Étiquettes
Alberto Moravia, Elsa Morante, Enzo Siciliano, Laura Betti, Pier Paolo Pasolini, Totò, Tullio Pericoli
Pier Paolo Pasolini (5.3.1922-2.11.1975), disegno di Claudia Patuzzi
Ripubblico oggi un articolo su Pier Paolo Pasolini che avevo pubblicato su « La faute à Diderot » nel novembre 2021.
Pasolini, poeta civile in rivolta
«…sono come un gatto bruciato vivo,
pestato dal copertone di un autotreno,
impiccato da ragazzi a un fico,
ma ancora almeno con sei
delle sue sette vite,
come un serpe ridotto a poltiglia di sangue
un’anguilla mezza mangiata
le guance cave sotto gli occhi abbattuti,
i capelli orrendamente diradati sul cranio
le braccia dimagrite come quelle di un bambino
un gatto che non crepa…
La morte non è nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi.»
Pier Paolo Pasolini da “Poesie in forma di rosa”, 1964
Di Pasolini si continua a commentare la morte, più terribile della più terribile morte di un film americano di cattivo gusto. Una morte a maggior ragione impunita perché “girata” come in un film da gelidi orchestratori di assassinii di stato, di quelli che non si fermano davanti a nessun accorgimento, anche il più perverso, pur di depistare e nascondere la verità. «Non si ammazza un poeta!” ha urlato Elsa Morante nel triste pomeriggio del 5 novembre 1975, a Campo de’ fiori, la stessa piazza romana dove, 375 anni prima, Giordano Bruno fu bruciato vivo per eresia, mentre tutti avevano davanti agli occhi, in mezzo alle lagrime di sgomento e di rabbia, la scena presunta eppure convincente in cui un povero corpo era stato selvaggiamente finito, fingendo così, nello squallido paesaggio notturno dell’Idroscalo di Ostia, una morte “cercata” perché avvenuta in un contesto tipicamente pasoliniano, preso in prestito da uno dei suoi film: il primo, Accattone e l’ultimo, Salò.
«Pasolini fu un comunista eretico, che inseriva in permanenza, in ciò che tradizionalmente è chiamato “politica” (Stato o partiti), delle realtà apparentemente “non politiche: diversità, subcosciente, violenza, vita privata e pratica della scrittura, Una contraddizione ai suoi tempi intollerabile, che fa esplodere la politica, sovvertendone le norme e certe forme de militanza. Tale contraddizione suscita inevitabilmente violenze, processi, condanne, silenzi complici o imbarazzati. Pasolini ne è morto.» Christine Buci-Glucksmann, Pasolini, Gramsci, lettura di una marginalità in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.
Pier Paolo Pasolini.
Se mi recassi oggi, in un giorno di mercato, in quello stesso Campo de’ Fiori, aggirandomi tra i rettangoli di luce o riparandomi all’ombra solenne della statua pensante di Giordano Bruno, troverei forse la chiave di un pensiero, riguardo a Pasolini, che mi porto dietro da tanto tempo. Questa chiave potrebbe essere quella della ineluttabile alternanza della luce e del buio; del bel tempo e della pioggia, del pianto e del riso, dei corsi e ricorsi storici, delle rotazioni e rivoluzioni dei corpi celesti. La stessa altalenante vicenda della nostra penisola è una storia di alti e bassi, di inesorabile alternanza tra fortuna e sfortuna, tra oblio e saggezza. No, decisamente, l’Italia di tutti gli ossimori e di tutte le possibili sfumature non potrà mai essere il paese dell’aurea mediocritas, a dispetto della sua millenaria civiltà fondata su un’idea pacifica e equilibrata dei rapporti umani e sociali. Se potessimo assistere ad una sequenza cinematografica al rallentatore dell’alterno destino del nostro sciagurato fortunato paese, vi troveremmo inscritte, con la loro frenetica intermittenza di luce e di ombra, l’opera e la vita di Pasolini. E capiremmo che anche la sua morte si inscrive nella fase buia della nostra