Anita Azzolini, Carla Terenzi, Claudia Patuzzi e Lia Coronati
Domenica 30 agosto 1964
«Caro Beppe, e cari tutti, è venuto! È venuto il grande giorno, il giorno della recita! Ma ora, quando ti scrivo è finito tutto ed io mi trovo in uno stato di pieno relax, con i muscoli rilassati e gli occhi tristi. Eppure, dovrei essere felice e amare la felicità di quelle due ore, abbracciare con le lacrime gli applausi e le lodi. Sì, Beppe, sono stata la più brava! Il truccatore del signor Azzolini, di nome Laghi, mi ha truccato perfettamente ed io sono diventata di botto il vecchio Nat, che per tutta la recita ha fumato la pipa davvero. Mondo mio di quelle due ore! Che ansia! Quale piacere! “Magnifica, sei stata magnifica!” “Complimenti, Claudia sei stata la migliore non dico bugie”. “Brava bravissima! Sei stata molto disinvolta! Brava!” “Hai attitudine, molta attitudine!” Ma per me non è stato che silenzio, un silenzio di tristezza e di ronzio. Che volevo di più? La recita era andata bene ed io, poi, benissimo! ma… oh benedetto Iddio! fatemi capire cosa volevo! Cosa potevo volere di più! Forse il sole! No! il sole sarebbe stato troppo! Dopo la commedia sono diventata Claudia con coda di cavallo e vestito giallo: addio Nat! Ah! Le mie ali si squagliano al sole come quelle di Icaro! “Brava, brava, brava!” Basta!!! Smettetela o mi butterò dentro il pozzo, perché sento di odiare la felicità ed ho voglia di strapazzare le mie ali. Ma finalmente è finito tutto e sento i respiri regolari delle mie “colleghe” e l’odore del vermut che bevo: odio il vermut, ma finalmente è finito tutto.»
Claudia Patuzzi e Carla Terenzi
Lunedì 31 agosto
«Caro Beppe, mal di testa. Quel mal di testa familiare che viene dopo giorni come quello di ieri. Beppe! cosa c’è di più doloroso d’una speranza sfracellata, tolta con tutte le radici all’improvviso? Tutti mi dicono ancora “Brava! Brava! Brava! Sei stata brava! Vai all’arte drammatica! Hai attitudine! Vai all’arte drammatica, vai all’arte drammatica! drammaticaaaa!” E per un momento io ho pensato e ci potevo anche andare e mi ha preso allora la speranza di una vita nuova, meno pacata, ma le radici della mia casa, sono state staccate via forte dalla voce positiva e sobria di mia madre: “Ma che arte drammatica! Certo che reciti bene, ma non per questo devi rovinarti la tua posizione e lavoro futuro. L’arte drammatica non garantisce nulla e vi si lavora ben 10 ore al giorno, in severissimo regime. No! Dai retta a me, Picciotta, lascia stare. Il lavoro! Il piacere di avere un lavoro solido e sicuro!” Ed allora Picciotta ha sospirato e aveva gli occhi lucidi: Pazienza! Io ho solo quattro doti: recitazione, disegno, ballo, italiano. Dio! fammi realizzare almeno una di queste! Dio! Questa sera parto per Roma e vi sto tre giorni insieme a tutta la famiglia. Vado a Roma come in una fuga!» [1]
Anita Azzolini, Carla Terenzi e Claudia Patuzzi
[1] Estratto dal « Diario intimo di Claudia Patuzzi » (inedito)
La scrittrice Claudia Patuzzi nella sua stanza di via Macrobio a Roma
«Se mi alzo e mi muovo per la stanza sento l’ombra del suo sguardo su di me; le sue occhiaie vuote, scure, si posano sulle mie spalle mentre leggo un verso, e la mia voce rimbalza come l’eco sulle pareti bianche, asettiche e incolori, di gesso. Il suo sguardo è lì, dovunque io vada o mi muova, mi sieda e mi rifugi in un angolo, come un chiodo su una parete bianca. È sempre su di me. In effetti non ha occhi ma un piccolo naso ocra scuro là dove posano le orbite. L’ovale del viso e così perfetto e leggero da conferire a quell’impalpabile sguardo una certa grazia. Il naso è dritto e la bocca, tagliata da una linea retta senza espressione, è ferma. Non mi incute paura, ma protezione. Un “genius loci”. Emana solitudine, quell’aria di chi ha avuto qualche indefinita sventura o dolore e che continua a vivere tra la gente, passando per via. Il colletto della camicia spicca sull’ocra scuro dello sfondo di destra. La fronte alta, smisurata e una fascia dello stesso color mattone ferma i capelli del capo. Col tempo ho imparato ad aspettarlo. Appena entro nella stanza è lì, sulla destra, ad aspettarmi, appollaiato su in alto, sopra la mia testa, là dove a volte pesa un crocifisso. Lui non conosce Dio, né dei. Lui vuole me dall’inizio e mi aspetta. L’abbiamo trovato nell’aula all’inizio dell’anno. Chi lo aveva lasciato? Era stato dimenticato? Subito ne ammirai l’insolita fattura, l’aria vaga e misteriosa, tipica dei segnali e dei simboli vuoti che aspettano di vivere sotto lo sguardo di un altro essere. Appena posai lo sguardo su di lui, mi trovai sotto controllo. Egli divenne l’implacabile corollario del mio corpo e del mio essere. Il mio guardiano, il mio fedele e implacabile “Tu devi”.»
Claudia Patuzzi
La scrittrice Claudia Patuzzi (16.3.1951-5.2.2024)
“Il pericolo viene da Kafka”, libro di cui Francesco Neri trovò il manoscritto in bella evidenza sulla scrivania del padre dopo la sua morte, rispecchia in ogni suo passaggio la personalità e la “misurata complessità” del suo Autore. E anche, in filigrana, l’epoca, anzi le epoche che i diciannove racconti evocano e illustrano: altrettante fasi, spesso cruciali, della vita reale di Giuseppe Neri (da tutti conosciuto come Peppino).
