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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

L’Italia : un paese « dal volto umano ». Seconda lettera a Giorgio Muratore

Caro Giorgio,
voglio innanzitutto ringraziarti per avermi fatto superare un assurdo «imbarazzo linguistico». Ho finalmente capito l’importanza di una scelta coerente: ogni volta che si scrive, bisogna domandarsi chi è il destinatario della nostra lettera. Dunque, se mi rivolgo a te, è più logico che io scriva in italiano, nella nostra lingua comune. Farò così d’ora in poi. L’eventuale traduzione in francese verrà poi. (1)
Da quando ho « scoperto » il tuo blog e « verificato » che tu, grazie al cielo, non sei cambiato, è aumentato in me il desiderio di tornare idealmente sui luoghi da cui ero fuggito a gambe levate o, per meglio dire, che avevo attraversato come un campo di battaglia dove non avevo trovato il coraggio di combattere.
Come Pierre Bezukov vagante senz’armi tra i morti, i feriti e le sciabolate della battaglia di Borodino, o come il dottor Zivago che non poteva condividere l’assolutismo delle parole d’ordine.

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Foto presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

Del resto io desideravo da tanto tempo raccontare, senza filtri romanzeschi o poetici, la giornata del primo marzo 1968, che ho per così dire « attraversata » in qualità di attore e spettatore nello stesso tempo. Questa giornata, che ha segnato la mia vita, voglio raccontarla prima di tutto per «contestare» l’atteggiamento a volte conformista di coloro che dicono «io c’ero!» per ricavarne un merito… Del resto, so bene che i miei ricordi non potranno aggiungere granché a tutto ciò che si è scritto su questo fatto, da Pasolini fino all’ultimo giornalista del Messaggero o del Tempo, senza contare la bella e celeberrima canzone di Paolo Pietrangeli.

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Foto presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

La rilettura della lettera che Pasolini aveva indirizzato ai capi del movimento studentesco mi ha suggerito quattro piste da tenere presenti nel mio racconto :
1) gli studenti erano dei figli di papà, per la maggior parte di estrazione borghese ;
2) il movimento era fondamentalmente anti-comunista e dunque destinato a creare, come è poi effettivamente successo, una costellazione di formazioni politiche extraparlamentari, fino alle Brigate Rosse ;
3) gli studenti del ’68 promuovevano una « reificazione », una strumentalizzazione della rivolta per ottenere risultati concreti, in una concezione mercantile e opportunista dello scambio politico e culturale ;
4) il movimento degli studenti pretendeva di bypassare le lunghe e faticose discussioni imposte dal centralismo democratico del PCI, per afferrare il potere, come voleva farlo la Vispa Teresa con le farfalle.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Veniamo dunque ai pochi ricordi che mi sento di far emergere dal cappello affumicato della memoria.
«Fuori la polizia dall’università!» gridavano tutti e gridavo anch’io, sommessamente e timidamente. Ma poi, quando fummo davanti ai poliziotti schierati, la mia indignazione — per la « serrata » decisa dalle autorità scolastiche, che ci impediva di entrare nella facoltà mentre alcuni « compagni » erano « chiusi dentro » — non riuscì a trasformarsi in rabbia, in aggressività o violenza. Del resto io non avevo mai « fatto a botte » in vita mia, e non ero il solo. Ma almeno, il nostro amico Maurizio Ascani, anche lui incapace di far del male a una mosca, era rimasto lì, impalato, spettatore di prima linea e, mentre noi scappavamo inseguiti dai poliziotti, lui si beccò una randellata in testa che lo mandò dritto all’ospedale. Mentre noi — io e mio fratello Francesco, tra molti altri — scavalcavamo la siepe che delimita il prato di via Gramsci, scoprendo che al di là di questo esile confine di foglie c’era già un dirupo… altri invece contrattaccavano, a mani nude oppure trasformando le panchine in rudimentali bastoni…
Non eravamo preparati a una simile evenienza. Né all’ipotesi di essere «caricati» dalla polizia né a quella di doverci difendere e addirittura contrattaccare.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Ricordo che allora si era unito al corteo di via dei Frentani — che era passato, in quell’occasione, mi pare, con tutto il suo rimbombo di voci nella galleria della stazione Termini —, Agostino, uno studente di scienze politiche, socialista « di sinistra » come lo erano allora i miei fratelli, che lavorava alla «sezione cultura» del suo partito, nella famosa sede di via del Corso. Con nostra grande sorpresa, Agostino, un tipo abbastanza pacifico, si lanciò senza esitazioni incontro ai poliziotti, come del resto un caro compagno del Mamiani prematuramente scomparso, Umberto Schettino, che ebbe il giorno dopo il prezioso riconoscimento di vedersi effigiato in prima pagina.
Io e Francesco, mio fratello, non passammo, come si suol dire, all’azione fisica, né allora né mai, sia perché nel fondo non eravamo d’accordo, sia perché nostro padre era morto da soli tre mesi, lasciando un vuoto incolmabile. Nostra madre, una donna coraggiosa, più sbilanciata, come me, verso il partito comunista che verso il socialismo moderato e lungimirante di mio padre, non ci aveva certo impedito di partecipare alla «lotta». Ma io trascinai mio fratello nella direzione opposta a quella degli scontri: — pensiamo a nostra madre! gli dissi. Per quanto mi riguardava, io sarei stato d’accordo per sedermi in terra e aspettare che i poliziotti mi portassero via. Credevo alla protesta dei «sit-in», alla resistenza passiva, alla forza delle idee nobili e giuste che finiranno sempre per trionfare, come l’amore.
Intanto persino le ragazze partivano all’attacco, brandendo la loro borsetta e cercando di colpire con quella. Tra loro c’era anche Lucia, una persona sempre sorridente e tranquilla… Quanto a Marina Natoli, la nostra amica carissima, sono sicuro di avere parlato a lungo con lei, perché lei mi aveva aggiornato su quello che stava succedendo… Ma non so dove collocare questo nostro scambio, in quale momento di quella lunga giornata. Nei mesi successivi, Marina ci parlava spesso del dissenso interno al PCI, del gruppo del Manifesto che si stava consolidando intorno alle figure carismatiche di Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Luciana Castellina… Che strano! In quel periodo, pur avendo già votato una volta comunista, non mi ero ancora iscritto al partito, salvo una prima esperienza della organizzazione giovanile, durata poco più di un anno nel 1963. Eppure, una voce interna mi raccomandava di essere «fedele» a questo partito un po’ monolitico ma calato nella realtà. All’epoca, il segretario era Luigi Longo e, insieme al grande Pietro Ingrao c’erano Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta… delle figure straordinarie, oneste, incredibilmente alla mano. Altro che «doppiopetto», come diceva Pasolini! E poi c’era il senatore Edoardo Perna, membro della direzione del partito. Non solo gioviale e allegro in famiglia, mio zio tirava fuori la sua verve «artistica» anche quando, durante le riunioni di partito, adattava motivetti conosciuti a canzoni politiche ferocemente scherzose.

