mese di novembre 2015, Mirella Summa ha «riportato» Pierangelo, simbolicamente, prima sulle rive del lago di Como — dove sono accorsi tutti i parenti e gli amici della Lombardia, compresi gli attori e le comparse di Isola Dovarese, per salutare in un clima festoso il sorriso di quest’uomo straordinario con una carovana in maschera — poi sulle montagne di Casalvieri, dove tutti gli amici italiani e francesi hanno ricordato la sua voce indimenticabile con la recita di un estratto dei «Giganti della montagna» di Luigi Pirandello, rielaborato in modo originale da Mirella Summa.

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Ora noi, commossi e smarriti per la perdita di un amico e di un maestro — che aveva il sorriso noncurante e lo sguardo penetrante di una guida ispirata, come il Gesù che rideva dei propri miracoli del «Vangelo secondo Gesù» di José Saramago —, ci sentiamo particolarmente tristi per la consapevolezza che avremmo seguito Pierangelo anche in capo al mondo, con fiducia e innocente complicità, mentre questo «cammino affascinante» è stato, invece, bruscamente interrotto.
Che fare, allora? Non ci resta che adoperarci perché l’immenso e delicato lavoro di creazione e di riflessione di Pierangelo Summa sia raccolto, protetto, studiato, riprodotto e divulgato a tutti i giovani che vorranno seguirne il cammino.

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Giovanni Merloni

TESTO IN FRANCESE

«Per un punto Martin perse la cappa» (Caramella n. 5)

17 dimanche Jan 2016

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Caramella

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«Per un punto Martin perse la cappa»

«Per un punto Martin perse la cappa»… Dovrei essere ormai abituato a certi «incidenti di percorso» che in me nascono, quasi sempre, dall’entusiasmo e dalla fretta, pessimi consiglieri tutti e due. Dopo simili incidenti farei meglio ad avanzare con un sorriso ebete e spavaldo, scrollando le spalle in segno di indifferenza. Non ne sono capace… Ma è necessario che almeno io cerchi di fare ordine, come il povero abate Martino, che rimetta al più presto al suo posto quel benedetto punto…
La storia di Martino e della cappa mi perseguita sin da bambino. Mio padre, che era molto intonato e sapeva suonare il violoncello, me la canticchiava spesso, seguendo il ritmo di danza dolorosa di Sheherazade o, a volte, il ritmo solenne e sognatore dell’incompiuta di Schubert… Non posso dilungarmi su questo punto del punto di Martino nella storia di famiglia, ma è certo che mio nonno materno perse quasi tutti i suoi risparmi per essersi ostinato, con sacrifici inenarrabili, ad accumulare e conservare titoli di stato che, si scoprì un giorno, valevano meno che francobolli scaduti. Le sue alte conoscenze di matematica infinitesimale gli avevano forse fatto sottovalutare l’importanza dei coefficienti, dei punti e delle virgole… mentre mio nonno paterno, per aver voluto tenere il punto dell’antifascismo, perse la vita.
Quanti punti e quante virgole si dovrebbero poter rimettere al loro posto per fare giustizia, magari postuma, ai tanti Martini che si aggirano per il pianeta, vivi, morti o moribondi, ignari tutti del loro comune destino! Ma nessuna riparazione potrebbe restituire quello che hanno ormai perduto: né la borsa né la vita!
Resta la cappa, su cui mio padre amava appoggiare, musicalmente, un piccolo tocco di enfasi finale. Nella leggenda, la cappa è appunto il mantello perduto o mai ottenuto dall’abate Martino per avere scritto una frase ambigua. O per meglio dire, per aver commesso l’errore — nell’entusiasmo della sua sincera bontà e nella fretta di ricevere un premio — di mettere un punto e forse anche una virgola là dove dovevano essere messi. Col tempo, man mano che la voce perentoria e cantante di mio padre si allontanava da me, a volte senza darmi il tempo di salutare, la cappa è diventata per me un qualcosa che inevitabilmente si perde, perché è quasi impossibile ottenerla e soprattutto mantenerla. In più, se la cappa può confondersi idealmente con la gloria o con una bellissima donna che decide di punto in bianco di ricambiare il nostro amore… la cappa rappresenta anche, di per se stessa, la paura di perderla. Il flessuoso mantello di lana che potrebbe coprirci e offrirci un indimenticabile calore provvisorio si trasforma inevitabilmente in una cappa… di piombo. E, di colpo, all’illusione subentra la beffa, alla casa magnifica e confortevole subentra una prigione gelida e impenetrabile.
Ah, quanto mi piacerebbe passare inosservato tra i banchi di scuola per andare a parlare un momento con il professor Steno Vazzana, di italiano… Sono certo che mi aiuterebbe a sbrogliarmela. Lui che ha trovato delle affinità tra Dante e Lucrezio e che tanto ha apprezzato l’apertura mentale di Italo Svevo, che egli amava definire «il primo scrittore italiano di portata europea»… Basterebbe pensare a Zeno Cosini e alla sua meravigliosa indecisione : due sorelle certamente diverse l’una dall’altra, ma con tantissimi punti in comune. Come fare a distinguere se si è distratti e obnubilati dalla paura di perdere la cappa? Perché scegliere? Così direbbe Steno Vazzana. Potrei raggiungerlo al suo ultimo liceo, il Vivona, nel quartiere dell’EUR dove si era trasferito… E, certo, avrei potuto chiedergli un appuntamento, l’ultima volta che lo vidi, nel 2000. Chissà se lui sapeva che presto, di lì a un anno… Il nostro professore di Italiano era una figura schiva e perfino trasparente, che vedo avanzare a passi corti e leggeri, sgusciando in mezzo a colossi come Punzi e Pagani o Manacorda senza curarsi di quello che poteva succedere alla sua povera ombra… L’ultima volta che gli parlai, non ebbi la presenza di spirito di chiedergli il perché della mia vocazione a farmi del male da solo, come direbbe Nanni Moretti. Una sua risposta mi sarebbe servita moltissimo, peccato. Ma posso forse trovare qualche spunto nel ricordo delle sue lezioni su Dante e in quello che mi disse un giorno a proposito della poesia.
Sull’onda di quelle lezioni, mi sono domandato con insistenza quello che deve aver passato Dante con Beatrice. Povero Dante! Un uomo venuto dritto per dritto dal dolce stil nuovo, uno dei fondatori di quella lingua «volgare» che finalmente si liberava dal latino raccogliendo tutte le virtù e le sfumature della «loquela», cioè della lingua parlata, un creatore così «concreto» e profondamente umano non avrebbe mai potuto «idealizzare» una donna inesistente. Colui che disse «amor che nullo amato amar perdona» non poteva elevarsi verso il divino senza portare con sé non solo la propria corporea e appassionata umanità, ma soprattutto quella dell’amata. Se per traversare l’Inferno e il Purgatorio Dante può contentarsi di un suo «pari» — il più grande dei suoi pari, Virgilio —, per ascendere nei cieli del Paradiso ha bisogno dell’aiuto di un essere «altro», di una figura diversa e complementare che faccia da tramite tra l’umano e il divino. Ed ecco che Beatrice, quella che Dante chiamava «la donna mia» diventa «l’avvocata nostra», un essere a metà umano a metà divino come la Madonna secondo tutti i Vangeli cristiani.
Certo noi due, Caramella, navighiamo, anche retrospettivamente, nella sacralità del ricordo di un passato comune, in una dimensione molto più pagana e disincantata di quella in cui viveva Dante. Siamo cresciuti in un Paese dove attraverso successive conquiste la donna ha potuto ottenere, sia pure ancora in modo insoddisfacente, una sorta di parità con l’uomo. Un paese è una società, anche qui in Francia, in cui si dà per scontata la cosiddetta «privacy», una parola divenuta secondo me orribile ma che fotografa abbastanza bene un problema…
Tornando a Dante e Beatrice, io mi domando quanto deve essere costata al nostro poeta sommo la scelta di fare della sua donna amata un personaggio e per di più l’ago della bilancia della sua gigantesca scommessa umana e letteraria. E mi domando se, allora, la cosiddetta «vox populi», invece di «seguir vertute e conoscenza» e di elevarsi, attraverso le parole di Dante, verso più ambiziosi traguardi, non abbia cercato «terra terra» di far risaltare, nella Divina Commedia la questione dell’amore sacro o profano tra Dante e Beatrice come se fosse quello e solo quello il suo motore… Mi sono visto davanti un gruppetto di sedicenti «parenti di Beatrice» assediare la Casa di Dante, a Trastevere, proprio mentre il professor Vazzana stava spiegando il canto… del Paradiso… Un gruppo armato di forconi innocui e antidiluviani, naturalmente. Ma «il modo ancor m’offende» avrà detto Dante, sentendosi mortificato da queste ingiuste e soprattutto squallide accuse.
Rileggendo la storia di Dante e Beatrice insieme a Steno Vazzana e Italo Svevo, verrebbe da dire: ma forse Beatrice aveva una sorella!
Purtroppo, Caramella, il mondo di oggi, quello che abbiamo creduto e sperato migliore per i nostri figli, sembra andare all’indietro. Non solo si impone l’intolleranza guerresca di popoli che vorrebbero inculcare ad altri popoli la loro ignoranza in cui sembrano inscindibili la violenza e il disprezzo della vita umana, in particolare delle donne. Ma anche i popoli cosiddetti evoluti sembrano scivolare e addirittura compiacersi in un colossale analfabetismo di ritorno.
Niente è scontato se ben ci ricordiamo quanto hanno sofferto D.H. Lawrence per il suo «amante di Lady Chatterley» o Vladimir Nabokov per «Lolita».
Il tempo ha dato loro ragione o, per meglio dire, qualcuno, in qualche parte del mondo civilizzato, ha dato loro una mano. E a nessuno importa se Dante fosse stato o no amante di Beatrice o della sua splendida sorella che, se fosse realmente esistita, avrebbe potuto perfettamente svolgere la parte della «donna schermo».
Ma il tempo è sempre galantuomo, con tutti? Quanti Martini, miseramente degradati e ingiustamente accusati riavranno mai la cappa?
Tutto questo giro di parole per dire che anch’io, Caramella, potrei imbattermi, per via della mia imprudenza, in qualche cupo malinteso. Come successe a Beatrice… Perché certo, se Dante avrà pianto Beatrice non avrà certo riso…
A volte le parole, o le immagini, sono ancor più gravi che i fatti reali… Purché si riesca a farli passare sotto silenzio, una vita di vera violenza e di vera e spesso grave prevaricazione può essere dimenticata o, per così dire, «condonata». Mentre le parole portano con grande facilità ai processi sommari, con il rischio sempre presente di perdere la cappa o la vita.

