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“Il pericolo viene da Kafka”, libro di cui Francesco Neri trovò il manoscritto in bella evidenza sulla scrivania del padre dopo la sua morte, rispecchia in ogni suo passaggio la personalità e la “misurata complessità” del suo Autore. E anche, in filigrana, l’epoca, anzi le epoche che i diciannove racconti evocano e illustrano: altrettante fasi, spesso cruciali, della vita reale di Giuseppe Neri (da tutti conosciuto come Peppino).
Volutamente, in questi diciannove “momenti esemplari”, e in qualche modo didascalici di un’epoca oramai al tramonto, l’Autore non dice mai tutto, non spiega, preferendo lasciare il lettore libero di scorrazzare sulla pagina e fornendogli soltanto qualche breve raccomandazione e istruzione perché eviti di smarrirsi. La prima sensazione che vuole darci, infatti, è quella di “leggere con lui” un libro che parla di altri da lui, ma anche quella di offrirci un testo dove potremo anche incontrare, tra le righe, le voci di coloro a cui vanno le sue più sentite predilezioni: un parallelo invito alla lettura di Kafka, Musil, Joyce, Giuseppe Berto, Carlo Levi e magari, implicitamente, anche Borges o Bulgakov: veri e propri amici e compagni di strada che Neri chiama a testimoni delle proprie divagazioni e illuminazioni poetiche.
Questo suo desiderio di condivisione di una propria “passione dominante” è in ogni caso rigorosamente irregimentato in uno stile di racconto e di vita dove la sua naturale, inconfondibile riservatezza si traduce sempre nella fissazione di un limite e di un filtro. C’è un grande pudore nell’opera di Peppino Neri e nella sua stessa persona, che scaturisce dal pudore-orgoglio della dura e nobile lotta esistenziale da lui sostenuta per il progressivo affrancamento dalle condizioni di abbandono e di isolamento culturale subite nella prima parte della sua vita, legate soprattutto alla terra — una zona interna della Ciociaria — in cui nacque, nel 1936, in pieno ventennio fascista. Ma Neri non è un « self made man” come tanti altri, magari emigrati in America per farvi fortuna (tra cui si annoverano tra l’altro alcuni suoi mitici zii e cugini). Giovanissimo, a metà degli anni Cinquanta, Neri si trasferì nella Capitale dove poté assumere, sin dai primi giorni, e poi sempre più validamente e intensamente, un riconosciuto e apprezzato ruolo centrale nell’immenso lavoro di svecchiamento e di diffusione intelligente e meditata dei valori che la letteratura italiana e straniera potevano veicolare, rendendo gli italiani più civili e aperti al nuovo. Tanto più prodigioso fu questo lavoro quanto più riservato, disinteressato e in fin dei conti umile era il modo con cui Neri si poneva e proponeva le sue invenzioni e scoperte.
Tanto riservato da diventare quasi ostile agli elogi e alle critiche positive del suo operato e dei suoi libri. A me capitò, per esempio, di non avere risposta al mio entusiastico e convinto commento al suo “Sole dell’avvenire”, perché, evidentemente, lo avevo messo in imbarazzo se non addirittura infastidito.
Venendo più specificatamente a “Il pericolo viene da Kafka”, corre l’obbligo di aggiungere che in Peppino Neri albergava un’altra passione, anch’essa dominante, quella della politica, nel senso più nobile ed elevato del termine. Accanto alla necessaria rivendicazione delle sofferenze patite dai popoli, e delle lotte non sempre vittoriose per affrancarsene — che anche in questo ultimo libro ispirano a Neri alcune pagine scultoree e asciutte dedicate alla sua Colleforte d’origine (Sant’Apollinare, in provincia di Frosinone), prima e durante la Seconda guerra mondiale —, l’Autore collega l’amaro paradosso degli “eterni traditi e sconfitti del sud” ai personaggi senza patria di Kafka, Bulgakov e Musil (che quasi si divertono nel constatare l’ineluttabilità della loro condizione di perdenti), aprendo così uno squarcio sulle gravi e non risolte contraddizioni del nostro accidentato dopoguerra e del nostro tipicamente italiano dramma esistenziale.