Volutamente, in questi diciannove “momenti esemplari”, e in qualche modo didascalici di un’epoca oramai al tramonto, l’Autore non dice mai tutto, non spiega, preferendo lasciare il lettore libero di scorrazzare sulla pagina e fornendogli soltanto qualche breve raccomandazione e istruzione perché eviti di smarrirsi. La prima sensazione che vuole darci, infatti, è quella di “leggere con lui” un libro che parla di altri da lui, ma anche quella di offrirci un testo dove potremo anche incontrare, tra le righe, le voci di coloro a cui vanno le sue più sentite predilezioni: un parallelo invito alla lettura di Kafka, Musil, Joyce, Giuseppe Berto, Carlo Levi e magari, implicitamente, anche Borges o Bulgakov: veri e propri amici e compagni di strada che Neri chiama a testimoni delle proprie divagazioni e illuminazioni poetiche.
Questo suo desiderio di condivisione di una propria “passione dominante” è in ogni caso rigorosamente irregimentato in uno stile di racconto e di vita dove la sua naturale, inconfondibile riservatezza si traduce sempre nella fissazione di un limite e di un filtro. C’è un grande pudore nell’opera di Peppino Neri e nella sua stessa persona, che scaturisce dal pudore-orgoglio della dura e nobile lotta esistenziale da lui sostenuta per il progressivo affrancamento dalle condizioni di abbandono e di isolamento culturale subite nella prima parte della sua vita, legate soprattutto alla terra — una zona interna della Ciociaria — in cui nacque, nel 1936, in pieno ventennio fascista. Ma Neri non è un « self made man” come tanti altri, magari emigrati in America per farvi fortuna (tra cui si annoverano tra l’altro alcuni suoi mitici zii e cugini). Giovanissimo, a metà degli anni Cinquanta, Neri si trasferì nella Capitale dove poté assumere, sin dai primi giorni, e poi sempre più validamente e intensamente, un riconosciuto e apprezzato ruolo centrale nell’immenso lavoro di svecchiamento e di diffusione intelligente e meditata dei valori che la letteratura italiana e straniera potevano veicolare, rendendo gli italiani più civili e aperti al nuovo. Tanto più prodigioso fu questo lavoro quanto più riservato, disinteressato e in fin dei conti umile era il modo con cui Neri si poneva e proponeva le sue invenzioni e scoperte.
Tanto riservato da diventare quasi ostile agli elogi e alle critiche positive del suo operato e dei suoi libri. A me capitò, per esempio, di non avere risposta al mio entusiastico e convinto commento al suo “Sole dell’avvenire”, perché, evidentemente, lo avevo messo in imbarazzo se non addirittura infastidito.
Venendo più specificatamente a “Il pericolo viene da Kafka”, corre l’obbligo di aggiungere che in Peppino Neri albergava un’altra passione, anch’essa dominante, quella della politica, nel senso più nobile ed elevato del termine. Accanto alla necessaria rivendicazione delle sofferenze patite dai popoli, e delle lotte non sempre vittoriose per affrancarsene — che anche in questo ultimo libro ispirano a Neri alcune pagine scultoree e asciutte dedicate alla sua Colleforte d’origine (Sant’Apollinare, in provincia di Frosinone), prima e durante la Seconda guerra mondiale —, l’Autore collega l’amaro paradosso degli “eterni traditi e sconfitti del sud” ai personaggi senza patria di Kafka, Bulgakov e Musil (che quasi si divertono nel constatare l’ineluttabilità della loro condizione di perdenti), aprendo così uno squarcio sulle gravi e non risolte contraddizioni del nostro accidentato dopoguerra e del nostro tipicamente italiano dramma esistenziale.
«Evitate di leggere Kafka…», consiglia Neri a tutti coloro che, prigionieri della società dei consumi e di un modello di vita estremamente frustrante come quello americano, non possono rinunciare ai nuovi mulini a vento prodotti dal dio denaro e alle relative catastrofi: “Voi direte: cosa c’entra lo scrittore praghese [Kafka] con l’imprevedibile, misteriosa, enigmatica avventura del successo? Io sono convinto che c’entri. […] Che cos’è il successo? Lo so che ci si sono provati in molti, sociologi, psicologi, mass-mediologi, fior di professori a rispondere a questo interrogativo e tutti hanno elaborato dotte e complicate teorie, hanno avanzato acute e sottili ipotesi. Anch’io — scusate la modestia — ho la mia piccola teoria in proposito. Il successo, per me, è il coraggio della banalità. Il successo poggia sulla protervia del luogo comune, sull’assenza di ogni problematicità…” (pag. 63)
Questo argomento è via via sviscerato o soltanto evocato con un’eleganza e una leggerezza estrema, mentre i personaggi dei diversi racconti, incapsulati come sono nel loro limitato destino, subiscono in silenzio e nella più terribile solitudine le assurdità del mondo.
Peppino Neri (Formia, primi anni 2000)
Sei racconti della raccolta (“Gli asini”, “Il sacrificio”, “Il predicatore”, “Il disfattista”, “Il discorso” e “L’odore della letteratura”) sono ambientati a Colleforte. Tutti e sei trascinano il lettore nell’atmosfera speciale di un ricordo lucido, appassionato e quasi pudico: si direbbe lo sguardo di un bambino ed è probabilmente sulla base dei suoi ricordi d’infanzia e d’adolescenza che Neri ha rivissuto questi episodi strani o magici, misteriosi o scandalosi, eroici o ridicoli, lasciando peraltro trasparire in essi i parametri di interpretazione dei fenomeni che erano tipici di quella collettività arcaica, posta ai margini della cosiddetta civiltà.
