Piccola messa in scena sul tema dell’infinito: Il tramezzo e l’infinito 3/4 (pit n.21)
episodio_1;episodio_2
21,42.
Dopo alcuni minuti di silenzio assoluto, nel preciso momento in cui il cielo diventa nero, Antonia afferra la maniglia della porta, energicamente.
— Non ti faccio passare.
— Jérôme, non fare stupidaggini…
Si sentono i contraccolpi di una lotta rabbiosa, silenziosa. Ma questi due non hanno il coraggio di farsi veramente male!
— Basta, Jérôme! Chi sei, tu? Uno sconosciuto. Avevi ragione, sei un farabutto, un vigliacco…
Dio mio, che succede? Fracasso dappertutto, senza regole, punteggiato da urla, sbattimenti di porte — quella dell’appartamento e dello stanzino —, rumore di oggetti che cadono a terra. Chiunque può sentire, dal pianerottolo fino al palazzo di fronte. Che ora è? L’ora della caduta nel baratro. Sento Antonia gemere. E io comincio a tremare. L’asimmetria del mio torace si aggrava.
22.
— Ma, che state facendo? Lo sapete che ora è? Volete costringermi a chiamare la polizia?
La portiera, dal cortile, ha lanciato un avvertimento. Per un attimo ho risentito dell’assenza del telefono, che però non farebbe altro che aggiungere confusione al mio stato già critico. Ora sono del tutto privo di forze, gelato di sudore. Raggiungo faticosamente il bordo del letto (lato finestra), poi faccio scivolare il braccio verso la moquette e mi sforzo di ficcare la mano in quest’ammasso di oggetti senza personalità intasati sotto il letto. La valigia, con il suo carico più unico che raro, è ancora lì? Sì, c’è, sono riuscito a sfiorarla con la punta delle dita. D’altronde, fino a che io non ci sarò più, nessuno avrà voglia di tirarla fuori o di gettarla nel cassonetto.
22,15.
Una voce sconosciuta perfora il muro come farebbe un coltello con il burro. Ma lo conosco, questo-qui? Ah, è lui! Sta leggendo :
— Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
— Tu non sai nulla di questo immenso poeta, dice Antonia, irritata.
— Ma li terrò sempre qui, nel mio cuore… i tuoi occhi ridenti et fuggitivi.
— Comunque, tra noi due, non sono certo io la fuggitiva!
Riconosco lo stridio del letto — Jérôme deve essersi alzato — e, subito dopo, il rumore inconfondibile della mezza finestra, seguito dall’esplosione dei rumori tipici del cortile. E questa musica? È la nipote della portiera, che si esercita su un pianoforte scordato. Anche di notte. Ma… è per proteggere il suo lavoro che la signora Martins ha minacciato di chiamare la polizia? Jérôme continua a fare rumore, per coprire il proprio imbarazzo e risalire la china. Antonia, invece, non parla. La immagino in ritirata, rattrappita in un angolo lontano del letto, concentrata nella rassegna dei suoi lividi come se fossero altrettanti soldati feriti in battaglia.
— Ho sempre amato questa ringhiera, è la sola cosa graziosa, qua dentro. Per me è come la siepe dell’infinito di Leopardi.
— Il momento giusto è passato. Te lo sei fatto scappare. Scendiamo nella notte, ormai.
— Tu resterai sempre italiana e io… parigino?
— Malgrado le tue radici a Montpellier, potrai diventare parigino, un giorno. Io, essendo un’autentica marchigiana, molto probabilmente lo resterò. Del resto questa parola, “marchigiana” tu non riuscirai mai a pronunciarla.
— Hai ragione: l’infinito di Leopardi non ha niente a che fare con l’infinito di Baudelaire.
— “L’immaginazione si sposa positivamente con l’infinito”. Come sono studiosa!
Ecco una delle loro conversazioni abituali che prende il sopravvento. Si sono conosciuti così, in una scuola di lingue… È banale!