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Non posso sapere se noi continueremo o no, Caramella, questa nostra traversata. Ma sono contento che alcune cose essenziali si siano chiarite tra noi. Per esempio, avrei preferito lasciar credere che tu fossi la sola che potesse interessarmi tra le tante compagne e ombre vaganti della nostra strana classe… Ma cosa cambierebbe, in fondo, se d’ora in poi tu le rappresentassi tutte? D’altra parte, ora so bene con quale entusiasmo tu mi aiuteresti, con il tuo sguardo fulmineo e spiritoso, a portare a compimento la mia «Gerusalemme Liberata», proteggendomi da coloro che potrebbero cercare di convincermi a riscriverla all’infinito, e magari a rovinarla…

Giovanni Merloni

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«Chi segue segue; chi non segue seguirà in seguito!» (Caramella n. 4)

14 jeudi Jan 2016

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Caramella

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«Chi segue segue; chi non segue seguirà in seguito!»

Caramella,
prima del nostro incontro di Ostia mi sembrava che tutto fosse attaccato a un filo, come nei film di Indiana Jones. Ma tu sei stata indulgente: all’altro capo della corda lì lì per spezzarsi, affacciata sull’orlo del pozzo scuro e gelato, mi hai tirato su. Quante volte ti sarai domandata «chi me lo fa fare?», ma poi il braccio l’hai allungato, preoccupandoti di far arrivare il filo fino alle mie mani. Energicamente, forse con l’aiuto di qualcuno, hai fatto passare la corda sulla carrucola e… mi hai salvato.
Ma poi, invece di correre subito ad abbracciarti, mi sono lasciato attrarre dalle sirene di Scilla e Cariddi come Ulisse. Tu eri una Penelope assediata che aspettava il suo vecchio amico. Non avrei dovuto tergiversare: questo incontro così raro, così unico, era più importante delle parole, più importante delle ansie che ingombrano la mia testa come droghe vere e proprie. Insomma, ti ho deluso.
Come Ulisse, sono arrivato sotto falso nome, rivestito di stracci e di cicatrici a te sconosciute. Non ti ho dato la possibilità di scoprirmi a modo tuo, seguendo il tuo infallibile istinto. Forse, se avessi saputo liberarmi della mia corazza di cartapesta, sarei riuscito a espugnare la tua isola!
Ora… mi ritrovo tra le mani un foglietto spiegazzato, su cui tu hai scarabocchiato una domanda: «che c’entra Punzi con Paparozzi?»
Ma tu lasci ancora sospeso tra me e te un esile filo… Un lunghissimo capello castano che, visto dall’aereo, sembra una tortuosa strada bianca che sparisce e ricompare al passaggio delle nuvole e al sottopassaggio delle montagne, per poi impaludarsi tra i riflessi accecanti dell’immenso delta del Rodano e… risalire, risalire, arrivando chissà come fino al mio portone. Già, davvero, che c’entra Punzi con Paparozzi?
Forse, qualcuno che non esiste, se fosse stato alunno dell’uno e dell’altro avrebbe potuto aiutarmi a spiegare oggettivamente e una volta per tutte una tale questione basilare o, più probabilmente, avrebbe suggerito di lasciar perdere: Punzi è Punzi e Paparozzi è Paparozzi.
Sta di fatto che per cinque anni di seguito io sono stato compagno di scuola e di classe di Paparozzi, cumulando di anno in anno la sublime esperienza di avere a che fare con un inguaribile primo della classe che era anche, cosa rara, un fuoriclasse. Nella maggior parte delle «galere chic», come io chiamo le scuole, come io le chiamo e considero, il primo o la prima della classe non è necessariamente un genio che ha la scienza infusa. Al contrario, si tratta di persone soprattutto volenterose e metodiche, spinte da un desiderio quasi religioso di primeggiare e che, se non primeggiassero, non saprebbero cosa fare.
Nella nostra classe, Caramella, se ben mi ricordo, non c’erano primi della classe né geni. Eravamo lo specchio dell’Italia pre-risorgimentale, costellata di staterelli decaduti e incapaci di primeggiare. In altre classi, come quella di mia sorella o quella di mio fratello, la regola più diffusa era rispettata, con dei «Pierini» che non perdevano un colpo e degli «elementi» capaci talvolta di exploit sorprendenti in questa o quella materia.
Nella classe da cui venivo, facevo parte dell’agguerrito gruppetto di coloro che perennemente inseguivano il fuoriclasse in fuga. Paparozzi eccelleva nelle materie letterarie e in disegno, ma se la cavava anche in matematica e in geometria. Per questa sua supremazia, perché nessuno lo copiasse, veniva relegato all’ultimo banco durante i compiti in classe. Più tardi, tra le leggende che serpeggiavamo nei corridoi fumosi all’ora delle pizzette — che i bidelli scaldavano per qualche minuto sui grandi termosifoni di ghisa —. si diceva che Musmarra, il professore di latino e greco della sezione D, faceva per lui un’ eccezione, sfidandolo a tradurre dal greco al latino e viceversa, essendo la versione in italiano troppo facile e scontata. Più tardi, quando Paparozzi era ormai una leggenda tra i professori della sua scuola, il liceo Pasteur, si raccontò che Paparozzi, non contento di decifrare testi greci e latini scoloriti e difficilissimi, aveva intrapreso una fitta corrispondenza con un professore dell’Università di Oxford che si divertiva a mandargli, dopo averli bruciacchiati qua e là, certi poemi sconosciuti. E Paparozzi rispondeva: certo si trattava di un’interpretazione… ma la soluzione era talmente brillante che ci si poteva giurare.
Ai tempi miei, Paparozzi era buono, calmo, riflessivo, silenzioso. Devoto della penna stilografica Pelikan, se ne serviva in classe per fare a tempo perso degli esercizi di calligrafia in gotico. Eravamo amici, in qualche modo, come lo si può essere quando la superiorità dell’uno sull’altro è fissata una volta per tutte. Abitava a Monte Mario, in un piccolo appartamento dietro al cinema Edelweiss. Figlio unico molto devoto, è stato sempre vicino ai suoi genitori che avranno passato la vita, io credo, a domandarsi come mai avevano potuto generare un figlio così speciale.
Dalla seconda media fino al quinto ginnasio avevo condiviso con Paparozzi la passione per il francese e la Francia. Per lui forse, questa cultura, sempre all’avanguardia dal punto di vista letterario, filosofico e scientifico, era una porta, un veicolo per introdursi e avanzare più speditamente nel suo gigantesco bisogno di sapere. Per me il francese era la chiave per entrare in un mondo che non poteva cambiare e dove, soprattutto, si respirava una particolare aria di libertà. Sia alle medie che al ginnasio avemmo la fortuna di due bravissime professoresse di francese. Ma Ortensia Lami, quella signora piccola e freddolosa con i capelli bianchi e vestito di lana nero alla Strehler, che forse avrai visto circolare per i corridoi del Mamiani seguita da un codazzo di fedelissimi «portatori» delle sue indispensabili stufe, fu un vero e proprio mito. Come non amarla, come non assimilare ogni angolo delle sue precise e indimenticabili parole francesi. Venendo a Parigi, ho poi immaginato che la Lami, se fosse rimasta in Francia con la sua famiglia, si sarebbe chiamata Hortense Lamy… ma la mia intraprendenza si ferma lì. A differenza di Paparozzi, che andava regolarmente a trovare la vecchia e arzilla professoressa, io non ci sono mai andato, se non una volta. Eppure, davanti a tante materie che amavo o odiavo in modo alterno, il francese, insieme alla geografia, erano le materie in cui ottenevo i migliori risultati. Al punto che capitò, qualche volta, in occasione di un compito in classe di francese, la Lami mi facesse sedere in fondo, vicino a Paparozzi…
Ti risparmio, Caramella, il ricordo di quegli strani e straordinari dibattiti che la Lami sapeva suscitare parlando della « religiosità » di Rousseau o della « vita reale » scritta-dipinta da Prévert, che furono tutti e due i miei primi maestri… Fatto sta che questa interminabile stagione di classi maschili, in cui si affacciava prepotentemente ma senza grosse speranze la questione amorosa, si interruppe bruscamente quando, invece di continuare a frequentare la sezione D, insieme a Paparozzi e al gruppetto dei pochi amici che pure mi ero creato, i miei genitori decisero per me, trasferendomi nella C.
Tra i nostri nuovi professori c’era Giuliano Manacorda, una persona nobilissima e carismatica che, si sapeva, era un intellettuale di sinistra… Ma non credo ci potesse essere solo questa motivazione. Perché « levarmi » da una classe dove in fin dei conti me l’ero sempre cavata? Mistero. E perché io non dissi niente? Forse perché tutto mi era indifferente? Ero diventato così, secondo loro, a forza di stare nell’ombra, e quest’ombra rischiava di diventare un alibi per non sforzarmi di primeggiare e, al limite, per non studiare.
Certo la classe con il fuoriclasse Paparazzi sembrava ipotecata da un destino implacabile. Per di più, tra la quarta e la quinta ginnasio, io avevo definitivamente perduto la cosiddetta « pace dei sensi » e non riuscivo più a studiare con la testa leggera, come prima. E Paparozzi, che mi sembrava ancora indenne da queste turbe disastrose, non poteva più essere per me lo stesso interlocutore. Ma, Caramella, i primi giorni che mi trovai catapultato nella classe dove c’eri anche tu… una classe finalmente mista, devo confessarti che, pur non avendo la consapevolezza di aver perduto, tra i vecchi compagni, qualche vero amico, mi trovavo ancora molto spaesato e confuso.