Il racconto più personale, da riconnettere però ad uno sguardo più adulto, è “L’odore della letteratura”, in cui un giovane intelligente e curioso scopre la lettura grazie ai vecchi giornali con cui il pescivendolo ambulante incartava il suo pesce non sempre freschissimo: “Da allora, Ettore, associa la letteratura a quell’inconfondibile odore. Ma se all’origine questa percezione era legata solo a ragioni per così dire olfattive, in seguito, quando anche lui incominciò a sperimentare la fatica e l’aspra felicità di dar corpo ai fantasmi della mente, di rendere credibili, con le parole, le azioni di personaggi inventati, si rese conto che lo scrittore, e dunque la letteratura, non fa altro, e i grandi della letteratura altro non hanno fatto, che dannarsi su due grandi temi: la vita e la morte”. (pagg. 104-105)
Un racconto-ponte tra due epoche lontanissime e inconfrontabili tra loro è “Il Natale del clochard” dove il mendicante di nome Nazareno, nel pieno della sua solitaria e disperata “riappropriazione proletaria” in un supermercato romano, cede per un attimo al terribile ricordo della tragedia personale e familiare, ai tempi della Seconda Guerra mondiale, che condivise con un gruppo di compaesani di Colleforte e probabilmente lo segnò indelebilmente: “Gli abitanti del paese avevano abbandonato le loro case e si erano rifugiati, nell’illusione di scampare ai perigliosi agguati, alle mortali insidie della furia bellica, ai tuoni, agli scoppi, alle deflagrazioni di proiettili, granate, bombarde che presero a grandinare all’improvviso e con cieca e ostinata determinazione nella vasta e attonita piana, gli abitanti di quel piccolo paese in terra di Ciociaria, avevano cercato riparo sulle colline di tufo che s’incurvavano a semicerchio sugli sconfinati spazi della valle. Laggiù, oltre l’orizzonte, c’era Cassino dove, da mesi, il fronte si era impantanato e la morte vi celebrava quotidianamente i suoi fasti. (pag. 20)[…] Lì, nel suo giaciglio di cartone, ricorda ancora, con crescente angoscia, il suo sbigottito stupore di fronte a quel paesaggio che solo poco prima era vivo di voci, di svolazzi e di suoni ed ora mostrava le devastazioni, lo sconquasso, lo scempio di una violenza di cui la sua mente non riusciva a trovare una spiegazione. Un gioco assurdo e crudele gli sembrava, come quello di certi bambini che si divertono a mozzare la coda alle lucertole. E incomprensibile gli risultava la lamentazione dei grandi: «È la guerra, la cagione di tutto questo lutto!» E che cos’è la guerra? E perché la guerra? si domandava allora nel suo offeso candore e continua a chiederselo anche adesso, nel buio del suo giaciglio. Certo, oggi gli verrebbe facile rispondersi che è una follia, una pura semplice follia, alimentata dagli egoismi degli uomini, sobillata dalla cupidigia delle nazioni. Ma allora? Allora non era facile capire e quello spettacolo di morte gli si impresse, come un marchio a fuoco, nelle cellule più riposte. Lo segnò nel profondo. No, non vuole accampare alibi al naufragio successivo della sua esistenza, altre furono le cause e queste sono seppellite o, forse, addirittura abrase dalla sua memoria e nessuno mai le conoscerà.” (pag. 22)
Peppino e Francesca Neri
Ma di racconti consacrati al sud ce ne sono altri quattro, di cui due ambientati a Formia, luogo ben conosciuto, dove Peppino Neri aveva preso una casa con la giovanissima moglie Francesca, e dove essi si recarono, immancabilmente, tutte le estati.
Ne “La bella Napoli” — il racconto più vicino alla nostra sciagurata attualità —, si avverte una punta di amarezza e sottile fastidio di fronte al “cambiamento epocale” che insieme al protagonista, Neri osserva in un gruppo di chiassosi villeggianti napoletani: “No, davvero non era possibile. Manù, Deborah, Marlena, Azzurra, ma anche Maristella, Gabri e perfino Noemi, per non dire dei nomi dei maschietti, nomi doppi, ricercati, inusuali, che ricordavano quelli di certi personaggi di Totò nei ruoli del blasonato decaduto. Giacomo Nervini non riusciva a capacitarsi. Dove erano finiti i nomi di tutti quei frignanti piccirilli delle estati precedenti, Gennarino, Ciro, Pasquale, Immatella, Assuntina, Nunziatella, Concettina? Perché, nel giro di pochi anni, nei rioni napoletani, si era verificata questa mutazione onomastica? […] Era soltanto un effetto — quello più immediato ed epidermico — delle troppe telenovele trasmesse dalla televisione, oppure derivava dal fastidio, dall’uggia, dal disagio, avvertiti maggiormente dai più giovani, di essere considerati sempre e soltanto i figli di Pulcinella?” (pag. 11)
Ne “L’ultimo giorno delle vacanze” Neri si cala, con sincera e poetica nostalgia, nella “prima storia d’amore”, corroborata dal “leitmotiv” chagalliano di un onnipresente costume bianco: “Un giorno che il sole era già alto e dalla sabbia si sprigionavano vampe di fuoco la vide dirigersi verso il mare e istintivamente si mosse anche lui in quella direzione. Si teneva a una certa distanza, facendo attenzione però a non perderla di vista e in questo era facilitato dalla macchia bianca del suo costume che si segnalava come un richiamo. Ma mano a mano che Mila s’inoltrava nell’acqua il rischio che si confondesse con gli altri bagnanti diventava sempre più probabile, anzi ci fu un momento in cui, ostacolato da un nugolo di bambocci, di pargoli, di citti, di mammoli, insomma di bimbi che acciambellati a paperi, avvinghiati a canotti, avviluppati a salvagenti, aggrappati a plastificati coccodrilli e ad altri galleggianti di varie fogge si schizzavano, si spruzzavano, sciaguattavano in un clamore di voci e gridolini e scoppiettii di riso, in quel momento Daniele credette davvero di averla persa di vista e quando già l’ansia lo stava proditoriamente acciuffando ecco che si rese nuovamente visibile il bianco richiamo del suo costume e allora non ebbe più esitazione. Si tuffò e aggirando la fanciullesca gazzarra, si avvicinò alla ragazza che, con agili bracciate, si dirigeva verso gli scogli”. (pagg. 51-52)