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Renato Guttuso, I funerali di Togliatti,
immagine presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

Il Partito comunista non poteva certo amare quell’Italia governata da un centro-sinistra debole e ricattata dai cosiddetti poteri forti che si annidavano non soltanto nella borghesia destrorsa ma anche nelle mafie crescenti della speculazione edilizia e dei cosiddetti «corpi separati dello Stato», come la Cassa del Mezzogiorno, l’IRI-Italstat, eccetera. Al tempo stesso il PCI si arroccava un po’, mostrandosi diffidente nei confronti degli intellettuali-borghesi-figli di papà, scoprendo il fianco sinistro.
Ripensandoci, caro Giorgio, nonostante la pubblicazione del memoriale di Yalta di Togliatti che indicava chiaramente la «via italiana al socialismo»; nonostante l’idea gramsciana del «comunismo dal volto umano», immanente nello spirito e nello stile del vecchio partito proletario, questi uomini nobili non seppero afferrare l’occasione che si offriva loro, con la rivolta studentesca prima e con le critiche del Manifesto poi.
Certo ci fu l’incontro di Luigi Longo con i giovani, e ci fu poi «l’autunno caldo» del 1969, che fecero maturare la nascita, nel 1970, delle Regioni volute dalla Costituzione del 1948 ed osteggiate con ogni mezzo dai difensori dello stato centralizzato imperniato sulla Democrazia Cristiana.
Tutto ciò si attuò frettolosamente, avanzando senza una strategia condivisa. Le Regioni dovettero lottare per avere il potere necessario per esercitare le loro funzioni, dovettero conquistarsi a fatica il diritto di legiferare pienamente nell’ambito delle loro nuove competenze. D’altronde non tutte le realtà regionali erano pronte ad assumere un tale impegno con la stessa efficacia e soprattutto con la stessa determinazione…
Ma furono anche anni di costruzione, di entusiasmo, di lavoro sodo e di scambio culturale. Del resto, fu proprio nel 1970 che la legge sul divorzio fu approvata. Una legge che metteva in luce un cambiamento epocale, soprattutto in un paese egemonizzato dalla chiesa cattolica come l’Italia. La prima vera legge Di sicuro, tutto questo non sarebbe avvenuto se non ci fosse stato il ’68, se non ci fosse stata quella «rottura» traumatica, se non ci fossero stati anche loro, quei gruppi e gruppuscoli che hanno dato voce a un malessere diffuso, infondendoci il coraggio di criticare.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Se chiudo gli occhi, riesco a vedere quella giornata di Valle Giulia come in un film. Allontanandomi, con mio fratello e altri paurosi come noi, assistemmo alla battaglia da vari punti di vista. In quei tempi, scattare delle foto e soprattutto dei film non era facile come oggi… Bisognava in ogni caso pensarci prima. Altrimenti, con la mia Canon, avrei di certo fissato quello che vedevamo, e anche il nostro sbalordimento pieno di angoscia su una ventina di immagini almeno. Il punto di vista più distante era il bordo di villa Borghese, quel punto in cima alla scalinata di via di valle Giulia dietro cui si cela l’ingresso al giardino del Lago. Vedemmo tram e macchine messe di traverso, per bloccare il traffico. Vedemmo delle nuvolette di fumo scaturire dal vialetto di accesso alla facoltà, assistemmo all’incendio di una jeep della Celere… Ci riavvicinavamo più volte. Una di queste volte, nella scalinata in discesa in prossimità dell’Accademia Britannica, incontrammo Renato Nicolini.
— Sono pazzi, dissi io.
— No, sono coraggiosi, disse Renato.
Anche lui provava, io credo, la stessa sensazione di smarrimento, anche se ad un livello più elevato e consapevole di me. Essendo dirigente dei Goliardi Autonomi e iscritto al partito comunista, conosceva a fondo il trauma di questo movimento che, in un certo senso, si arrampicava sugli specchi, inventando una rivoluzione per scuotere il padre, il padrone, il partito. Partito, padrone e padre che, lui lo sapeva bene, sarebbero stati sordi e diffidenti. Forse anche lui pensava, come me, che non ci potevano essere scorciatoie… ma quando un sentiero nuovo si apre, come si fa a non essere tentati di imboccarlo?