«Evitate di leggere Kafka…», consiglia Neri a tutti coloro che, prigionieri della società dei consumi e di un modello di vita estremamente frustrante come quello americano, non possono rinunciare ai nuovi mulini a vento prodotti dal dio denaro e alle relative catastrofi: “Voi direte: cosa c’entra lo scrittore praghese [Kafka] con l’imprevedibile, misteriosa, enigmatica avventura del successo? Io sono convinto che c’entri. […] Che cos’è il successo? Lo so che ci si sono provati in molti, sociologi, psicologi, mass-mediologi, fior di professori a rispondere a questo interrogativo e tutti hanno elaborato dotte e complicate teorie, hanno avanzato acute e sottili ipotesi. Anch’io — scusate la modestia — ho la mia piccola teoria in proposito. Il successo, per me, è il coraggio della banalità. Il successo poggia sulla protervia del luogo comune, sull’assenza di ogni problematicità…” (pag. 63)
Questo argomento è via via sviscerato o soltanto evocato con un’eleganza e una leggerezza estrema, mentre i personaggi dei diversi racconti, incapsulati come sono nel loro limitato destino, subiscono in silenzio e nella più terribile solitudine le assurdità del mondo.
Peppino Neri (Formia, primi anni 2000)
Sei racconti della raccolta (“Gli asini”, “Il sacrificio”, “Il predicatore”, “Il disfattista”, “Il discorso” e “L’odore della letteratura”) sono ambientati a Colleforte. Tutti e sei trascinano il lettore nell’atmosfera speciale di un ricordo lucido, appassionato e quasi pudico: si direbbe lo sguardo di un bambino ed è probabilmente sulla base dei suoi ricordi d’infanzia e d’adolescenza che Neri ha rivissuto questi episodi strani o magici, misteriosi o scandalosi, eroici o ridicoli, lasciando peraltro trasparire in essi i parametri di interpretazione dei fenomeni che erano tipici di quella collettività arcaica, posta ai margini della cosiddetta civiltà.
Il racconto più personale, da riconnettere però ad uno sguardo più adulto, è “L’odore della letteratura”, in cui un giovane intelligente e curioso scopre la lettura grazie ai vecchi giornali con cui il pescivendolo ambulante incartava il suo pesce non sempre freschissimo: “Da allora, Ettore, associa la letteratura a quell’inconfondibile odore. Ma se all’origine questa percezione era legata solo a ragioni per così dire olfattive, in seguito, quando anche lui incominciò a sperimentare la fatica e l’aspra felicità di dar corpo ai fantasmi della mente, di rendere credibili, con le parole, le azioni di personaggi inventati, si rese conto che lo scrittore, e dunque la letteratura, non fa altro, e i grandi della letteratura altro non hanno fatto, che dannarsi su due grandi temi: la vita e la morte”. (pagg. 104-105)
Un racconto-ponte tra due epoche lontanissime e inconfrontabili tra loro è “Il Natale del clochard” dove il mendicante di nome Nazareno, nel pieno della sua solitaria e disperata “riappropriazione proletaria” in un supermercato romano, cede per un attimo al terribile ricordo della tragedia personale e familiare, ai tempi della Seconda Guerra mondiale, che condivise con un gruppo di compaesani di Colleforte e probabilmente lo segnò indelebilmente: “Gli abitanti del paese avevano abbandonato le loro case e si erano rifugiati, nell’illusione di scampare ai perigliosi agguati, alle mortali insidie della furia bellica, ai tuoni, agli scoppi, alle deflagrazioni di proiettili, granate, bombarde che presero a grandinare all’improvviso e con cieca e ostinata determinazione nella vasta e attonita piana, gli abitanti di quel piccolo paese in terra di Ciociaria, avevano cercato riparo sulle colline di tufo che s’incurvavano a semicerchio sugli sconfinati spazi della valle. Laggiù, oltre l’orizzonte, c’era Cassino dove, da mesi, il fronte si era impantanato e la morte vi celebrava quotidianamente i suoi fasti. (pag. 20)[…] Lì, nel suo giaciglio di cartone, ricorda ancora, con crescente angoscia, il suo sbigottito stupore di fronte a quel paesaggio che solo poco prima era vivo di voci, di svolazzi e di suoni ed ora mostrava le devastazioni, lo sconquasso, lo scempio di una violenza di cui la sua mente non riusciva a trovare una spiegazione. Un gioco assurdo e crudele gli