In “Una sera d’estate con Luca Marano” assistiamo al trascinante racconto dell’incontro di Peppino Neri con un “eroe molisano”, vittima del fascismo nascente: “Non era un violento Luca Marano, era invece un candido e aveva fiducia nel prossimo e ancora non sapeva che, a volte, nel cuore degli uomini si annida l’inganno e alla lealtà si può rispondere con il raggiro. E quando lo capì, quando capì che nel petto di donna Laura, avvenente proprietaria terriera, sventolava lo stendardo della falsità e che questa femmina bella e ingannatrice non si faceva scrupoli di barattare il destino di molte famiglie contadine con una manciata di banconote, era ormai troppo tardi. Si agitò Luca, corse per vicoli, entrò ed uscì da molte casupole, supplicò molte persone, s’intrattenne con i contadini e poi, con una schiera di disperati, si precipitò sulle terre del Sacramento, dove erano ad attenderlo i fucili dei fascisti. […] Ma quel sangue versato sulle terre del Sacramento si levò come una bandiera ad indicare, alle generazioni future, la strada del riscatto e della libertà”. (pag. 62)
Un lettore attento, che rileggesse almeno una volta questo racconto e lo confrontasse con l’insieme della raccolta, si accorgerebbe che solo in un contesto “eroico” e fuori dal tempo come questo Peppino Neri poteva lasciarsi andare a una espressione come “si levò come una bandiera ad indicare, alle generazioni future, la strada del riscatto e della libertà”. Tutto il resto del libro, infatti, ci trasmette un profondo senso di amarezza davanti al constatato riflusso dei valori fondatori della nostra democrazia repubblicana, in cui si sta peraltro inserendo una nuova ancor più minacciosa onda di buio. Quel racconto, infatti è del tutto “inventato”: “Già, perché dimenticavo di dire che Luca è un personaggio di carta, fatto di parole, anche se è più vivo di un uomo vivo, un personaggio che abita le pagine del romanzo di Francesco Jovine, scrittore di Guardialfiera, Campobasso.” (pag. 62)
In “Un viaggio”, Neri immagina invece un durissimo e lunghissimo viaggio contemporaneo, in treno — forse sognato, certo desiderato, malgrado la scomodità —, da Napoli Centrale a Capo Vaticano: un omaggio a Giuseppe Berto che ne fu lo scopritore ma anche, soprattutto, un tuffo all’indietro verso un luogo del “suo sud” che la memoria si ostinava a volere “ancora intatto e selvaggio” (pag. 90).
Peppino Neri (Formia, primi anni 2000)
Tra i restanti otto racconti, che si svolgono in una “grande città” che è senza dubbio Roma, ce n’è un altro (“La morte del campione”) in cui si fa ancora riferimento ad un abitante di Colleforte che, insieme ad altri compaesani emigrati, era riuscito a sottrarsi alla miseria e aveva trovato in America un effimero “trionfo”. È la dolorosa e infine tragica parabola di un ex pugile, “Faccia d’angelo”, considerato invincibile fino al giorno in cui la sua vita cambiò di nuovo… Lo vediamo ora aggirarsi in mezzo ad una strana nebbia, del tutto inabituale per quella città: “In quel silenzio vertiginoso, lo scalpiccio dei suoi passi, uno scalpiccio sonoro, come se i suoi piedi urtassero qualcosa di ferrigno, le rotaie, i binari della strada ferrata, riecheggiava irreale e sinistro. Ma ben presto quel tonfare di passi fu soverchiato da un vocio confuso e indistinto che, avvicinandosi, si gonfiò in uno strepito di urla eccitate e poi esplose in un coro d’incitamenti, di esortazioni a resistere alla furia belluina, agli assalti forsennati del suo avversario, lo vede Toro scatenato, massiccio e ringhioso sul ring del Madison, che avanza con fredda determinazione, con implacabile risolutezza, svelto ad eludere le sue eleganti schermaglie e stringerlo di colpo nella rovinosa morsa dei corpo a corpo. I suoi sostenitori, vedendolo in difficoltà, continuano a incoraggiarlo, a spronarlo a gran voce, anche i secondi da bordo-ring gli urlano qualcosa che però non riesce a decifrare, intento com’è a contenere gli attacchi ininterrotti, prolungati, portati con calma furiosa, con bellicosa imperturbabilità da Toro scatenato che ormai incombe gigantesco, mostruoso, in quel mare di nebbia e quello che sente non è il suono del gong, ma il fischio lacerante del treno, lo stridore disperato dei freni, inutilmente azionati dal macchinista appena si accorse di quella sagoma scura, ferma sui binari” (pagg. 39-40). “Faccia d’angelo” è il prototipo del “looser”, del perdente, che ritroviamo, in diverse dosi, anche in altri personaggi. Non si tratta in genere di veri perdenti, ma di uomini e donne che hanno subito comunque un “vulnus” che riaffiora sempre, inesorabile, scompaginando il precario equilibrio delle loro esistenze.
