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“Mémoires di vite complici e confuse” di Loris Maria Marchetti

26 jeudi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Loris Maria Marchetti

*

c’erano tutti sotto il sole bruciante

in attesa che la banda attaccasse

(in fondo allo spiazzo s’ergeva un muro

già in uso per le fucilazioni),

…….

e le parole svanirono e la musica forse

non ebbe inizio ma non avvennero fucilazioni

perché la guerra era finita da decenni

e ora tutti volevano vivere nella luce

I, VIII, pag. 14

Con la loro poesia-prosa densa e scorrevole, le “Mémoires di vite complici e confuse” di Loris Maria Marchetti (puntoacapo Editrice, 2024) sono una rara e speciale compagnia, una persona-vaso di Pandora (e anche vaso di preziosa porcellana dipinta) che nel raccontarsi suscita un sincero interesse sulla propria visione ed esperienza del mondo: un testo serio e profondo che sa essere anche molto divertente.

…e il perdersi non è perdersi e l’errare

stupiti ma non timorosi non è errare

fra incubi e spettri ma un trepido (quasi lieto)

tendere (un po’ purgatoriale) alla casa

del padre (Padre?)

I, VI, pag. 12

Vivendo stabilmente a Parigi, mi è venuto naturale, per prima cosa, correre alla Senna con le “Mémoires” sotto braccio, per un gemellaggio ideale tra questo fiume transalpino e il Po di Torino, e ho potuto constatare che le storie-punta (o coda) dell’iceberg raccontate da Loris Maria Marchetti vi scorrono senza troppe scosse, talvolta cercando di passare inosservate, talaltra facendo significative impennate. Questo è il mio sentimento generale.

la tempesta di vento era furiosa

e i mulinelli di polvere e foglie

ci travolgevano in plaza de Cataluña

e in plaza de España e ovunque cercassimo

rifugio — e mentre tentavo di coprirla

con il mio parka, Elena andava ripetendo

«tu non hai paura di niente,

mai nulla riesce a spaventarti»

Parerga, VI, pag.132

Poi, accomodandomi, con il libro in mano, sul parapetto del pont Mirabeau, immortalato da Apollinaire, così prossimo al “point du jour” di Parigi (là dove appaiono i primi bagliori dell’alba), mi sono messo a pensare, tentando di capire quale fosse il miglior criterio di lettura da adottare. Anche sfogliando le pagine a caso e contentadosi di dare una scorsa (come quando si è ammessi in un solenne museo o palazzo oppure invitati in una casa che trasuda vita e storia), ci si accorge subito della presenza significativa delle figure carismatiche e gentili del padre e della madre del poeta, presenti in delicati e struggenti ritratti o soltanto in effimeri passaggi, accompagnati dal sentimento di rammarico per la loro brevità:

dopo un cambio di treno, fra laghi incastonati

in oleografiche vallate, lasciandosi alle spalle

una Venezia merlettata e frammentaria dove mia madre

mi aveva salutato incamminandosi sull’acqua.

……

I, XIII, pag. 19

Raggruppare allora i ricordi-sogni della madre, quelli del padre, quelli delle storie surreali, quelli delle storie divertenti, e così via? No, ho chiesto consiglio ai poeti invisibili che vengono ogni mattina ad ispirarsi su questo ponte: niente raggruppamenti. Con una tale schematizzazione si rischia di fraintendere lo spirito autentico del retro-pensare o retro-sognare di Loris Maria Marchetti, il cui vero scopo è, invece, soprattutto quello di “fermare il bel momento” per rivendicarne l’irripetibilità e il distacco. Senza mai stracciarsi le vesti, senza mai (troppo) soccombere alla malinconia.

«Ma i malanni oramai sono passati, il cuore

si è rimesso» replicava impaziente

ovunque rovistando, spostando, ricercando,

sistemando i suoi oggetti con foga

come a riprendere possesso della vita

che era stata sul punto di lasciarla

II, XXIII, pag. 74

Tutto si inscrive nell’imperturbabile e inesorabile flusso della vita, come in un grande fiume. I singoli oggetti, i singoli relitti della memoria e del sogno — che io ritrovo qui, in un luogo lontano e separato ma caro al poeta e amico Marchetti — galleggiano o nuotano invisibili nell’acqua lambita dai primi bagliori del giorno. Essi si fonderanno poi, inseparabili, nel flusso del viaggio, diventando una beata sirena scaldata e poi scottata dal sole, o una tranquilla “péniche”, che, allontanandosi dalle anse di Parigi, continuerà a scivolare verso il mare delle “falaises”. Oppure, questo flusso di poesia pensierosa e sognante, con tutti i suoi grumi di inconsapevole gioia o strisciante dolore, viaggerà-navigherà controcorrente, avviandosi gloriosamente verso il sole di Notre Dame e dell’île Saint-Louis. Lì ci saranno altre copie delle « Mémoires di vite complici e confuse » in bella mostra negli scaffali dei bouquinistes, mentre delle sorridenti fanciulle bionde leggeranno ai passanti delle poesie a caso. Anzi, ciò sarà fatto a ragion veduta: una di loro attirerà l’attenzione dei presenti, cercando poi di convincerli, con il tipico atteggiamento “tranchant” dei francesi, che tutto è retto da un primordiale “égarement”. Secondo loro non ci sono possibili alternative: lo “spaesamento” fa da sottofondo a tutta l’opera di Marchetti, e a questo bellissimo brano in particolare:

in piazza Vittorio Veneto alla fermata del 56

incontrai Lucia in attesa del bus diretto in centro.

«E allora?» le chiesi. «Beh, mi metto al lavoro»

rispose col suo ironico sorriso siciliano.

Poi mi affrettai a guadagnare i portici verso via Plana

attraversando la piazza invasa dall’acqua

del Po straripato, che ormai arrivava ai ginocchi

Parerga XI, pag. 137

Senza rinunciare al mio indefettibile attaccamento alla letteratura francese mi aggrappo però, d’accordo con Marchetti, a due grandi maestri dell’“understatement” come Jacques Prévert e Raymond Queneau, e resisto all’ipotesi troppo sbrigativa, suggeritami all’ombra di Notre Dame. Perché, per entrare e accomodarsi nel testo di Marchetti come in un confortevole “abri” bisogna capirne la struttura. Al di là della evidente citazione dei tre canti della Divina Commedia di Dante — che serve a tracciare una parabola in cui Inferno, Purgatorio e Paradiso corrispondono a tre fasi della vita personale e poetica dell’Autore (ma anche, probabilmente, a tre diverse angolazioni visuali sulla commedia umana oramai vissuta e vista vivere in altre esistenze complici e confuse) —, queste “Mémoires” di Loris Maria Marchetti poggiano su due veri e propri “pilastri” formali e tematici, distaccandosi così dalle sue precedenti composizioni poetiche o in prosa. 

Il ritmo e il sogno

Il primo pilastro è il ritmo, il tempo musicale e psicologico a cui il lettore deve potersi adeguare spontaneamente, se vuole leggere-ascoltare-capire-assaporare pienamente questo testo e trarne poi insegnamenti ed emozioni. Il ritmo con cui Marchetti restituisce narrativamente e poeticamente il disordinato e schizofrenico flusso della vita (con dentro l’eterno agguato della morte) si potrebbe, allora, identificare con il ritmo impresso da una voce particolarmente intonata (la sua stessa voce) che, dopo aver ricondotto lo sguaiato “can can” della vita a materia musicale omogenea, riesce poi a restituircene un’interpretazione armonica e allo stesso tempo unica, inconfondibile. Nel conferire, dunque, alla sua caratteristica voce di narratore-jongleur un timbro confidenziale e sempre ironico, Marchetti riesce a trasformare la raccolta e il collage di frammenti e momenti di diversa tonalità gravità e spessore in un’opera perfettamente e direi musicalmente compiuta.

la famigliola riunita

guardava la televisione

in perfetto silenzio stando a letto

(a sinistra la madre, come sempre,

a destra il padre, in mezzo il figlio ormai

maturo). A un certo punto compariva

in bianco e nero sullo schermo un complessino

che prendeva a suonare Quando calienta el sol:

in breve il figlio non riusciva più a trattenere

le lacrime e fra singhiozzi farfugliava

(non è ben chiaro se a sé stesso oppure ai suoi

che non battevano ciglio imperturbabili)

«trent’anni, trent’anni, lo capite?

sono passati trent’anni, sono passati trent’anni…»

III, XXIV, pag. 112

È a tutti noto che Marchetti ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la musica, classica soprattutto. Ma egli apprezza anche le belle canzoni. Riandando agli anni ’60, mi parlava per esempio di Sergio Endrigo, di Bruno Martino (autore della famosa “Odio l’estate”), di Franco Battiato, Paolo Conte, eccetera. Anche perché riconosce alla canzone d’autore un indiscutibile valore culturale, sociale e a volte anche politico: la stessa funzione aggregante — spesso più di contestazione che non di identificazione con miti e valori stantii —, che avevano i brani d’opera di Rossini, Donizetti, Verdi e Puccini nell’Italia risorgimentale e post-unitaria. La “simpatia” che, dopo le prime due o tre letture, provocano vigorosamente i versi di queste “Mémoires di vite complici e confuse”, aumenta nelle letture successive perché, mentre qualche frase comincia ad entrare nella nostra memoria, agiamo nei confronti del libro né più né meno come se si trattasse di un disco a noi particolarmente caro. (Ciò mi fa riflettere ai comportamenti che ci vengono imposti oggi, così lontani da quella facilità “fisica” nel contatto-appropriazione, sia pur parzialissimo, con la “musica del cuore”. Lo stesso “riflesso condizionato” dell’immergersi nella musica delle canzoni non è più lo stesso, nella grave mutazione e involuzione culturale in atto, aggravata dai sistemi e metodi della diffusione del prodotto musicale e dell’organizzazione dell’ascolto quasi completamente sottratte alle iniziative indipendenti.) Mentre il libro di Marchetti è là. Non servono fili né ricariche. Lo si può leggere a voce alta o solo con la voce della mente: esso ci darà ogni volta una nuova emozione, come un vero quadro che, quando è frutto di vita e di sincerità, ha sempre qualcosa di nuovo da dire e da dare.

*

ieri mio padre mi cercò, mi chiese

se avevo un’ora per andare con lui

una domenica al ristorante. Gli dissi

alle undici e mezzo di domenica

prossima e si mise a ridere perché sa

che di solito pranzo molto tardi.

Voleva stare, credo, un poco insieme a me

perché a tavola c’è sempre troppa gente in quella

villa e non si riesce mai ad avere un attimo di pace

I, II, pag. 8       

Il secondo pilastro è il sogno che, evidentemente, non è solo un accorgimento, un modo per riacciuffare la realtà vissuta o “fantasmée”, ma anche, soprattutto, in questo libro, la principale sostanza, più o meno trasfigurata, della narrazione. D’altra parte, il sogno non è evasione né gioco di parole volto a inseguire un viaggio insensato e favoloso, ma soprattutto filtro di una verità che è esistita e cerca di riprendere corpo e vita. Il sogno, dunque, è propizio al ricordo, che ritorna inevitabilmente travisato e relativizzato dalla natura frammentaria e dispettosa del sogno stesso. Nelle “Mémoires” di Marchetti l’io sognante si affida fiduciosamente al sogno (come in una seduta spiritica non troppo paurosa), perché solo così può instaurarsi un rapporto confidenziale con i morti (che appaiono in sogno come strani vivi o come vivi a metà) e con la morte stessa. Con il filtro del sogno la morte può addirittura diventare una festa:

sul vasto piano della massiccia

credenza Rinascimento fiorentino

lucida nera in sala da pranzo

posavano panini pizzette salatini

vol-au-vents. Li aveva procurati

Benedetta, dicevano,

ed era severamente proibito

allungare le mani anzitempo

II, XII, pag. 63

Il ritmo poetico si avvale dunque del sogno e viceversa: essi fanno un tutt’uno che diventa, quando il lettore è pronto a saltare su quel treno, un flusso omogeneo che equivale al racconto di un’intera vita e dunque all’affidamento benevolo (anche se sempre circostanziato e prudente) di tale vita ai lettori contemporanei e a quelli che verranno.

entrato di gran furia dal carraio

feci due giri del cortile, velocissimo,

quando, alzati gli occhi al terrazzo,

senza staccare le mani dal manubrio

vidi mia madre intenta a stendere

della biancheria. Come sempre provai

un forte brivido in quella circostanza

per la sua abitudine a sporgersi oltre

misura. E quella volta l’irreparabile trionfò:

perduto l’equilibrio, precipitò in cortile

avvolta nel lenzuolo che stendeva.

Ricordo solo il grido atroce e lacerante

che mi uscì dalla gola e l’impotenza

a scendere di sella e ad accostarmi

all’immoto viluppo silenzioso

III,VIII, pag. 95

Nel sogno di Marchetti, il ricordo è metabolizzato, smembrato e ricomposto in qualcosa che ci coinvolge, pur restando separato, al di fuori e al di là di una parete invisibile, che non è la membrana dell’occhio o del vetro, ma la percezione fisica, sottile e spaventosa, della separazione inesorabile che avviene, nella vita di ognuno, nel passaggio dell’addio, della partenza e della morte.

«sì» disse (in una stanza colore del vuoto e del dolore,

alla presenza di persone mute come fantasmi

diafani inconsistenti, ma forse non c’era

nessuno oltre me a raccogliere la voce)

«approfittàtene» (non disse così testualmente

ma il senso era questo) «sono io e sono tornato,

ma è per l’ultima volta e quando me ne andrò sarà

per sempre». Non disse nulla della sua nuova residenza,

ma l’aspetto lo sguardo la voce erano molto tristi: per via

della sua attuale condizione o per l’angoscia

di vederci e parlarci proprio per l’ultima volta?