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«Siete quaranta!» urlò Punzi, con quell’inflessione dialettale avellinese che fu poi l’occasione di tante e tante imitazioni. Già all’inizio del liceo, nell’ottobre 1961, eravamo in soprannumero. Tre anni dopo, al primo anno di architettura, dove si iscrissero con me altri cinque nostri compagni, eravamo cinquecento! Si parla oggi della nostra generazione, quella dei nati alla fine della guerra, come della generazione dei « baby boomers », credo più « maschi » che « femmine », se vogliamo usare il gergo scolastico. La prima generazione che ha dovuto da un giorno all’altro fare i conti con quel cambiamento radicale della società occidentale di cui vediamo oggi una fase ancora più inquietante e minacciosa. Ma Punzi non era cattivo. Era terrigno, autentico, burbero ma benefico come il personaggio di Goldoni. Legato ancora ad un’idea, arcaica ma solidale, di una società che desiderava sinceramente sana e giusta, dove si doveva continuare a «dare a Cesare quel che è di Cesare»…
Lui non mi avrebbe sgridato, come invece faceva Manacorda, per tutti i fastidiosi avverbi — energicamente, metaforicamente, oggettivamente, probabilmente, necessariamente, perennemente, talmente, speditamente, regolarmente, prepotentemente, bruscamente, definitivamente. finalmente — con cui ho condito fin qui il ricordo del mio « faticoso passaggio » alla vigilia del nostro primo incontro. Punzi non si sarebbe nemmeno scandalizzato se, nell’imbarazzo della mia ignoranza di fronte a una domanda difficile, avessi detto, durante i miei incubi ricorrenti di esami che non finiscono mai, quel fallimentare «praticamente», una vera e propria gruccia secondo il professore di storia. Punzi era un tipo essenziale, consapevole dei suoi limiti. Severo ma non troppo. Un Bignami ambulante e in definitiva un ottimo professore, se si considera che tutta la classe arrivò in modo indolore alla maturità, credendo di sapere poco o niente e invece…
«Anacreonte viaggiò molto, oriente… occidente…» questa fu una delle sue frasi più celebri, insieme a quel «Non accetto più, non accetto più!» che rimbombava nel fondo della classe mentre la sua voce diventava gracchiante al momento topico del ritiro dei nostri compiti appena scodellati. Qualche giorno dopo, quest’uomo spelacchiato con gli occhiali spessi, piccolo e cicciottello nel suo abito grigio, entrava in classe sbattendo la cartella con i compiti, urlando: «Non ci avete capito un cazzo!»
Nel ricordo, questo suo comportamento era alla fine liberatorio, se si pensa che nell’interregno tra il compito e il voto le sue dichiarazioni erano spesso minacciose: «sto correggendo i vostri compiti col bilancino», oppure «la stretta di viti sarà ancora più sanguinolenta», oppure ancora «chi segue segue, chi non segue seguirà in seguito»…
Il ricordo di Punzi, che condividiamo con tantissimi ex alunni del Mamiani e si è tradotto in numerose «punzeidi» e, insieme agli amori segreti e forse inventati tra Pagani e la Rizzo — cioè tra il carismatico e tossicchiante professore di matematica e la vispa è un po’ algida professoressa di scienze — una delle poche cose vive e forti del nostro tempo trascorso su quei banchi senz’anima.
Per fortuna, oltre alla paura di dire «praticamente» o altri avverbi e parole di cui avremmo dovuto diffidare come di altrettante grucce verbali e alla certezza di essere di punto in bianco stigmatizzati per la nostra mancanza di… tutto, la cosiddetta « pace dei sensi » era da tutti, di comune tacito accordo, identificata con la polvere dei libri. Nella nostra «prima C», a parte la «signorina» Di Giulio e pochissimi altri, nessuno studiava. O per meglio dire nessuno strafaceva. Da questo punto di vista, andando a ritroso con la macchina del tempo, devo correggere il giudizio che mi sono portato dietro per tanto tempo. Quella classe apatica, amorfa, divisa in tanti staterelli come l’Italia all’indomani del congresso di Vienna del 1815, quella classe che Metternich avrebbe chiamato « mera espressione geografica »; questa classe formatasi nel 1961, che poteva assimilarsi all’Italia che si era formata proprio cento anni prima, in cui si dovevano ancora fare gli italiani… era in realtà quanto di meglio avrei potuto desiderare. Lo specchio delle mie e delle nostre brame.
Perché allora, in un epoca in cui già aleggiava la contestazione e l’insofferenza verso questo mondo adulto « imbalsamato », nessuno di noi avrebbe voluto uno specchio che gli dicesse «tu sei il più bravo e il più bello», perché tutti, invece, desideravamo, sotto sotto, che lo specchio ci dicesse, come ci diceva : «vedi? tutto scorre senza cambiamenti e tu, ancora una volta, sei passato inosservato!»
Vedi, Caramella, che cosa può produrre la solitudine e lo strano rimorso per delle colpe che sono certo di non avere commesso ? Finché tu non ti rifarai viva, io non farò altro che entrare e uscire da quello specchio.

