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«Chi segue segue; chi non segue seguirà in seguito!»

Caramella,
prima del nostro incontro di Ostia mi sembrava che tutto fosse attaccato a un filo, come nei film di Indiana Jones. Ma tu sei stata indulgente: all’altro capo della corda lì lì per spezzarsi, affacciata sull’orlo del pozzo scuro e gelato, mi hai tirato su. Quante volte ti sarai domandata «chi me lo fa fare?», ma poi il braccio l’hai allungato, preoccupandoti di far arrivare il filo fino alle mie mani. Energicamente, forse con l’aiuto di qualcuno, hai fatto passare la corda sulla carrucola e… mi hai salvato.
Ma poi, invece di correre subito ad abbracciarti, mi sono lasciato attrarre dalle sirene di Scilla e Cariddi come Ulisse. Tu eri una Penelope assediata che aspettava il suo vecchio amico. Non avrei dovuto tergiversare: questo incontro così raro, così unico, era più importante delle parole, più importante delle ansie che ingombrano la mia testa come droghe vere e proprie. Insomma, ti ho deluso.
Come Ulisse, sono arrivato sotto falso nome, rivestito di stracci e di cicatrici a te sconosciute. Non ti ho dato la possibilità di scoprirmi a modo tuo, seguendo il tuo infallibile istinto. Forse, se avessi saputo liberarmi della mia corazza di cartapesta, sarei riuscito a espugnare la tua isola!
Ora… mi ritrovo tra le mani un foglietto spiegazzato, su cui tu hai scarabocchiato una domanda: «che c’entra Punzi con Paparozzi?»
Ma tu lasci ancora sospeso tra me e te un esile filo… Un lunghissimo capello castano che, visto dall’aereo, sembra una tortuosa strada bianca che sparisce e ricompare al passaggio delle nuvole e al sottopassaggio delle montagne, per poi impaludarsi tra i riflessi accecanti dell’immenso delta del Rodano e… risalire, risalire, arrivando chissà come fino al mio portone. Già, davvero, che c’entra Punzi con Paparozzi?
Forse, qualcuno che non esiste, se fosse stato alunno dell’uno e dell’altro avrebbe potuto aiutarmi a spiegare oggettivamente e una volta per tutte una tale questione basilare o, più probabilmente, avrebbe suggerito di lasciar perdere: Punzi è Punzi e Paparozzi è Paparozzi.
Sta di fatto che per cinque anni di seguito io sono stato compagno di scuola e di classe di Paparozzi, cumulando di anno in anno la sublime esperienza di avere a che fare con un inguaribile primo della classe che era anche, cosa rara, un fuoriclasse. Nella maggior parte delle «galere chic», come io chiamo le scuole, come io le chiamo e considero, il primo o la prima della classe non è necessariamente un genio che ha la scienza infusa. Al contrario, si tratta di persone soprattutto volenterose e metodiche, spinte da un desiderio quasi religioso di primeggiare e che, se non primeggiassero, non saprebbero cosa fare.
Nella nostra classe, Caramella, se ben mi ricordo, non c’erano primi della classe né geni. Eravamo lo specchio dell’Italia pre-risorgimentale, costellata di staterelli decaduti e incapaci di primeggiare. In altre classi, come quella di mia sorella o quella di mio fratello, la regola più diffusa era rispettata, con dei «Pierini» che non perdevano un colpo e degli «elementi» capaci talvolta di exploit sorprendenti in questa o quella materia.
Nella classe da cui venivo, facevo parte dell’agguerrito gruppetto di coloro che perennemente inseguivano il fuoriclasse in fuga. Paparozzi eccelleva nelle materie letterarie e in disegno, ma se la cavava anche in matematica e in geometria. Per questa sua supremazia, perché nessuno lo copiasse, veniva relegato all’ultimo banco durante i compiti in classe. Più tardi, tra le leggende che serpeggiavamo nei corridoi fumosi all’ora delle pizzette — che i bidelli scaldavano per qualche minuto sui grandi termosifoni di ghisa —. si diceva che Musmarra, il professore di latino e greco della sezione D, faceva per lui un’ eccezione, sfidandolo a tradurre dal greco al latino e viceversa, essendo la versione in italiano troppo facile e scontata. Più tardi, quando Paparozzi era ormai una leggenda tra i professori della sua scuola, il liceo Pasteur, si raccontò che Paparozzi, non contento di decifrare testi greci e latini scoloriti e difficilissimi, aveva intrapreso una fitta corrispondenza con un professore dell’Università di Oxford che si divertiva a mandargli, dopo averli bruciacchiati qua e là, certi poemi sconosciuti. E Paparozzi rispondeva: certo si trattava di un’interpretazione… ma la soluzione era talmente brillante che ci si poteva giurare.