Una situazione opposta a quella del vecchio pugile la ritroviamo ne “Il figurante”, la storia della fine paradossale di un attore tanto volenteroso quanto sfortunato, la cui vita è costellata di frustrazioni e di bocconi amari, ed è drammaticamente sanzionata, alla fine, da un “volo” spettacolare e del tutto inaspettato: “La morte, persino la morte ha voluto defraudare il vecchio figurante”. (pag. 82)
Il tema della “prova” da cui può dipendere tutta una vita, si sviluppa ancora, in modo sempre più articolato e approfondito, in altri due racconti esemplari di Peppino Neri:
In “Molly, oh cara”, straordinario omaggio all’”Ulisse” di Joyce, il lettore può seguire da vicino gli alti e bassi, i crolli annunciati, le riprese improvvise e l’inspiegabile fluidità che succede al momentaneo mutismo di un’attrice che “vive” il personaggio di Molly Bloom ed anzi “presta” a quell’inafferrabile e soprannaturale personaggio il fatto di essere, lei stessa, una Molly Bloom altrettanto spavalda, infelice e ostinata donna che mai si darà per vinta. “Le parole che uscivano ormai incrinate, strozzate dalla gola, sembravano lapilli incandescenti e quando, con il cuore galoppante, prese a dire sì mi metterò una rosa rossa tra i capelli come le ragazze andaluse sì la voce si assottigliò, sfumò in un sussurro e con quel filo di seta, con quella corda il violino sul punto di spezzarti sibilò sì dissi voglio sì. […]. Curva in avanti e con lo sguardo smarrito, la rediviva Molly Bloom sentiva che il peso di quegli applausi le gravava sempre più sulle fragili spalle, come un macigno. Era un trionfo: eppure correva il rischio di essere travolta sì, annichilita sì, dall’esplosione incontrollata, convulsa di tutto quell’entusiasmo”. (pag. 71).
Ne “Il discorso” del “camerata della prima ora” la prova, esageratamente preparata, subisce inevitabilmente il peso di una situazione ridicola, assurda e paradossale. Davanti ad una popolazione rassegnata e sconfitta, quel discorso falso e retorico, che dovrebbe conferire dignità e autorità ad un apparato retorico e falso, inevitabilmente si inceppa: “Non ricordava più nulla. Le parole del discorso che aveva tanto accuratamente preparato, gli fluttuavano disarticolate, senza nesso nella testa, come relitti alla deriva. Si frugò affannosamente nelle tasche: ma il discorso, fidando nella memoria, lo aveva irrimediabilmente lasciato nel cassetto del comò”. (pag. 100)
“La voce del sangue” e “L’illusione di un mattino” raccontano la precarietà della condizione umana contemporanea, le infinite conseguenze che possono scaturire dalla distrazione e dall’imprevidenza, dalla mancanza di preparazione e di allenamento. Il primo è particolarmente inquietante per qualcuno come me che era affezionato alla persona Peppino Neri al di là dei suoi meriti e del suo carisma. Fa pensare ad un celebre episodio del “Caro diario” di Nanni Moretti, e l’esperienza della paura che insorge quando c’è il sospetto di una grave malattia è restituita con analoga stringatezza e leggerezza. E anche qui, alla fine del fantasmagorico fuoco artificiale della risonanza magnetica, si scopre che allora non si trattò della malattia che se lo sarebbe portato via, qualche anno dopo: “Comunque provò una sottile soddisfazione, prossima da gioia, nel sapere che la macchina non aveva dato scacco all’uomo. Essa infatti confermò la diagnosi di quell’ometto dall’aria ascetica e dalle robuste mani” (pag. 32).
Questo racconto introduce, in ogni caso, il tema della solitudine dell’uomo davanti alla morte. In “Bussano alla porta”, il più stringato e cinematografico di tutti i racconti della raccolta, Peppino Neri inscena con grande lucidità e dolcezza l’arrivo inatteso e surreale della morte: “«Bussano alla porta» dice e resta in ascolto. La donna, scossa dal suono improvviso di quelle parole, ha un leggero soprassalto. «Ma chi vuoi che bussi a quest’ora» dice. «Eppure… eppure m’era sembrato…» Non completa la frase spinto dall’urgenza di riannodare il filo, di recuperare la suggestione del ricordo. Ma lo sforzo risulta vano, sterile: quell’improvvisa e casuale accensione della memoria si è dissolta, definitivamente incenerita. Tenta allora di andare avanti nella lettura del copione, ma le righe si accavallano, le parole gli appaiono sfocate. All’improvviso si sente oppresso da una profonda stanchezza, come se tutto quel silenzio gli premesse sulle membra, gli pesasse sul cuore. Dal fondo di questa spossatezza avverte, per la seconda volta, i due colpi di nocche sulla porta d’ingresso, ma così nitidi e precisi che sembrano picchiati direttamente sul suo petto…” (pag. 74).
Peppino Neri (Formia, primi anni 2000)
Nell’ambito della mia lista “tematica” (che non è quella scelta dall’Autore), gli ultimi due racconti sono quelli più strettamente legati al titolo del libro. Se la situazione tipicamente kafkiana de “I latrati del padrone” è anche, probabilmente, un omaggio ai Fantozzi e ai Fracchia di Paolo Villaggio, “filmati” però con una freddezza accattivante e pietosa degna di Buster Keaton, “Il pericolo viene da Kafka” è un breve e pungente manifesto di “disobbedienza civile” e di “messa in guardia” nei confronti della burocrazia (a cui oggi si dovrebbe aggiungere la tecnologia numerica e la minacciosissima “Intelligenza Artificiale”), inesorabile regolatrice delle nostre paure come dei nostri falsi bisogni e corrotti valori imposti dalla società dei consumi.
Ma, evidentemente, la portata del titolo di questo racconto si estende a tutto il libro, offrendone la chiave interpretativa e il senso più profondo.