sembrava, come quello di certi bambini che si divertono a mozzare la coda alle lucertole. E incomprensibile gli risultava la lamentazione dei grandi: «È la guerra, la cagione di tutto questo lutto!» E che cos’è la guerra? E perché la guerra? si domandava allora nel suo offeso candore e continua a chiederselo anche adesso, nel buio del suo giaciglio. Certo, oggi gli verrebbe facile rispondersi che è una follia, una pura semplice follia, alimentata dagli egoismi degli uomini, sobillata dalla cupidigia delle nazioni. Ma allora? Allora non era facile capire e quello spettacolo di morte gli si impresse, come un marchio a fuoco, nelle cellule più riposte. Lo segnò nel profondo. No, non vuole accampare alibi al naufragio successivo della sua esistenza, altre furono le cause e queste sono seppellite o, forse, addirittura abrase dalla sua memoria e nessuno mai le conoscerà.” (pag. 22)
Peppino e Francesca Neri
Ma di racconti consacrati al sud ce ne sono altri quattro, di cui due ambientati a Formia, luogo ben conosciuto, dove Peppino Neri aveva preso una casa con la giovanissima moglie Francesca, e dove essi si recarono, immancabilmente, tutte le estati.
Ne “La bella Napoli” — il racconto più vicino alla nostra sciagurata attualità —, si avverte una punta di amarezza e sottile fastidio di fronte al “cambiamento epocale” che insieme al protagonista, Neri osserva in un gruppo di chiassosi villeggianti napoletani: “No, davvero non era possibile. Manù, Deborah, Marlena, Azzurra, ma anche Maristella, Gabri e perfino Noemi, per non dire dei nomi dei maschietti, nomi doppi, ricercati, inusuali, che ricordavano quelli di certi personaggi di Totò nei ruoli del blasonato decaduto. Giacomo Nervini non riusciva a capacitarsi. Dove erano finiti i nomi di tutti quei frignanti piccirilli delle estati precedenti, Gennarino, Ciro, Pasquale, Immatella, Assuntina, Nunziatella, Concettina? Perché, nel giro di pochi anni, nei rioni napoletani, si era verificata questa mutazione onomastica? […] Era soltanto un effetto — quello più immediato ed epidermico — delle troppe telenovele trasmesse dalla televisione, oppure derivava dal fastidio, dall’uggia, dal disagio, avvertiti maggiormente dai più giovani, di essere considerati sempre e soltanto i figli di Pulcinella?” (pag. 11)
Ne “L’ultimo giorno delle vacanze” Neri si cala, con sincera e poetica nostalgia, nella “prima storia d’amore”, corroborata dal “leitmotiv” chagalliano di un onnipresente costume bianco: “Un giorno che il sole era già alto e dalla sabbia si sprigionavano vampe di fuoco la vide dirigersi verso il mare e istintivamente si mosse anche lui in quella direzione. Si teneva a una certa distanza, facendo attenzione però a non perderla di vista e in questo era facilitato dalla macchia bianca del suo costume che si segnalava come un richiamo. Ma mano a mano che Mila s’inoltrava nell’acqua il rischio che si confondesse con gli altri bagnanti diventava sempre più probabile, anzi ci fu un momento in cui, ostacolato da un nugolo di bambocci, di pargoli, di citti, di mammoli, insomma di bimbi che acciambellati a paperi, avvinghiati a canotti, avviluppati a salvagenti, aggrappati a plastificati coccodrilli e ad altri galleggianti di varie fogge si schizzavano, si spruzzavano, sciaguattavano in un clamore di voci e gridolini e scoppiettii di riso, in quel momento Daniele credette davvero di averla persa di vista e quando già l’ansia lo stava proditoriamente acciuffando ecco che si rese nuovamente visibile il bianco richiamo del suo costume e allora non ebbe più esitazione. Si tuffò e aggirando la fanciullesca gazzarra, si avvicinò alla ragazza che, con agili bracciate, si dirigeva verso gli scogli”. (pagg. 51-52)