In questo preciso istante, Trepaoli tossisce, prima in sordina, poi rumorosamente, assalito da un singhiozzo violento. La pasta con la besciamella che Marina gli ha cucinato gli risale alla bocca.
22,40.
Dall’altra parte del muro, Jérôme e Antonia si guardano negli occhi:
— Si sente tutto quello che succede da Trepaoli, dice Jérôme, fingendosi meravigliato. Anche il battito d’ali di una mosca. È proprio un muro di carta !
— Allora ha sentito tutto, osserva seriamente Antonia.
— Chissà, magari si è divertito con la nostra disputa sull’infinito!
— L’infinito, chissenefrega, ha sentito tutto, prima…
— Mi sembra che stia male, in questo momento. Non smette di tossire.
— E allora, che pensi di fare?
Con uno sforzo Trepaoli si siede sul letto, si alza e si dirige verso la poltrona di velluto. Prima di accomodarcisi, accende il vecchio gira-dischi. È la sola cosa, insieme all’antica edizione delle opere complete di Leopardi, che ha conservato con sé al momento della separazione da Hélène.
Nella stanza gemella, mentre la canzone “Non lasciarmi, Non lasciarmi” esplode a tutto volume, Antonia si è completamente rivestita ed è pronta a uscire per avvertire la portiera. Esita un momento, poi inforca un paio di anacronistici occhiali da sole stile anni 50 che tiene sempre nella borsa a sacco. Servono a nascondere i lividi.
— Lèvati gli occhiali, la notte avanza e tu non vedresti nulla. Lo senti? Ha messo la canzone di Brel per tranquillizzarci. Puoi restare.
23.
La musica sembra inarrestabile. Possono anche costatare che sono ancora vivo, poiché cambio regolarmente il disco.
— Allora, tu non hai alcun rimpianto?
— Sì, io rimpiango, rimpiangerò sempre, ma posso sopravvivere, perché non mi aspetto più niente.
— Tu mi fai paura.
— Intanto, Trepaoli ci lancia dei segnali. È la terza volta che mette la stessa canzone.
23,10.
—… Sta confessando che ci spia. In ogni caso non lo nasconde!
In fin dei conti, loro sanno da tanto tempo che io sto qui, che li ascolto. E loro hanno sempre parlato, senza mostrare di preoccuparsene, anche a voce alta.
— Si è affezionato…
— È soprattutto lui che non vuole essere lasciato… Ma che ti succede, Antonia? Sei talmente pallida… Pensi che Trepaoli stia morendo?
— Mi domando se esiste qualcuno che gli vuole veramente bene.
— Io non so quasi niente di lui. Credo che abbia degli amici, forse tra i clienti del bar. Ma ho l’impressione che sia diventato diffidente, negli ultimi tempi…
— Quando ero giù, in quel bar tristanzuolo della via Poissonnière, ho sentito parlare di una Dama bianca. Chissà, forse c’è una suora che va a trovarlo la notte, quando la metropolitana si ferma…
— Perché nasconde con tanta precisione la sua vita privata?
— È un uomo discreto.
23,20.