Dopo un’intensa e apprezzata attività giornalistica in periodici come “Il Mondo” di Mario Pannunzio e in quotidiani come “Il Messaggero” e alcune significative prove letterarie, nel 1976 il giornalista-scrittore Peppino Neri entrò alla RAI, di cui colse subito l’aspetto di carrozzone e di consumistica fiera delle vanità, ma in cui riconobbe anche alcune straordinarie potenzialità. Intelligentemente, optò dunque per la Radio, una forma di trasmissione senz’altro più adatta all’approfondimento e alla riflessione. Attraverso i programmi radiofonici di cui fu ideatore e conduttore (primo fra tutti “Il Paginone”, che egli stesso definiva “la più grande terza pagina italiana”; ma poi anche, per esempio, “Galassia Gutenberg”, “Hollywood Party”, ecc.), Neri riuscì a far conoscere agli italiani “un’altra Italia” non corrotta, impegnata e fondamentalmente refrattaria alle lusinghe del potere.
Se tutto ciò fu possibile, vuol dire che egli non fu certamente il solo a seguire quella via di onestà e di assunzione di responsabilità. Tuttavia, la sua convocazione di Kafka in questo ultimo, estremo messaggio rappresenta una condanna esplicita di quel “lato oscuro della forza”, diventato predominante nel corso degli anni, che non ha avuto scrupoli nel corrompere e lasciarsi corrompere, nello svalutare, involgarire e insomma tradire il proprio ruolo primario. Il successo dei presentatori, dei comici, dei cantanti e delle migliaia di figuranti stabili o occasionali è spesso lo specchio di questo imperdonabile tradimento, contro cui Neri ha lottato difendendo in modo ragionevole, dunque non settario né elitario, la verità dell’informazione giornalistica e la sacralità della trasmissione culturale.
“Giuseppe Neri” sull’enciclopedia Garzanti-Radio, a cura di P. Ortoleva e B. Scaramucci.
Egli ci invita dunque a proseguire la sua lotta contro il pericolo “kafkiano” che si avvera sempre quando si lascia a qualche “potere invisibile” lo spazio e il modo di cambiare via via le regole di una costruttiva e libera convivenza e poi di imporne altre, sempre più assurde e incomprensibili, la cui logica sarà inevitabilmente “scoperta” da tutti, ma sempre tardi, troppo tardi. Ennio Flaiano, che Neri non cita, ma di sicuro ammira profondamente, sintetizzava questa mostruosa e diabolica metamorfosi nella famosa frase: «Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore». Si tratta soprattutto di un “male nostrano”, ma certo, nel corso degli anni, esso è stato eletto a sistema, a seguito della sempre più capillare e devastante presenza, in ogni ordine e grado della nostra società, e con particolare concentrazione e intensità nella televisione, degli aspetti più negativi del cosiddetto “modello americano”.
Del resto, come in tanti altri intellettuali di valore — in primis Furio Colombo, Umberto Eco e Gianni Vattimo (che furono chiamati “corsari” per l’innovazione che portarono alla RAI, svecchiando i programmi e trasformando l’ambiente culturale della televisione, dando anche vita a una specifica trasmissione per i giovani) — anche in Peppino Neri hanno sempre convissuto due Americhe assai distanti tra loro: l’America mitica di terra d’asilo, di inarrivabile progresso e di emancipazione economica e culturale; quella venuta da noi con il suo pragmatismo prepotente e corruttore, intrinsecamente legato alla ideologia del successo e del denaro in cambio di una società di consumi onnivora e distruttrice del libero pensiero e della società stessa.
Nell’accomiatarci da questo subliminale e non conformistico “testamento morale” di Peppino Neri, così denso di significati, eppure così miracolosamente scorrevole e benevolo verso di noi poveri e fragili eredi-continuatori, ci siamo guardati in giro con lo sguardo perduto, incapaci di aprire la porta e uscire. All’ultimo momento, di soppiatto e con un’aria da cospiratore, ci è corso dietro un personaggio di cui avevamo già notato la fedeltà, la coerenza e l’impressionante rassomiglianza all’Autore, al punto di assumerne il tono appassionato della voce. Era “Il disfattista”: “Nel corso della passeggiata serale, durante la quale il gruppetto degli antifascisti o «il clan dei disfattisti», secondo la definizione del segretario del Fascio, passava in rassegna gli avvenimenti nazionali ed anche i fatti locali, Antonio accennò alla cerimonia che si era svolta nella mattinata. Per la maggioranza quella era stata una delle tante buffonate care al regime, buona per farci sopra quattro risate di gusto o meglio di disgusto, soprattutto all’indirizzo di quel povero diavolo del centurione, così goffo su quel cavallo bianco. Ecco: sembrava proprio un sorcio, un topolino a cavallo, come si espresse qualcuno di loro. Ma Antonio, anche se concordava su questo giudizio, sosteneva però che era giunto il momento di fare qualcosa, di passare all’azione. «Sradicare quelle piante, per esempio, sarebbe un gesto di protesta, un modo per far capire a tutti che noi siamo stufi delle loro pagliacciate» concluse. «Bravo! Così domani finiremo tutti al fresco. Perché, è evidente che solo uno di noi potrebbe compiere una simile azione. E quale sarebbe il risultato? Avremmo cavato due piante, ma l’Idea, come loro dicono, l’avresti intaccata?» gli fecero notare i compagni. Non v’è dubbio, i compagni avevano ragione, eppure Antonio sentiva che quelle piante andavano distrutte. Non che si illudesse che con esse, anche un poco di fascismo sarebbe stato scalfito. Ma ecco: sentiva che bisognava cavarle”.
Giuseppe Neri, “Il pericolo viene da Kafta, Manni, 2025
In copertina: « Manifestazione », della pittrice Francesca Gargano Neri.
