Étiquettes
Che fare?, Confessioni di un bibliotecario, Dobroljubov, Karl Marx, Marco Noccioli, Nekrasov, Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij, Orazio Torriani, Pietroburgo
“La strana gioventù”
“Si dovrebbero cancellare dalla faccia della terra le differenze di classe e di condizioni, appianarle almeno nel nostro modo di pensare” (pag. 46)
Carissimo Marco, scusami innanzitutto se, lo so già prima di cominciare, non riuscirò a condensare le mie osservazioni e riflessioni in un unico ragionamento e, invece, magari ripetendomi, affronterò lo stesso argomento più volte, anche se da diversi punti di vista. E scusami quando, a un certo momento, mi fermerò, nella consapevolezza che non posso, né saprei, scrivere “un altro libro” per parlare del tuo.
Innanzitutto, un breve confronto tra i due “romanzi bibliotecari”: “Il bibliotecario di Marx” è forse più immediato e facile da leggere (e ricordare) nel suo insieme, mentre, forse, le parti per così dire teorico-scientifiche possono risultare, un po’ impegnative. Ne “La strana gioventù”, invece, si capisce tutto, laddove però l’intreccio dei fatti e dei rimandi è molto più ricco e dettagliato. Dunque, se questo secondo libro non è particolarmente impegnativo nel suo scorrere, è più difficile poi da ricordare bene nel suo insieme.
Tuttavia, chiuso il libro, il cervello del lettore si mette subito in moto ed è indotto a “continuare” il ragionamento di fondo che vi è sviluppato, a collegare tra loro le idee che vi sono esplicitate o accennate, mettendole in relazione, ognuno secondo le sue conooscenze ed esperienze, con la storia successiva a quella narrata, e rileggendone poi i valori e i principi alla luce dell’oggi.
Questo tuo immenso lavoro di ricostruzione storica, oltre ad essere una evidente e inattaccabile risposta ai negazionismi di ogni tempo e origine, è “architettato”, mi sembra, per un più vasto e nobile (e lodevole) fine politico, che via via può tradursi in una proposta chiara e luminosa. È un invito ad “agire ragionando”, a “fare”, fino in fondo, qualcosa di sinistra, senza mai discostarsi, tuttavia, dal questionamento continuo sul “che fare?”, che a sua volta non può prescindere dal “quando” e dal “come” fare.
Per tutti questi motivi, ed altri che dirò, “La strana gioventù”, che completa (ma forse non esaurisce) il grande affresco delle “Confessioni di un bibliotecario” (l’allusione al coevo “italiano-ottuagenario” di Ippolito Nievo è d’obbligo) è un romanzo indiscutibilmente interessante, utile e avvincente. Interessante e utile grazie alla efficace e coinvolgente ambientazione, per così dire “teatrale” (ma anche molto cinematografica), di due mondi — quello politico degli albori della Rivoluzione e quello letterario descritto da grandi classici come Gogol e Dostojevski — che si fondono in un unico universo “pietroburghese”, dove “risuscitano” uno per uno, insieme ai “veri luoghi” e alla “vera società”, soprattutto i “veri protagonisti” di una vitalissima cordata di “saggi-ribelli” che credettero e lottarono per un mondo migliore. « Il bibliotecario di Marx » diventa poi avvincente quando si comincia a venire a capo della concatenazione dei fatti e del tourbillon dei personaggi, tutti necessari e inseriti in un flusso narrativo perfettamente scandito; quando si comincia a percepirne il messaggio, via via più esplicito e « reale ». D’altra parte, il lettore ha l’impressione di partecipare all’appassionante “traversata” di Orazio Torriani non come “imbucato” ma come “accompagnatore autorizzato”; e quando — affacciato a una finestra della Biblioteca Nazionale sulla piazza del Collegio Romano (forse corrispondente proprio alla stanza dove lavorava mia zia Augusta, bibliotecaria, attendendo ad un misterioso B.O.M.S.) — il nostro protagonista-testimone evoca le prime bandiere rosse, che finalmente cominciano a sventolare per le vie di Leningrado (e poi in quelle di tutto il mondo), questo stesso lettore prova di nuovo l’emozione che lo sorprendeva durante le manifestazioni degli anni ’60 di cent’anni dopo, a cui accorreva insieme agli altri esponenti della nuova “strana gioventù” di cui faceva parte.