In “Una sera d’estate con Luca Marano” assistiamo al trascinante racconto dell’incontro di Peppino Neri con un “eroe molisano”, vittima del fascismo nascente: “Non era un violento Luca Marano, era invece un candido e aveva fiducia nel prossimo e ancora non sapeva che, a volte, nel cuore degli uomini si annida l’inganno e alla lealtà si può rispondere con il raggiro. E quando lo capì, quando capì che nel petto di donna Laura, avvenente proprietaria terriera, sventolava lo stendardo della falsità e che questa femmina bella e ingannatrice non si faceva scrupoli di barattare il destino di molte famiglie contadine con una manciata di banconote, era ormai troppo tardi. Si agitò Luca, corse per vicoli, entrò ed uscì da molte casupole, supplicò molte persone, s’intrattenne con i contadini e poi, con una schiera di disperati, si precipitò sulle terre del Sacramento, dove erano ad attenderlo i fucili dei fascisti. […] Ma quel sangue versato sulle terre del Sacramento si levò come una bandiera ad indicare, alle generazioni future, la strada del riscatto e della libertà”. (pag. 62)
Un lettore attento, che rileggesse almeno una volta questo racconto e lo confrontasse con l’insieme della raccolta, si accorgerebbe che solo in un contesto “eroico” e fuori dal tempo come questo Peppino Neri poteva lasciarsi andare a una espressione come “si levò come una bandiera ad indicare, alle generazioni future, la strada del riscatto e della libertà”. Tutto il resto del libro, infatti, ci trasmette un profondo senso di amarezza davanti al constatato riflusso dei valori fondatori della nostra democrazia repubblicana, in cui si sta peraltro inserendo una nuova ancor più minacciosa onda di buio. Quel racconto, infatti è del tutto “inventato”: “Già, perché dimenticavo di dire che Luca è un personaggio di carta, fatto di parole, anche se è più vivo di un uomo vivo, un personaggio che abita le pagine del romanzo di Francesco Jovine, scrittore di Guardialfiera, Campobasso.” (pag. 62)
In “Un viaggio”, Neri immagina invece un durissimo e lunghissimo viaggio contemporaneo, in treno — forse sognato, certo desiderato, malgrado la scomodità —, da Napoli Centrale a Capo Vaticano: un omaggio a Giuseppe Berto che ne fu lo scopritore ma anche, soprattutto, un tuffo all’indietro verso un luogo del “suo sud” che la memoria si ostinava a volere “ancora intatto e selvaggio” (pag. 90).
Peppino Neri (Formia, primi anni 2000)
Tra i restanti otto racconti, che si svolgono in una “grande città” che è senza dubbio Roma, ce n’è un altro (“La morte del campione”) in cui si fa ancora riferimento ad un abitante di Colleforte che, insieme ad altri compaesani emigrati, era riuscito a sottrarsi alla miseria e aveva trovato in America un effimero “trionfo”. È la dolorosa e infine tragica parabola di un ex pugile, “Faccia d’angelo”, considerato invincibile fino al giorno in cui la sua vita cambiò di nuovo… Lo vediamo ora aggirarsi in mezzo ad una strana nebbia, del tutto inabituale per quella città: “In quel silenzio vertiginoso, lo scalpiccio dei suoi passi, uno scalpiccio sonoro, come se i suoi piedi urtassero qualcosa di ferrigno, le rotaie, i binari della strada ferrata, riecheggiava irreale e sinistro. Ma ben presto quel tonfare di passi fu soverchiato da un vocio confuso e indistinto che, avvicinandosi, si gonfiò in uno strepito di urla eccitate e poi esplose in un coro d’incitamenti, di esortazioni a resistere alla furia belluina, agli assalti forsennati del suo avversario, lo vede Toro scatenato, massiccio e ringhioso sul ring del Madison, che avanza con fredda determinazione, con implacabile risolutezza, svelto ad eludere le sue eleganti schermaglie e stringerlo di colpo nella rovinosa morsa dei corpo a corpo. I suoi sostenitori, vedendolo in difficoltà, continuano a incoraggiarlo, a spronarlo a gran voce, anche i secondi da bordo-ring gli urlano qualcosa che però non riesce a decifrare, intento com’è a contenere gli attacchi ininterrotti, prolungati, portati con calma furiosa, con bellicosa imperturbabilità da Toro scatenato che ormai incombe gigantesco, mostruoso, in quel mare di nebbia e quello che sente non è il suono del gong, ma il fischio lacerante del treno, lo stridore disperato dei freni, inutilmente azionati dal macchinista appena si accorse di quella sagoma scura, ferma sui binari” (pagg. 39-40). “Faccia d’angelo” è il prototipo del “looser”, del perdente, che ritroviamo, in diverse dosi, anche in altri personaggi. Non si tratta in genere di veri perdenti, ma di uomini e donne che hanno subito comunque un “vulnus” che riaffiora sempre, inesorabile, scompaginando il precario equilibrio delle loro esistenze.