esistenza comune, costituendo l’anticipazione emblematica delle tragedie successive, che furono ancora più gravi. Per questo, all’indomani della morte del poeta, non si sono voluti ascoltare né tantomeno capire i segnali di pericolo che Pasolini aveva lanciato in un crescendo spasmodico e coraggioso. Egli non si rivolgeva ai poteri palesi o occulti (del resto refrattari all’ascolto) che imponevano la rovina al paese, e nemmeno alle “mosche cocchiere della rivoluzione”, pronte a cercare nelle sue parole un incoraggiamento autorevole alle loro pericolose avventure, ma a tutti gli italiani che avevano a cuore la democrazia repubblicana e l’unità antifascista perché reagissero al più presto. In tutti questi anni di celebrazioni e scoperte pasoliniane, poi, quasi nulla si è fatto per riparare al danno arrecato alla sua memoria. Pasolini, insieme a Gramsci, aveva spesso parlato del “genocidio della lingua” operato con la mortificazione e marginalizzazione dei dialetti, immensa risorsa della nostra cultura vasta e articolata, perfettamente cosciente del fatto che anche la sua voce sarebbe stata messa a tacere. Non importa che si trattasse della sola voce o di una delle rare voci che aveva osato levarsi al di sopra del nostro italianissimo “parlarci addosso” (che tanto comodo fa ai potenti), il genocidio di quella voce e con esso dell’importanza della verità fu perpetrato e continua ad essere perpetrato nell’allegria generale… Tornando a Campo de’ fiori, questa piazza popolare di stampo veneziano che non smetterà mai di ricordare questi due eretici ribelli, Giordano Bruno e Pier Paolo Pasolini, mi viene in mente la prima condanna politica che Pasolini subì nel 1949 con l’espulsione dal partito comunista per indegnità morale: «Cogliamo l’occasione dei fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini di Casarsa — scrive il 26 ottobre la Federazione del PCI di Pordenone — per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche di personaggi come Gide, Sartre e poeti e letterati altrettanto decadenti, che pretendono di essere progressisti ma raccolgono in verità gli aspetti più deleteri della degenerazione borghese.»
Pasolini con Laura Betti e Alberto Moravia.
Certo, al di là delle conseguenze di questo provvedimento disciplinare, estremamente duro per Pasolini, costretto dall’oggi al domani a esiliarsi dal Friuli a Roma con sua madre, può essere utile inquadrare un atto simile nella mentalità assai stretta dell’epoca, fortemente condizionata, anche per i comunisti, dalla chiesa cattolica di Pio XII, un papa notoriamente reazionario: «…l’esperienza personale e politica di una irriducibile differenza produce un legame esplosivo in cui l’omosessualità, imbattendosi nella politica, la fa esplodere nel suo incosciente. Una sorta di ambivalenza iniziale e violenta. All’epoca, giovane dirigente della sezione comunista di Casarsa, in lotta per i contadini del Friuli, Pasolini ne fu cacciato per “indegnità morale” alla fine di un doppio processo: quello del tribunale e quello del suo partito. In questo periodo di guerra fredda, caratterizzato da uno stalinismo rigidamente moralista che se la prendeva con la “decadenza”, la “differenza” era considerata, come scriverà l’Unità, “una deviazione ideologica”. D’altronde l’esigenza di un radicamento “di massa” del PCI nella società civile e nella cultura non gli consentiva di andare “due passi avanti” rispetto alle masse e alla mentalità della maggioranza in fatto di moralità.» Christine Buci-Glucksmann, « Pasolini, Gramsci, lettura di una marginalità » in « Pasolini, Seminario » diretto da Maria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.
Pasolini con Moravia da Rosati a piazza del Popolo.