Il 29 aprile 2023, si tenne a Roma un Convegno (curato da Francesco Neri e patrocinato dal comune di Sant’Apollinare (FR), dal Comune di Cassino e dall’Università degli Studi di Cassino) che aveva due scopi fondamentali: ricordare, a otto anni dalla morte, Giuseppe Neri “innovatore dell’informazione radiofonica della Rai”; celebrare, vent’anni dopo la sua pubblicazione, “Il sole dell’avvenire”, il romanzo che il grande giornalista e scrittore dedicò alla sua terra di Ciociaria. In questi giorni, due anni dopo, ho avuto occasione di leggere un nuovo bellissimo testo di Neri, “Il pericolo viene da Kafka”, di cui parlerò in un prossimo articolo, che sarà presentato a Roma il prossimo 5 giugno: in tale incontro saranno senz’altro ricordate anche le altre sue opere.
Eccovi di seguito il commento “a ruota libera” e a tutto campo (fino ad oggi inedito) che inviai al caro amico Peppino Neri il 21 dicembre 2003.
Giuseppe Neri – « Il sole dell’avvenire«
Quando si chiude “Il sole dell’avvenire” di Giuseppe (Peppino) Neri, con lo stesso dispiacere che si prova quando una nave o un treno in partenza ci costringe a separarci da un caro amico o da un pezzo della nostra vita, la prima cosa che viene in mente è che, fortunatamente, ci sono ancora, in Italia, persone che rispettano i morti e la storia e che, nonostante tutto, continuano ad amare la vita e a concepire il mondo come un luogo di incontro e di confronto civile.
Peppino Neri mette dunque la propria sicurezza di scrittore e la propria viva e profonda sensibilità al servizio della verità storica, andando inevitabilmente controcorrente, in un’epoca in cui, soprattutto in Italia, vanno di moda le storie posticce e i revisionismi di comodo. Un’epoca in cui tutti i paesaggi originari sono stravolti e gli uomini che li abitano sono disorientati e confusi.
“Il sole dell’avvenire” è la ricostruzione fedele di un passaggio particolarmente delicato e complesso della vicenda italiana tra le due guerre. Un bellissimo racconto-romanzo, che si aggiunge ai pochi che hanno già celebrato, non sempre con la semplicità e la devota stringatezza di cui dà prova Neri, le radici “socialiste” e “democratiche” del nostro paese più unico che raro.
Siamo nel 1920. Anche Colleforte, un piccolo paese nella piana del fiume Liri in provincia di Frosinone, ha avuto la sua rivolta contadina di ispirazione socialista, il suo primo “sciopero”, che ha dato luogo, qui come in altre parti d’Italia, a positivi risultati per i contadini, da allora, anch’essi, un po’ meno sfruttati ed emarginati.
Il libro scorre senza incertezze in un crescendo di emozioni e di aspettative: limpido come un film di Visconti o di Rosi, privo di retorica e, anzi, alimentato dall’avvincente fascinazione delle “prove” a cui l’uomo – che non si contenta di “viver come bruto” – spontaneamente si assoggetta. A volte si tratta di piccole prove, di eroismi inutili – come quello di Giapone che traversa il fiume aggrappandosi al tirante d’acciaio della “scafa” – oppure di incontri-scontri con il “potere costituito” pieni di buon senso e di umani dubbi.
Ma è evidente che i personaggi positivi di Neri, coloro che percepiscono l’importanza del sociale, dell’unione-che-fa-la-forza e, allo stesso tempo, l’amore per il lavoro e per la propria terra, stanno tutti dalla stessa parte.
Per l’avvocato Nardone, che scende a Colleforte dopo la disastrosa alluvione che ha distrutto il lavoro di un anno, non ci vuole molto ad accendere gli animi: il socialismo era la risposta attesa, la medicina necessaria, il legante umano e culturale capace di conferire all’azione dirompente il carattere di una vera e propria liberazione.
Due personaggi, tra i contadini, coagulano l’attenzione e diventano punto di riferimento e di snodo per l’azione narrativa: il ribelle Giapone e il prudente Francesco del Turco. Il primo potrebbe essere inquadrato come un estremista generoso, ma incapace di qualsiasi strategia; il secondo come un riformista e un paziente organizzatore: la sua aia e la sua casa sono il luogo di incontro del gruppo dirigente dello sciopero. Del Turco, del resto, ha potuto recepire subito, senza difficoltà, il significato profondo del messaggio dell’avvocato Nardone, perché lui, solo lui, a Colleforte e forse in un vastissimo territorio circostante, ha avuto l’avventura di trovarsi a Torino il giorno del comizio di Antonio Gramsci.
Seducente è poi la figura del maestro Cocchiara, una specie di esiliato volontario che trova nell’umanità dell’insegnamento e nella solitudine della caccia una sua personale catarsi. Sarà Cocchiara a dare il “la” al popolo di Colleforte, dicendo a Francesco del Turco la semplice frase: “Dovete essere tanti, una fiumana”.
La fiumana dei contadini che decidono di scioperare il primo giorno e tornano più numerosi il secondo giorno sotto le finestre dell’inaccessibile palazzo del padrone don Tricò… è identica alla fiumana dei manifestanti raffigurati nel “quarto stato” di Pelizza da Volpedo. Ma è anche il grande fiume degli uomini che, in un momento irripetibile e fatidico, prendono coscienza e contribuiscono a deviare il corso della storia, quasi cancellando le tremende devastazioni operate dalla fiumana inarrestabile della grande alluvione abbattutasi poco prima sulla conca a valle dell’abitato di Colleforte.