Dalla mattina alla sera, ho lasciato l’appartamento sul viale, per vivere da solo qui, a via della Luna. Il primo anno, ho provato un sentimento di spensieratezza, preso com’ero da quel piccolo slancio di fiducia che viene sempre quando ci si trasferisce in un palazzo più vecchio, pieno di tubi rotti e di voci misteriose. Hélène e Marina, anche loro coinvolte da questa novità, venivano spesso a trovarmi. Io imparavo piano piano a prepararmi dei piatti. Avevo comprato un surgelatore, un forno a microonde… Una volta io le invitai e fu molto gradevole, anche se eravamo tutti imbarazzati. I primi tempi, passeggiavo molto. Tutte le mattine, uscivo presto, sotto l’impulso di una strana euforia, con una vecchia pianta di Parigi sottobraccio. Divoravo con gli occhi e le gambe queste città di cui non avevo, fino allora, sospettato i tesori. Sì, è vero, negli anni ‘60 e ‘70, per tenermi in forma, l’avevo percorsa in lungo e in largo in bicicletta. Ma non era la stessa cosa. E poi, avevo dimenticato tutto. Mi proponevo ogni giorno un percorso più azzardato, frontiere sempre più lontane. Quando tornavo a casa, la sera, mi lasciavo cadere nella poltrona, e restavo seduto lì per delle ore, senza mangiare né accendere il vecchio lampadario dipinto. Dalla mattina alla sera, non aprivo mai la finestra. Nel mio appartamento di bambola, preferivo la debole luce del paralume decorato con i fiordalisi. Leggevo un solo libro, ormai, i “Canti” di Leopardi. Non facevo altro che guardare il libro, aprirlo e richiuderlo, come farebbe chi cambia sempre canale quando guarda la televisione. Inutile dire che non avevo mai voluto la televisione, da me. Ero contento così. Mi preparavo a morire nel modo migliore possibile, a prendere il volo senza troppa zavorra da gettare all’ultimo minuto. Tuttavia, un giorno, qualcosa è cambiato. Leggendo per l’ennesima volta il mio unico testo, la mia Bibbia poetica, ho cominciato a capire… la relatività dell’infinito. Mi sono reso conto del potere immenso della poesia, che può afferrare l’infinito, rendere accettabile la morte, fornendoci anche gli strumenti per difenderci da noi stessi. Per la prima volta nella vita, cominciai a frequentare una biblioteca. La notte, vivevo qui, in questa specie di pensionato… Di giorno, il mio quartiere d’elezione era Saint-Médard, un’isola felice di libertà. Poi, piano piano…
Si ferma per cambiare il disco. Nella scarsissima luce, riconosce immediatamente la copertina delle “Foglie morte”. La voce di Yves Montand riempie la stanza di Trepaoli e dilaga in quella del giovane professore.
Un inno alla vita. Chissà se la passeranno insieme, questa vita che è sempre il contrario di quello che ci si aspetta? Chissà se ancora una volta il mare cancellerà “sulla sabbia i passi degli amanti divisi”? Sì, lo confesso, ero felice, ma mi lasciavo prendere da una felicità di cui avevo vergogna. È vero che ogni traversata di Parigi finiva sempre in via Daubenton, proprio al momento della pausa pranzo. Ma nessuno poteva immaginare che, nel mio stato, io potessi aspirare alle gioie del corpo. Perché mi si poteva perdonare tutto, ma non l’amore. Del resto, non avevo forse abbandonato il mio tetto coniugale per una dolorosa e insopportabile mancanza di efficienza amorosa? Hélène non ci avrebbe certo pensato. Lei aveva rispettato, in uno slancio di generosità, questo mio allontanamento, che si era trasformato, col tempo, in una rottura. Lei ne aveva molto sofferto. Ma più tardi, la sua facilità a dimenticare, la sua inclinazione forsennata per le letture più disimpegnate l’aveva aiutata a seppellire tutto sotto lo strato arlecchino del vecchio plaid delle nostre scappatelle di una volta. Le prime volte che andavo in questo piccolo bistrot sempre invaso da professori e studenti della facoltà di Lettere, ero tranquillo. Là, io passavo delle ore, gratificato da quell’insalata della casa e da quel bicchiere di Bordeaux che riuscivo a far durare tutto il tempo del pasto, tenuto in vita dall’interesse disinteressato che Marguerite, la padrona, mi riservava. D’altronde, nel mio quartiere, nessuno l’aveva mai vista avvicinarsi all’angolo della mia strada, suonare al citofono o salire le scale. Solo il cameriere del bar aveva dei sospetti…
Giovanni Merloni
écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 8 mars 2013
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