Giovanni Merloni

TESTO IN FRANCESE

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L’Italia : un paese « dal volto umano ». Seconda lettera a Giorgio Muratore

07 mercredi Oct 2015

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

L’Italia : un paese « dal volto umano ». Seconda lettera a Giorgio Muratore

Caro Giorgio,
voglio innanzitutto ringraziarti per avermi fatto superare un assurdo «imbarazzo linguistico». Ho finalmente capito l’importanza di una scelta coerente: ogni volta che si scrive, bisogna domandarsi chi è il destinatario della nostra lettera. Dunque, se mi rivolgo a te, è più logico che io scriva in italiano, nella nostra lingua comune. Farò così d’ora in poi. L’eventuale traduzione in francese verrà poi. (1)
Da quando ho « scoperto » il tuo blog e « verificato » che tu, grazie al cielo, non sei cambiato, è aumentato in me il desiderio di tornare idealmente sui luoghi da cui ero fuggito a gambe levate o, per meglio dire, che avevo attraversato come un campo di battaglia dove non avevo trovato il coraggio di combattere.
Come Pierre Bezukov vagante senz’armi tra i morti, i feriti e le sciabolate della battaglia di Borodino, o come il dottor Zivago che non poteva condividere l’assolutismo delle parole d’ordine.

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Foto presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

Del resto io desideravo da tanto tempo raccontare, senza filtri romanzeschi o poetici, la giornata del primo marzo 1968, che ho per così dire « attraversata » in qualità di attore e spettatore nello stesso tempo. Questa giornata, che ha segnato la mia vita, voglio raccontarla prima di tutto per «contestare» l’atteggiamento a volte conformista di coloro che dicono «io c’ero!» per ricavarne un merito… Del resto, so bene che i miei ricordi non potranno aggiungere granché a tutto ciò che si è scritto su questo fatto, da Pasolini fino all’ultimo giornalista del Messaggero o del Tempo, senza contare la bella e celeberrima canzone di Paolo Pietrangeli.

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Foto presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

La rilettura della lettera che Pasolini aveva indirizzato ai capi del movimento studentesco mi ha suggerito quattro piste da tenere presenti nel mio racconto :
1) gli studenti erano dei figli di papà, per la maggior parte di estrazione borghese ;
2) il movimento era fondamentalmente anti-comunista e dunque destinato a creare, come è poi effettivamente successo, una costellazione di formazioni politiche extraparlamentari, fino alle Brigate Rosse ;
3) gli studenti del ’68 promuovevano una « reificazione », una strumentalizzazione della rivolta per ottenere risultati concreti, in una concezione mercantile e opportunista dello scambio politico e culturale ;
4) il movimento degli studenti pretendeva di bypassare le lunghe e faticose discussioni imposte dal centralismo democratico del PCI, per afferrare il potere, come voleva farlo la Vispa Teresa con le farfalle.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Veniamo dunque ai pochi ricordi che mi sento di far emergere dal cappello affumicato della memoria.
«Fuori la polizia dall’università!» gridavano tutti e gridavo anch’io, sommessamente e timidamente. Ma poi, quando fummo davanti ai poliziotti schierati, la mia indignazione — per la « serrata » decisa dalle autorità scolastiche, che ci impediva di entrare nella facoltà mentre alcuni « compagni » erano « chiusi dentro » — non riuscì a trasformarsi in rabbia, in aggressività o violenza. Del resto io non avevo mai « fatto a botte » in vita mia, e non ero il solo. Ma almeno, il nostro amico Maurizio Ascani, anche lui incapace di far del male a una mosca, era rimasto lì, impalato, spettatore di prima linea e, mentre noi scappavamo inseguiti dai poliziotti, lui si beccò una randellata in testa che lo mandò dritto all’ospedale. Mentre noi — io e mio fratello Francesco, tra molti altri — scavalcavamo la siepe che delimita il prato di via Gramsci, scoprendo che al di là di questo esile confine di foglie c’era già un dirupo… altri invece contrattaccavano, a mani nude oppure trasformando le panchine in rudimentali bastoni…
Non eravamo preparati a una simile evenienza. Né all’ipotesi di essere «caricati» dalla polizia né a quella di doverci difendere e addirittura contrattaccare.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Ricordo che allora si era unito al corteo di via dei Frentani — che era passato, in quell’occasione, mi pare, con tutto il suo rimbombo di voci nella galleria della stazione Termini —, Agostino, uno studente di scienze politiche, socialista « di sinistra » come lo erano allora i miei fratelli, che lavorava alla «sezione cultura» del suo partito, nella famosa sede di via del Corso. Con nostra grande sorpresa, Agostino, un tipo abbastanza pacifico, si lanciò senza esitazioni incontro ai poliziotti, come del resto un caro compagno del Mamiani prematuramente scomparso, Umberto Schettino, che ebbe il giorno dopo il prezioso riconoscimento di vedersi effigiato in prima pagina.
Io e Francesco, mio fratello, non passammo, come si suol dire, all’azione fisica, né allora né mai, sia perché nel fondo non eravamo d’accordo, sia perché nostro padre era morto da soli tre mesi, lasciando un vuoto incolmabile. Nostra madre, una donna coraggiosa, più sbilanciata, come me, verso il partito comunista che verso il socialismo moderato e lungimirante di mio padre, non ci aveva certo impedito di partecipare alla «lotta». Ma io trascinai mio fratello nella direzione opposta a quella degli scontri: — pensiamo a nostra madre! gli dissi. Per quanto mi riguardava, io sarei stato d’accordo per sedermi in terra e aspettare che i poliziotti mi portassero via. Credevo alla protesta dei «sit-in», alla resistenza passiva, alla forza delle idee nobili e giuste che finiranno sempre per trionfare, come l’amore.
Intanto persino le ragazze partivano all’attacco, brandendo la loro borsetta e cercando di colpire con quella. Tra loro c’era anche Lucia, una persona sempre sorridente e tranquilla… Quanto a Marina Natoli, la nostra amica carissima, sono sicuro di avere parlato a lungo con lei, perché lei mi aveva aggiornato su quello che stava succedendo… Ma non so dove collocare questo nostro scambio, in quale momento di quella lunga giornata. Nei mesi successivi, Marina ci parlava spesso del dissenso interno al PCI, del gruppo del Manifesto che si stava consolidando intorno alle figure carismatiche di Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Luciana Castellina… Che strano! In quel periodo, pur avendo già votato una volta comunista, non mi ero ancora iscritto al partito, salvo una prima esperienza della organizzazione giovanile, durata poco più di un anno nel 1963. Eppure, una voce interna mi raccomandava di essere «fedele» a questo partito un po’ monolitico ma calato nella realtà. All’epoca, il segretario era Luigi Longo e, insieme al grande Pietro Ingrao c’erano Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta… delle figure straordinarie, oneste, incredibilmente alla mano. Altro che «doppiopetto», come diceva Pasolini! E poi c’era il senatore Edoardo Perna, membro della direzione del partito. Non solo gioviale e allegro in famiglia, mio zio tirava fuori la sua verve «artistica» anche quando, durante le riunioni di partito, adattava motivetti conosciuti a canzoni politiche ferocemente scherzose.