Ai tempi miei, Paparozzi era buono, calmo, riflessivo, silenzioso. Devoto della penna stilografica Pelikan, se ne serviva in classe per fare a tempo perso degli esercizi di calligrafia in gotico. Eravamo amici, in qualche modo, come lo si può essere quando la superiorità dell’uno sull’altro è fissata una volta per tutte. Abitava a Monte Mario, in un piccolo appartamento dietro al cinema Edelweiss. Figlio unico molto devoto, è stato sempre vicino ai suoi genitori che avranno passato la vita, io credo, a domandarsi come mai avevano potuto generare un figlio così speciale.
Dalla seconda media fino al quinto ginnasio avevo condiviso con Paparozzi la passione per il francese e la Francia. Per lui forse, questa cultura, sempre all’avanguardia dal punto di vista letterario, filosofico e scientifico, era una porta, un veicolo per introdursi e avanzare più speditamente nel suo gigantesco bisogno di sapere. Per me il francese era la chiave per entrare in un mondo che non poteva cambiare e dove, soprattutto, si respirava una particolare aria di libertà. Sia alle medie che al ginnasio avemmo la fortuna di due bravissime professoresse di francese. Ma Ortensia Lami, quella signora piccola e freddolosa con i capelli bianchi e vestito di lana nero alla Strehler, che forse avrai visto circolare per i corridoi del Mamiani seguita da un codazzo di fedelissimi «portatori» delle sue indispensabili stufe, fu un vero e proprio mito. Come non amarla, come non assimilare ogni angolo delle sue precise e indimenticabili parole francesi. Venendo a Parigi, ho poi immaginato che la Lami, se fosse rimasta in Francia con la sua famiglia, si sarebbe chiamata Hortense Lamy… ma la mia intraprendenza si ferma lì. A differenza di Paparozzi, che andava regolarmente a trovare la vecchia e arzilla professoressa, io non ci sono mai andato, se non una volta. Eppure, davanti a tante materie che amavo o odiavo in modo alterno, il francese, insieme alla geografia, erano le materie in cui ottenevo i migliori risultati. Al punto che capitò, qualche volta, in occasione di un compito in classe di francese, la Lami mi facesse sedere in fondo, vicino a Paparozzi…
Ti risparmio, Caramella, il ricordo di quegli strani e straordinari dibattiti che la Lami sapeva suscitare parlando della « religiosità » di Rousseau o della « vita reale » scritta-dipinta da Prévert, che furono tutti e due i miei primi maestri… Fatto sta che questa interminabile stagione di classi maschili, in cui si affacciava prepotentemente ma senza grosse speranze la questione amorosa, si interruppe bruscamente quando, invece di continuare a frequentare la sezione D, insieme a Paparozzi e al gruppetto dei pochi amici che pure mi ero creato, i miei genitori decisero per me, trasferendomi nella C.
Tra i nostri nuovi professori c’era Giuliano Manacorda, una persona nobilissima e carismatica che, si sapeva, era un intellettuale di sinistra… Ma non credo ci potesse essere solo questa motivazione. Perché « levarmi » da una classe dove in fin dei conti me l’ero sempre cavata? Mistero. E perché io non dissi niente? Forse perché tutto mi era indifferente? Ero diventato così, secondo loro, a forza di stare nell’ombra, e quest’ombra rischiava di diventare un alibi per non sforzarmi di primeggiare e, al limite, per non studiare.
Certo la classe con il fuoriclasse Paparazzi sembrava ipotecata da un destino implacabile. Per di più, tra la quarta e la quinta ginnasio, io avevo definitivamente perduto la cosiddetta « pace dei sensi » e non riuscivo più a studiare con la testa leggera, come prima. E Paparozzi, che mi sembrava ancora indenne da queste turbe disastrose, non poteva più essere per me lo stesso interlocutore. Ma, Caramella, i primi giorni che mi trovai catapultato nella classe dove c’eri anche tu… una classe finalmente mista, devo confessarti che, pur non avendo la consapevolezza di aver perduto, tra i vecchi compagni, qualche vero amico, mi trovavo ancora molto spaesato e confuso.