Non lo sapemmo né allora né dopo

perché, fino ad oggi, ha mantenuto la parola

I, XVII, pag. 24

In molte delle poesie di questa raccolta il poeta Marchetti sembra viaggiare anche lui, come Giorgio Bassani, in una “Rolls Royce” che ripercorre la città (in questo caso Torino e non Ferrara) e rasenta i volti e le voci che furono vive nel presente della vera vita oramai lontana e perduta. Tutto ciò è vissuto come in uno stato di malattia e di consapevole diversità: la diversità di chi si trova già al di là della sottilissima membrana che protegge gli occhi, le orecchie, le mani e la stessa pelle come un “vestito” invisibile, che ci portiamo addosso e finisce per fondersi, nel corso del nostro invecchiare (senza mai diventare adulti), con il vestito di stoffa sgualcita della nostra “nonchalance” nonché della nostra “insouciance”, protettrice dei misteri più segreti.

mia madre mi telefonava

per avvertirmi che bisognava

sistemare le armi — ripulirle, riporle

o che so io. Di lì a poco salivo da lei

al quinto piano e trovavo le armi

in gran disordine, ogni tipo

di arma, antica e nuova,

in prevalenza pistole e rivoltelle,

ma non trovavo mia madre,

forse uscita nel mentre — sempre che

non avesse chiamato da altro luogo

Parerga, IV, pag. 130

Trovata questa chiave di lettura e scoperto che in questo libro essa è quasi una costante (ogni cosa avvenuta è perduta, anzi si allontana e si perde nell’attimo stesso il cui il poeta si sforza di ricordarla), il lettore si accorge che non è necessario, anzi, forse, sarebbe fuorviante, per esempio, dare eccessiva importanza alla chiave cronologica, nella lettura di questi frammenti (così densi, compiuti e “soli nella mente”).

già in automobile, mia dolcissima Elizabeth

(tu guidavi, io sedevo alla tua destra,

dietro di te c’era Vittorio ed al suo fianco

quel simpatico ragazzo americano),

ero sicuro che tu eri quella giusta

e che ti avrei adorato per la vita

Parerga, IX, pag. 135

La memoria del sogno è sì, molto spesso, il frutto o l’eco di avvenimenti più o meno traumatici o sconvolgenti, che “ritornano” in modo tanto perentorio quanto illusorio. Succede poi, a volte, che situazioni e personaggi “canonici” del nostro passato lontano (o lontanissimo) tornino insieme ad altri personaggi, del tutto estranei, affioranti di straforo, come altrettanti “imbucati”, da un passato vicino e più squisitamente “nostro”.

mia madre e sua sorella Matilde

parlavano della sorella minore defunta,

quel pomeriggio al ristorante, in tono

molto affettuoso ma anche assai oggettivo

(io mi chiedevo se avesse ancora un senso,

a conti fatti, quell’oggettività, considerando

l’infelice esistenza della morta,

ora semmai di fronte a ben più alto tribunale).

In un tavolo accanto, Ray Charles pranzava

con alcuni amici, mentre un registratore

trasmetteva molto forte senza sosta

brani del suo repertorio (morivo

dalla voglia di sapere quali cose

stesse ascoltando lui, nella sua cuffia)

III, XX, pag. 108

In ogni caso, per il lettore, ogni “evento” evocato è, inevitabilmente, fuori dal tempo, essendosi tra l’altro l’autore imposto di inscrivere i vari blocchi narrativi in modo “décalé” rispetto alle epoche della sua vita, che dunque raramente e solo in parte si possono legare a eventuali fatti precisi, se non agli accadimenti “esterni” nella Torino, Italia, Europa e mondo degli anni via via toccati:

in un clima festante (carnevale?

San Giovanni? uno scudetto del Torino?)

il piccolo corteo si snodava

lungo corso Regina Margherita

sui binari del tram verso il ponte sul Po,

entrambi i genitori, una sorella

della madre, il figlio (che chiudeva

la fila), tutti suonando, cantando,

ballando o reggendo in mano qualcosa –

all’imbocco del ponte si fermarono,

poi piegarono a destra, non passarono

il fiume, pur continuando a palesare

una perfetta condizione di letizia

III, XXXIII, pag. 123

Da un certo momento della lettura in poi, il lettore più appassionato comincia a provare la gradevole e un po’ inquietante sensazione di sognare la persona sognante e, via via, conoscerla in modo profondo ed esclusivo, come se il poeta Marchetti dedicasse intenzionalmente a lui soltanto, in un bar o in salotto, il racconto spesso minuzioso di “quello che è successo”, la descrizione viva di luoghi, personaggi, gioie inaspettate, traumi e sconvolgimenti che, attraverso il racconto stesso, diventano ricordo e sogno del ricordo. E non importa sapere se e in che misura colui che racconta sia stato attore unico o centrale o soltanto una figura coinvolta, “imbucata” in quello che si svela e poi sfuma.

non era mai successo, in tanti anni

di lavoro in comune e di amichevole

cameratismo, ma un pomeriggio ascoltando

musica del Sud-America (una bachianas

di Villa-Lobos, mica una lambada)

i loro visi si trovarono sempre

più vicini e le labbra finirono

per incontrarsi. Un bacio casto,

a dire il vero, quasi prudente, più affettuoso

che passionale, ma sempre un bacio.

Poi si recarono alla stazione

perché lei doveva partire e lui meditava

seriamente di prendere il treno con lei

III, XXI, pag. 109

Eros e Thanatos

Sta di fatto che rileggendo queste “Mémoires” — “viaggio di ritorno” in cui Dante e Virgilio si scambiano continuamente i ruoli — ci si accorge del peso addirittura schiacciante che hanno in esso le due grandi forze antagoniste che accompagnano, da svegli o da addormentati-sognanti, la nostra vicenda terrena: Eros e Thanatos. Con un paragone calcistico (pensando con Marchetti al Torino e non alla Juventus), potremmo dire che qui, in questo libro, la squadra del Thanatos è sempre all’attacco, anche se spesso “confusamente” e senza grande incisività. Di goal ne ha fatti già tanti, e per la sua indole e natura continua a imperversare, ma a volte sembra contentarsi soltanto di fare paura. D’altra parte, la squadra dell’Eros, tipicamente italiana, è molto ben attrezzata in difesa ed è imbattibile nel contropiede. La revanche amorosa, l’ebbrezza dell’incontro incredibile, paradossale e casuale, fa così da contrappeso sdrammatizzante a situazioni minacciose o ad incontri solenni con gli scomparsi (la madre, il padre, una zia, il padre di un amico, eccetera) e spesso l’incursione salvifica dell’eros è accompagnata da una folgorante comicità:

non era male come ospedale o clinica,

……

e l’evasione, propiziata da Giuliana (senza la quale

nulla avrei potuto), avvenne attraverso una finestra

con il solo pigiama addosso. Mi misi poi alla guida

di una spider e percorremmo tutto corso Raffaello

rispettosamente sulla destra ma correndo

all’indietro a gran velocità…

I,XVIII, pag. 25

C’è poi il filone  autobiografico, accuratamente nascosto tra le righe dei versi, in cui Marchetti — senza mai discostarsi dalla regola della “confusione”, rivendicata nel titolo, grazie alla quale nessuno può dire con assoluta sicurezza che è di lui che si parla, che è lui che parla di sé —, celebra, con la sua, la temeraria-saggia e ubbidiente giovinezza (unica e irripetibile) della sua/nostra generazione, con tutto il connesso travaglio psicologico, sentimentale, morale e (segretamente o palesemente) fisico che non fu esente da incertezze e sofferenze, ma anche da gioie totali e insperate. Dunque anche, inevitabilmente, dai contraccolpi delle separazioni e degli addii:

entrato furioso nel famoso caffè

….

…solo gli riuscì di intravedere

una folta chioma fulva («è lei, è lei!»)

in intimo colloquio con uno sconosciuto.

Non osò avvicinarsi, ma gridando

«è finita, adesso è davvero finita»

imboccava un corridoio interno del locale

percorrendolo tutto in una corsa esaltata

che sembrava non avere mai fine,

davvero non avere mai fine

III,III, pag. 89

Chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscere di persona Loris Maria Marchetti e di ascoltarlo raccontare con rabdomantica efficacia pezzi di vita sua e non sua, come se fossero aneddoti più verosimili che veri, lo ritrova senz’altro in questo stupore esistenziale, fanciullesco ed eterno (in cui ritrovo spesso la mia similare o identica esperienza): «Viviamo e soffriamo, ci troviamo coinvolti in azioni e situazioni a catena, che fummo, chi lo sa? magari noi stessi a determinare. Ma eravamo davvero noi, quelli?»

al Regio cercavo con inquietudine crescente

il mio posto numerato che sembrava non esistere

dissolto nella giungla delle poltrone rosse

tutte uguali, finché, riuscito a conquistare

un posto laterale di proscenio, ancora

in piedi mi misi a leggere il programma

…venendo subito

inquadrato da una telecamera: invano

con energici gesti mi sforzavo a far intendere

all’operatore che non ero io lo speaker

ufficiale da riprendere e da mandare in onda,

ma il regista stesso, materializzatosi d’incanto

non si sa da dove, gridava che non gliene fregava

niente, che andava benissimo chiunque leggesse

il programma ad alta voce (anche uno sconosciuto),

perché il concerto stava ormai iniziando

e non c’era tempo da perdere in quisquilie

II, XIV, pag. 65

Mi era, per finire, venuta un’idea che ho subito abbandonato, perché avrebbe travalicato il mio compito di lettore-osservatore: prendere un solo verso da ogni singolo componimento, e poi costruire con i 100 + 13 totali (di dantesca strutturale memoria, come si è detto), un poemetto fuori sacco, naturalmente diviso in quattro parti, in cui ri-raccontare il più fedelmente possibile lo straordinario poeta e amico Loris Maria Marchetti.

non c’era anima viva nei pressi

di Torino Esposizioni quel pomeriggio

torrido e desolato di primo agosto,

nemmeno un’auto, ad eccezione della sua,

unica in vista, la ruota posteriore

sinistra frantumata dopo l’urto

contro la sola palina esistente

nello spazio di centinaia di metri…

Tuttavia fece in tempo ugualmente

a consegnare a Stefano il manoscritto

del commento a Carducci, che lui

avrebbe letto con calma nel corso

del mese, tanto, quell’estate, non era

certo il caso di parlare di vacanze

II, XVII, pag. 68

Giovanni Merloni

Pasolini, poeta civile in rivolta

16 lundi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Alberto Moravia, Elsa Morante, Enzo Siciliano, Laura Betti, Pier Paolo Pasolini, Totò, Tullio Pericoli

Pier Paolo Pasolini (5.3.1922-2.11.1975), disegno di Claudia Patuzzi

Ripubblico oggi un articolo su Pier Paolo Pasolini che avevo pubblicato su « La faute à Diderot » nel novembre 2021.

Pasolini, poeta civile in rivolta

«…sono come un gatto bruciato vivo,

pestato dal copertone di un autotreno,


impiccato da ragazzi a un fico, 

ma ancora almeno con sei


delle sue sette vite,


come un serpe ridotto a poltiglia di sangue


un’anguilla mezza mangiata 

le guance cave sotto gli occhi abbattuti,


i capelli orrendamente diradati sul cranio


le braccia dimagrite come quelle di un bambino


un gatto che non crepa…

La morte non è
nel non poter comunicare

ma nel non poter più essere compresi.»

Pier Paolo Pasolini da “Poesie in forma di rosa”, 1964

Di Pasolini si continua a commentare la morte, più terribile della più terribile morte di un film americano di cattivo gusto. Una morte a maggior ragione impunita perché “girata” come in un film da gelidi orchestratori di assassinii di stato, di quelli che non si fermano davanti a nessun accorgimento, anche il più perverso, pur di depistare e nascondere la verità. «Non si ammazza un poeta!” ha urlato Elsa Morante nel triste pomeriggio del 5 novembre 1975, a Campo de’ fiori, la stessa piazza romana dove, 375 anni prima, Giordano Bruno fu bruciato vivo per eresia, mentre tutti avevano davanti agli occhi, in mezzo alle lagrime di sgomento e di rabbia, la scena presunta eppure convincente in cui un povero corpo era stato selvaggiamente finito, fingendo così, nello squallido paesaggio notturno dell’Idroscalo di Ostia, una morte “cercata” perché avvenuta in un contesto tipicamente pasoliniano, preso in prestito da uno dei suoi film: il primo, Accattone e l’ultimo, Salò.

«Pasolini fu un comunista eretico, che inseriva in permanenza, in ciò che tradizionalmente è chiamato “politica” (Stato o partiti), delle realtà apparentemente “non politiche: diversità, subcosciente, violenza, vita privata e pratica della scrittura, Una contraddizione ai suoi tempi intollerabile, che fa esplodere la politica, sovvertendone le norme e certe forme de militanza. Tale contraddizione suscita inevitabilmente violenze, processi, condanne, silenzi complici o imbarazzati. Pasolini ne è morto.» Christine Buci-Glucksmann, Pasolini, Gramsci, lettura di una marginalità in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pier Paolo Pasolini.

Se mi recassi oggi, in un giorno di mercato, in quello stesso Campo de’ Fiori, aggirandomi tra i rettangoli di luce o riparandomi all’ombra solenne della statua pensante di Giordano Bruno, troverei forse la chiave di un pensiero, riguardo a Pasolini, che mi porto dietro da tanto tempo. Questa chiave potrebbe essere quella della ineluttabile alternanza della luce e del buio; del bel tempo e della pioggia, del pianto e del riso, dei corsi e ricorsi storici, delle rotazioni e rivoluzioni dei corpi celesti. La stessa altalenante vicenda della nostra penisola è una storia di alti e bassi, di inesorabile alternanza tra fortuna e sfortuna, tra oblio e saggezza. No, decisamente, l’Italia di tutti gli ossimori e di tutte le possibili sfumature non potrà mai essere il paese dell’aurea mediocritas, a dispetto della sua millenaria civiltà fondata su un’idea pacifica e equilibrata dei rapporti umani e sociali. Se potessimo assistere ad una sequenza cinematografica al rallentatore dell’alterno destino del nostro sciagurato fortunato paese, vi troveremmo inscritte, con la loro frenetica intermittenza di luce e di ombra, l’opera e la vita di Pasolini. E capiremmo che anche la sua morte si inscrive nella fase buia della nostra esistenza comune, costituendo l’anticipazione emblematica delle tragedie successive, che furono ancora più gravi. Per questo, all’indomani della morte del poeta, non si sono voluti ascoltare né tantomeno capire i segnali di pericolo che Pasolini aveva lanciato in un crescendo spasmodico e coraggioso. Egli non si rivolgeva ai poteri palesi o occulti (del resto refrattari all’ascolto) che imponevano la rovina al paese, e nemmeno alle “mosche cocchiere della rivoluzione”, pronte a cercare nelle sue parole un incoraggiamento autorevole alle loro pericolose avventure, ma a tutti gli italiani che avevano a cuore la democrazia repubblicana e l’unità antifascista perché reagissero al più presto. In tutti questi anni di celebrazioni e scoperte pasoliniane, poi, quasi nulla si è fatto per riparare al danno arrecato alla sua memoria. Pasolini, insieme a Gramsci, aveva spesso parlato del “genocidio della lingua” operato con la mortificazione e marginalizzazione dei dialetti, immensa risorsa della nostra cultura vasta e articolata, perfettamente cosciente del fatto che anche la sua voce sarebbe stata messa a tacere. Non importa che si trattasse della sola voce o di una delle rare voci che aveva osato levarsi al di sopra del nostro italianissimo “parlarci addosso” (che tanto comodo fa ai potenti), il genocidio di quella voce e con esso dell’importanza della verità fu perpetrato e continua ad essere perpetrato nell’allegria generale… Tornando a Campo de’ fiori, questa piazza popolare di stampo veneziano che non smetterà mai di ricordare questi due eretici ribelli, Giordano Bruno e Pier Paolo Pasolini, mi viene in mente la prima condanna politica che Pasolini subì nel 1949 con l’espulsione dal partito comunista per indegnità morale: «Cogliamo l’occasione dei fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini di Casarsa — scrive il 26 ottobre la Federazione del PCI di Pordenone — per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche di personaggi come Gide, Sartre e poeti e letterati altrettanto decadenti, che pretendono di essere progressisti ma raccolgono in verità gli aspetti più deleteri della degenerazione borghese.»