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Renato Guttuso, I funerali di Togliatti,
immagine presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

Il Partito comunista non poteva certo amare quell’Italia governata da un centro-sinistra debole e ricattata dai cosiddetti poteri forti che si annidavano non soltanto nella borghesia destrorsa ma anche nelle mafie crescenti della speculazione edilizia e dei cosiddetti «corpi separati dello Stato», come la Cassa del Mezzogiorno, l’IRI-Italstat, eccetera. Al tempo stesso il PCI si arroccava un po’, mostrandosi diffidente nei confronti degli intellettuali-borghesi-figli di papà, scoprendo il fianco sinistro.
Ripensandoci, caro Giorgio, nonostante la pubblicazione del memoriale di Yalta di Togliatti che indicava chiaramente la «via italiana al socialismo»; nonostante l’idea gramsciana del «comunismo dal volto umano», immanente nello spirito e nello stile del vecchio partito proletario, questi uomini nobili non seppero afferrare l’occasione che si offriva loro, con la rivolta studentesca prima e con le critiche del Manifesto poi.
Certo ci fu l’incontro di Luigi Longo con i giovani, e ci fu poi «l’autunno caldo» del 1969, che fecero maturare la nascita, nel 1970, delle Regioni volute dalla Costituzione del 1948 ed osteggiate con ogni mezzo dai difensori dello stato centralizzato imperniato sulla Democrazia Cristiana.
Tutto ciò si attuò frettolosamente, avanzando senza una strategia condivisa. Le Regioni dovettero lottare per avere il potere necessario per esercitare le loro funzioni, dovettero conquistarsi a fatica il diritto di legiferare pienamente nell’ambito delle loro nuove competenze. D’altronde non tutte le realtà regionali erano pronte ad assumere un tale impegno con la stessa efficacia e soprattutto con la stessa determinazione…
Ma furono anche anni di costruzione, di entusiasmo, di lavoro sodo e di scambio culturale. Del resto, fu proprio nel 1970 che la legge sul divorzio fu approvata. Una legge che metteva in luce un cambiamento epocale, soprattutto in un paese egemonizzato dalla chiesa cattolica come l’Italia. La prima vera legge Di sicuro, tutto questo non sarebbe avvenuto se non ci fosse stato il ’68, se non ci fosse stata quella «rottura» traumatica, se non ci fossero stati anche loro, quei gruppi e gruppuscoli che hanno dato voce a un malessere diffuso, infondendoci il coraggio di criticare.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Se chiudo gli occhi, riesco a vedere quella giornata di Valle Giulia come in un film. Allontanandomi, con mio fratello e altri paurosi come noi, assistemmo alla battaglia da vari punti di vista. In quei tempi, scattare delle foto e soprattutto dei film non era facile come oggi… Bisognava in ogni caso pensarci prima. Altrimenti, con la mia Canon, avrei di certo fissato quello che vedevamo, e anche il nostro sbalordimento pieno di angoscia su una ventina di immagini almeno. Il punto di vista più distante era il bordo di villa Borghese, quel punto in cima alla scalinata di via di valle Giulia dietro cui si cela l’ingresso al giardino del Lago. Vedemmo tram e macchine messe di traverso, per bloccare il traffico. Vedemmo delle nuvolette di fumo scaturire dal vialetto di accesso alla facoltà, assistemmo all’incendio di una jeep della Celere… Ci riavvicinavamo più volte. Una di queste volte, nella scalinata in discesa in prossimità dell’Accademia Britannica, incontrammo Renato Nicolini.
— Sono pazzi, dissi io.
— No, sono coraggiosi, disse Renato.
Anche lui provava, io credo, la stessa sensazione di smarrimento, anche se ad un livello più elevato e consapevole di me. Essendo dirigente dei Goliardi Autonomi e iscritto al partito comunista, conosceva a fondo il trauma di questo movimento che, in un certo senso, si arrampicava sugli specchi, inventando una rivoluzione per scuotere il padre, il padrone, il partito. Partito, padrone e padre che, lui lo sapeva bene, sarebbero stati sordi e diffidenti. Forse anche lui pensava, come me, che non ci potevano essere scorciatoie… ma quando un sentiero nuovo si apre, come si fa a non essere tentati di imboccarlo?

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Più tardi, incontrammo di nuovo Agostino. Con un sorriso smagliante disse che noi due, io e mio fratello, ci eravamo comportati come i generali delle «guerre pacioccone», che se ne stanno lì beati, a distanza, con il loro cannocchiale, a scrutare il campo di battaglia.
Sempre sorridendo, Agostino ci trascinò al suo ufficio di via del Corso. In ascensore, Agostino si rivolse a un funzionario del Partito socialista unificato, raccontandogli animatamente quello che era successo. La risposta fu più o meno la seguente: — per fortuna, in questo momento ci sono dei margini nelle casse dello Stato, daremo un po’ di lavoro e di borse di studio a tutti questi giovani… che problema c’è?
Poi, forse anche sollecitato dalla nostra apprensione, Agostino ebbe l’ardire di telefonare al segretario del partito.
— Segretario, oggi è successa una cosa gravissima, disse Agostino, la polizia ha caricato gli studenti! Ci sono stati dei feriti…
— Hanno fatto bene! rispose il segretario.

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Renato Guttuso, graffiti sur la façade de la Faculté d’Architecture de Rome,
photo de Giorgio Muratore, depuis Archiwatch

Giovanni Merloni

(1) Dovendo, per forza di cose, scrivere in una lingua — l’italiano o il francese — per poi tradurre nell’altra, agli inizi del mio «esilio parigino» scrivevo i miei brogliacci un po’ in italiano un po’ in francese, secondo l’ispirazione del momento. Ma la cosa non funzionava. Per me, infatti, era più facile tradurre dal francese in italiano piuttosto che il contrario e anche perché dovevo decidere ogni volta a chi rivolgere le mie riflessioni di viaggio. Sì, viaggio, perché per molto tempo mi sono sentito sospeso nella gradevole precarietà del «viaggiatore»… Ne risultavano dei testi informi, né carne né pesce. In questi giorni, mi sono accorto di un cambiamento. Se scrivo a te, immaginando che forse qualche altro architetto o amico di architetti leggerà il mio testo in Italia, mi viene ormai naturale scrivere in italiano. Poi, anche se più laboriosa, la traduzione francese verrà. Nell’articolo sulle «ceneri di Pasolini», invece, era agli amici francesi frequentatori del mio blog che dovevo rivolgermi, era a loro che dovevo spiegare, in prima battuta, la banale complessità di ciò che abbiamo traversato e che, in parte, Pasolini aveva «sgamato», come si dice a Roma. In francese riesco a scrivere abbastanza scorrevolmente, anche se il vocabolario è inevitabilmente più limitato, mancandomi spesso le frasi fatte, i modi di dire, i proverbi. Ma poi la traduzione in italiano scorre facile, come le ruote di una macchina in discesa.
G.M.

TESTO IN FRANCESE

Le ceneri di Pasolini

04 dimanche Oct 2015

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Battaglia di Valle Giulia, Carlo Marx, Facoltà di Architettura, Giorgio Muratore, Herbert Marcuse, Italia, Pier Paolo Pasolini, Roma

001_paso 1 180 Le ceneri di Pasolini

Se scavo tra i miei ricordi degli anni ’60, ci trovo, molto prima della data del primo marzo 1968, molti episodi e circostanze che hanno contribuito all’avvio, nel mio paese, dei fenomeni politici e sociali del tutto inediti del biennio ’68-’69, i cosiddetti anni «caldi».
Si tratta talvolta di fatti a cui ho assistito in prima persona, come l’occupazione della Sapienza a Roma in aprile-maggio 1966, a seguito dell’omicidio, davanti alla facoltà di lettere, dello studente Paolo Rossi. Già quella fu una prova, e non la prima, di una tensione crescente, che durava da molto tempo, tra le istituzioni universitarie, sorde e ostili ad ogni richiesta di modernizzazione, e gli studenti, sempre più preoccupati per il loro inserimento lavorativo. Quel l’occupazione fu, per noi studenti, la svolta della piena e definitiva presa di coscienza: d’ora in poi, dovevamo tutti impegnarci, farci carico di un confronto politico che andava al di là delle nostre piccole beghe universitarie.
In ogni caso, per il cambiamento tanto atteso, bisognava che scattasse qualcosa di nuovo e di diverso. Questo scatto avvenne con la giornata del primo marzo 1968, segnata dagli scontri tra poliziotti e studenti proprio davanti alla facoltà di architettura a Valle Giulia a Roma. Una vera e propria «battaglia» che diede luogo a sua volta all’esplosione di un fenomeno che andava ben oltre ciò che si era immaginato alla vigilia. Un fenomeno, chiamato sinteticamente «il ’68», che ha toccato le nostre esistenze nel vivo, mettendo una forte ipoteca sui successivi sviluppi della vita politica in Italia.