Nonostante questa brusca condanna, cinica e vergognosa secondo la sensibilità di oggi, quest’uomo, meno tormentato che orgoglioso della sua diversità, non smise mai di considerarsi comunista e fu dunque in nome della sua formazione marxista e della sua fede nel partito di Togliatti e Gramsci che egli ne fu un critico sempre costruttivo e un importante alleato. Ma è stata molto più penosa e mortificante la lotta di resistenza di Pasolini contro la persecuzione cieca dello stato, e dell’amministrazione giudiziaria in particolare: un ciclo continuo di processi e di attacchi sulla stampa che è durato fino al giorno del suo assassinio. Anche in questo angoscioso terreno la sua lotta, lucida e coraggiosa, è sempre sfociata in atti pubblici dove l’uomo Pasolini, anche nel pieno della più profonda mortificazione, non rinunciava ad esprimersi appieno come poeta civile: «…sin dalle origini, poi sempre, Pasolini è stato quello che un tempo si chiamava un poeta civile. Poeta perché poeta e giustamente civile per la sua volontà costante di intervenire sulle cose e modificarle, fatto senza dubbio legato alla sua emarginazione iniziale, al suo stato originale, di nascita, al suo bisogno di stare in mezzo agli altri, di essere amato. Ma, naturalmente, il suo impulso fondamentale era quello di influire sugli altri, di orientarli in una certa direzione, di illuminarli e istruirli; Certo, di istruirli, perché non dobbiamo dimenticare che Pasolini era stato professore e, per lui, il lato didattico è molto importante. […] La grande originalità di Pasolini è stata proprio quella di essere un poeta civile di sinistra che non si riallacciava alla retorica dell’umanesimo, ma alla moderna poesia decadente europea…. C’era in lui la rivolta de l’uomo ai margini… e la sensibilità del mondo moderno.» Alberto Moravia, “Pasolini poeta civile », in « Pasolini, Seminario » diretto da Maria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.
Pasolini calciatore.
Di quest’uomo gentile e buono si dirà ancora per molto tempo che era “strano” e che la sua dichiarata omosessualità, vissuta peraltro come una malattia e una insanabile mancanza, si traduceva in una visione del tutto personale, distorta e scandalosa della realtà. In verità, attraverso “l’altra realtà” che viene dal mondo talvolta atrocemente “reale” della periferia romana, poeticamente trasfigurata in una fiabesca metafora o in una dolorosa parabola, Pasolini ci offre una chiave per guardare in faccia la realtà che ci è propria, ci invita ad interrogarci sul senso ultimo e profondo della nostra esistenza. «Pasolini amava molto Rimbaud e, poi, ha visto in Rimbaud il poeta civile, ma di sinistra, a cui poteva rassomigliare …Rimbaud… oltre ad essere il poeta che fu, è stato il poeta della Comune di Parigi… un poeta in rivolta nella tradizione quasi del tutto criminale di Villon. Ed è proprio dalla strana simbiosi di un friulano e di un francese del nord, tutti e due ragazzi, che è nata la poesia civile di Pasolini, così originale e talmente attuale, che però, bisogna dirlo, stranamente si riallaccia al nostro più grande poeta dell’Ottocento, a Leopardi…» Alberto Moravia, “Pasolini poeta civile” in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.