Pasolini con Laura Betti e Alberto Moravia.

Certo, al di là delle conseguenze di questo provvedimento disciplinare, estremamente duro per Pasolini, costretto dall’oggi al domani a esiliarsi dal Friuli a Roma con sua madre, può essere utile inquadrare un atto simile nella mentalità assai stretta dell’epoca, fortemente condizionata, anche per i comunisti, dalla chiesa cattolica di Pio XII, un papa notoriamente reazionario: «…l’esperienza personale e politica di una irriducibile differenza produce un legame esplosivo in cui l’omosessualità, imbattendosi nella politica, la fa esplodere nel suo incosciente. Una sorta di ambivalenza iniziale e violenta. All’epoca, giovane dirigente della sezione comunista di Casarsa, in lotta per i contadini del Friuli, Pasolini ne fu cacciato per “indegnità morale” alla fine di un doppio processo: quello del tribunale e quello del suo partito. In questo periodo di guerra fredda, caratterizzato da uno stalinismo rigidamente moralista che se la prendeva con la “decadenza”, la “differenza” era considerata, come scriverà l’Unità, “una deviazione ideologica”. D’altronde l’esigenza di un radicamento “di massa” del PCI nella società civile e nella cultura non gli consentiva di andare “due passi avanti” rispetto alle masse e alla mentalità della maggioranza in fatto di moralità.» Christine Buci-Glucksmann, « Pasolini, Gramsci, lettura di una marginalità » in « Pasolini, Seminario » diretto da Maria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pasolini con Moravia da Rosati a piazza del Popolo.

Nonostante questa brusca condanna, cinica e vergognosa secondo la sensibilità di oggi, quest’uomo, meno tormentato che orgoglioso della sua diversità, non smise mai di considerarsi comunista e fu dunque in nome della sua formazione marxista e della sua fede nel partito di Togliatti e Gramsci che egli ne fu un critico sempre costruttivo e un importante alleato. Ma è stata molto più penosa e mortificante la lotta di resistenza di Pasolini contro la persecuzione cieca dello stato, e dell’amministrazione giudiziaria in particolare: un ciclo continuo di processi e di attacchi sulla stampa che è durato fino al giorno del suo assassinio. Anche in questo angoscioso terreno la sua lotta, lucida e coraggiosa, è sempre sfociata in atti pubblici dove l’uomo Pasolini, anche nel pieno della più profonda mortificazione, non rinunciava ad esprimersi appieno come poeta civile: «…sin dalle origini, poi sempre, Pasolini è stato quello che un tempo si chiamava un poeta civile. Poeta perché poeta e giustamente civile per la sua volontà costante di intervenire sulle cose e modificarle, fatto senza dubbio legato alla sua emarginazione iniziale, al suo stato originale, di nascita, al suo bisogno di stare in mezzo agli altri, di essere amato. Ma, naturalmente, il suo impulso fondamentale era quello di influire sugli altri, di orientarli in una certa direzione, di illuminarli e istruirli; Certo, di istruirli, perché non dobbiamo dimenticare che Pasolini era stato professore e, per lui, il lato didattico è molto importante. […] La grande originalità di Pasolini è stata proprio quella di essere un poeta civile di sinistra che non si riallacciava alla retorica dell’umanesimo, ma alla moderna poesia decadente europea…. C’era in lui la rivolta de l’uomo ai margini… e la sensibilità del mondo moderno.» Alberto Moravia, “Pasolini poeta civile », in « Pasolini, Seminario » diretto da Maria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pasolini calciatore.

Di quest’uomo gentile e buono si dirà ancora per molto tempo che era “strano” e che la sua dichiarata omosessualità, vissuta peraltro come una malattia e una insanabile mancanza, si traduceva in una visione del tutto personale, distorta e scandalosa della realtà. In verità, attraverso “l’altra realtà” che viene dal mondo talvolta atrocemente “reale” della periferia romana, poeticamente trasfigurata in una fiabesca metafora o in una dolorosa parabola, Pasolini ci offre una chiave per guardare in faccia la realtà che ci è propria, ci invita ad interrogarci sul senso ultimo e profondo della nostra esistenza. «Pasolini amava molto Rimbaud e, poi, ha visto in Rimbaud il poeta civile, ma di sinistra, a cui poteva rassomigliare …Rimbaud… oltre ad essere il poeta che fu, è stato il poeta della Comune di Parigi… un poeta in rivolta nella tradizione quasi del tutto criminale di Villon. Ed è proprio dalla strana simbiosi di un friulano e di un francese del nord, tutti e due ragazzi, che è nata la poesia civile di Pasolini, così originale e talmente attuale, che però, bisogna dirlo, stranamente si riallaccia al nostro più grande poeta dell’Ottocento, a Leopardi…» Alberto Moravia, “Pasolini poeta civile” in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pasolini e Totò sul set di « Uccellacci e uccellini »

Nessuno può dimenticare i suoi film e la forza evocativa del suo modo di sognare ad occhi aperti, lo sguardo di uccellaccio e di uccellino con cui Pasolini sapeva cogliere la vita delle cose e strapparla alla morte. Nessuno dimenticherà il suo grido di ragazzaccio irriverente ma a ben guardare affettuoso nei confronti dei tanti mondi che si barricavano nel loro imbarazzato silenzio pur di non ammettere le sue ragioni, pur di non ammettere che Pasolini aveva ragione. Lasciato fuori da tutte quelle porte, Pasolini non è però restato solo: da una parte, rinnegando le sue origini borghesi, egli si formò una vera e propria “famiglia” nl contesto delle “borgate” romane dove trovò anche la sua fondamentale fonte di ispirazione (tra gli altri con Sergio Citti [1933-2005], Franco Citti [1935-2016] e Ninetto Davoli [1948]); dall’altra, manteneva legami regolari, spesso molto amichevoli, con scrittori, poeti, registi, attori, giornalisti e critici letterari  (come Alberto Moravia [1907-1990], Attilio Bertolucci [1911-2000], Elsa Morante [1912-1985], Gianfranco Contini [1912-1990], Maria Antonietta Macciocchi [1922-2007], Francesco Rosi [1922-2015], Maria Callas [1923-1977], Paolo Volponi [1924-1994], Anna Magnani (1908-1973) Laura Betti [1927-2004], Enzo Siciliano [1934-2006], Dacia Maraini [1936], etc.). Tutto questo volume di gioco si tradusse per Pasolini in una “doppia vita” costellata di combattimenti interiori e di strappi dolorosi: «Lo so bene […] come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio.» Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Saggi sulla politica e la società, Mondadori, Milano 1999, p. 320.

Pier Paolo Pasolini, Autoportrait.

Dalla sua frequentazione dei mondi poveri, anzi miserabili ed emarginati della campagna friulana dell’immediato dopoguerra, poi delle “borgate” sottoproletarie romane, Pasolini ha tratto la sua visione primordiale, creativa e liberatrice, di un mondo epurato dove si poteva assaporare la vera “essenza” delle cose, mentre i centri intellettuali e borghesi — luogo ideale per le sue battaglie politiche e uscite pubbliche aventi nel PCI alternativamente un motore positivo o un bersaglio privilegiato — gli offrivano soprattutto uno spazio di riflessione e di razionalità. Queste due vite erano ambedue indispensabili per alimentare in Pasolini quella sua forza compulsiva in cui la ricerca continua e intrecciata del giusto e del bello approdava sempre, alla fine, a quella “bellezza della verità” (o “verità della bellezza”) che soltanto il genio è in grado di raggiungere. Come si può apprezzare nella seguente riflessione di Antonino Sorci sul tema della doppia vita di Pasolini e di Nietzsche: «Da Socrate a Walter Benjamin passando per Rosa Luxemburg, molti pensatori hanno pagato con la loro vita la scelta di non rinunciare alla propria libertà d’espressione, di fronte a un sistema che imponeva una visione del mondo unilaterale e totalizzante. Ma se si volesse ricercare, in mezzo a questi martiri, qualcuno che ha sacrificato non una ma due vite alla causa della conoscenza, non potrebbe evitare di citare i nomi di Friedrich Nietzsche e di Pier Paolo Pasolini. Questi due autori hanno concepito, più di altri, la contraddizione come un’arma per fare scandalo, per sovvertire i luoghi comuni, allo scopo di ritrovare un’autenticità nel loro modo di vivere. Il sacrificio di questi due pensatori assume un valore particolare, essendo l’espressione più efficace di una volontà di potenza che trova nella propria negazione la manifestazione della propria libertà.» Antonino Sorci, “Posture del pensatore inattuale alla ricerca dell’autenticità: l’esempio della doppia vita di Pasolini e di Nietzsche”, Università de la Sorbonne Nouvelle Paris 3

Pasolini e Laura Betti.

Ben prima dei “ragazzi di vita” e delle proficue amicizie intellettuali, vennero in soccorso di Pasolini Arthur Rimbaud e Antonio Gramsci e, dietro di loro, tutti coloro che non capivano tanta sordità, miopia, mancanza di fiuto, di gusto e di tatto nei Palazzi che si stavano sgretolando da soli davanti al suo sdegno meravigliato. Uno sdegno sì provocatorio, ma difficilmente riconducibile a una boutade, a un semplice gesto anticonformista o decadente Dedicherò uno dei prossimi articoli al rapporto ideale, assai fecondo e ravvicinato, tra Pasolini e la figura del grande capo comunista e pensatore che fu Antonio Gramsci. Quanto a Rimbaud — la cui “rêverie” agisce come una miccia esplosiva sul giovane Pasolini, facendo scattare in lui la ferma determinazione di divenire “poeta-vate” — «egli è stato il poeta della rivolta solo nella sua opera» scrive Albert Camus ne “L’Homme révolté” : «La grandezza di Rimbaud… esplode nell’istante in cui, fornendo alla rivolta il linguaggio più stranamente appropriato che essa abbia mai avuto, egli comunica nello stesso tempo: il suo trionfo e la sua angoscia; la vita assente rispetto al mondo e l’inevitabilità del mondo; il grido alla ricerca dell’impossibile e la vita ruvida nella stretta; il rifiuto della morale e la nostalgia irresistibile del dovere. [Questo avviene proprio]nel moment in cui, portando dentro di sé l’illuminazione e l’inferno, insultando e salutando la bellezza, [Rimbaud] fa d’una contraddizione irriducibile un canto doppio e alternato, egli è il poeta della rivolta, il più grande. […] Ma egli non è l’uomo-dio, l’esempio feroce, il monaco della poesia che hanno voluto presentarci… […] La sua vita, lungi dal legittimare il mito che ha suscitato, illustra soltanto… l’accettazione del peggior nichilismo che possa esistere. Rimbaud è stato deificato per aver rinunciato al proprio genio, come se questa rinuncia presupponesse una virtù sovrumana. Anche se ciò toglierà valore agli alibi dei nostri contemporanei, bisogna dire, invece, che soltanto il genio presuppone una virtù, mentre nella rinuncia al genio… [non c’è alcun merito].» Albert Camus, Surrealismo e Rivoluzione, ne L’Homme révolté, Quarto Gallimard 2013

Pasolini con Franco Citti e Anna Magnani.

Le parole di Camus a proposito del coraggio che ci si deve attendere dal genio, in questo caso il genio di Rimbaud, possono rappresentare efficacemente, opportunamente rivoltate, la concezione della poesia e dell’arte di Pasolini che per lui è, sempre, azione politica e culturale totale. Pur avendo manifestato, nell’impegno civile e politico, la coerenza e il coraggio che non ebbe il suo “amico” Rimbaud, Pasolini, in perfetta sintonia con Gramsci, non anelava ad essere un leader né un capo. Per questo decise di esprimersi artisticamente, poeticamente sul tema difficile e doloroso della nostra sfortunata e a volte meravigliosa realtà italiana. Quest’uomo che avrebbe potuto evadere da se stesso rifiutando le regole, quelle regole tenacemente le ricercava e non esitava a scontrarcisi. Francesco Rosi ha detto che Pasolini era un “uomo contro”. Furio Colombo ha detto che era un protagonista. Alberto Moravia, citando Rimbaud, ha detto che Pasolini era un poeta civile di sinistra. Camus avrebbe detto, se non fosse anche lui scomparso prematuramente, che Pasolini era un uomo in perenne rivolta la cui coerenza nell’impegno politico e culturale era molto più solida e affidabile di quella del più grande dei poeti maledetti.

«È un fatto che [Pasolini] viveva l’omosessualità come una malattia che lo separava dal mondo. Ma è anche un fatto ch’egli riuscì a trasformare questo sentimento della separazione e della differenza in una forza non soltanto morale, ma anche di conoscenza. […] Il fatto di essere o piuttosto di sentirsi separato alimentò nella sua immaginazione delle strategie obiettivanti, fece in modo che si decantassero dagli appesantimenti metaforici e intellettuali, per liberarsi di ossessioni soggettive; ma questa liberazione, in lui, fu dialettica. Pasolini non negò mai la radice individuale della sua scrittura, ma egli la colloca sempre all’interno di un contesto storico, all’interno di un giudizio complesso e articolato sulle vicende politiche e culturali della società italiana.» Enzo Siciliano, Pasolini non riconciliato in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pier Paolo Pasolini.

