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«Per un punto Martin perse la cappa»

«Per un punto Martin perse la cappa»… Dovrei essere ormai abituato a certi «incidenti di percorso» che in me nascono, quasi sempre, dall’entusiasmo e dalla fretta, pessimi consiglieri tutti e due. Dopo simili incidenti farei meglio ad avanzare con un sorriso ebete e spavaldo, scrollando le spalle in segno di indifferenza. Non ne sono capace… Ma è necessario che almeno io cerchi di fare ordine, come il povero abate Martino, che rimetta al più presto al suo posto quel benedetto punto…
La storia di Martino e della cappa mi perseguita sin da bambino. Mio padre, che era molto intonato e sapeva suonare il violoncello, me la canticchiava spesso, seguendo il ritmo di danza dolorosa di Sheherazade o, a volte, il ritmo solenne e sognatore dell’incompiuta di Schubert… Non posso dilungarmi su questo punto del punto di Martino nella storia di famiglia, ma è certo che mio nonno materno perse quasi tutti i suoi risparmi per essersi ostinato, con sacrifici inenarrabili, ad accumulare e conservare titoli di stato che, si scoprì un giorno, valevano meno che francobolli scaduti. Le sue alte conoscenze di matematica infinitesimale gli avevano forse fatto sottovalutare l’importanza dei coefficienti, dei punti e delle virgole… mentre mio nonno paterno, per aver voluto tenere il punto dell’antifascismo, perse la vita.
Quanti punti e quante virgole si dovrebbero poter rimettere al loro posto per fare giustizia, magari postuma, ai tanti Martini che si aggirano per il pianeta, vivi, morti o moribondi, ignari tutti del loro comune destino! Ma nessuna riparazione potrebbe restituire quello che hanno ormai perduto: né la borsa né la vita!
Resta la cappa, su cui mio padre amava appoggiare, musicalmente, un piccolo tocco di enfasi finale. Nella leggenda, la cappa è appunto il mantello perduto o mai ottenuto dall’abate Martino per avere scritto una frase ambigua. O per meglio dire, per aver commesso l’errore — nell’entusiasmo della sua sincera bontà e nella fretta di ricevere un premio — di mettere un punto e forse anche una virgola là dove dovevano essere messi. Col tempo, man mano che la voce perentoria e cantante di mio padre si allontanava da me, a volte senza darmi il tempo di salutare, la cappa è diventata per me un qualcosa che inevitabilmente si perde, perché è quasi impossibile ottenerla e soprattutto mantenerla. In più, se la cappa può confondersi idealmente con la gloria o con una bellissima donna che decide di punto in bianco di ricambiare il nostro amore… la cappa rappresenta anche, di per se stessa, la paura di perderla. Il flessuoso mantello di lana che potrebbe coprirci e offrirci un indimenticabile calore provvisorio si trasforma inevitabilmente in una cappa… di piombo. E, di colpo, all’illusione subentra la beffa, alla casa magnifica e confortevole subentra una prigione gelida e impenetrabile.
Ah, quanto mi piacerebbe passare inosservato tra i banchi di scuola per andare a parlare un momento con il professor Steno Vazzana, di italiano… Sono certo che mi aiuterebbe a sbrogliarmela. Lui che ha trovato delle affinità tra Dante e Lucrezio e che tanto ha apprezzato l’apertura mentale di Italo Svevo, che egli amava definire «il primo scrittore italiano di portata europea»… Basterebbe pensare a Zeno Cosini e alla sua meravigliosa indecisione : due sorelle certamente diverse l’una dall’altra, ma con tantissimi punti in comune. Come fare a distinguere se si è distratti e obnubilati dalla paura di perdere la cappa? Perché scegliere? Così direbbe Steno Vazzana. Potrei raggiungerlo al suo ultimo liceo, il Vivona, nel quartiere dell’EUR dove si era trasferito… E, certo, avrei potuto chiedergli un appuntamento, l’ultima volta che lo vidi, nel 2000. Chissà se lui sapeva che presto, di lì a un anno… Il nostro professore di Italiano era una figura schiva e perfino trasparente, che vedo avanzare a passi corti e leggeri, sgusciando in mezzo a colossi come Punzi e Pagani o Manacorda senza curarsi di quello che poteva succedere alla sua povera ombra… L’ultima volta che gli parlai, non ebbi la presenza di spirito di chiedergli il perché della mia vocazione a farmi del male da solo, come direbbe Nanni Moretti. Una sua risposta mi sarebbe servita moltissimo, peccato. Ma posso forse trovare qualche spunto nel ricordo delle sue lezioni su Dante e in quello che mi disse un giorno a proposito della poesia.