Pasolini e Totò sul set di « Uccellacci e uccellini »
Nessuno può dimenticare i suoi film e la forza evocativa del suo modo di sognare ad occhi aperti, lo sguardo di uccellaccio e di uccellino con cui Pasolini sapeva cogliere la vita delle cose e strapparla alla morte. Nessuno dimenticherà il suo grido di ragazzaccio irriverente ma a ben guardare affettuoso nei confronti dei tanti mondi che si barricavano nel loro imbarazzato silenzio pur di non ammettere le sue ragioni, pur di non ammettere che Pasolini aveva ragione. Lasciato fuori da tutte quelle porte, Pasolini non è però restato solo: da una parte, rinnegando le sue origini borghesi, egli si formò una vera e propria “famiglia” nl contesto delle “borgate” romane dove trovò anche la sua fondamentale fonte di ispirazione (tra gli altri con Sergio Citti [1933-2005], Franco Citti [1935-2016] e Ninetto Davoli [1948]); dall’altra, manteneva legami regolari, spesso molto amichevoli, con scrittori, poeti, registi, attori, giornalisti e critici letterari (come Alberto Moravia [1907-1990], Attilio Bertolucci [1911-2000], Elsa Morante [1912-1985], Gianfranco Contini [1912-1990], Maria Antonietta Macciocchi [1922-2007], Francesco Rosi [1922-2015], Maria Callas [1923-1977], Paolo Volponi [1924-1994], Anna Magnani (1908-1973) Laura Betti [1927-2004], Enzo Siciliano [1934-2006], Dacia Maraini [1936], etc.). Tutto questo volume di gioco si tradusse per Pasolini in una “doppia vita” costellata di combattimenti interiori e di strappi dolorosi: «Lo so bene […] come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio.» Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Saggi sulla politica e la società, Mondadori, Milano 1999, p. 320.
Pier Paolo Pasolini, Autoportrait.
Dalla sua frequentazione dei mondi poveri, anzi miserabili ed emarginati della campagna friulana dell’immediato dopoguerra, poi delle “borgate” sottoproletarie romane, Pasolini ha tratto la sua visione primordiale, creativa e liberatrice, di un mondo epurato dove si poteva assaporare la vera “essenza” delle cose, mentre i centri intellettuali e borghesi — luogo ideale per le sue battaglie politiche e uscite pubbliche aventi nel PCI alternativamente un motore positivo o un bersaglio privilegiato — gli offrivano soprattutto uno spazio di riflessione e di razionalità. Queste due vite erano ambedue indispensabili per alimentare in Pasolini quella sua forza compulsiva in cui la ricerca continua e intrecciata del giusto e del bello approdava sempre, alla fine, a quella “bellezza della verità” (o “verità della bellezza”) che soltanto il genio è in grado di raggiungere. Come si può apprezzare nella seguente riflessione di Antonino Sorci sul tema della doppia vita di Pasolini e di Nietzsche: «Da Socrate a Walter Benjamin passando per Rosa Luxemburg, molti pensatori hanno pagato con la loro vita la scelta di non rinunciare alla propria libertà d’espressione, di fronte a un sistema che imponeva una visione del mondo unilaterale e totalizzante. Ma se si volesse ricercare, in mezzo a questi martiri, qualcuno che ha sacrificato non una ma due vite alla causa della conoscenza, non potrebbe evitare di citare i nomi di Friedrich Nietzsche e di Pier Paolo Pasolini. Questi due autori hanno concepito, più di altri, la contraddizione come un’arma per fare scandalo, per sovvertire i luoghi comuni, allo scopo di ritrovare un’autenticità nel loro modo di vivere. Il sacrificio di questi due pensatori assume un valore particolare, essendo l’espressione più efficace di una volontà di potenza che trova nella propria negazione la manifestazione della propria libertà.» Antonino Sorci, “Posture del pensatore inattuale alla ricerca dell’autenticità: l’esempio della doppia vita di Pasolini e di Nietzsche”, Università de la Sorbonne Nouvelle Paris 3
Pasolini e Laura Betti.