Tra qualche mese, il 5 marzo 2022, per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini si svolgeranno, dappertutto in Europa, iniziative politico-culturali in cui la sua opera sarà certamente riletta alla luce dei 47 anni allora trascorsi dalla sua morte e di un cambiamento così profondo della società e degli uomini all’epoca della globalizzazione, che forse nemmeno Pasolini avrebbe potuto immaginare. Per tutti sarà evidente la contraddizione, ancora più dolorosa oggi; tra la forza espressiva e morale dei film di Pasolini, per esempio, forza che nasceva dalla povertà dei mezzi tecnici compensata dalla poesia e dall’ingegno e la banalità di gran parte di quello che si produce, spesso con dispendio di mezzi e di energie. Pasolini viveva nel rimpianto di un “paradiso perduto” di cui, nelle rare gioie dell’infanzia e dell’adolescenza aveva percepito la “bellezza tangibile” della vita, ora tutti noi rimpiangiamo il paradiso perduto che era Pasolini. «La confessione. Se si dovesse ricostituire i significati complessi che l’atto di confessarsi ha renduto espliciti nella tradizione cattolica, si dovrebbero evocare e immaginare le più atroci sofferenze dell’io. Nella confessione, è l’io coperto di piaghe, diviso, inginocchiato, cioè raccolto il più possibile su se stesso il più vicino possibile alla terra (e alla madre) che tenta, attraverso la prova atroce della verbalizzazione, di vincere la schizofrenia e di rimettere insieme le proprie membra sparse. C’è volontà di guarigione: perché il peccato è una malattia – una malattia molto particolare che si cura dichiarandola. Ebbene, perché non supporre nell’ansia di auto-svelamento che contrassegna tutta la produzione pasoliniana, in questa confessione reiterata, un’urgenza autentica, nient’affatto ambigua, di “salute”, di guarigione, di liberazione dalla malattia?» Enzo Siciliano, Pasolini non riconciliato in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Tullio Pericoli, Ritratto di Pier Paolo Pasolini (1990)

Insieme a molte altre possibili similitudini e coincidenze, questo aspetto della “confessione” apparenta Pasolini a un altro pensatore solitario, Jean-Jacques Rousseau, mentre per altri aspetti — come l’indipendenza del giudizio e il bisogno assoluto della verità, nonostante il vivo attaccamento ideale e morale al destino della sinistra in generale e del Partito comunista in particolare — Pasolini mostra delle impressionanti affinità con Albert Camus… Un confronto tra questi tre “geni in rivolta” sarà svolto in uno dei prossimi articoli. Intanto, a modo mio, parlerò anch’io di Pasolini: non per celebrarlo ma per capirlo. Nella consapevolezza che per parlare di Pasolini bisogna saperlo ascoltare, evitando di discostarsi troppo dal suo modo (metaforico, paradossale, esoterico e solenne) di introdurre temi e problemi. Quelle di Pasolini non sono mai fino in fondo delle storie: i luoghi e i personaggi interpretano quasi sempre una parte che non sembra essere la loro, provocando nello spettatore una serie di reazioni immediate che troveranno una composizione e una spiegazione solo alla fine del film del libro o della poesia. O anche ore e giorni dopo. Lo stesso avviene per gli scritti politici di Pasolini, corsari o luterani che siano: nonostante la forza dirompente e a volte esplosiva di ogni singolo passaggio, solo alla fine, chiudendo gli occhi, cominciamo a capire e a trattenere il senso del suo messaggio. Ora, oggi, le cose sono cambiate in maniera impressionante. Ma quello che conta, per salvarci, è l’essenza arcaica e addirittura preistorica dell’uomo: per questo Pasolini, come del resto tutti i grandi che sanno guardare oltre, è ancora presente tra noi. Non come un essere mitico o un padre, ma un fratello strano che pur avendo sempre ragione non ti fa sentire una nullità. Pasolini è particolarmente importante per la nostra generazione, per noi giovani o adulti comunisti che abbiamo vissuto dall’interno le dinamiche della grande trasformazione da Togliatti a Berlinguer e poi la lenta e inesorabile involuzione fino all’implosione finale: Pasolini, con il pungolo della sua voce inconfondibile e delle sue immagini forti, anche quando ci lanciava critiche feroci e spietate, ci è stato vicino molto di più di quanto lo siano stati i gruppettari più o meno estremi o compromessi con il “sistema”. Nell’Italietta “americanizzata” e disgraziata che non rispetta nessuno e non concepisce l’idea di un’opera complessa e polifonica, continuamente messa in discussione (come avrebbe voluto Trotski nella sua “rivoluzione permanente”?) perché via via arricchita dai contributi e dalle invenzioni, Pasolini ha saputo imporsi come protagonista, rivolgendosi singolarmente e personalmente ad ognuno dei suoi lettori o spettatori, un po’ come Garibaldi. Ciò che ci trasmette Pasolini, in particolare riguardo alla verità storica del suo tempo – molto importante e cruciale per la vita, parallela, della mia generazione – cattura sempre la mia attenzione con una violenza, certo disarmata, che mi costringe però a riflettere attentamente prima di proporre le mie sensazioni ed esperienze riguardo ai fatti, da me vissuti direttamente o indirettamente, che hanno spinto Pasolini a ricercarne la “vera” causa. D’altra parte, nella mia analisi delle “verità” di Pasolini non mi limiterò a ricordare quello che so oppure ho vissuto personalmente del suo/nostro tempo, ma farò riferimento anche a quello che è successo poi, in Italia e in Europa, fino ad oggi. Le verità di Pasolini sono ancora attuali e drammaticamente positive, non solo per noi, giovani comunisti squinternati di allora, sopravvissuti al 68, all’euforia delle Regioni rosse e infine alla tragedia delle strgi e degli anni di piombo. Resta il fatto che analizzare i grovigli, anche i più conosciuti, del pensiero politico di Pasolini non è affatto facile, non tanto in relazione alla vastità e ricchezza della sua opera multiforme, quanto piuttosto per la densità e la forza di ognuna delle sue immagini, di ognuno dei suoi versi, che trascinano di volta in volta sulla scena o nella mischia una nuova luce, una nuova voce, una nuova verità. Cercherò di farlo, nel modo più sintetico possibile, frugando tra gli scritti politici di Pasolini e ripercorrendo le sequenze di alcuni suoi film emblematici, già sapendo che dai suoi messaggi emergeranno assai raramente atteggiamenti dogmatici riconducibili a formule semplificate o a parole d’odine. Sarà comunque molto difficile se non impossibile “rispondere” a Pasolini o dialogare con lui su un piano di assoluta parità. Mi saranno allora di grande aiuto la complessità del suo linguaggio spezzato e quella indispensabile “presa di distanza” raccomandata con argomenti irrefutabili dal filosofo francese Jacques Derrida (1930-2004) : «…il miglior modo di essere fedeli a un’eredità, è quello di esserle infedeli. Nessuno deve ripetere come un pappagallo l’insegnamento del maestro. Bisogna sempre “smontare” ciò che si eredita per poter reinventare un pensiero che tenga conto del passato per meglio comprendere il futuro.» Élisabeth Roudinesco, “La déconstruction contre la tyrannie du dogme” sur “Le Monde” 19 mai 2021.

Giovanni Merloni, 24 giugno 2021

Testo originale IN FRANCESE

Due anni appena

14 samedi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in poesie, scritti e disegni di e su claudia patuzzi

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ascensore, Claudia Patuzzi, Hôpital Broca, Infirmières, Sapeurs Pompiers

Claudia Patuzzi

Due anni appena

da quando imbambolata

per sempre da qui sei partita

da quando alla porta

accorse samaritana

una donna dolce e compita

che telefonò.

*

Due anni fa appena

cominciò il marasma

di saperti senza di me

allontanata, relegata

sola di giorno sola di notte

e la strana pena subliminale

di sapermi senza di te

con la colpa della vita

attaccata alle dita.

*

Due anni fa soltanto

ti rapì nuovo di zecca

l’ascensore mai usato.

Con precisione fosti aggiustata 

sul seggiolino del papa:

sembravi non capire

nemmeno più ti ribellavi

confortata o stordita

dalle voci confabulanti.

*

Incapace di alcunché

dalla finestra, al rallentatore

scrutavo la seggiola bianca

la maglietta rossa

i tuoi capelli spettinati

la rossa ambulanza

lo strappo del corpo e del cuore.

*

Due anni fa ti lasciai andare

con la disperata speranza

di saperti in mani forti

ospite di voci gentili

di gesti pronti e caritatevoli

ma intanto s’era sfasciato

il gomitolo dei nostri due corpi

e nessuno poteva aggiustarlo

né con mille colle e palliativi

tenerlo in vita.

*

Senza voltarmi, lo lasciavo

per terra tra le cose di casa

quell’abbraccio dilaniato e distrutto

e venivo da te, aggrappato

a strani ghirigori

rubati al metrò, alla folla dei passi

a quel corridoio oramai familiare

di camici verdi e poltrone a rotelle.

*

Accorrevo sorridendo

alla casa della tua vita.

Tornavo piangendo

alla casa della mia morte.

Giovanni Merloni

14 giugno 2023, boulevard Magenta, Parigi.

Già erano avvenute altre separazioni dalla Claudia donna,  madre, scrittrice, divoratrice di libri e di film, amante dei piccoli oggetti fino al collezionismo, Claudia alter ego e alter tutto per me e per tutte le persone a cui apriva il cuore. Ma quella di due anni fa fu la prima vera e irreversibile separazione. Era la morte che ci separava? Non ancora. Ma la vita sembrava non unirci più: tra di noi si era issato un muro invisibile e d’ora in poi, per entrare nella sua nuova dimora, bisognava trovare la porta nascosta. Certo, aperta la porta, una sorta di quasi-vita ci fu concessa, ma quanto precaria, squilibrata e ingiusta.

G. M.

TESTO IN FRANCESE

Confessioni di un bibliotecario n. 2

13 vendredi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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“La strana gioventù”

“Si dovrebbero cancellare dalla faccia della terra le differenze di classe e di condizioni, appianarle almeno nel nostro modo di pensare” (pag. 46)

Carissimo Marco, scusami innanzitutto se, lo so già prima di cominciare, non riuscirò a condensare le mie osservazioni e riflessioni in un unico ragionamento e, invece, magari ripetendomi, affronterò lo stesso argomento più volte, anche se da diversi punti di vista. E scusami quando, a un certo momento, mi fermerò, nella consapevolezza che non posso, né saprei, scrivere “un altro libro” per parlare del tuo.

Innanzitutto, un breve confronto tra i due “romanzi bibliotecari”: “Il bibliotecario di Marx” è forse più immediato e facile da leggere (e ricordare) nel suo insieme, mentre, forse, le parti per così dire teorico-scientifiche possono risultare, un po’ impegnative. Ne “La strana gioventù”, invece, si capisce tutto, laddove però l’intreccio dei fatti e dei rimandi è molto più ricco e dettagliato. Dunque, se questo secondo libro non è particolarmente impegnativo nel suo scorrere, è più difficile poi da ricordare bene nel suo insieme.

Tuttavia, chiuso il libro, il cervello del lettore si mette subito in moto ed è indotto a “continuare” il ragionamento di fondo che vi è sviluppato, a collegare tra loro le idee che vi sono esplicitate o accennate, mettendole in relazione, ognuno secondo le sue conooscenze ed esperienze, con la storia successiva a quella narrata, e rileggendone poi i valori e i principi alla luce dell’oggi.

Questo tuo immenso lavoro di ricostruzione storica, oltre ad essere una evidente e inattaccabile risposta ai negazionismi di ogni tempo e origine, è “architettato”, mi sembra, per un più vasto e nobile (e lodevole) fine politico, che via via può tradursi in una proposta chiara e luminosa. È un invito ad “agire ragionando”, a “fare”, fino in fondo, qualcosa di sinistra, senza mai discostarsi, tuttavia, dal questionamento continuo sul “che fare?”, che a sua volta non può prescindere dal “quando” e dal “come” fare.

Per tutti questi motivi, ed altri che dirò, “La strana gioventù”, che completa (ma forse non esaurisce) il grande affresco delle “Confessioni di un bibliotecario” (l’allusione al coevo “italiano-ottuagenario” di Ippolito Nievo è d’obbligo) è un romanzo indiscutibilmente interessante, utile e avvincente. Interessante e utile grazie alla efficace e coinvolgente ambientazione, per così dire “teatrale” (ma anche molto cinematografica), di due mondi — quello politico degli albori della Rivoluzione e quello letterario descritto da grandi classici come Gogol e Dostojevski — che si fondono in un unico universo “pietroburghese”, dove “risuscitano” uno per uno, insieme ai “veri luoghi” e alla “vera società”, soprattutto i “veri protagonisti” di una vitalissima cordata di “saggi-ribelli” che credettero e lottarono per un mondo migliore. « Il bibliotecario di Marx » diventa poi avvincente quando si comincia a venire a capo della concatenazione dei fatti e del tourbillon dei personaggi, tutti necessari e inseriti in un flusso narrativo perfettamente scandito; quando si comincia a percepirne il messaggio, via via più esplicito e « reale ». D’altra parte, il lettore ha l’impressione di partecipare all’appassionante “traversata” di Orazio Torriani non come “imbucato” ma come “accompagnatore autorizzato”; e quando — affacciato a una finestra della Biblioteca Nazionale sulla piazza del Collegio Romano (forse corrispondente proprio alla stanza dove lavorava mia zia Augusta, bibliotecaria, attendendo ad un misterioso B.O.M.S.) — il nostro protagonista-testimone evoca le prime bandiere rosse, che finalmente cominciano a sventolare per le vie di Leningrado (e poi in quelle di tutto il mondo), questo stesso lettore prova di nuovo l’emozione che lo sorprendeva durante le manifestazioni degli anni ’60 di cent’anni dopo, a cui accorreva insieme agli altri esponenti della nuova “strana gioventù” di cui faceva parte.

Il tuo è un “romanzo a tesi” e anche, in modo sano, “un “romanzo ideologico”, che si fa carico di rilanciare il dibattito sul comunismo – attualmente costretto a stare sulla difensiva, se non a languire in una posizione rinunciataria –, “ricominciando da tre”. Risalendo cioè a “prima dei danni” (e crimini) più evidenti, non solo per spiegare che il comunismo viene da lontano — e corrisponde alle giuste aspettative (economiche, sociali e culturali), perennemente insoddisfatte, delle popolazioni più svantaggiate oltreché dei proletari e degli sfruttati di tutte le latitudini — ma anche, soprattutto, per raccogliere e mettere in valore certe analisi fondamentali, insieme a certe soluzioni, ancora del tutto valide oggi, che non furono capite fino in fondo e/o furono seguite molto superficialmente o cinicamente messe da parte. Si può, dunque, “ricominciare da tre”. Chi sono questi tre? Da cosa si potrebbe “ricominciare”?

1_Dall’analisi di Marx, assolutamente attuale.

2_Dal “pacchetto” del “Che fare?” di Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij. Un pacchetto-vademecum assolutamente geniale, perché introduce, tra l’altro, in modo difficilmente contestabile, la centralità della “questione” femminile, che si pone come la principale “risorsa” strategica in vista dell’indispensabile “cambiamento” nella società e nei singoli rapporti umani.

3_Il “terzo” da cui si potrebbe-dovrebbe ripartire è, evidentemente, Antonio Gramsci. Sarà su di lui il tuo terzo libro?   

La tua è, dunque, un’opera aperta, come quelle di cui parlava Umberto Eco, maestro peraltro della trasformazione del saggio in romanzo e del romanzo in saggio e dunque apripista dell’interazione tra i due generi. Un’opera, la tua, che viaggia, giustamente, in netta controtendenza rispetto alla faciloneria e alla violenta ripetitività dei “best sellers mordi-e-fuggi” o dei pistolotti storici attuali. E si apprezza molto la lucidità e la pazienza con cui hai saputo mantenere il filo dell’attenzione pur nella complessità delle cose da dire.

Un romanzo come questo chiede dunque di essere studiato a fondo, costellato di appunti e di osservazioni. Dopo una prima lettura “senza la matita” (grave errore!) ne avevo iniziato una seconda, più sistematica, in vista di una esegesi approfondita e puntuale, seguendo l’itinerario dei successivi incontri, ambienti e personaggi — a cominciare dall’ex libreria Smirdin e dal Circolo degli Scacchi — di questa San Pietroburgo (che io continuo tra me e me a chiamare Leningrado), che tu attraversi e conosci come le tue tasche e dove solo gli abitanti dell’ex mondo sovietico possono calarsi (con il loro Google) alla riscoperta dei nomi delle vie e forse anche dei palazzi pubblici e dei negozi.