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«Siete quaranta!» urlò Punzi, con quell’inflessione dialettale avellinese che fu poi l’occasione di tante e tante imitazioni. Già all’inizio del liceo, nell’ottobre 1961, eravamo in soprannumero. Tre anni dopo, al primo anno di architettura, dove si iscrissero con me altri cinque nostri compagni, eravamo cinquecento! Si parla oggi della nostra generazione, quella dei nati alla fine della guerra, come della generazione dei « baby boomers », credo più « maschi » che « femmine », se vogliamo usare il gergo scolastico. La prima generazione che ha dovuto da un giorno all’altro fare i conti con quel cambiamento radicale della società occidentale di cui vediamo oggi una fase ancora più inquietante e minacciosa. Ma Punzi non era cattivo. Era terrigno, autentico, burbero ma benefico come il personaggio di Goldoni. Legato ancora ad un’idea, arcaica ma solidale, di una società che desiderava sinceramente sana e giusta, dove si doveva continuare a «dare a Cesare quel che è di Cesare»…
Lui non mi avrebbe sgridato, come invece faceva Manacorda, per tutti i fastidiosi avverbi — energicamente, metaforicamente, oggettivamente, probabilmente, necessariamente, perennemente, talmente, speditamente, regolarmente, prepotentemente, bruscamente, definitivamente. finalmente — con cui ho condito fin qui il ricordo del mio « faticoso passaggio » alla vigilia del nostro primo incontro. Punzi non si sarebbe nemmeno scandalizzato se, nell’imbarazzo della mia ignoranza di fronte a una domanda difficile, avessi detto, durante i miei incubi ricorrenti di esami che non finiscono mai, quel fallimentare «praticamente», una vera e propria gruccia secondo il professore di storia. Punzi era un tipo essenziale, consapevole dei suoi limiti. Severo ma non troppo. Un Bignami ambulante e in definitiva un ottimo professore, se si considera che tutta la classe arrivò in modo indolore alla maturità, credendo di sapere poco o niente e invece…
«Anacreonte viaggiò molto, oriente… occidente…» questa fu una delle sue frasi più celebri, insieme a quel «Non accetto più, non accetto più!» che rimbombava nel fondo della classe mentre la sua voce diventava gracchiante al momento topico del ritiro dei nostri compiti appena scodellati. Qualche giorno dopo, quest’uomo spelacchiato con gli occhiali spessi, piccolo e cicciottello nel suo abito grigio, entrava in classe sbattendo la cartella con i compiti, urlando: «Non ci avete capito un cazzo!»
Nel ricordo, questo suo comportamento era alla fine liberatorio, se si pensa che nell’interregno tra il compito e il voto le sue dichiarazioni erano spesso minacciose: «sto correggendo i vostri compiti col bilancino», oppure «la stretta di viti sarà ancora più sanguinolenta», oppure ancora «chi segue segue, chi non segue seguirà in seguito»…
Il ricordo di Punzi, che condividiamo con tantissimi ex alunni del Mamiani e si è tradotto in numerose «punzeidi» e, insieme agli amori segreti e forse inventati tra Pagani e la Rizzo — cioè tra il carismatico e tossicchiante professore di matematica e la vispa è un po’ algida professoressa di scienze — una delle poche cose vive e forti del nostro tempo trascorso su quei banchi senz’anima.
Per fortuna, oltre alla paura di dire «praticamente» o altri avverbi e parole di cui avremmo dovuto diffidare come di altrettante grucce verbali e alla certezza di essere di punto in bianco stigmatizzati per la nostra mancanza di… tutto, la cosiddetta « pace dei sensi » era da tutti, di comune tacito accordo, identificata con la polvere dei libri. Nella nostra «prima C», a parte la «signorina» Di Giulio e pochissimi altri, nessuno studiava. O per meglio dire nessuno strafaceva. Da questo punto di vista, andando a ritroso con la macchina del tempo, devo correggere il giudizio che mi sono portato dietro per tanto tempo. Quella classe apatica, amorfa, divisa in tanti staterelli come l’Italia all’indomani del congresso di Vienna del 1815, quella classe che Metternich avrebbe chiamato « mera espressione geografica »; questa classe formatasi nel 1961, che poteva assimilarsi all’Italia che si era formata proprio cento anni prima, in cui si dovevano ancora fare gli italiani… era in realtà quanto di meglio avrei potuto desiderare. Lo specchio delle mie e delle nostre brame.
Perché allora, in un epoca in cui già aleggiava la contestazione e l’insofferenza verso questo mondo adulto « imbalsamato », nessuno di noi avrebbe voluto uno specchio che gli dicesse «tu sei il più bravo e il più bello», perché tutti, invece, desideravamo, sotto sotto, che lo specchio ci dicesse, come ci diceva : «vedi? tutto scorre senza cambiamenti e tu, ancora una volta, sei passato inosservato!»
Vedi, Caramella, che cosa può produrre la solitudine e lo strano rimorso per delle colpe che sono certo di non avere commesso ? Finché tu non ti rifarai viva, io non farò altro che entrare e uscire da quello specchio.

Giovanni Merloni

TESTO IN FRANCESE

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