Sull’onda di quelle lezioni, mi sono domandato con insistenza quello che deve aver passato Dante con Beatrice. Povero Dante! Un uomo venuto dritto per dritto dal dolce stil nuovo, uno dei fondatori di quella lingua «volgare» che finalmente si liberava dal latino raccogliendo tutte le virtù e le sfumature della «loquela», cioè della lingua parlata, un creatore così «concreto» e profondamente umano non avrebbe mai potuto «idealizzare» una donna inesistente. Colui che disse «amor che nullo amato amar perdona» non poteva elevarsi verso il divino senza portare con sé non solo la propria corporea e appassionata umanità, ma soprattutto quella dell’amata. Se per traversare l’Inferno e il Purgatorio Dante può contentarsi di un suo «pari» — il più grande dei suoi pari, Virgilio —, per ascendere nei cieli del Paradiso ha bisogno dell’aiuto di un essere «altro», di una figura diversa e complementare che faccia da tramite tra l’umano e il divino. Ed ecco che Beatrice, quella che Dante chiamava «la donna mia» diventa «l’avvocata nostra», un essere a metà umano a metà divino come la Madonna secondo tutti i Vangeli cristiani.
Certo noi due, Caramella, navighiamo, anche retrospettivamente, nella sacralità del ricordo di un passato comune, in una dimensione molto più pagana e disincantata di quella in cui viveva Dante. Siamo cresciuti in un Paese dove attraverso successive conquiste la donna ha potuto ottenere, sia pure ancora in modo insoddisfacente, una sorta di parità con l’uomo. Un paese è una società, anche qui in Francia, in cui si dà per scontata la cosiddetta «privacy», una parola divenuta secondo me orribile ma che fotografa abbastanza bene un problema…
Tornando a Dante e Beatrice, io mi domando quanto deve essere costata al nostro poeta sommo la scelta di fare della sua donna amata un personaggio e per di più l’ago della bilancia della sua gigantesca scommessa umana e letteraria. E mi domando se, allora, la cosiddetta «vox populi», invece di «seguir vertute e conoscenza» e di elevarsi, attraverso le parole di Dante, verso più ambiziosi traguardi, non abbia cercato «terra terra» di far risaltare, nella Divina Commedia la questione dell’amore sacro o profano tra Dante e Beatrice come se fosse quello e solo quello il suo motore… Mi sono visto davanti un gruppetto di sedicenti «parenti di Beatrice» assediare la Casa di Dante, a Trastevere, proprio mentre il professor Vazzana stava spiegando il canto… del Paradiso… Un gruppo armato di forconi innocui e antidiluviani, naturalmente. Ma «il modo ancor m’offende» avrà detto Dante, sentendosi mortificato da queste ingiuste e soprattutto squallide accuse.
Rileggendo la storia di Dante e Beatrice insieme a Steno Vazzana e Italo Svevo, verrebbe da dire: ma forse Beatrice aveva una sorella!
Purtroppo, Caramella, il mondo di oggi, quello che abbiamo creduto e sperato migliore per i nostri figli, sembra andare all’indietro. Non solo si impone l’intolleranza guerresca di popoli che vorrebbero inculcare ad altri popoli la loro ignoranza in cui sembrano inscindibili la violenza e il disprezzo della vita umana, in particolare delle donne. Ma anche i popoli cosiddetti evoluti sembrano scivolare e addirittura compiacersi in un colossale analfabetismo di ritorno.
Niente è scontato se ben ci ricordiamo quanto hanno sofferto D.H. Lawrence per il suo «amante di Lady Chatterley» o Vladimir Nabokov per «Lolita».
Il tempo ha dato loro ragione o, per meglio dire, qualcuno, in qualche parte del mondo civilizzato, ha dato loro una mano. E a nessuno importa se Dante fosse stato o no amante di Beatrice o della sua splendida sorella che, se fosse realmente esistita, avrebbe potuto perfettamente svolgere la parte della «donna schermo».
Ma il tempo è sempre galantuomo, con tutti? Quanti Martini, miseramente degradati e ingiustamente accusati riavranno mai la cappa?
Tutto questo giro di parole per dire che anch’io, Caramella, potrei imbattermi, per via della mia imprudenza, in qualche cupo malinteso. Come successe a Beatrice… Perché certo, se Dante avrà pianto Beatrice non avrà certo riso…
A volte le parole, o le immagini, sono ancor più gravi che i fatti reali… Purché si riesca a farli passare sotto silenzio, una vita di vera violenza e di vera e spesso grave prevaricazione può essere dimenticata o, per così dire, «condonata». Mentre le parole portano con grande facilità ai processi sommari, con il rischio sempre presente di perdere la cappa o la vita.

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Non posso sapere se noi continueremo o no, Caramella, questa nostra traversata. Ma sono contento che alcune cose essenziali si siano chiarite tra noi. Per esempio, avrei preferito lasciar credere che tu fossi la sola che potesse interessarmi tra le tante compagne e ombre vaganti della nostra strana classe… Ma cosa cambierebbe, in fondo, se d’ora in poi tu le rappresentassi tutte? D’altra parte, ora so bene con quale entusiasmo tu mi aiuteresti, con il tuo sguardo fulmineo e spiritoso, a portare a compimento la mia «Gerusalemme Liberata», proteggendomi da coloro che potrebbero cercare di convincermi a riscriverla all’infinito, e magari a rovinarla…

Giovanni Merloni

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