Ma a un certo punto mi sono fermato, decidendo di tenere per me il piacere di seguire liberamente le diverse suggestioni che via via mi sarebbero tornate da sole alla mente dopo la lettura, concedendomi divagazioni e tuffi “realistici e poetici” nel passato. Andando per esempio a cercare la corrispondenza dell’epoca della rivolta silenziosa di Pietroburgo con quella dell’impegno di Raffaele Merloni, il mio bisnonno romagnolo, al seguito di Garibaldi (all’epoca della terza guerra d’Indipendenza), e lasciando ad altri lettori il piacere di aggiungere a loro volta impressioni e riflessioni diverse dalle mie.

Passage a Pietroburgo

Anche perché gli spunti offerti dalla tua “strana gioventù” sono infiniti. Come quella frase a pag.443: “…Hai ragione. Pietroburgo e i primi anni Sessanta furono davvero un posto e un tempo molto speciali. Ricordo quelle notti – e quelle mattine, presto, molto presto -quando anziché tornare a casa, giravo senza meta per la città, sapendo che qualunque strada avessi imboccato, alla fine sarei comunque arrivato in un posto dove le persone, anche quelle che non conoscevo, erano ispirate e scatenate esattamente quanto me. Su questo, non c’erano dubbi: ovunque andassi vedevo gente come me. Questo era il movimento. C’era un’incredibile sensazione generale che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo… Questo era il punto: un senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio Mondo. Vittoria, ma non in senso militare: non ne avevamo bisogno! La nostra forza avrebbe prevalso. Semplicemente. Non aveva senso ingaggiare un duello tra la nostra parte e la loro. Tutto il potenziale, ce l’avevamo noi… Cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda…”

In ogni epoca, in ogni secolo, c’è sempre stato un momento di rottura, contrassegnato da una “strana gioventù”. Ci sono stati anche per noi, per esmpio, i “capelloni”, antesignani dei “sessantottini” e dei giovani del ’77 (da Guccini a Claudio Lolli…)

Tornando all’analisi storica e alla proposta politica implicita di questo libro, io trovo ineccepibili i filoni interpretativi (e le connesse associazioni di idee) che tu proponi. Cominciando dalla “contestualizzazione”, di cui abbiamo già parlato (tra la nascita del socialismo in Europa e in Russia e il Risorgimento in Italia), e dalla tua appassionata ricostruzione di quella straordinaria stagione rivoluzionaria e dei suoi protagonisti, tra cui Chernyshevskji, Dobroljubov, Nekrasov, eccetera. Io ci metterei la firma, se si decidesse di prendere questo esempio come punto di partenza per una discussione seria e approfondita nell’ambito della sinistra oggi.

Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij

Nello scegliere Chernyshevskji, un intellettuale onesto e culturalmente aperto al confronto, — un Antonio Gramsci russo —, tu prendi nettamente posizione per una visione politica unitaria e non settaria, ma non per questo meno rigorosa, del “mondo nuovo” di cui le nostre società hanno bisogno. Un mondo che per realizzarsi ha bisogno del “fare”, di un agire ragionato e tempestivo che, senza fughe in avanti, faccia progredire economicamente, socialmente e culturalmente ogni singola famiglia e società, nel rispetto delle esigenze insopprimibili della natura umana. Quando Chernyshevskji, nel sottolineare l’importanza del “fare”, parla dell’amore e della donna, anzi mette la donna e l’amore al centro di tutta la questione del vivere insieme, in società, egli traccia un confine invisibile, ma importantissimo, che non deve essere valicato, tra l’ambizione ideale, dirompente, prodigiosa e giusta di cambiare il mondo, che hanno questi “strani protorivoluzionari” e, appunto, il rispetto della donna e dell’uomo, a cui non si può chiedere di rinunciare al sacrosanto diritto alla felicità.

È fin troppo facile, col senno del poi, scoprire i momenti, nella storia dell’Unione sovietica, per esempio, in cui quasi tutti i precetti di Chernyshevskji sono stati ignorati o calpestati. Ma è ormai evidente che le idee più avanzate, gli ideali più giusti, devono sempre commisurarsi alla realtà dei rapporti umani, all’evoluzione delle singole società, alla loro capacità di prendere collettivamente le decisioni più eque e vantaggiose, in modo democratico, scegliendo i leaders giusti e controllandoli costantemente. L’aver assegnato a Vera Pavlovna il compito di rispondere, in modo esemplare, ad uno dei più pressanti “che fare?” — quello del lavoro affrancato dalle logiche dello sfruttamento — la dice lunga sulla lungimiranza e sull’apertura mentale di Chernyshevskji. Nel controbilanciare i rapporti (tuttora) esistenti tra uomo e donna nella famiglia e nella società, si attiva quella sana dialettica democratica di cui abbiamo tutti bisogno: “Lasciatele parlare, sentiamo che cosa hanno da dire e da proporre!” “Ma guarda, è interessante, non ci avevo pensato!”.

Il tuo libro, caro Marco, rimettendo un po’ di linfa marxista e sanamente rivoluzionaria nelle nostre vene ingombre di mostri, spinge a pensare, a ragionare, a ritrovare qua e là i vecchi e i nuovi compagni di una stagione ormai alle porte: la più disperata ma, forse, la più lucida. Ed ora la piccola sorpresa (per me). Qualche giorno fa, avevo appena finito di leggere “Una strana gioventù”, ma ero ancora incuriosito da questa parola-frase — “che fare?” — di cui avevo già letto e sentito parlare. Mi sono messo allora a cercare il libro di Chernyshevskij… e l’ho trovato, qui a casa mia! Forse non c’è libro importante o interessante che mia moglie Claudia non abbia portato da Roma a Parigi… Anche lei aveva, come te, la vocazione bibliotecaria!

La lettura di quel romanzo-lettera dal carcere del 1863 si integra bene con questa di oggi, anche se, nel mio caso, con una piccola frustrazione: nel mio “Che fare?”, edito da Garzanti nel 1973, manca la « Dama in nero » nonché l’emblematica gita delle due slitte! Ma forse non è una mancanza così grave. La storia di Vera Pavlovna — in cui l’Autore è sinceramente e fino in fondo dalla sua parte — è appassionante e piena di suspense, e dimostra che non si può fare la rivoluzione (ne alcunché) senza le donne, non solo perché non si può prescindere dall’amore (anzi ci si deve “fondare” su di esso), ma perché solo le donne — forse perché “costrette” dalla Natura a fare i figli e poi a doversene separare — sanno andare al di là delle diversità di classe e di mentalità.

Del resto «anche i cuori più infangati nel materialismo hanno i loro grandi ideali, e ciò prova che la spiegazione materialistica della vita è falsa o insufficiente». (“Che fare?”, pag 78)

Vera si chiede la prima volta “che fare?” (e come fare) quando deve assolutamente “uscire dal sotterraneo” che era la sua famiglia. La sua rottura, peraltro incruenta, della situazione di immobilismo e di conflittualità estrema in cui viveva, costituisce di certo, pensando alla Russia zarista, la metafora dell’atto rivoluzionario, necessario e ormai maturo mentre Chernyshevskij scrive. Ma poi, come per Vera che, liberata dal giogo familiare desidera organizzarsi una vita felice, la domanda si affaccia una seconda volta: “che fare? » Con ciò Chernyshevskij lancia un ammonimento: non bisogna rinunciare alla felicità. Perché, attenzione, non basta la rivoluzione di un giorno! Da quel momento in poi, ad ogni pié sospinto e con una terribile accelerazione, bisogna saper rispondere ad una serie incalzante di “che fare?” estremamente concreti che non si potranno eludere se non si vuole essere costretti a tornare indietro. Dovendo scrivere il suo fondamentale testo in prigione, Chernyshevskij è estremamente abile nel dire e non dire, nel far capire in modo indiretto, ammortizzando i passaggi più tragici della storia narrata per invitare il lettore a vederli e a viverli con più distacco. Con lo stesso distacco, ben dissimulato, l’autore aggira la censura imperiale, fornendo la terza risposta alla domanda sul “che fare?” che la vita impone a Vera in quel passaggio cruciale della sua esistenza: la base della sua emancipazione e della sua salvezza è l’officina di sartoria modello che Vera crea sotto forma cooperativa.

Sede del Circolo degli Scacchi a Pietroburgo

Caro Marco, il tuo libro mi è servito e lo conserverò in modo di poterlo facilmente ritrovare, per rileggerlo, studiarlo e parlarne con qualche amico parigino. Un abbraccio. Giovanni Merloni.

Marco Noccioli

(Confessioni di un bibliotecario n. 1: « Il bibliotecario di Marx »)

Confessioni di un bibliotecario n. 1

13 vendredi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Confessioni di un bibliotecario, Karl Marx, Londra XIX secolo, Marco Noccioli, Mazzini, Orazio Torriani, Repubblica Romana

Marco Noccioli, « Il bibliotecario di Marx », Edizioni Efesto 2022

Prima avvertenza: ho letto uno dopo l’altro i due primi romanzi di Marco Noccioli, (« Il bibliotecario di Marx » e « La strana gioventù »), constatandone la continuità e la coerenza, al di là dei diversi momenti storici e contesti socio-geografici in cui si collocano l’incontro londinese con Karl Marx (1857-58) e, quattro anni dopo, il primo sussulto rivoluzionario nella Russia zarista (1862). Il filo di continuità che lega molto strettamente i due romanzi è, certo, occasionato dalla presenza del giovane bibliotecario Orazio Torriani, testimone tutt’altro che neutrale, anzi appassionato degli avvenimenti narrati, ma c’è, nelle due letture, qualcos’altro, scritto in modo per così dire in modo subliminale (forse con l’inchiostro simpatico), che alla fine ci convince e ci autorizza a sperare che questi due libri facciano nascere, o, se si vuole, ri-nascere la volontà di credere in un mondo migliore. Perché i due libri sono perfettamente complementari: il primo ponendo, grazie ad un serrato tête-à-tête con Karl Marx le basi teoriche da cui è bandita ogni possibile indulgenza all’utopia; il secondo indicando, attraverso il “Che fare?” di Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij, le azioni concrete da perseguire se si vuole realizzare una società in cui il lavoro è affrancato dalla brutalità capitalistica e la donna è affrancata dalla concezione paternalistica e tribale del matrimonio. Perché, lucidamente, in questa appassionante sequenza, Marco Noccioli intende proporre – a coloro che non studiano più i sacri testi e ascoltano sempre meno i discorsi, del resto assai poco carismatici, degli attuali leaders della sinistra -, di fare un passo indietro, e di farlo servendosi della modalità del romanzo, ritenuto giustamente un veicolo più adatto per il recupero delle basi indispensabili (storiche, filosofiche, culturali, umane) e per trovare già in questo passato non così lontano, e così efficacemente ricostruito, una chiave politica e filosofica su cui ri-cominciare a ragionare e raccogliere gli apporti delle “future strane gioventù”. Non ha dunque senso parlare del “bibliotecario di Marx” senza parlare della “strana gioventù” e viceversa. (Mi trovo del resto nella situazione del tutto eccezionale di annoverare tra i miei amici, da anni ormai, qui in Francia, anche Valère Staraselski, uno scrittore comunista molto valido e seguito, che adotta da tempo, anche, lui, come Marco Noccioli, la « forma romanzo » per risuscitare la storia e per dibattere le tematiche politiche contemporanee.) 

Seconda avvertenza: circolano già alcune recensioni sui libri di Marco Noccioli che, nell’invitare gli italiani alla lettura, descrivono molto bene la struttura dei due romanzi, il ruolo dei relativi personaggi e la coerenza storica e filosofica del loro fondamento teorico e politico. Io, invece, non mi rivolgo tanto ai futuri lettori quanto a coloro che questi romanzi, come me, li hanno già letti, per avviare così, insieme a loro, un dibattito costruttivo con l’Autore e attirare poi l’attenzione di tutti coloro che, sinceramente e drammaticamente, si interrogano sull’attuale “che fare?” ma anche, in una situazione sociale ed economica nazionale e internazionale che non chiede altro, “come fare” ad affrancarci dalle « avversità » e ripristinare il clima ideale e l’azione politica collettiva conseguente per quel nuovo e urgente “che fare ora?” 

Terza avvertenza: il mio contributo consisterà in due lettere e non in due commenti distaccati e inevitabilmente freddi. Anche perché conosco Marco Noccioli da trent’anni e non riesco a trovare un altro modo di esprimere le mie osservazioni e riflessioni che quello di indirizzarmi direttamente a lui e, indirettamente, a tutti coloro che leggeranno i due libri con la mia stessa attenzione e passione. 

V0013519 The British Museum: the reading room under construction. Woo Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org The British Museum: the reading room under construction. Wood engraving by J. Brown after C. W. Sheeres, 1855. 1855 By: Charles William Sheeresafter: Sydney Smirke and John BrownPublished: – Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/

Dagherrotipo della Reading Room del British Museum in costruzione.

“Il bibliotecario di Marx”

Caro Marco, esprimerò le mie osservazioni sul “bibliotecario di Marx” un po’ liberamente, senza andare a riaprire il libro per trovare la pagina esatta dove tu avevi detto questa o quella cosa, né per sincerarmi di aver ricordato bene i fatti e i nomi dei personaggi. I piani del racconto (e della mia lettura) sono molteplici e, pur presentandosi in una mirabile sintesi, meritano di essere commentati man mano che mi tornano in mente. Dico “tornano in mente” perché, seguendo il consiglio che mi diede un dì mio nonno Alfredo Perna (che, come il tuo Orazio Torriani, s’intendeva di matematica e di calcolo differenziale), ho preso ormai l’abitudine di fissare nella memoria l’essenza di ogni libro subito dopo aver finito di leggerlo. Per così dire a occhi chiusi. Salvo poi ritornarci per una restituzione più fedele ed efficace. In questa lettura, inevitabilmente condizionata dalla conoscenza dell’autore, non ho avuto però nessuna difficoltà a calarmi nel racconto e via via appassionarmi alle vicende storiche rievocate e narrate, nonché al dibattito ideale, così approfondito, in cui si affaccia anche la questione dell’architettura e della città, nient’affatto secondaria quando la questione filosofica fondamentale è quella di decidere “cosa fare dell’utopia”.

Ma veniamo al libro. Il tuo « bibliotecario » mi è piaciuto moltissimo. È un romanzo che merita di circolare anche al di fuori dei confini, spesso distratti e fuorviati, della nostra pur amata Italia; un testo-outsider nell’ambito della letteratura storica e politica, che ha il pregio di essere anche un serio e meditato veicolo di discussione. Se non l’hai fatto, dovresti adoperarti seriamente per la sua pubblicazione in Inghilterra. Anche i francesi potrebbero essere interessati, ma sono assai capricciosi e forse meno liberi degli inglesi in queste cose. E poi, col tuo romanzo, tu fai un bellissimo omaggio alla Library del British Museum e dai prova di una profonda dimestichezza con la città di Londra e i suoi paesaggi urbani e suburbani.