Una situazione opposta a quella del vecchio pugile la ritroviamo ne “Il figurante”, la storia della fine paradossale di un attore tanto volenteroso quanto sfortunato, la cui vita è costellata di frustrazioni e di bocconi amari, ed è drammaticamente sanzionata, alla fine, da un “volo” spettacolare e del tutto inaspettato: “La morte, persino la morte ha voluto defraudare il vecchio figurante”. (pag. 82)
Il tema della “prova” da cui può dipendere tutta una vita, si sviluppa ancora, in modo sempre più articolato e approfondito, in altri due racconti esemplari di Peppino Neri:
In “Molly, oh cara”, straordinario omaggio all’”Ulisse” di Joyce, il lettore può seguire da vicino gli alti e bassi, i crolli annunciati, le riprese improvvise e l’inspiegabile fluidità che succede al momentaneo mutismo di un’attrice che “vive” il personaggio di Molly Bloom ed anzi “presta” a quell’inafferrabile e soprannaturale personaggio il fatto di essere, lei stessa, una Molly Bloom altrettanto spavalda, infelice e ostinata donna che mai si darà per vinta. “Le parole che uscivano ormai incrinate, strozzate dalla gola, sembravano lapilli incandescenti e quando, con il cuore galoppante, prese a dire sì mi metterò una rosa rossa tra i capelli come le ragazze andaluse sì la voce si assottigliò, sfumò in un sussurro e con quel filo di seta, con quella corda il violino sul punto di spezzarti sibilò sì dissi voglio sì. […]. Curva in avanti e con lo sguardo smarrito, la rediviva Molly Bloom sentiva che il peso di quegli applausi le gravava sempre più sulle fragili spalle, come un macigno. Era un trionfo: eppure correva il rischio di essere travolta sì, annichilita sì, dall’esplosione incontrollata, convulsa di tutto quell’entusiasmo”. (pag. 71).
Ne “Il discorso” del “camerata della prima ora” la prova, esageratamente preparata, subisce inevitabilmente il peso di una situazione ridicola, assurda e paradossale. Davanti ad una popolazione rassegnata e sconfitta, quel discorso falso e retorico, che dovrebbe conferire dignità e autorità ad un apparato retorico e falso, inevitabilmente si inceppa: “Non ricordava più nulla. Le parole del discorso che aveva tanto accuratamente preparato, gli fluttuavano disarticolate, senza nesso nella testa, come relitti alla deriva. Si frugò affannosamente nelle tasche: ma il discorso, fidando nella memoria, lo aveva irrimediabilmente lasciato nel cassetto del comò”. (pag. 100)
“La voce del sangue” e “L’illusione di un mattino” raccontano la precarietà della condizione umana contemporanea, le infinite conseguenze che possono scaturire dalla distrazione e dall’imprevidenza, dalla mancanza di preparazione e di allenamento. Il primo è particolarmente inquietante per qualcuno come me che era affezionato alla persona Peppino Neri al di là dei suoi meriti e del suo carisma. Fa pensare ad un celebre episodio del “Caro diario” di Nanni Moretti, e l’esperienza della paura che insorge quando c’è il sospetto di una grave malattia è restituita con analoga stringatezza e leggerezza. E anche qui, alla fine del fantasmagorico fuoco artificiale della risonanza magnetica, si scopre che allora non si trattò della malattia che se lo sarebbe portato via, qualche anno dopo: “Comunque provò una sottile soddisfazione, prossima da gioia, nel sapere che la macchina non aveva dato scacco all’uomo. Essa infatti confermò la diagnosi di quell’ometto dall’aria ascetica e dalle robuste mani” (pag. 32).