Il tuo è un “romanzo a tesi” e anche, in modo sano, “un “romanzo ideologico”, che si fa carico di rilanciare il dibattito sul comunismo – attualmente costretto a stare sulla difensiva, se non a languire in una posizione rinunciataria –, “ricominciando da tre”. Risalendo cioè a “prima dei danni” (e crimini) più evidenti, non solo per spiegare che il comunismo viene da lontano — e corrisponde alle giuste aspettative (economiche, sociali e culturali), perennemente insoddisfatte, delle popolazioni più svantaggiate oltreché dei proletari e degli sfruttati di tutte le latitudini — ma anche, soprattutto, per raccogliere e mettere in valore certe analisi fondamentali, insieme a certe soluzioni, ancora del tutto valide oggi, che non furono capite fino in fondo e/o furono seguite molto superficialmente o cinicamente messe da parte. Si può, dunque, “ricominciare da tre”. Chi sono questi tre? Da cosa si potrebbe “ricominciare”?
1_Dall’analisi di Marx, assolutamente attuale.
2_Dal “pacchetto” del “Che fare?” di Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij. Un pacchetto-vademecum assolutamente geniale, perché introduce, tra l’altro, in modo difficilmente contestabile, la centralità della “questione” femminile, che si pone come la principale “risorsa” strategica in vista dell’indispensabile “cambiamento” nella società e nei singoli rapporti umani.
3_Il “terzo” da cui si potrebbe-dovrebbe ripartire è, evidentemente, Antonio Gramsci. Sarà su di lui il tuo terzo libro?
La tua è, dunque, un’opera aperta, come quelle di cui parlava Umberto Eco, maestro peraltro della trasformazione del saggio in romanzo e del romanzo in saggio e dunque apripista dell’interazione tra i due generi. Un’opera, la tua, che viaggia, giustamente, in netta controtendenza rispetto alla faciloneria e alla violenta ripetitività dei “best sellers mordi-e-fuggi” o dei pistolotti storici attuali. E si apprezza molto la lucidità e la pazienza con cui hai saputo mantenere il filo dell’attenzione pur nella complessità delle cose da dire.
Un romanzo come questo chiede dunque di essere studiato a fondo, costellato di appunti e di osservazioni. Dopo una prima lettura “senza la matita” (grave errore!) ne avevo iniziato una seconda, più sistematica, in vista di una esegesi approfondita e puntuale, seguendo l’itinerario dei successivi incontri, ambienti e personaggi — a cominciare dall’ex libreria Smirdin e dal Circolo degli Scacchi — di questa San Pietroburgo (che io continuo tra me e me a chiamare Leningrado), che tu attraversi e conosci come le tue tasche e dove solo gli abitanti dell’ex mondo sovietico possono calarsi (con il loro Google) alla riscoperta dei nomi delle vie e forse anche dei palazzi pubblici e dei negozi.
Ma a un certo punto mi sono fermato, decidendo di tenere per me il piacere di seguire liberamente le diverse suggestioni che via via mi sarebbero tornate da sole alla mente dopo la lettura, concedendomi divagazioni e tuffi “realistici e poetici” nel passato. Andando per esempio a cercare la corrispondenza dell’epoca della rivolta silenziosa di Pietroburgo con quella dell’impegno di Raffaele Merloni, il mio bisnonno romagnolo, al seguito di Garibaldi (all’epoca della terza guerra d’Indipendenza), e lasciando ad altri lettori il piacere di aggiungere a loro volta impressioni e riflessioni diverse dalle mie.