D’altronde, con questo libro, tu coroni un sogno. Il sogno dei tanti e tanti, non solo filosofi, che pensano in cuor loro, in ogni parte del mondo, che Marx non è affatto morto, che anzi è doppiamente vivo in un’epoca in cui, dopo l’implosione catastrofica dell’utopia comunista nei paesi dell’Europa dell’Est – e l’inevitabile contraccolpo nel resto del mondo -, il capitalismo ricalca gli stessi metodi di sempre ed è diventato più aggressivo che mai. Il sogno dei tanti e tanti che avrebbero voluto incontrare il Moro, come tu lo chiami, e parlare con lui a tu per tu: facendo così un salutare ritorno alle origini, là dove “tutto è cominciato”, alla ricerca di un più preciso insegnamento, o piuttosto di una conferma di tante amare constatazioni e trovando infine la tanto attesa risposta: la lotta al capitalismo non può basarsi né tantomeno esaurirsi nell’utopia, ma deve scontare umilmente la diabolica e perversa capacità del capitalismo di riorganizzarsi su basi sempre nuove, come un virus dalle infinite varianti.

Disegno di Claudia Patuzzi

Quello che sta succedendo oggi, in Europa e nel mondo, corrisponde ancora, esattamente, riga per riga, passaggio per passaggio, a quello che Marx aveva previsto come logica conseguenza di un capitalismo che evolve continuamente “eppure non cambia”: la parabola del comunismo, dunque, non si è affatto conclusa. Ciò detto, l’insperato e prolungato colloquio tra il bibliotecario e il Dr. Marx non si limita a lanciare un sasso nella “piccionaia” degli affossatori del comunismo. In esso il passato-presente di allora e il futuro-presente di oggi non sono visti come un sogno, ma come un’ipotesi. In questa “ipotesi”, poi, se ne annida un’altra: quella di poter ritrovare i nostri padri della patria al di fuori degli schemi, delle frasi fatte e degli sterili determinismi dei libri di storia. Tu offri a tanti italiani – che considerano ancora Marx (come anche Freud) il caposaldo di una rottura culturale e direi morale ancora viva e assolutamente indispensabile – la possibilità di sentirsi “di casa” in mezzo ai membri della sua famiglia londinese, e fai vivere la realtà di 167 anni fa come se fosse quella di oggi. Raccogliendo « en passant » le osservazioni e i giudizi di Marx su Mazzini, sugli esuli italiani e dunque sul nostro Risorgimento: «…Ora anche il signor Mazzini non disdegna di indugiare sulle realtà sociali, sugli interessi delle diverse classi: è possibile che egli sia rimasto impressionato dal colpo vibrato al Secondo Impero dalle convulsioni commerciali che ebbero inizio a New York e poi fecero il giro del mondo. C’è soltanto da sperare che non voglia arrestarsi a questo punto e proceda a riformare tutto il suo catechismo politico alla luce della scienza economica…»

Una tale contestualizzazione, senz’altro più vera che veritiera, è rara, rarissima e rende il tuo libro meritevole di ulteriori, adeguati riconoscimenti. Ma oltre alla valorizzazione della contemporaneità tra Marx e Pisacane, tra Marx e Napoleone III, ecc., “Il bibliotecario di Marx” offre al lettore una seconda gradevole sensazione di contemporaneità, quando tu proietti nel mondo di oggi la Londra di metà Ottocento, che, in mezzo ai lavori della metropolitana, rinasce “più bella che pria”, molto più viva e vera della Londra imbalsamata dei nostri attuali, stereotipati viaggi organizzati. Un’altra caratteristica del tuo romanzo è quella di evitare di strutturarsi nella forma di una “intervista immaginaria”, che darebbe per scontata l’inavvicinabilità di Marx in quanto icona, alias figura imbalsamata dalla storia e dal tempo. Non assistiamo nemmeno, del resto, all’approccio di tipo personale-sentimentale del postino-apprendista-poeta con il “vero poeta” che fu Pablo Neruda. Né si assiste alla ricerca, nel Dr. Marx, di un padre o di un nonno mitizzato.

Partendo da queste prime osservazioni, per meglio comprendere la genesi di questo romanzo, ho cercato di individuare alcuni dei suoi punti di forza. Per ora me ne vengono in mente quattro.

Il primo è quello, già accennato, della contestualizzazione delle problematiche politiche e filosofiche del comunismo ascendente e delle sorti del Risorgimento nel decennio compreso tra la fine della Repubblica Romana e l’impresa dei Mille, con la lucida messa in evidenza dello scarto tra la maturazione filosofica e politica “internazionale” di Marx e il contemporaneo dibattito risorgimentale intorno all’idea di Repubblica (argomento quanto mai attuale nella Francia del 2025), che si palesa contraddittorio se solo si considera l’assoluta modernità della Costituzione romana del 1849 e le idee rigide e condizionanti di Giuseppe Mazzini.

Il secondo è il superamento del duo – e dello schema classico, spesso alterno e ambivalente, che si instaura tra “maître et valet”, “maestro e allievo”, “padre e figlio”, ecc. – attraverso la creazione di un terzo interlocutore di analogo peso e importanza. Infatti, il giovane Orazio Torriani, protagonista ed io narrante, per essere posto nella condizione “ottimale” (scusa il termine) per dialogare con Marx, aveva bisogno che quest’ultimo non fosse (troppo) più in alto di lui. Per il ruolo per così dire paterno, che esige rispetto, tu inserisci allora la figura del Direttore della library, Sir Anthony Panizzi: un italiano, anch’egli esule risorgimentale, autorevole ma non autoritario, che si è perfettamente mimetizzato nello stile inglese e sa intrattenere molto abilmente i propri segreti. Grazie a questo preventivo “spostamento dell’autorità”, da Marx a Sir Anthony, diventa possibile un dialogo “quasi alla pari” tra il bibliotecario e il Dr. Marx, che senza difficoltà, a questo punto, può essere riguardato come un fratello maggiore o uno zio disponibile e simpatico. 

Il terzo è nella necessaria autorevolezza dello stesso Orazio Torriani: un vero rivoluzionario (non proprio del tutto inventato se somiglia così tanto all’autore…), che lavora come bibliotecario alla Library della Londra in piena trasformazione urbana della metà dell’Ottocento, che, per farsi accettare e ben volere da Sir Anthony, si comporta alla stregua di un Archie Goodwin efficiente e sorridente, che non farà mai ombra al suo Nero Wolfe. Si scopre ben presto che Orazio non è affatto l’ultimo arrivato, un volonteroso e intelligente giovane bibliotecario dalla promettente carriera. Anche se lui non lo dirà mai, egli è un eroe, un patriota che ha avuto a che fare con Garibaldi, Carlo Pisacane, Felice Orsini e, naturalmente, sia pur mantenendo qualche distinguo, fa parte della costellazione degli esuli londinesi che direttamente o indirettamente fanno capo a Giuseppe Mazzini.

Ed ecco il quarto punto: grazie al suo lavoro alla Library e ai suoi brillanti studi di matematica, Orazio Torriani potrà essere utile a Karl Marx, frequentatore assiduo della sala di lettura, dove dispone del suo posto fisso (tavolo 7, fila G): egli darà delle “lezioni” al grande filosofo del Capitale e del Manifesto del comunismo. Da questo inedito e azzeccatissimo rapporto docente-discente, costantemente invertito, scaturisce uno degli aspetti della modernità-attualità del tuo libro e della sua assoluta originalità.

Pagina originale dei manoscritti matematici di Karl Marx

Nei cinque mesi della sua collaborazione con l’uomo geniale e carismatico, il bibliotecario dialoga intensamente con il Dr. Marx, diventando ben presto amico suo e di sua moglie Jenny. Pur seguendo il fondatore del comunismo in tutte le sue peripezie mentali – qualche rara volta un po’ faticose per il lettore come forse per lui stesso, Orazio riuscirà, alla fine, a spingere il confronto e il dialogo ben al di là di una semplice analisi e riflessione dottrinale, ottenendo da quella icona-fatta-uomo giudizi liberi e spregiudicati, che attraversano il tempo come lampi gettati sul nostro drammaticissimo presente. Incontri del genere avvengono spesso, in ogni tempo, nella vita reale: al di là della cortina della gloria e dell’autorevolezza delle loro grandi opere, i grandi uomini sono quasi sempre persone semplici, disponibili e socievoli. Ma tu hai osato far scendere Karl Marx « giù dal pero », come direbbero a Bologna. A te è riuscito, meglio che ad altri, il miracolo di rendere accessibile a tutti il profeta e padre del comunismo nel mondo.

Nel rivelarci un “Marx dal volto umano” (ti ricordi il “socialismo dl volto umano”?), lo stesso Orazio si umanizza, tanto che, alla fine, al compiersi del lungo soggiorno londinese, egli si confida, aprendosi all’amicizia con il lettore.  Dopo cinque mesi di confronto ravvicinato con quell’inimitabile maestro, Orazio decanterà e vincerà la frustrazione e il sentimento di sconfitta per la fine drammatica della Repubblica Romana; tornerà nella sua città con una nuova, più solida consapevolezza riguardo al significato e alle prospettive della “rivoluzione italiana” e della vera libertà; superando in cuor suo la concezione individualistica e “gruppettara” che aveva caratterizzato il primo Risorgimento. Egli diventerà per tutti noi un promotore e portavoce autorevole della necessità di una immensa opera collettiva, la sola possibile. Come gli aveva detto Sir Anthony nell’ultimo saluto: «per afferrare il cielo… bisogna essere in tanti e mettere ogni giorno un mattone sopra l’altro, senza sosta. Ognuno porta il suo mattone, più o meno grande, e chi è più anziano li dispone sapientemente, fino a che altri, i più giovani, un giorno, salendo quei gradini, possano arrivare agevolmente alla meta, senza rischiare di cadere nel vuoto».

Concludo questa mia nota con un aspetto, volutamente meno sviluppato in questo libro, ma certo importante: quello dell’amore. Ho molto apprezzato la tua maniera di raccontare, quasi solo alla fine, ed in modo sintetico e traslato, le vicende amorose che il tuo Orazio aveva così scrupolosamente vissuto in segreto, affidandone la rivelazione alle canzoni del cuore-e-della-lotta insieme a quelle, più esplicite, ma “in inglese”, di Leonard Cohen. È a questo punto che mi è venuto da dire, d’istinto, a voce alta, nel nostro dialetto romano: «Bravo, me sei piaciuto!», perché la confidenza intima del personaggio-io narrante, lungamente attesa, sfociava in una conclusione liberatrice, in cui la mente eccitata del “personaggio narrante” si fondeva finalmente col corpo e col cuore: Orazio Torriani si mostrava a tutto tondo, con la sua personalità di poeta rivoluzionario. Ma erano stati altrettanto liberatori e propizi alla lettura anche quegli squarci di aria e di luce che sprigionavano dalle passeggiate nei parchi londinesi e, in genere, tutte le “pause” in cui Orazio fa la spola tra i suoi primordiali punti di riferimento: prima Sir Anthony Panizzi e Karl Heinrich Marx, poi il vecchio libraio romano, ormai novantenne, che sembra avere per solo ultimo scopo quello di un simbolico passaggio di testimone, o più esattamente quello di essere testimone dello sbocciare in Orazio di una nuova vita, la terza dopo i venti mesi della Repubblica Romana e i cinque mesi condivisi con Marx. Ed è tanto straordinario quanto inaspettato il finale, con l’ultima immagine della Roma ritrovata: Orazio non ha nessuna fretta di riallacciare i fili di una nuova quotidianità familiare, ha bisogno, prima, subito, di ritornare nel punto in cui la sua prima vita si era bruscamente interrotta: un palcoscenico a ciel sereno dove si era fatta la storia, in cui nulla però gli sembrava cambiato: « quando lasciai la libreria sapevo che era arrivato il momento che aspettavo da tanto tempo: tornare lì dove tutto era cominciato. Oltrepassai Porta del Popolo e mi incamminai lungo la Flaminia fino al limitare del Tempietto di S. Andrea. Una leggera brezza stava mitigando un caldo asfissiante a cui non ero più abituato. Quasi nulla mi sembrò cambiato da quella mattina in cui avevo visto cadere i miei compagni del Battaglione Universitario. Mi accostai ad un rudere romano, coperto di sterpi, decisamente meno nobile e imponente di quella colonna rosa che mi era apparsa in sogno qualche mese prima. Ma era quello il posto. Senza dubbio. «Eccomi fratelli. Sono tornato.» »

Caricatura di Honoré de Balzac esposta al Grand Palais, Parigi, 2016

Infine, caro Balzac, quello che fai dire ad Orazio a proposito della scrittura mi sembra estremamente coerente con tutto ciò che ti caratterizza e hai saputo costruire in modo veramente originale: «…Più leggo storie e più mi immagino di partire da lì per scrivere io nuove avventure, incastrando il mio di personaggio nelle pieghe della vita dei personaggi degli altri e aggiungendo quei particolari che creano un nuovo punto di vista, una contraddizione nella storia. Sono convinto che la contraddizione è spesso la più limpida forma di verità… [perché] ogni testo può essere letto come un mosaico di citazioni di altri testi, una mescolanza foriera di nuove assonanze. In questo modo, ogni testo nuovo è sia assorbimento sia trasformazione di altri testi ad esso preesistenti. E in questa operazione di riuso, le parole fatalmente diventano ambigue, ambivalenti, perché accanto al vecchio significato ne emerge sempre anche uno nuovo. L’intera opera è ambigua.»

Potrei continuare a scrivere, seguendo le altre tante suggestioni che questo tuo libro “bello e giusto” inanella, o magari sforzandomi di addentrarmi nei complessi ragionamenti sul plusvalore o sul “town design”… Mi piacerebbe avere la capacità, in particolare, di sviluppare un ragionamento sull’accresciuto ruolo della tecnologia e, in particolare, sul potere totalitario della tecnologia informatica nel Capitale dei tempi nostri. Mi ricordo che Renato Nicolini, in una relazione che fece per l’esame di Tecnica delle costruzioni, testo che passò di mano in mano per essere copiato, a volte di sana pianta, parlava molto efficacemente della tecnologia come una “ancella zelante” del capitalismo. Oggi, altro che “ancella”! Con un noto titolo teatrale si potrebbe ribattezzarla “La serva padrona”!

“Tutto ciò premesso e considerato”, come si diceva nei polverosi pareri di una gloriosa e obsoleta urbanistica comunale valutata “a spanna”, il tuo libro va bel al di là di quello che io ho potuto rappresentare: esso è talmente ricco, elegante e leggero anche nei suoi passaggi più “ponderosi”, che in un certo senso non è raccontabile e non può essere dunque colto in tutto il suo fascino al di fuori di un’adeguata e ripetuta lettura. A te, caro amico, i miei complimenti entusiastici e sinceri. Oltre ai tanti meriti che ti conoscevo e riconoscevo, e a quelli che rivela in gran quantità questo tuo romanzo, ce n’è uno che mi colpisce in particolare: la tua straordinaria pazienza, tenacia e determinazione nel costruire, pezzo pezzo, quasi di nascosto, come un vero rivoluzionario, questo perfetto mosaico, senza avere fretta, si direbbe, di rivelare in anticipo anche una sola delle sue tessere… e poi avere-trovare, al momento del “déclic”, la forza, la freschezza del gesto, la capacità di trasformare il castello di sabbia (e di rabbia) in un mondo dove scorre il fiume palpitante della vita. Un caro abbraccio Giovanni Merloni.