Ben prima dei “ragazzi di vita” e delle proficue amicizie intellettuali, vennero in soccorso di Pasolini Arthur Rimbaud e Antonio Gramsci e, dietro di loro, tutti coloro che non capivano tanta sordità, miopia, mancanza di fiuto, di gusto e di tatto nei Palazzi che si stavano sgretolando da soli davanti al suo sdegno meravigliato. Uno sdegno sì provocatorio, ma difficilmente riconducibile a una boutade, a un semplice gesto anticonformista o decadente Dedicherò uno dei prossimi articoli al rapporto ideale, assai fecondo e ravvicinato, tra Pasolini e la figura del grande capo comunista e pensatore che fu Antonio Gramsci. Quanto a Rimbaud — la cui “rêverie” agisce come una miccia esplosiva sul giovane Pasolini, facendo scattare in lui la ferma determinazione di divenire “poeta-vate” — «egli è stato il poeta della rivolta solo nella sua opera» scrive Albert Camus ne “L’Homme révolté” : «La grandezza di Rimbaud… esplode nell’istante in cui, fornendo alla rivolta il linguaggio più stranamente appropriato che essa abbia mai avuto, egli comunica nello stesso tempo: il suo trionfo e la sua angoscia; la vita assente rispetto al mondo e l’inevitabilità del mondo; il grido alla ricerca dell’impossibile e la vita ruvida nella stretta; il rifiuto della morale e la nostalgia irresistibile del dovere. [Questo avviene proprio]nel moment in cui, portando dentro di sé l’illuminazione e l’inferno, insultando e salutando la bellezza, [Rimbaud] fa d’una contraddizione irriducibile un canto doppio e alternato, egli è il poeta della rivolta, il più grande. […] Ma egli non è l’uomo-dio, l’esempio feroce, il monaco della poesia che hanno voluto presentarci… […] La sua vita, lungi dal legittimare il mito che ha suscitato, illustra soltanto… l’accettazione del peggior nichilismo che possa esistere. Rimbaud è stato deificato per aver rinunciato al proprio genio, come se questa rinuncia presupponesse una virtù sovrumana. Anche se ciò toglierà valore agli alibi dei nostri contemporanei, bisogna dire, invece, che soltanto il genio presuppone una virtù, mentre nella rinuncia al genio… [non c’è alcun merito].» Albert Camus, Surrealismo e Rivoluzione, ne L’Homme révolté, Quarto Gallimard 2013
Pasolini con Franco Citti e Anna Magnani.
Le parole di Camus a proposito del coraggio che ci si deve attendere dal genio, in questo caso il genio di Rimbaud, possono rappresentare efficacemente, opportunamente rivoltate, la concezione della poesia e dell’arte di Pasolini che per lui è, sempre, azione politica e culturale totale. Pur avendo manifestato, nell’impegno civile e politico, la coerenza e il coraggio che non ebbe il suo “amico” Rimbaud, Pasolini, in perfetta sintonia con Gramsci, non anelava ad essere un leader né un capo. Per questo decise di esprimersi artisticamente, poeticamente sul tema difficile e doloroso della nostra sfortunata e a volte meravigliosa realtà italiana. Quest’uomo che avrebbe potuto evadere da se stesso rifiutando le regole, quelle regole tenacemente le ricercava e non esitava a scontrarcisi. Francesco Rosi ha detto che Pasolini era un “uomo contro”. Furio Colombo ha detto che era un protagonista. Alberto Moravia, citando Rimbaud, ha detto che Pasolini era un poeta civile di sinistra. Camus avrebbe detto, se non fosse anche lui scomparso prematuramente, che Pasolini era un uomo in perenne rivolta la cui coerenza nell’impegno politico e culturale era molto più solida e affidabile di quella del più grande dei poeti maledetti.
«È un fatto che [Pasolini] viveva l’omosessualità come una malattia che lo separava dal mondo. Ma è anche un fatto ch’egli riuscì a trasformare questo sentimento della separazione e della differenza in una forza non soltanto morale, ma anche di conoscenza. […] Il fatto di essere o piuttosto di sentirsi separato alimentò nella sua immaginazione delle strategie obiettivanti, fece in modo che si decantassero dagli appesantimenti metaforici e intellettuali, per liberarsi di ossessioni soggettive; ma questa liberazione, in lui, fu dialettica. Pasolini non negò mai la radice individuale della sua scrittura, ma egli la colloca sempre all’interno di un contesto storico, all’interno di un giudizio complesso e articolato sulle vicende politiche e culturali della società italiana.» Enzo Siciliano, Pasolini non riconciliato in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.