Passage a Pietroburgo
Anche perché gli spunti offerti dalla tua “strana gioventù” sono infiniti. Come quella frase a pag.443: “…Hai ragione. Pietroburgo e i primi anni Sessanta furono davvero un posto e un tempo molto speciali. Ricordo quelle notti – e quelle mattine, presto, molto presto -quando anziché tornare a casa, giravo senza meta per la città, sapendo che qualunque strada avessi imboccato, alla fine sarei comunque arrivato in un posto dove le persone, anche quelle che non conoscevo, erano ispirate e scatenate esattamente quanto me. Su questo, non c’erano dubbi: ovunque andassi vedevo gente come me. Questo era il movimento. C’era un’incredibile sensazione generale che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo… Questo era il punto: un senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio Mondo. Vittoria, ma non in senso militare: non ne avevamo bisogno! La nostra forza avrebbe prevalso. Semplicemente. Non aveva senso ingaggiare un duello tra la nostra parte e la loro. Tutto il potenziale, ce l’avevamo noi… Cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda…”
In ogni epoca, in ogni secolo, c’è sempre stato un momento di rottura, contrassegnato da una “strana gioventù”. Ci sono stati anche per noi, per esmpio, i “capelloni”, antesignani dei “sessantottini” e dei giovani del ’77 (da Guccini a Claudio Lolli…)
Tornando all’analisi storica e alla proposta politica implicita di questo libro, io trovo ineccepibili i filoni interpretativi (e le connesse associazioni di idee) che tu proponi. Cominciando dalla “contestualizzazione”, di cui abbiamo già parlato (tra la nascita del socialismo in Europa e in Russia e il Risorgimento in Italia), e dalla tua appassionata ricostruzione di quella straordinaria stagione rivoluzionaria e dei suoi protagonisti, tra cui Chernyshevskji, Dobroljubov, Nekrasov, eccetera. Io ci metterei la firma, se si decidesse di prendere questo esempio come punto di partenza per una discussione seria e approfondita nell’ambito della sinistra oggi.
Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij
Nello scegliere Chernyshevskji, un intellettuale onesto e culturalmente aperto al confronto, — un Antonio Gramsci russo —, tu prendi nettamente posizione per una visione politica unitaria e non settaria, ma non per questo meno rigorosa, del “mondo nuovo” di cui le nostre società hanno bisogno. Un mondo che per realizzarsi ha bisogno del “fare”, di un agire ragionato e tempestivo che, senza fughe in avanti, faccia progredire economicamente, socialmente e culturalmente ogni singola famiglia e società, nel rispetto delle esigenze insopprimibili della natura umana. Quando Chernyshevskji, nel sottolineare l’importanza del “fare”, parla dell’amore e della donna, anzi mette la donna e l’amore al centro di tutta la questione del vivere insieme, in società, egli traccia un confine invisibile, ma importantissimo, che non deve essere valicato, tra l’ambizione ideale, dirompente, prodigiosa e giusta di cambiare il mondo, che hanno questi “strani protorivoluzionari” e, appunto, il rispetto della donna e dell’uomo, a cui non si può chiedere di rinunciare al sacrosanto diritto alla felicità.
È fin troppo facile, col senno del poi, scoprire i momenti, nella storia dell’Unione sovietica, per esempio, in cui quasi tutti i precetti di Chernyshevskji sono stati ignorati o calpestati. Ma è ormai evidente che le idee più avanzate, gli ideali più giusti, devono sempre commisurarsi alla realtà dei rapporti umani, all’evoluzione delle singole società, alla loro capacità di prendere collettivamente le decisioni più eque e vantaggiose, in modo democratico, scegliendo i leaders giusti e controllandoli costantemente. L’aver assegnato a Vera Pavlovna il compito di rispondere, in modo esemplare, ad uno dei più pressanti “che fare?” — quello del lavoro affrancato dalle logiche dello sfruttamento — la dice lunga sulla lungimiranza e sull’apertura mentale di Chernyshevskji. Nel controbilanciare i rapporti (tuttora) esistenti tra uomo e donna nella famiglia e nella società, si attiva quella sana dialettica democratica di cui abbiamo tutti bisogno: “Lasciatele parlare, sentiamo che cosa hanno da dire e da proporre!” “Ma guarda, è interessante, non ci avevo pensato!”.