Marco Noccioli

(Confessioni di un bibliotecario n. 2: « Una strana gioventù »)

 

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12 jeudi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in poesie di claudia patuzzi, scritti e disegni di e su claudia patuzzi

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La passerella Bichat sul Canal Saint Martin (Parigi, X), acrilico su tela di Paolo Merloni

Piccolo vocabolario tascabile

Ovunque sola
ovunque straniera
ho compreso che le parole
come le pietre[1]
hanno il potere di abbattere
le lingue e le frontiere.

Quante parole cadono con fragore ?
Quante ondeggiano ancora nel vento ?
Quante parole tacciono, senza voce,
recluse nel cuore ?

Ci sono le parole-nave
veloci e leggere
che approdano sulla spiaggia dell’ « altro »
col sorriso di un ignoto marinaio[2]

Ci sono le parole-freccia
aguzze[3] come schegge di cristallo
che perforano lo schermo grigio
dell’ indifferenza e della rassegnazione.

Ci sono le parole-uccello
curiose e « vaghe »[4]
capaci di risuscitare la speranza
rinchiusa nella solitudine.

Ci sono le parole infantili
saltellanti come uno scoiattolo
che ci aiutano a ritrovare noi stessi
in un giardino perduto e incantato.[5]

Ci sono parole di sguincio rifrangenti
simili ai riflessi di uno specchio
prigioniere di misteriosi
labirinti e sogni.[6]

Ci sono le parole-onde
che attraversano gli ultimi rifugi
della storia, tutti gli inferni
e i cimiteri del mondo.

Ci sono le parole-fiore,
rosse come il sangue
degli innocenti,
che sbocciano sulle tombe
per ricordare l’ingiustizia.[7]

Ci sono le parole-rima
che raccontano ancora
senza annoiarci mai
le semplici parole :
« amore-fiore-cuore .» [8]

In fondo, per ultime,
ci sono le parole-vento
che volano minuscole nell’etere
in una bolla di sapone :
un folle volo.[9]

E per finire, nascoste in un angolo,
ci sono le parole inventate
non ancora trascritte
che premono sul guscio
come un pulcino nel nido.

002_finestra-gatto180

Qualcuno mi guarda (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Claudia Patuzzi

[1] Carlo Levi
[2] Vincenzo Consolo
[3] Albert Camus et Jean Paul Sartre
[4] Jacques Prévert et Giacomo Leopardi
[5] Italo Calvino
[6] Jorge Luis Borges
[7] Primo Levi
[8] Umberto Saba
[9] Dante Alighieri

TRADUZIONE IN FRANCESE

13 aprile 2014

Un angelo per Francis Royo

11 mercredi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in poesie di claudia patuzzi, scritti e disegni di e su claudia patuzzi

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Claudia Patuzzi, Francis Royo

 (disegno di Claudia Patuzzi)

Un angelo per Francis Royo

Il tempo d’un attimo, ahimè

il cielo s’è fatto buio

l’aria, una lastra di ghiaccio

si è appesantita di lacrime senza speranza.

Sospesi ai rami

la testa nascosta sotto le ali

gli uccelli si sono azzittiti

quando, di colpo, in fondo allo stagno

un cuore spezzato ha smesso di spedire

fuori dalle sue porte il suo sangue.

Aiuto! Ai bordi dell’universo,

in un tourbillon di atomi vagabondi,

Francis Royo ha lasciato cadere i suoi versi!

Qui da noi,

l’eco della sua voce di miele

risuona nel volo leggero

dei denti di leone, nella linfa

degli alberi, al riparo di un cielo

infinito, scivolando, come in sogno

sull’onda sconosciuta di un mare-madre.

Nel buio delle stelle

non smette mai

di sorriderci, volteggiando

tra i frammenti appuntiti

dei firmamenti in fuga

sfiorando, come una stella filante

tutte le tragedie del mondo.

Da un capo all’altro del Cosmo

danzano le sue voglie sublimi

affidando ai più intimi amici

lo slancio generoso delle sue parole:

«Non abbiate paura di rompere il velo!

Infischiatevene della nostalgia!

Nell’universo dei poeti,

ancor lungi dallo svanire,

io vi conserverò un posto

per non morire!»

Claudia Patuzzi

N.B. Avevo scritto questi versi l’indomani della scomparsa di Francis Royo. Io non smetto di essere toccata dalla bellezza delle sue poesie, dove incontro ogni giorno una nuova meraviglia, e confesso che la personalità tanto discreta quanto energica di quest’uomo straordinario mi manca moltissimo. Chiedo dunque scusa per la semplicità dei miei sentimenti di allora, che lascio alla loro brusca spontaneità. (8 luglio 2017)

C.P.

Il grido della natura (Disegni e caricature n. 44)

10 mardi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in scritti e disegni di e su claudia patuzzi

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Claudia Patuzzi, Disegni e caricature, Lido dei gigli

Claudia Patuzzi, Il grido della natura (2017)

«Non ho mai dimenticato il giardino fiorito della mia infanzia, tra nodose querce da sughero, un orto e un’altalena. Sul retro spiccava una pineta e un pratone selvaggio rosso di papaveri e, sul fondo, la lunga striscia azzurra del mare. Un cancello verde chiudeva quel giardino ameno in un bozzolo sicuro e profumato… Quanto tempo è passato da allora? Ma ecco che, molti anni dopo, un grido profondo e disperato, simile a un tuono, ha traforato l’aria e migliaia di lacrime di grandine hanno coperto le spiagge del nostro mondo trasformandole in laghi di ghiaccio, mentre la gente scappava impaurita verso la scalinata… Era il grido furioso della Natura… Il nostro mondo era un immenso e fiorente giardino, un tesoro insostituibile. Adesso respira a fatica. Gli animali e le api scompaiono. Abbiamo assoluto bisogno di un vero giardiniere…»

Claudia Patuzzi

(Pubblicazione trasferita da «Scarti e metamorfosi», precedente blog di Claudia Patuzzi)

“Sì, mi ricordo!”

09 lundi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in ritratti

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Lella Amaroli, Regione Emilia-Romagna, Urbanistica

Lella Amaroli (1947-2025) (ritratto eseguito da Saveria Bologna)

Carissima Lella, forse non ti ho mai detto che il mio nonno omonimo, romagnolo di Cesena, chiamò la sua seconda figlia Gabriella, che poi fu detta Lellina, mentre il terzogenito Merloni, mio padre Raffaele, era da tutti chiamato Lello. Dunque il tuo nome, Lella, mi è particolarmente caro. Del resto, quando a mia volta ho chiamato mia figlia Gabriella, in nome della zia Lellina e di una ragazza dagli occhi verdi che lavorava al bar del Bagno Ferrara a Cesenatico, Giancarlo Ferniani, il nostro comune grande amico, si mostrò contento per la scelta di quel nome “romagnolo”. Ma di Lella ce n’è una sola, e tu sei “la Lella” a cui tutti noi vogliamo bene, l’amica comune di cui parliamo sempre con la Saveria, la Patrizia Mantovani e la Paola Stanzani: tu sei proprio una “romagnola di Bologna”, dall’indole pacifica ma non necessariamente docile, portatrice di un’allegria festosa e di un contagioso entusiasmo, attraverso cui tu hai sempre filtrato, se non nascosto, le contrarietà della vita. La vita, ahimè, è difficile per tutti, ed è spesso vero che “mal comune mezzo gaudio”, ma poi non è così vero che tutti soffrono o godono allo stesso modo. E tu, come me, invece di prendertela troppo e di recriminare all’infinito, hai sempre considerato molto più dignitoso e luminoso dare a tutte le persone che lo meritano la tua amicizia e il tuo amore. Anch’io ti voglio bene, e mi ricordo benissimo di te, spesso accomunata alla magnifica Rossella e alla rimpianta dolcissima Anna Agnetti, e in numerose altre occasioni – tra cui la vacanza insieme in Ungheria nella « carovana di Ferniani » dell’agosto 1975 -, nonostante le varie lontananze che si sono succedute da quando, a metà degli anni ‘90, si è fatto sempre più sporadico il mio rapporto pendolare con Bologna (ci incontrammo, se ben ti ricordi, in occasione del Congresso dell’INU del 1995). Anzi, la distanza – in linea d’aria o ripercorrendo il tortuoso tracciato di una carta stradale immaginaria che scavalca le Alpi e piomba su Torino, poi su Piacenza e infine sulla via Emilia – mi aiuta a concentrarmi di più sul peso della mancanza di tante persone di Bologna che difficilmente mi capiterà di incontrare per caso, come avveniva quando si viveva tutti in quella stessa città. Ora che sono a Parigi, questo esercizio della memoria si è fatto ancora più intenso e, di anno in anno, frustrante e doloroso; ma credo appartenga a ogni essere umano, accanto al bisogno di ricordare, il desiderio di essere ricordati; tutti gli esseri umani sperano che alla domanda “Ti ricordi?” segua la risposta “Sì, mi ricordo!”

Già l’immagine qui sopra (che fa parte di un vasto dossier, curato da Saveria Bologna, intitolato « Noi di via Alessandrini »), pur ritraendoti di profilo dietro alla collega Graziella Musolesi, sarebbe già sufficiente per ricreare in me il sapore e l’atmosfera di questo nostro straordinario passato comune. Ricordo di un’epoca certo imperfetta, ma sostenuta da una guida (nella fattispecie un « Guido » Fanti, a sinistra nella foto) e dal comune ideale « di fare », di « fare il meglio possibile » e, soprattutto, di agire « dalla parte giusta ». E i nostri « capi » ci coinvolgevano anche nelle iniziative politiche importanti. In questa foto, per esempio, l’allora semplice geometra Lella Amaroli, da poco « imbarcata all’urbanistica regionale » (insieme ad altri 39, grazie ad una famosa delibera in cui erano assunti architetti, ingegneri, geologi, geometri e disegnatori, tra cui c’ero anch’io), stringe la mano ad una rappresentante del ministero degli esteri del Vietnam a cui l’Emilia-Romagna dava un appassionato sostegno, non solo morale. Ricordo di persone che ebbero la « chance » di essere messe in valore, di potersi esprimere al meglio.

In questa seconda immagine (facente sempre parte del citato dossier e scattata lo stesso giorno della precedente) ti vedo circondata da alcuni dei « pionieri » dell’urbanistica regionale di cui facevo parte anch’io. Riconosco da sinistra verso destra Patrizia Canella, Gianni Ravaglia, Magda Zuccheri, l’assessore Fausto Bocchi, Paola Elmi, Graziella Musolesi, Lella Amaroli ed Ermanno Colafranceschi. Nell’assumersi nuove, gigantesche responsabilità la neonata Regione (siamo nel 1972) non aveva paura di sbagliare perché era pronta a correggere il tiro, ad avanzare fiduciosamente verso l’avvenire come può verificarsi ancora oggi nelle famiglie unite e responsabili purché, attenzione, si sforzino sempre di non essere gelose della loro felicità. Lo stesso dialogo aperto e costruttivo (ma veramente aperto e costruttivo) che si svolgeva tra tecnici e politici all’interno degli uffici regionali, si svolgeva poi con i comuni, con le provincie e con i comprensori, che erano i nostri principali interlocutori. Forse, nel tempo, la patina burocratica ministeriale – che avevamo trovato arrivando e spazzato via grazie al cosiddetto « appoggio responsabilizzante » di Fausto Bocchi (il nostro instancabile assessore all’urbanistica, che, « coprendoci le spalle », ci mandava avanti nella nostra azione di svecchiamento e di rottura) si è incrostata di nuovo su quel mondo e su quelle difficili « pratiche ». Ma io credo che il nostro lavoro di allora abbia lasciato una traccia profonda e difficile da cancellare: io sono convinto che in quella Regione lo sforzo di ragionevolezza e di onestà culturale regni ancora, incontrastato, da tutt’e due le parti del tavolo, mentre gli interessi locali, anche se, spesso, condizionati fortemente da quelli privati, vengano ancora oggi inquadrati in una visione equilibrata e corretta delle necessità (dei cittadini e delle imprese), nonché dell’estrema limitatezza e fragilità delle risorse (tra cui c’è anche il suolo).

Scusami, Lella, per essermi addentrato in un discorso un po’ noioso, che magari interessa a te e molto meno a chi ora ci legge, ma questa fotografia mi ha fatto ritornare indietro nel tempo e, poi, ripercorrendolo per tornare al presente, ti ho vista nella tua stanza, in quei corridoi, con quelle carte in mano, con quel sorriso spavaldo e ho avuto la netta sensazione che, almeno per quel che riguarda la tua lunga e dura vita lavorativa tu hai dato un contributo essenziale, lavorando nella giusta direzione. Mio zio Edoardo Perna, uomo politico e giurista di primo piano, che sgobbò tutta la vita senza mai cercare il microfono e i riflettori, prima di morire mi disse: «Si viene al mondo, si cerca di fare qualcosa, e si muore…» Una frase un po’ amara e dolorosa, che contiene però in sé l’orgoglio e la viva consapevolezza di aver fatto qualcosa di grande e soprattutto di necessario. E tu, anche tu Lella, hai fatto una cosa bella e necessaria che resta. Di cui puoi essere pienamente orgogliosa.  

Ricordo benissimo, cara Lella, quel mitico viaggio notturno verso l’Est, capitato in un momento particolarmente “scomodo” della mia vita difficile. Mi ero separato da soli venti giorni, avevo accompagnato a Piombino la mia ex famiglia (con la Volkswagen nera di Patrizia Mantovani), l’avevo vista salire, non senza angoscia, sul traghetto dell’isola d’Elba, ma dopo tutto questo trambusto ero solo per le vie di Bologna, la mia nuova “fidanzata” essendo partita per un bel viaggio, lasciandomi per consolazione una manciata di libri da leggere nei giardini e sulle panchine di Bologna. Con la sua trascinante allegria Ferniani mi aveva tirato fuori da quella patetica condizione “invitandomi” nel suo Balaton e, in quattro e quattr’otto, con l’aiuto prezioso di Colafranceschi Ermanno detto Cola, mi procurai il visto, indispensabile per entrare in Ungheria. Dovetti anche rinnovare in fretta il passaporto e ciò fece ridere il suddetto Cola, quando si sentì dire che, così abbronzato e arruffato nella foto della macchinetta, mi avevano preso per il terrorista Mario Tuti, ricercato… 

Partimmo di sera, con due macchine. All’andata, ero io a guidare quella di Giancarlo, mentre Giancarlo guidava quella di Luigi, il tuo compagno di viaggio, un uomo di qualche anno più grande di noi, dal comportamento gentile e riservato. Dopo il confine con la Jugoslavia, all’altezza di Lubiana, un temporale si abbatté sul nostro percorso e dovetti arrangiarmi nonostante il tergicristallo spezzato, viaggiando con il braccio fuori dal finestrino per combattere con un fazzoletto zuppo il “combinato disposto” dell’appannamento e della pioggia, a rischio di perdere il contatto con la macchina davanti. Accanto a me c’era Marisa, la “fidanzata” di Giancarlo che poi diventò sua moglie, che faceva il possibile per aiutarmi. Dietro c’era il quarantenne Gattini, che non ricordo più cosa facesse nella vita e il più giovane Cavina, provetto piastrellista. Ricordo benissimo che, ad ogni casello autostradale, Giancarlo aveva sempre pronte le monete precise per ognuna delle due macchine. Quando ormai era l’alba, entrammo in Ungheria. Era la prima volta (su due) che mi recavo in un paese dell’Europa dell’Est. La Jugoslavia, dove avevo fatto una vacanza nove anni prima, per me non contava. Una certa emozione cominciò a serpeggiare nella mia testa ronzante. Ma non mancarono, in quella eroica traversata della notte, le ondate di malinconia, anzi il mio più che pesantissimo magone esistenziale. Raccontai alla mia compagna di viaggio gli eventi traumatici che, nell’arco del precedente “luglio di fuoco”, avevano sconvolto irreversibilmente la mia vita. 