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Nella mia recente lettera a Giorgio Muratore, avevo ricordato un episodio occorsomi durante un’assemblea degli studenti, nell’aula magna della Facoltà, qualche giorno dopo la battaglia, allo scopo di svolgere, nei successivi articoli, una riflessione sulla nostra esperienza comune — in libro-progetto intitolato «Diritto alla città» che condividemmo con altri compagni — alla luce degli impegni che ognuno di noi ha poi assunto, come il mio lavoro di urbanista presso la regione Emilia-Romagna a Bologna.
Une fase della mia vita bruscamente interrotta, in un contesto, quello di Bologna, che per forza di cose si è modificato nel tempo e comunque rappresenta, per me, la prova che certe realizzazioni molto positive sono esistite e hanno resistito a lungo. Nello stesso tempo, non posso ignorare che c’è stato un momento in cui il nostro paese ha smesso di progredire, un’ora «x» dopo la quale si assiste allo spreco delle energie e del patrimonio culturale e professionale della nostra generazione (e delle successive) fino a ridursi ad un impressionante «analfabetismo di ritorno», una vera e propria rottura nel circolo virtuoso del progresso civile e culturale. Fatto inatteso è incredibile per un paese come l’Italia, che fu per tanto tempo additata come un esempio di equilibrio e di progresso.
Tutto ciò mi addolora enormemente, tanto più che in questa regressione vedo il riflesso di una serie infinita di passi indietro con cui si deve avere a che fare da quando la corruzione ha preso il sopravvento in Italia. Una corruzione, o decadenza o degenerazione che attraversa ormai tutto il paese ed ha senza dubbio delle ragioni profonde e lontane, che meriterebbero di essere studiate a fondo. Un impegno che, per motivi di spazio e di tempo, non posso assumere in questo momento, anche se alcuni elementi per una simile analisi potrebbero facilmente scaturire da quello che ho visto e vissuto direttamente nel corso degli anni.
Del resto nel mio blog ho deciso di limitarmi soprattutto agli aspetti estetici o specifici dell’attività degli artisti, degli architetti o degli urbanisti che sono inevitabilmente sfiorati da tali trasformazioni e regressioni.
Comunque, prima di «saltare» al tema specifico dell’urbanistica e parlare del libro collettivo sul «diritto alla città», in una delle prossime pubblicazioni del «ritratto incosciente» mi soffermerò sulla famosa «battaglia di Valle Giulia».

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Oggi, dopo aver letto e riletto molte volte «Il PCI ai giovani», poema che Pier Paolo Pasolini indirizzò ai capi del movimento studentesco all’indomani degli scontri, ho deciso di tradurlo in francese, proponendolo per una lettura che si rivelerà, credo, tanto interessante quanto indispensabile.
Questo poema di Pasolini contiene molte premonizioni. La polemica sui poliziotti — nei quali egli vede soprattutto dei figli di famiglie povere e emarginate — è ben nota. Questa polemica corrisponde peraltro alla sua peculiare tematica filosofica e poetica. Totalmente in controtendenza rispetto al mondo della politica come a quello della cultura, Pasolini si rivendica «antiborghese», alimentando i suoi capolavori di una visione, sempre originale e efficace, in cui il realismo si sposa a una ideologia della catarsi e della vittoria morale del bene sul male e del bello sul brutto, anche nelle situazioni più difficili e dolorose.
Pier Paolo Pasolini ha perfettamente ragione quando dice che è sbagliato confondere i poliziotti con la polizia. Ha ragione anche quando afferma che la polizia che interviene in una università non è la stessa polizia che fa irruzione in una fabbrica occupata.
E, di sicuro, il grande poeta e regista cinematografico ha ragione quando rileva nel movimento studentesco del ’68 un fondo di anticomunismo, di delusione o di diffidenza nei confronti di questo Partito fino ad allora indiscusso e carismatico.
Si trattava in ogni caso di un anticomunismo all’italiana, dove «il nemico PCI» era, come evidenzia Pasolini, un partito «di opposizione» che rispettava scrupolosamente le regole del sistema parlamentare di cui era, tra l’altro, il principale pilastro. Un partito che aveva sempre cercato, anche nei momenti più drammatici, di «non accettare le provocazioni», evitando con cura di affrontare la polizia durante le sue manifestazioni…
Dunque, al di là dello choc emotivo che provocano le parole aspre e sincere di Pasolini, non si può che aderire al fondo di quello che l’autore delle «ceneri di Gramsci» coraggiosamente dichiara o, per meglio dire, proclama.
Eppure, rileggendo questo testo quarant’anni dopo la scomparsa violenta del suo Autore, devo confessare di avere provato una profonda angoscia. Perché Pasolini, dopo aver consigliato a questi giovani «disorientati» di integrarsi attivamente nel più grande partito della sinistra — che poteva vantarsi di una lunga tradizione di lotte e di conquiste sociali e culturali — ha poi, da un momento all’altro, rivelato la sua tentazione personale di abbandonare la propria fede irriducibile nella rivoluzione, per aderire d’allora in poi a questa «moda» della guerra civile?
Tutti sanno che Pasolini è stato sempre al di fuori di tali logiche, pur avendo maturato nel tempo, interiormente e nelle sue opere straordinarie, una visione via via più pessimista delle derive probabili che il nostro paese stava per traversare. La sua visione, vicina a quella di Gandhi o di Anna Arendht, molto più che a quella di Herbert Marcuse, il filosofo amato dagli studenti del ’68, si collega d’altra parte all’idea di Gramsci di una interpretazione del verbo di Carlo Marx il più possibile coerente alla realtà italiana e alle sue molteplici anime e culture. Inoltre, grazie alla sua sensibilità a fior di pelle, Pasolini intuiva il «gioco pericoloso» che poteva scaturire dallo spirito guerriero degli studenti che avevano partecipato ai fatti di Valle Giulia.
E aveva anche colto la debolezza del pachiderma: questo partito comunista che non aveva saputo né probabilmente voluto aprire ai giovani, rinnovandosi come i tempi esigevano.
Tragicamente, nel finale disperato del messaggio pubblicato di seguito, la sfiducia di Pasolini nei confronti della capacità del PCI di assumere fino in fondo le sue responsabilità è perfino più forte del suo odio per i borghesi, suoi eterni nemici.
All’indomani della battaglia di Valle Giulia e delle manifestazioni che seguirono, l’estrema destra delle bombe e dei colpi di Stato non fu più sola a minacciare dall’esterno la nostra repubblica parlamentare e il suo precario equilibrio. Dopo una fase di euforia imprudente, caratterizzata da una gigantesca mescolanza di generi, si presentarono sulla scena nuovi soggetti «a sinistra della sinistra». Avevano forse l’illusione di «risolvere tutto» e «tutto capire» come «I Giusti» di Albert Camus ? O invece, come dice Pasolini, volevano accedere al potere tout court, attraverso qualche scorciatoia?

Giovanni Merloni

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Il PCI ai giovani!
La poesia dell’autore delle “ceneri di Gramsci”. I versi di Pier Paolo Pasolini sugli scontri di Valle Giulia che hanno scatenato dure repliche fra gli studenti, La Repubblica, 16 giugno 1968

Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.

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Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da sub-utopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.

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E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.

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A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
si tratta di una lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.

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Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino,
a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il movimento studentesco (?)
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
il teppismo conformista del fratello maggiore
(naturalmente avviato per la strada del padre),
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine anche se già lontane.
Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione
al potere.

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Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti,
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.

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E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi
un giovane operaio di occupare una fabbrica
senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli,
ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi
a dei giovani operai perché possano occupare,
insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.
È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza
(che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati)
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.

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Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama
vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud):
quindi, i Maestri
– che sapranno sempre di essere Maestri –
non saranno mai Maestri: né Gui né voi
riuscirete mai a fare dei Maestri.
I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti)
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, cari! Ecco,
gli Americani, vostri odorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione
del Times e del Tempo).
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale,
“più a sinistra”. Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante ereticale
ma sulla base del più basso idioma referenziale
dei sociologi senza ideologia.

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Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto (da bravi figli borghesi):
una serie di improrogabili riforme
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
e il rinnovamento di un organismo statale. I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica
borghese (con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco)
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.
Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
la noia di un’azione rivoluzionaria vera.

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Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci
del Comitato Centrale: Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…
Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!

003_paso 3 (1) 180

Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità…
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.
Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?