Pier Paolo Pasolini.
Tra qualche mese, il 5 marzo 2022, per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini si svolgeranno, dappertutto in Europa, iniziative politico-culturali in cui la sua opera sarà certamente riletta alla luce dei 47 anni allora trascorsi dalla sua morte e di un cambiamento così profondo della società e degli uomini all’epoca della globalizzazione, che forse nemmeno Pasolini avrebbe potuto immaginare. Per tutti sarà evidente la contraddizione, ancora più dolorosa oggi; tra la forza espressiva e morale dei film di Pasolini, per esempio, forza che nasceva dalla povertà dei mezzi tecnici compensata dalla poesia e dall’ingegno e la banalità di gran parte di quello che si produce, spesso con dispendio di mezzi e di energie. Pasolini viveva nel rimpianto di un “paradiso perduto” di cui, nelle rare gioie dell’infanzia e dell’adolescenza aveva percepito la “bellezza tangibile” della vita, ora tutti noi rimpiangiamo il paradiso perduto che era Pasolini. «La confessione. Se si dovesse ricostituire i significati complessi che l’atto di confessarsi ha renduto espliciti nella tradizione cattolica, si dovrebbero evocare e immaginare le più atroci sofferenze dell’io. Nella confessione, è l’io coperto di piaghe, diviso, inginocchiato, cioè raccolto il più possibile su se stesso il più vicino possibile alla terra (e alla madre) che tenta, attraverso la prova atroce della verbalizzazione, di vincere la schizofrenia e di rimettere insieme le proprie membra sparse. C’è volontà di guarigione: perché il peccato è una malattia – una malattia molto particolare che si cura dichiarandola. Ebbene, perché non supporre nell’ansia di auto-svelamento che contrassegna tutta la produzione pasoliniana, in questa confessione reiterata, un’urgenza autentica, nient’affatto ambigua, di “salute”, di guarigione, di liberazione dalla malattia?» Enzo Siciliano, Pasolini non riconciliato in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.
Tullio Pericoli, Ritratto di Pier Paolo Pasolini (1990)
Insieme a molte altre possibili similitudini e coincidenze, questo aspetto della “confessione” apparenta Pasolini a un altro pensatore solitario, Jean-Jacques Rousseau, mentre per altri aspetti — come l’indipendenza del giudizio e il bisogno assoluto della verità, nonostante il vivo attaccamento ideale e morale al destino della sinistra in generale e del Partito comunista in particolare — Pasolini mostra delle impressionanti affinità con Albert Camus… Un confronto tra questi tre “geni in rivolta” sarà svolto in uno dei prossimi articoli. Intanto, a modo mio, parlerò anch’io di Pasolini: non per celebrarlo ma per capirlo. Nella consapevolezza che per parlare di Pasolini bisogna saperlo ascoltare, evitando di discostarsi troppo dal suo modo (metaforico, paradossale, esoterico e solenne) di introdurre temi e problemi. Quelle di Pasolini non sono mai fino in fondo delle storie: i luoghi e i personaggi interpretano quasi sempre una parte che non sembra essere la loro, provocando nello spettatore una serie di reazioni immediate che troveranno una composizione e una spiegazione solo alla fine del film del libro o della poesia. O anche ore e giorni dopo. Lo stesso avviene per gli scritti politici di Pasolini, corsari o luterani che siano: nonostante la forza dirompente e a volte esplosiva di ogni singolo passaggio, solo alla fine, chiudendo gli occhi, cominciamo a capire e a trattenere il senso del suo messaggio. Ora, oggi, le cose sono cambiate in maniera impressionante. Ma quello che conta, per salvarci, è l’essenza arcaica e addirittura preistorica dell’uomo: per questo Pasolini, come