Quando arrivammo nella nostra dimora ungherese, eravamo tutti distrutti. Lo deduco ora dal fatto che, dopo tutto quel buio, mi ricordo solo di essermi svegliato in un lindo lettino ai piedi di una scala piena di luce, e di aver visto scendere con aria solenne e quasi militare una distintissima famiglia ungherese, costituita da padre, madre e figlia di tredici-quattordici anni, vestiti a festa, in procinto di fare la solita “bella passeggiata” lungo il lago. «Che or’è?» domandai alla bionda romagnola che sgusciava da una porta del pianterreno. «Ti ho portato un panino, non ti ricordi? hai mangiato dormendo», mi disse affettuosamente. Poco dopo, tutti coloro di cui avevo intravisto la testa e le spalle nell’oscurità del viaggio uscirono come topi dalle tane, come se la partenza dei padroni di casa fosse un segnale convenuto. Cominciò così quella stramba vacanza, in cui ci aggiravamo un po’ a caso, come dei forsennati, in piedi o in macchina, sempre al seguito della nostra guida esperta e carismatica, ansiosa di raggiungere ora l’uno ora l’altro dei paesi dal nome esotico e favoloso che costeggiavano quel lungo lago orizzontale il cui fascino non sta in una travolgente bellezza ma piuttosto nella sua misteriosa e ipocrita capacità di nascondere, di giorno, le qualità umane dei tanti e  tante che vi si recano, per poi rivelarle… di notte. Insomma, la lunga distesa d’acqua piatta del Balaton ha qualcosa di molto affine se non identico alla lunga riviera adriatica romagnola, da Gabicce a Lido di Savio. Allora, perché andare tanto lontano? Tra i tanti ricordi di quella breve vacanza mi sono rimaste impresse le “terrazze” dei bar, da cui non si vedeva quasi mai il lago. (Quello, il lago, si vedeva solo quando ci entravi dentro, con l’inquietante sensazione della sabbia melmosa sotto i piedi, mentre l’acqua, densa come nebbia e impregnata di alghe, si strusciava subdolamente tra le nostre gambe incerte). In quelle terrazze si oziava animatamente, sotto gli ombrelloni con su scritto OUZO o MARTINI, sempre preoccupati di fare corpo intorno a colui che riuniva tutto e tutti con la sua sorridente bontà, ma anche, fatto non trascurabile, con la conoscenza di quella incomprensibile lingua magiara che non offriva nessun appiglio di somiglianza con nessuna delle nostre parlate, ufficiali o dialettali che fossero. Un osservatore esterno — vedendo il nostro gruppo stravaccato alzarsi di scatto per seguire il “capo” dall’espressione arguta, che sembrava voler andar via, ma poi ci ripensava, andando a risedersi in un altro angolo della terrazza — sarebbe restato forse interdetto vedendo i nostri continui spostamenti di bicchieri e tazzine. Ma forse non facevamo che adeguarci ad un’abitudine del posto, forse lì facevano tutti così. Certo non ci annoiavamo del tutto: non mancavano le battute più o meno spinte, con cui Giancarlo intratteneva le diverse sensibilità del suo pubblico; oppure venivamo trascinati in balli surreali e grotteschi dove potevano verificarsi in modo del tutto naturale delle stranezze. Come quella volta che un ungherese male in arnese mi invitò, con gesti un po’ grossolani, a ballare. E Giancarlo disse, facendo una vocina divertita: «Vuole ballare con te!» Credo che quelle imbarazzanti situazioni fossero la naturale  conseguenza del gemellaggio ideale tra la Romagna e il Balaton, di cui Ferniani era promotore e artefice nello stesso tempo. Credo che siano perlomeno un centinaio, ormai, le persone che sono andate in Ungheria con lui, ed è probabile che qualcuno dei suoi “discepoli” abbia finito per installarsi laggiù, attirato dalla semplicità della vita, meno stressante e costosa  laggiù rispetto a quella che si svolge qui da noi. Ma perché strapparsi dalla Romagna, la patria della “tolleranza amorosa” per eccellenza? Le nostre giornate di terrazza in terrazza erano in realtà ipotecate  dalla nullafacenza e dall’attesa dell’uscita serale. Ora, ripensandoci bene, potrei scommettere che tu, Lella, non c’eri o sparivi discretamente con il tuo Luigi per ricomparire magari il giorno dopo. Oppure andavi a fare il bagno con la Marisa, o, insieme, andavate in giro da sole. Noi uomini partivamo in macchina con Giancarlo il cui grido preferito era «Avanti Siófok!», perché Balatonsiófok era il principale centro di attrazione di tutto il bacino lacustre. Lì, una sera, tra il lusco e il brusco di una improvvisa solitudine, fui provvisoriamente attratto dalla silhouette e dagli occhi romantici di una ragazza bionda che, mentre cercavo di parlarle in un inglese molto elementare, si girava continuamente verso il palco. E dovetti subito arrendermi all’evidenza: a nulla potevano le mie poesie improvvisate o i miei scarni ritratti a penna, di fronte al potere di una chitarra e di una voce dotata di microfono. Del resto, ero tutto fuorché un uomo libero, né ero minimamente capace di approfittare di quella passerella di corpi slanciati o cicciottelli dentro cui albergavano tante anime dallo sguardo comprensivo. Dunque mentre i più “motivati” se ne stavano ficcati in un letto con la sola interruzione del mangiare e di qualche ora di sonno; mentre Giancarlo correva di qua e di là con la sua fidanzata per andare a trovare i suoi amici del Balaton, io leggevo “La realtà separata” di Carlos Castaneda.

Le uniche persone che cercavano di trarre il miglior profitto da quella stramba pausa ungherese eravate voi due, Lella, tu e il tuo compagno Luigi. Fu così che, del tutto spontaneamente, si creò una piccola succursale della grande comitiva ed io, tu e Luigi, con la scusa che io non ci ero mai stato, partimmo ad un certo punto per Budapest e per una regione ad est della capitale che tu non avevi ancora visitato. Avevate una grande tenda bianca familiare, ora ricordo, e ci dormimmo una o due notti. Quella piacevole e liberatoria parentesi “culturale” fu resa possibile dal cambio favorevole e dal fatto che là tu, ormai “veterana”, cominciavi a destreggiarti con quella lingua impossibile e te la cavavi perfettamente con i conti e i menù dei ristoranti. Ti lasciammo volentieri l’iniziativa e, sempre dietro di te, girammo a lungo per la capitale ungherese. Ricordo con precisione la bella terrazza panoramica di Buda, dove troneggiava la statua di un terribile tiranno. Questo imponente personaggio offrì a Luigi l’occasione per manifestare la sua sperticata ammirazione: «Mattia Corvino! Quello lì non scherzava mica. Quando arrivava lui, tutti rigavano dritto!» Dall’alto, si godeva una visione straordinaria del Danubio, del suo magnifico ponte “Erzsébet” e dell’altra metà della capitale ungherese. Scendemmo poi a Pest, dove sostammo, un po’ perplessi, nella piazza degli Eroi, delimitata da una grande esedra su cui spiccavano almeno sei statue equestri lanciate in una corsa sfrenata. Al centro, in groppa al cavallo più robusto e spasmodico, c’era Attila, quello che da noi è chiamato “flagello di Dio” mentre lì è egli stesso Dio. Più tardi, mentre passeggiavamo per quei quartieri dai larghi marciapiedi, calò la sera, che ci sorprese per la sua animazione “parigina”, con i suoi parrucchieri aperti alle undici di sera e i giovani che pattinavano sulle strade larghe e lisce. Tu chiedesti a una signora molto alta se conosceva un ristorante un po’ tipico. Seguendo i gesti e le poche parole di quella austera abitante di Pest, tornammo a girare per le viuzze di Buda, di notte, prima e dopo aver piacevolmente soggiornato in un ristorante dove un gruppo di zingari cantava e ballava al ritmo della “czarda”.

In una bancarella dove il folklore si riproduceva in più esemplari, comprai una camicetta bianca con un ricamo rosso per la “donna assente” che, da quella distanza, era diventata, ormai, una piccola matrioska, anzi la più piccola di quelle che Luigi aveva comprato per il suo scaffale di Bologna. Se ben mi ricordo, cara Lella, in quella vacanza, fosti contenta di scoprire con me vie, piazze, monumenti e locali caratteristici, ma alla fine eri preoccupata, più per me che vivevo tra l’incudine e il martello che per il nostro comune amico, che in fondo era libero come un uccel di bosco.

Giovanni Merloni

Il blu di me

08 dimanche Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in poesie di claudia patuzzi, scritti e disegni di e su claudia patuzzi

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Claudia Patuzzi, Filippo La Porta, Gattomerlino, Piera Mattei, poesie, Roma, Scrittrice

«Poche parole per dire come questo libro è nato: sono stata contattata da Giovanni Merloni che non conoscevo.  Ma lui scriveva accanto al suo nome “marito di Claudia Patuzzi”, che invece ho conosciuto e ammirato, e mi ha fatto sapere che Claudia alcuni anni dopo il loro trasferimento a Parigi si era gravemente ammalata e che ora vive solo nel ricordo di lui, che cerca di fare ordine nelle carte di lei.   Aveva trovato molte poesie anche se Claudia non ne ha mai pubblicate, preferendo di legare il suo nome al romanzo.  Nasceva così il progetto del libro che conterrà le poesie scritte da Claudia nell’ultimo periodo, con due delle buffe storie che Claudia pubblicava sul suo blog parigino, e anche il disegno di copertina sarà un suo disegno. Ma il libro riunirà inoltre Giovanni e Claudia, mediante una breve nota di lui alla loro vita insieme.» 

Piera Mattei (scrittrice ed editrice)

Copertina « Claudia » di Claudia Patuzzi e Giovanni Merloni, Gattomerlino, Roma, 2025

Filippo La Porta parla della poesia di Claudia Patuzzi

*

Quando sarò vecchia

I

Quando sarò vecchia

avrò due ali di farfalla

trafitte da uno spillo

una mentina di riserva

e un vestito paraurti

del dottor Gibaud.

Da brava ammutinata

bucherò lo skyline

sfonderò il cupolone

dell’urbe indifferente.

Al rallentatore, aggirerò

la rabbia e le curve

saltellando

al centro della strada

come un passero

tra miliardi di accidenti

felice dei miei vistosi

occhiali blu.

II

Quando sarò vecchia

avrò una cipria invisibile

molte rughe a sfoglia

una treccia color paglia

e un lifting da ragazza.

Felice del mio vento

cinguetterò trasognata

tra file di befane

contraffatte

in una pomposa nuvola blu.

III

Quando sarò vecchia

avrò una sola cataratta 

un cane dalla coda alzata

compagno fedele di giornata.

Tra protesi lavabili

correrò via riciclata

abbaiando alla vita sulla mia

motocicletta blu.

IV

Quando sarò vecchia

non avrò petto né pube

mi sveglierò un mattino

tirata a lucido col sidol

una lavagna lavata

da un pennello intinto

nel nirvana.

A braccetto con Siddharta

guiderò a zig-zag

come una cieca

il mio vagone

d’inchiostro blu.

V

Quando sarò vecchia

non sarò più una piuma

leggera e svolazzante

sotto la quercia antica:

ritornerò pietra. Sarà il vento

a scolpire il mio volto

di anziana cheyenne

nel granito di Finisterre

o nel marmo di Carrara.

VI

Quando sarò vecchia

le ossa smetteranno di suonare

il carillon.

Inseguita da nere guardie

accetterò la sfida

incendierò i vestiti

getterò chiavi e porcellane

schiaccerò la croce

veloce come Trilli

lancerò il mio giocattolo a molla

su un’autostrada blu.

VII

Quando sarò vecchia

parlerò ai morti

a colazione

pregherò i vivi.

Prima di dormire

innaffierò le piante

all’alba

tra l’urlo dei gabbiani.

Prima di morire

leggerò Dante e Topolino

libererò la mosca dal bicchiere

poi, in silenzio

metterò il crocifisso

tra le scope.

VIII

Quando avrò cento anni

volerò su una vecchia

Maserati amaranto

leggera come

una strega arruffata

libera di ghignare

al vento

il vaniloquio blu

di un secolo già morto.

IX

Quando sarò vecchia

aggirerò scale e pozzanghere.

Col tacco basso eviterò i rifiuti

col bastone scalzerò le tracce

dei bugiardi e sniderò

l’olezzo benestante

dei morti benpensanti.

Tra cristiane grasse e cicisbei

trionfanti scivolerò in silenzio

in sintetici indumenti da Star Wars

aspettando

sul ciglio della strada

il lampeggiante occhio

del Blu.

X

Quando sarò vecchia

odierò i bambini sputasentenze

i clienti inodori di Blockbuster

i commercianti senza scontrino

i controllori dei supermercati

i vicini spioni che non salutano

i bulli depilati che ridono negli autobus

i politici imbroglioni che masticano l’ostia

i preti impiccioni che ti guardano il sedere

i medici che rifiutano la morte

e tutti quelli che si

fingono buoni

poi mi dissolverò nel blu

e dichiarerò guerra.

XI

Quando morirò

voglio qualcuno accanto a me

a vedere la commedia.

Voglio dare spettacolo senza vergogna

e raccontare la barzelletta più idiota

e il ricordo più dolce.

Voglio gridare l’urlo più disperato

e l’amore più assoluto.

Voglio consegnare

l’incandescente lampada blu

a colei che mi è più cara e tenera

a colui che piangerà al mio fianco,

– quel giorno – senza voltarsi.

XII

Quando sarò morta

caduta da un ponte

sottile come l’aria

dormirò nel silenzio

di una laguna blu

che il Guardi non dipinse.

I pesci mi scivoleranno accanto

sinuosi e indifferenti

tra fluorescenti meduse.

XIII

Quando ero vecchia

credevo di essere eterna

pompavo sangue come una

fisarmonica imbevuta di Chianti

lanciata a pieno ritmo su una cordigliera

poi non ho visto l’incrocio blu

e sono morta.

XIV

Ora non ho tomba né fiori:

sola come Bruto maledico

il silenzio e l’ingiustizia

scansando l’odore dei morti

a gara col vento.

Claudia Patuzzi

(Roma, 21 maggio 2007)

Copertina del libro « Claudia » edito da Gattomerlino, 2025, part.
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