Questo racconto introduce, in ogni caso, il tema della solitudine dell’uomo davanti alla morte. In “Bussano alla porta”, il più stringato e cinematografico di tutti i racconti della raccolta, Peppino Neri inscena con grande lucidità e dolcezza l’arrivo inatteso e surreale della morte: “«Bussano alla porta» dice e resta in ascolto. La donna, scossa dal suono improvviso di quelle parole, ha un leggero soprassalto. «Ma chi vuoi che bussi a quest’ora» dice. «Eppure… eppure m’era sembrato…» Non completa la frase spinto dall’urgenza di riannodare il filo, di recuperare la suggestione del ricordo. Ma lo sforzo risulta vano, sterile: quell’improvvisa e casuale accensione della memoria si è dissolta, definitivamente incenerita. Tenta allora di andare avanti nella lettura del copione, ma le righe si accavallano, le parole gli appaiono sfocate. All’improvviso si sente oppresso da una profonda stanchezza, come se tutto quel silenzio gli premesse sulle membra, gli pesasse sul cuore. Dal fondo di questa spossatezza avverte, per la seconda volta, i due colpi di nocche sulla porta d’ingresso, ma così nitidi e precisi che sembrano picchiati direttamente sul suo petto…” (pag. 74).
Peppino Neri (Formia, primi anni 2000)
Nell’ambito della mia lista “tematica” (che non è quella scelta dall’Autore), gli ultimi due racconti sono quelli più strettamente legati al titolo del libro. Se la situazione tipicamente kafkiana de “I latrati del padrone” è anche, probabilmente, un omaggio ai Fantozzi e ai Fracchia di Paolo Villaggio, “filmati” però con una freddezza accattivante e pietosa degna di Buster Keaton, “Il pericolo viene da Kafka” è un breve e pungente manifesto di “disobbedienza civile” e di “messa in guardia” nei confronti della burocrazia (a cui oggi si dovrebbe aggiungere la tecnologia numerica e la minacciosissima “Intelligenza Artificiale”), inesorabile regolatrice delle nostre paure come dei nostri falsi bisogni e corrotti valori imposti dalla società dei consumi.
Ma, evidentemente, la portata del titolo di questo racconto si estende a tutto il libro, offrendone la chiave interpretativa e il senso più profondo.
Dopo un’intensa e apprezzata attività giornalistica in periodici come “Il Mondo” di Mario Pannunzio e in quotidiani come “Il Messaggero” e alcune significative prove letterarie, nel 1976 il giornalista-scrittore Peppino Neri entrò alla RAI, di cui colse subito l’aspetto di carrozzone e di consumistica fiera delle vanità, ma in cui riconobbe anche alcune straordinarie potenzialità. Intelligentemente, optò dunque per la Radio, una forma di trasmissione senz’altro più adatta all’approfondimento e alla riflessione. Attraverso i programmi radiofonici di cui fu ideatore e conduttore (primo fra tutti “Il Paginone”, che egli stesso definiva “la più grande terza pagina italiana”; ma poi anche, per esempio, “Galassia Gutenberg”, “Hollywood Party”, ecc.), Neri riuscì a far conoscere agli italiani “un’altra Italia” non corrotta, impegnata e fondamentalmente refrattaria alle lusinghe del potere.
Se tutto ciò fu possibile, vuol dire che egli non fu certamente il solo a seguire quella via di onestà e di assunzione di responsabilità. Tuttavia, la sua convocazione di Kafka in questo ultimo, estremo messaggio rappresenta una condanna esplicita di quel “lato oscuro della forza”, diventato predominante nel corso degli anni, che non ha avuto scrupoli nel corrompere e lasciarsi corrompere, nello svalutare, involgarire e insomma tradire il proprio ruolo primario. Il successo dei presentatori, dei comici, dei cantanti e delle migliaia di figuranti stabili o occasionali è spesso lo specchio di questo imperdonabile tradimento, contro cui Neri ha lottato difendendo in modo ragionevole, dunque non settario né elitario, la verità dell’informazione giornalistica e la sacralità della trasmissione culturale.