del resto tutti i grandi che sanno guardare oltre, è ancora presente tra noi. Non come un essere mitico o un padre, ma un fratello strano che pur avendo sempre ragione non ti fa sentire una nullità. Pasolini è particolarmente importante per la nostra generazione, per noi giovani o adulti comunisti che abbiamo vissuto dall’interno le dinamiche della grande trasformazione da Togliatti a Berlinguer e poi la lenta e inesorabile involuzione fino all’implosione finale: Pasolini, con il pungolo della sua voce inconfondibile e delle sue immagini forti, anche quando ci lanciava critiche feroci e spietate, ci è stato vicino molto di più di quanto lo siano stati i gruppettari più o meno estremi o compromessi con il “sistema”. Nell’Italietta “americanizzata” e disgraziata che non rispetta nessuno e non concepisce l’idea di un’opera complessa e polifonica, continuamente messa in discussione (come avrebbe voluto Trotski nella sua “rivoluzione permanente”?) perché via via arricchita dai contributi e dalle invenzioni, Pasolini ha saputo imporsi come protagonista, rivolgendosi singolarmente e personalmente ad ognuno dei suoi lettori o spettatori, un po’ come Garibaldi. Ciò che ci trasmette Pasolini, in particolare riguardo alla verità storica del suo tempo – molto importante e cruciale per la vita, parallela, della mia generazione – cattura sempre la mia attenzione con una violenza, certo disarmata, che mi costringe però a riflettere attentamente prima di proporre le mie sensazioni ed esperienze riguardo ai fatti, da me vissuti direttamente o indirettamente, che hanno spinto Pasolini a ricercarne la “vera” causa. D’altra parte, nella mia analisi delle “verità” di Pasolini non mi limiterò a ricordare quello che so oppure ho vissuto personalmente del suo/nostro tempo, ma farò riferimento anche a quello che è successo poi, in Italia e in Europa, fino ad oggi. Le verità di Pasolini sono ancora attuali e drammaticamente positive, non solo per noi, giovani comunisti squinternati di allora, sopravvissuti al 68, all’euforia delle Regioni rosse e infine alla tragedia delle strgi e degli anni di piombo. Resta il fatto che analizzare i grovigli, anche i più conosciuti, del pensiero politico di Pasolini non è affatto facile, non tanto in relazione alla vastità e ricchezza della sua opera multiforme, quanto piuttosto per la densità e la forza di ognuna delle sue immagini, di ognuno dei suoi versi, che trascinano di volta in volta sulla scena o nella mischia una nuova luce, una nuova voce, una nuova verità. Cercherò di farlo, nel modo più sintetico possibile, frugando tra gli scritti politici di Pasolini e ripercorrendo le sequenze di alcuni suoi film emblematici, già sapendo che dai suoi messaggi emergeranno assai raramente atteggiamenti dogmatici riconducibili a formule semplificate o a parole d’odine. Sarà comunque molto difficile se non impossibile “rispondere” a Pasolini o dialogare con lui su un piano di assoluta parità. Mi saranno allora di grande aiuto la complessità del suo linguaggio spezzato e quella indispensabile “presa di distanza” raccomandata con argomenti irrefutabili dal filosofo francese Jacques Derrida (1930-2004) : «…il miglior modo di essere fedeli a un’eredità, è quello di esserle infedeli. Nessuno deve ripetere come un pappagallo l’insegnamento del maestro. Bisogna sempre “smontare” ciò che si eredita per poter reinventare un pensiero che tenga conto del passato per meglio comprendere il futuro.» Élisabeth Roudinesco, “La déconstruction contre la tyrannie du dogme” sur “Le Monde” 19 mai 2021.
Giovanni Merloni, 24 giugno 2021
Testo originale IN FRANCESE