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Più tardi, incontrammo di nuovo Agostino. Con un sorriso smagliante disse che noi due, io e mio fratello, ci eravamo comportati come i generali delle «guerre pacioccone», che se ne stanno lì beati, a distanza, con il loro cannocchiale, a scrutare il campo di battaglia.
Sempre sorridendo, Agostino ci trascinò al suo ufficio di via del Corso. In ascensore, Agostino si rivolse a un funzionario del Partito socialista unificato, raccontandogli animatamente quello che era successo. La risposta fu più o meno la seguente: — per fortuna, in questo momento ci sono dei margini nelle casse dello Stato, daremo un po’ di lavoro e di borse di studio a tutti questi giovani… che problema c’è?
Poi, forse anche sollecitato dalla nostra apprensione, Agostino ebbe l’ardire di telefonare al segretario del partito.
— Segretario, oggi è successa una cosa gravissima, disse Agostino, la polizia ha caricato gli studenti! Ci sono stati dei feriti…
— Hanno fatto bene! rispose il segretario.

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Renato Guttuso, graffiti sur la façade de la Faculté d’Architecture de Rome,
photo de Giorgio Muratore, depuis Archiwatch

Giovanni Merloni

(1) Dovendo, per forza di cose, scrivere in una lingua — l’italiano o il francese — per poi tradurre nell’altra, agli inizi del mio «esilio parigino» scrivevo i miei brogliacci un po’ in italiano un po’ in francese, secondo l’ispirazione del momento. Ma la cosa non funzionava. Per me, infatti, era più facile tradurre dal francese in italiano piuttosto che il contrario e anche perché dovevo decidere ogni volta a chi rivolgere le mie riflessioni di viaggio. Sì, viaggio, perché per molto tempo mi sono sentito sospeso nella gradevole precarietà del «viaggiatore»… Ne risultavano dei testi informi, né carne né pesce. In questi giorni, mi sono accorto di un cambiamento. Se scrivo a te, immaginando che forse qualche altro architetto o amico di architetti leggerà il mio testo in Italia, mi viene ormai naturale scrivere in italiano. Poi, anche se più laboriosa, la traduzione francese verrà. Nell’articolo sulle «ceneri di Pasolini», invece, era agli amici francesi frequentatori del mio blog che dovevo rivolgermi, era a loro che dovevo spiegare, in prima battuta, la banale complessità di ciò che abbiamo traversato e che, in parte, Pasolini aveva «sgamato», come si dice a Roma. In francese riesco a scrivere abbastanza scorrevolmente, anche se il vocabolario è inevitabilmente più limitato, mancandomi spesso le frasi fatte, i modi di dire, i proverbi. Ma poi la traduzione in italiano scorre facile, come le ruote di una macchina in discesa.
G.M.

TESTO IN FRANCESE