Pier Paolo Pasolini

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TESTO IN FRANCESE

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore (1)

01 jeudi Oct 2015

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Bologna, Emilia-Romagna, Facoltà di Architettura, Giorgio Muratore, Roma

001_diritto alla città 180

ASCANI Maurizio, BARBERA Luigi Maria (Mario), FIORE (Francesco Paolo), GERBINO Renato, MARCHITELLI Antonio, MERLONI Giovanni, MURATORE Giorgio, NATOLI Marina, SARACENO Andrea, QUADERNO N. UNO

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore

Caro Giorgio,
ognuno di noi, ognuno di quelli «che hanno cercato di fare qualcosa » dovrebbe spiegare le radici e le cause profonde della sua «indignazione».
Forse, nonostante le molteplici affinità elettive che ci rendono fratelli o cugini, non abbiamo esattamente le stesse idiosincrasie, le stesse rabbie per le stesse offese all’occhio e allo stomaco, all’estetica e alla morale, voglio dire.
Forse, nel tempo, le nostre rispettive battaglie sono diventate più specialistiche o si sono trovate per forza di cose imprigionate in contesti più circoscritti o comunque diversi e lontani uno dall’altro.
Certo, dopo un percorso comune, le nostre vite si sono separate. Non solo per il fatto che a due anni dalla laurea, inaugurando una nuova ondata di architetti romani emigranti a Bologna (di cui hanno fatto parte, tra gli altri, Giuseppe Manacorda, Pier Camillo Beccaria, Marco Peticca, Edoardo Pregher, Maurizio Ascani e Gian Piero Rossi) io avevo deciso di varcare gli Appennini per spezzare il cordone ombelicale con l’odiata-amata Roma, mentre tu hai fatto la scelta di restarvi, lottando, a Roma, dentro quella stessa facoltà di architettura, dando alle nuove generazioni un luminoso esempio di trasmissione democratica delle esperienze e del sapere.

002_ascaniba 006 180

Ma io feci anche la scelta dell’urbanistica. Di quella «cosa» che da studenti avevamo guardato con sospetto, e criticato ferocemente come la principale responsabile della «non forma» delle nostre città.
Se apro, con circospezione — e paura di trovarvi chissà che — quel «libro», che volevamo intitolare «Diritto alla città», in cui riversammo le nostre speranze ma anche le nostre frustrazioni, mi rendo conto che forse, se dovessimo fare una sincera e utile autocritica, dovremmo partire proprio da lì.
Retrospettivamente, e in maniera sintetica, io vedo la nostra esperienza universitaria ipotecata da due fattori principali.
Il primo, certo il più importante nel cosiddetto «lungo periodo», è stato quello della grande svogliatezza della maggior parte dei nostri docenti e assistenti, a parte alcune luminose eccezioni, come giustamente fu l’esempio Maurizio Sacripanti, o la tenacia di Antonio Quistelli, o la serietà di Paolo Marconi e Vieri Quilici, per esempio. Alla base di tutto, con la dubbia giustificazione del numero (la nostra generazione, chiamata non a caso la generazione del baby boom, comportò, per la prima volta, l’iscrizione di 500 studenti al primo anno di Architettura) si è imposta, a danno dei futuri architettI dell’epoca, una irriducibile gelosia professionale, eccezion fatta per coloro che potevano rientrare, attraverso forme di cooptazione del tutto discrezionali, negli «atelier dei maestri».

Quindi, non si è «voluto» insegnare i segreti del mestiere di architetto alla stragrande maggioranza degli studenti e laureandi. Nel contempo, furono indicati loro degli obiettivi troppo vasti e difficili.

Non posso non ricordare Ludovico Quaroni con affetto e stima grandissima. Un uomo straordinario e carismatico che sapeva trasmettere grandi suggestioni. Sulla sua bocca e nei suoi gesti il «town design» prendeva corpo, sembrava una cosa abbordabile, a portata di mano. Ma come si fa a concepire il «town design», cioè il disegno preventivo e unitario di interi pezzi di città, ignorando o dimenticando l’urbanistica, ignorando o dimenticando che non possono essere le singole persone da sole a «risolvere tutto» con la loro bacchetta magica, se ce l’hanno?

003_ascaniba 007 180

Il secondo fattore di disturbo, caduto circa a metà della nostra laboriosa e tormentata «auto-formazione» è stata l’esplosione, con il movimento del 1968, di una dimensione politica trascinante ma radicalizzante, che ci obbligò a riconsiderare, alla velocità del fulmine, tutte le nostre modeste certezze.
Il fenomeno dell’università «di massa», come si diceva allora, trovò nella cosiddetta «contestazione» una specie di falso alleato. Se l’università doveva far fronte a un cambiamento quantitativo nel rapporto professori/studenti e forse anche nei sistemi formativi, educativi e di avvio professionale, il movimento di allora predicava una rottura verticale e definitiva con il «sistema», andando molto al di là della giusta ipotesi dello svecchiamento e della lotta all’autoritarismo dietro cui si celava, senza dubbio, un’idea oscurantista, elitaria e antidemocratica della scuola e delle istituzioni culturali, come Pasolini stesso l’aveva sottolineato, all’indomani della « battaglia » di Valle Giulia nel suo poema « Il PCI ai giovani« . Invece di « uccidere il padre » per assumersi fino in fondo delle vere responsabilità, gli è stata tolta l’autorità formale, salvo approfittare delle risorse reali del padre stesso per sfruttare al massimo tutti i privilegi e vantaggi possibili e immaginabili.

004_ascaniba 008 - copie

Insomma Giorgio, forse tu non ricordi che nel lontano 1968 presi una volta la parola, nell’aula magna gremita, per dire, sotto lo sguardo beffardo di Sergio Petruccioli, che avremmo potuto e dovuto approfittare di un’occasione. Ricordo che i nostri compagni di università mi ascoltavano molto attentamente, anche se io ero timidissimo e parlavo a scatti. Bisognava utilizzare quel provvisorio «potere», che il ’68 ci regalava, per dire la nostra, per «metterci intorno a un tavolo» con professori e assistenti e cercare di capire, insieme, cosa non andava nella nostra sgangherata facoltà, per cercare di impostare una didattica e una ricerca più coerenti con le nuove esigenze e soprattutto con l’esigenza di una vera democrazia. Non si usava, allora, la parola «trasparenza». Per quella abbiamo dovuto aspettare l’avvento del povero grand’uomo che è stato Michail Gorbaciov, ma, ne sono sicuro, nel mio timido intervento pensavo soprattutto alla trasparenza.
Se c’eri, forse ti ricorderai che questo mio invito alla concretezza e all’onestà fu interpretato come una «azione di disturbo». Petruccioli mi attaccò, dicendo in sostanza che non avevo diritto di parlare, perché non avendo partecipato attivamente a tutte le azioni e riunioni del movimento studentesco, non sapevo di cosa stessi parlando. In verità, il leader indiscusso del movimento nella nostra facoltà era molto preoccupato, perché subito dopo accese un registratore, a tutto volume, obbligando l’uditorio ad ascoltare la voce sofferente di Oreste Scalzone. Quest’ultimo aveva rischiato la morte durante una recentissima manifestazione davanti alla facoltà di legge, essendo stato colpito sulla schiena dal lancio di un banco di scuola, che uno studente di estrema destra aveva fatto cadere da una finestra. Un episodio dolorosissimo che mi riporta alla memoria il clima spettrale di quella giornata veramente tragica.

Resta il fatto che la mia buona volontà fu zittita e ridicolizzata. Continuai a seguire me stesso e mi accorsi tra l’altro di non essere il solo a pensarla così. Renato Nicolini, per esempio, non era certo un facinoroso e fu anzi sempre lucido su questo punto, realizzando poi in prima persona, dieci anni più tardi, il rovesciamento che molti si aspettavano. Pur nell’ipotesi «effimera» dell’Estate Romana, la sua idea di cultura popolare — ma elevata, intelligente, ambiziosa, inserita nel contesto europeo — era una delle strade giuste da seguire.

005_roma fish eye

Dunque, folgorati sulla via di Damasco da questo «bel momento» del ’68, abbiamo tutti concluso i nostri studi universitari nella condizione meno serena e tranquilla possibile. Avevamo infatti davanti a noi, in questa Roma incapace di diventare capitale d’Italia, un mondo esterno sempre più latitante, dove l’autoritarismo stupido era sostituito da una burocrazia dispettosa. Dentro di noi una vocina, una strana ostinazione e quasi una volontà ci obbligavano a resistere, a cercare a tutti i costi una strada, per noi, per gli altri e forse anche per il mondo.
Ma, ripensandoci alla luce di quello che viviamo oggi, già allora c’erano tutti i germi della degenerazione futura.