“Giuseppe Neri” sull’enciclopedia Garzanti-Radio, a cura di P. Ortoleva e B. Scaramucci.
Egli ci invita dunque a proseguire la sua lotta contro il pericolo “kafkiano” che si avvera sempre quando si lascia a qualche “potere invisibile” lo spazio e il modo di cambiare via via le regole di una costruttiva e libera convivenza e poi di imporne altre, sempre più assurde e incomprensibili, la cui logica sarà inevitabilmente “scoperta” da tutti, ma sempre tardi, troppo tardi. Ennio Flaiano, che Neri non cita, ma di sicuro ammira profondamente, sintetizzava questa mostruosa e diabolica metamorfosi nella famosa frase: «Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore». Si tratta soprattutto di un “male nostrano”, ma certo, nel corso degli anni, esso è stato eletto a sistema, a seguito della sempre più capillare e devastante presenza, in ogni ordine e grado della nostra società, e con particolare concentrazione e intensità nella televisione, degli aspetti più negativi del cosiddetto “modello americano”.
Del resto, come in tanti altri intellettuali di valore — in primis Furio Colombo, Umberto Eco e Gianni Vattimo (che furono chiamati “corsari” per l’innovazione che portarono alla RAI, svecchiando i programmi e trasformando l’ambiente culturale della televisione, dando anche vita a una specifica trasmissione per i giovani) — anche in Peppino Neri hanno sempre convissuto due Americhe assai distanti tra loro: l’America mitica di terra d’asilo, di inarrivabile progresso e di emancipazione economica e culturale; quella venuta da noi con il suo pragmatismo prepotente e corruttore, intrinsecamente legato alla ideologia del successo e del denaro in cambio di una società di consumi onnivora e distruttrice del libero pensiero e della società stessa.
Nell’accomiatarci da questo subliminale e non conformistico “testamento morale” di Peppino Neri, così denso di significati, eppure così miracolosamente scorrevole e benevolo verso di noi poveri e fragili eredi-continuatori, ci siamo guardati in giro con lo sguardo perduto, incapaci di aprire la porta e uscire. All’ultimo momento, di soppiatto e con un’aria da cospiratore, ci è corso dietro un personaggio di cui avevamo già notato la fedeltà, la coerenza e l’impressionante rassomiglianza all’Autore, al punto di assumerne il tono appassionato della voce. Era “Il disfattista”: “Nel corso della passeggiata serale, durante la quale il gruppetto degli antifascisti o «il clan dei disfattisti», secondo la definizione del segretario del Fascio, passava in rassegna gli avvenimenti nazionali ed anche i fatti locali, Antonio accennò alla cerimonia che si era svolta nella mattinata. Per la maggioranza quella era stata una delle tante buffonate care al regime, buona per farci sopra quattro risate di gusto o meglio di disgusto, soprattutto all’indirizzo di quel povero diavolo del centurione, così goffo su quel cavallo bianco. Ecco: sembrava proprio un sorcio, un topolino a cavallo, come si espresse qualcuno di loro. Ma Antonio, anche se concordava su questo giudizio, sosteneva però che era giunto il momento di fare qualcosa, di passare all’azione. «Sradicare quelle piante, per esempio, sarebbe un gesto di protesta, un modo per far capire a tutti che noi siamo stufi delle loro pagliacciate» concluse. «Bravo! Così domani finiremo tutti al fresco. Perché, è evidente che solo uno di noi potrebbe compiere una simile azione. E quale sarebbe il risultato? Avremmo cavato due piante, ma l’Idea, come loro dicono, l’avresti intaccata?» gli fecero notare i compagni. Non v’è dubbio, i compagni avevano ragione, eppure Antonio sentiva che quelle piante andavano distrutte. Non che si illudesse che con esse, anche un poco di fascismo sarebbe stato scalfito. Ma ecco: sentiva che bisognava cavarle”.
Giuseppe Neri, “Il pericolo viene da Kafta, Manni, 2025
Giovanni Merloni