Il tuo libro, caro Marco, rimettendo un po’ di linfa marxista e sanamente rivoluzionaria nelle nostre vene ingombre di mostri, spinge a pensare, a ragionare, a ritrovare qua e là i vecchi e i nuovi compagni di una stagione ormai alle porte: la più disperata ma, forse, la più lucida. Ed ora la piccola sorpresa (per me). Qualche giorno fa, avevo appena finito di leggere “Una strana gioventù”, ma ero ancora incuriosito da questa parola-frase — “che fare?” — di cui avevo già letto e sentito parlare. Mi sono messo allora a cercare il libro di Chernyshevskij… e l’ho trovato, qui a casa mia! Forse non c’è libro importante o interessante che mia moglie Claudia non abbia portato da Roma a Parigi… Anche lei aveva, come te, la vocazione bibliotecaria!
La lettura di quel romanzo-lettera dal carcere del 1863 si integra bene con questa di oggi, anche se, nel mio caso, con una piccola frustrazione: nel mio “Che fare?”, edito da Garzanti nel 1973, manca la « Dama in nero » nonché l’emblematica gita delle due slitte! Ma forse non è una mancanza così grave. La storia di Vera Pavlovna — in cui l’Autore è sinceramente e fino in fondo dalla sua parte — è appassionante e piena di suspense, e dimostra che non si può fare la rivoluzione (ne alcunché) senza le donne, non solo perché non si può prescindere dall’amore (anzi ci si deve “fondare” su di esso), ma perché solo le donne — forse perché “costrette” dalla Natura a fare i figli e poi a doversene separare — sanno andare al di là delle diversità di classe e di mentalità.
Del resto «anche i cuori più infangati nel materialismo hanno i loro grandi ideali, e ciò prova che la spiegazione materialistica della vita è falsa o insufficiente». (“Che fare?”, pag 78)
Vera si chiede la prima volta “che fare?” (e come fare) quando deve assolutamente “uscire dal sotterraneo” che era la sua famiglia. La sua rottura, peraltro incruenta, della situazione di immobilismo e di conflittualità estrema in cui viveva, costituisce di certo, pensando alla Russia zarista, la metafora dell’atto rivoluzionario, necessario e ormai maturo mentre Chernyshevskij scrive. Ma poi, come per Vera che, liberata dal giogo familiare desidera organizzarsi una vita felice, la domanda si affaccia una seconda volta: “che fare? » Con ciò Chernyshevskij lancia un ammonimento: non bisogna rinunciare alla felicità. Perché, attenzione, non basta la rivoluzione di un giorno! Da quel momento in poi, ad ogni pié sospinto e con una terribile accelerazione, bisogna saper rispondere ad una serie incalzante di “che fare?” estremamente concreti che non si potranno eludere se non si vuole essere costretti a tornare indietro. Dovendo scrivere il suo fondamentale testo in prigione, Chernyshevskij è estremamente abile nel dire e non dire, nel far capire in modo indiretto, ammortizzando i passaggi più tragici della storia narrata per invitare il lettore a vederli e a viverli con più distacco. Con lo stesso distacco, ben dissimulato, l’autore aggira la censura imperiale, fornendo la terza risposta alla domanda sul “che fare?” che la vita impone a Vera in quel passaggio cruciale della sua esistenza: la base della sua emancipazione e della sua salvezza è l’officina di sartoria modello che Vera crea sotto forma cooperativa.
Sede del Circolo degli Scacchi a Pietroburgo
Caro Marco, il tuo libro mi è servito e lo conserverò in modo di poterlo facilmente ritrovare, per rileggerlo, studiarlo e parlarne con qualche amico parigino. Un abbraccio. Giovanni Merloni.
Marco Noccioli
(Confessioni di un bibliotecario n. 1: « Il bibliotecario di Marx »)





Pingback: Confessioni di un bibliotecario n. 1 | il ritratto incosciente