Giovanni Merloni

(Continua)

TESTO IN FRANCESE

La calma del calamo fa sparire i rumori del mondo

25 vendredi Sep 2015

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Ghani Alani, Parigi

001_alani 06 (1) 180La calma del calamo fa sparire i rumori del mondo

In occasione di una nuova visita a Ghani Alani, sono rimasto circa mezz’ora a osservarlo mentre lavorava. Come se assistessi, dall’alto di un promontorio, alla traversata di una barca che avanzasse lenta e calma nell’acqua ferma e tiepida del Mediterraneo al crepuscolo. Oppure ai gesti sicuri di Robin Hood (o di Guglielmo Tell) nell’atto di tirare la corda dell’arco contro il petto, prima di lasciar partire la freccia, dando già per scontato che questa colpirà proprio nel centro del bersaglio lontano, invisibile per le persone normali. Affascinato dall’alternanza del calamo e del pennello, io mi sono a lungo interrogato sul sesso dei nomi che diamo alle cose. Per esempio, calamo è maschile, mentre penna è femminile. Il calamo, che si fabbrica tagliando le canne, per assolvere alla sua missione ha bisogno della sua cavità naturale interna, creata dalla natura stessa per farvi colare l’inchiostro, anch’esso maschile. D’altra parte, avendo la punta tagliata sulla diagonale, il calamo somiglia a un flauto (mentre in francese il « roseau » (canna) è maschile e l' »encre » (inchiostro) è femminile…

002_alani 02 (1) 180

Mentre Ghani Alani lasciava scivolare l’inchiostro lungo i solchi invisibili che la sua anima creatrice aveva tracciato idealmente sotto la grande pagina, mi sono divertito a raggruppare da una parte i « maschi » e dall’altra le « femmine che entrano un gioco durante queste traversate minuziose o di punto in bianco brusche e vitali. Il calamo, il pennello, il flauto e l’inchiostro e il foglio di carta aerano uomini (o ragazzi) dell’atelier di calligrafia di Ghani Alani, mentre la pergamena e la pagina erano le « donne » (o le ragazze).
Mi sono allora ricordato du una vecchia disputa filosofica di circa quidici anni fa, a Roma, tra me il maestro Alvaro Vatri, all’epoca della preparazione di une mostra e du uno spettacolo per festeggiare i duemila e passa anni di ponte Milvio, un ponte romano vecchio quasi quanto la città di Roma, cosiddetta « eterna » : « Tra il ponte e il fiume, chi è l’uomo ? ci domandavamo. Chi è la donna ?
Qui, la pagina, cioè la pergamena potrebbe identificarsi col fiume, mentre il calamo-pennello, tutt’uno con la mano e il gesto creatore, sarebbe il ponte. L’inchiostro o il colore chi cola dal calamo alla pagina, senza mai sconfinare, potrebbe essere invece l’acqua del fiume che torna al fiume stesso, come se la ruota di un mulino le imponesse delle capriole continue…
D’altronde, è proprio Ghani Alani chi lo dice : “non ci sarebbe la notte se non ci fosse il giorno ; non ci sarebbe la vita se non ci fosse la morte e finalmente non ci sarebbe l’uomo se non ci fosse la donna”.
La calligrafia rappresenta, dunque, soprattutto un atto d’amore, un abbraccio più o meno prolungato, un incontro d’amore dove tutto si confonde in uno scambio carnale e sublime. La pagina diventa calamo, l’inchiostro diventa pennello. L’uomo diventa donna…

003_alani 03 (1) 180

Prima di salutarci, Ghani Alani mi ha dato da leggere una poesia, in francese, col permesso di pubblicarla qui sotto, dopo averla tradotta in italiano.

Giovanni Merloni

004_alani 08 (1) 180

La lettera scaturita dal mio calamo è un’innamorata

Il calamo con cui lei scrive è la sua stessa immagine
Dolce alla carezza, armoniosa allo sguardo
Il nero dei suoi occhi, piangendo, fa sorridere le pagine del destino.

Dalle sue labbra, cola la linfa o il veleno, lo spirito del suo innamorato.
Lei non ha altro maestro che quello che l’ha scolpita
Col suo soffio, lei a volte è il flauto e a volte la penna.
Conquistatrice dello spazio per volere dello scrittore,
Lei è nata sulla riva del fiume:
Così ha potuto afferrare la melodia dell’usignolo.
Stretta alla mano del suo signore
Di questo mondo può tutto possedere.

Lei ricama con la notte i vestiti del giorno.
Se comincia a parlare, lei non lascia alcuna chance a un parlatore;
Muta quando è in riposo, diventa l’eloquenza in persona quando entra in azione.
Lei non si prosterna mai, tranne che in fondo alla nicchia della pagina amorosa;
Lei non carezza che la pelle dolce della pergamena;
Lei può disperdere le armate, ma può anche riunire le truppe della pace;
Lei non si disseta che inebriandosi all’acquasantiera dell’inchiostro per calmare così la sete di intelligenza.
Il liquore della sua bocca è la rugiada delle praterie della pagina;
A volte, lei ne diventa il torrente furioso.
Io la sento canticchiare, descrivendo le sue gioie e le sue infelicità.

« Sono stata innaffiata e cantata
E oggi, io innaffio, io canto.
E scrivo anche in bella calligrafia;
Mi chiamano canna
Per alcuni io sono la felicità;
Ed è una mano che mi fa cantare. »

Le sue lacrime sconfinano riempiendo le pagine
I suoi occhi scoccano frecce che arrivano al cuore degli innamorati;
Sotto i suoi denti lo spirito degli uomini si curva.
Una volta, l’ho sentita paragonarsi alla spada e dire

« Mentre io uccido senza versare alcun sangue
Tu, invece, massacri seminando la desolazione. »

Ghani Alani
(traduzione in italiano : Giovanni Merloni)

005_alani 05 (1) 180

La lettre de mon calame est une amoureuse

Elle écrit avec un calame qui n’est autre que son image
Douce à la caresse, harmonieuse au regard
La noirceur de ses yeux, en pleurant, fait sourire les pages du destin.

De ses lèvres, coule la sève ou le poison, l’esprit de son amoureux.
Elle n’a d’autre maître que celui qui l’a sculptée
De son souffle, tantôt elle est le ney, tantôt elle est la plume.
Conquérante de l’espace par la pensée de l’écrivain,
Elle est née sur la rive du fleuve :
C’est ainsi qu’elle a capté la mélodie du rossignol.
Enlacée à la main de son seigneur
Elle peut tout posséder de ce monde.

Elle brode avec la nuit les habits du jour.
Qu’elle commence à parler, elle ne laisse aucune chance à un parleur ;
Muette quand elle est au repos, elle est l’éloquence même lorsqu’elle est en action.
Elle ne s’est jamais prosternée qu’au sein du mihrab de la page amoureuse ;
Elle ne caresse que la peau douce du parchemin ;
Elle peut disperser les armées, comme elle peut réunir les troupes de la paix ;
Elle ne se désaltère qu’en s’enivrant au bénitier de l’encre pour apaiser ainsi la soif d’entendement.
La liqueur de sa bouche est la rosée des prairies de la page ;
Parfois, elle en est le torrent furieux.
Je l’entends chantonner, décrivant ses joies et ses malheurs.

« J’ai été arrosée et chantée
Et aujourd’hui, j’arrose, je chante.
Et même je calligraphie ;
On m’appelle roseau
Je suis le bonheur pour certains ;
On me fait chanter de la main. »

Ses larmes débordent pour remplir les pages
Ses yeux décochent des flèches qui atteignent le cœur des amoureux ;
Elle courbe l’esprit des hommes sous ses dents.
Une fois, je l’ai entendue se comparer à l’épée en disant

« Moi, je tue sans verser le sang
Et toi, tu massacres en semant la désolation. »

Ghani Alani006_alani 09 (1) 180Questo blog è protetto dal ©Copyright

TESTO IN FRANCESE

Il mio primo «libro» in francese

10 jeudi Sep 2015

Posted by biscarrosse2012 in il ritratto incosciente

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Proprio ieri, 9 settembre, il giorno del compleanno di mia figlia, la posta mi ha consegnato un grazioso pacco contenente alcune copie del mio primo libro in lingua francese : « Poèmes d’avant l’amour », pubblicato dalle «Éditions des Poètes français». Sono perfettamente consapevole di quello che ciò significa. Ma sono tranquillo, fiducioso, contento di poter «trasmettere» qualche briciola di un discorso fin troppo lungo.

Giovanni Merloni

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