Giuseppe Pellizza da Volpedo, « Il quarto stato » (1901, particolare)
La semplificazione “filmica” operata da Neri, per cui l’insurrezione è scatenata dall’incontro tra Francesco del Turco e il maestro Cocchiara, sta a significare che la storia è sempre fatta dagli uomini, dagli incontri e dagli scontri tra di essi: la “scintilla” del socialismo forse, chissà, non avrebbe incendiato i cuori e messo in moto gambe braccia e bandiere nel piccolo e isolato paese di Colleforte se non vi fosse tornato Francesco del Turco (reduce dall’esperienza torinese e dalla “visione” di Gramsci) e se non vi fosse arrivato il maestro Cocchiara, volto “istruito” dell’egualitarismo socialista (che ha “visto” Pelizza da Volpedo mentre realizzava il più celebre “poster” della sinistra italiana).
Ci sono poi alcuni essenziali capisaldi simbolici — come la bandiera rossa, come le donne – tratteggiati con lo stesso amore e lo stesso rispetto che dovevano avere per loro questi personaggi “realmente esistiti” che, pur senza mai smettere di “ascoltare” gli altri, hanno avuto il coraggio di “pensare-e-agire” con la propria testa. D’altra parte, tutto lo svolgimento del romanzo è governato dal dialogo a distanza tra il “sole dell’avvenire” (imprigionato nella copertina) e “l’alba del secolo appena tramontato” (citata nel prologo e all’inizio del racconto vero e proprio). Nel 1920 (l’alba del secolo) la tensione ideale verso un futuro più giusto e più umano (“l’internazionale futura umanità”) poteva identificarsi nell’attesa operosa, nella costruzione inarrestabile di un mondo migliore, che avrebbe di sicuro premiato gli sforzi, le rinunce e l’adesione all’ideale socialista. Il premio atteso era simboleggiato proprio dal sole dell’avvenire. In questa proiezione non c’era solo l’aspettativa di un mondo senza classi, ma anche, intrinsecamente connessa, l’entusiastica ed ingenua fiducia nel progresso scientifico e tecnologico: ciò che ha diviso unirà, e le macchine saranno messe al servizio della causa dei deboli e degli sfruttati.
Ma, come dice Neri, questo secolo (il Novecento) è ormai, da poco tramontato. Forse anche prematuramente finito, nel 1989, con la caduta del muro di Berlino e la diaspora del socialismo reale. Nella parola “tramonto” è insita l’espressione di un malessere profondo, di una grave incertezza: il progresso si è rivelato una forza buona e cattiva e anche gli uomini sono buoni e cattivi. Dunque “il sole dell’avvenire” rappresenterebbe, ormai, una chimera, una nostalgica bandiera che sventola in una piazza senza popolo. Ma è proprio da questo dialogo a distanza — “alba”, “sole dell’avvenire”, “secolo tramontato” — che può scaturire, invece, il seme di una nuova tensione ideale, come quella che ha mobilitato milioni di italiani negli ultimi due anni, all’alba di questo XXI secolo. Di fronte a coloro che oggi tentano di riscrivere la storia del Novecento — cercando di ridimensionare la portata del movimento socialista, la resistenza al fascismo e al nazismo, negando le lotte sindacali e di difesa della democrazia che hanno impegnato le forze di sinistra in tutto il XX secolo, senza mai dare luogo, in Italia, a nessuna esperienza in alcun modo confrontabile con quelle, negative, osservate nel sistema sovietico o in altri “paesi socialisti” — il libro di Neri si fa dunque portavoce della passione e della riconoscenza dei posteri, ma apre anche la strada ad una riflessione non scritta su ciò che è accaduto “dopo”.
Peppino Neri, va ricordato, da giovanissimo ha vissuto in una Colleforte molto più simile a quella del 1920 che a quella di oggi. Nonostante ciò, la sua accurata ricostruzione non sembra volersi limitare alla lettura retrospettiva e statica di un anno cruciale. Si sa, ad esempio, che dopo ottant’anni dalla vicenda del libro non si è ancora posto un valido rimedio al rischio che una nuova altrettanto terribile alluvione si abbatta su questa piana oggi infarcita di case e di capannoni industriali. Si sa, d’altra parte, che una simile “trasformazione” del paesaggio, decretando una nuova marginalità per l’agricoltura, non ha spezzato l’antico isolamento. Sulla carta, nell’epoca della globalizzazione, ognuno può muoversi, andare dovunque e trovare ovunque occasioni di confronto e di crescita individuale e collettiva. Sta di fatto che questa possibilità, più “virtuale” che reale, è negata del tutto dal bombardamento mediatico che sciaguratamente si sposa alle difficoltà degli individui, ovunque essi abitino. Dunque, la metafora del paesino tagliato fuori dai traffici, raggiungibile solo nelle ore di va-e-vieni della “scafa”, ben si adatta alla metafora implicita del libro di Neri: gli inurbati consumisti di oggi, prigionieri di un rigido va-e-vieni tra casa e lavoro somigliano come gocce d’acqua ai contadini sfruttati e isolati di allora. L’ignoranza che faceva un gran comodo a don Tricò è la stessa che oggi rimpingua le casse di un’oligarchia di nuovi ricchi e giocatori d’azzardo. Francesco del Turco, nel momento decisivo del romanzo, soffia dentro la “tufa”, una specie di corno arcaico che sembra arrivare da lontane civiltà sconfitte-e-recuperate dai dominatori romani. È proprio lui che, forte delle parole del maestro Cocchiara, accende la “scintilla”. Peppino Neri, che nella sua mite saggezza incarna sia la “vis politica” di Francesco del Turco sia l’umanità “disincantata ma incorruttibile” del maestro Cocchiara, sembra soffiare anche lui, con tutte le sue forze, dentro la tufa, che gli restituisce tutte intere le sue radici. E accende la scintilla della letteratura, che si distingue nettamente nel panorama del romanzo contemporaneo, abbandonando la “fiction” ed evitando con cura ogni possibile esercitazione barocca.
“Ho sempre pensato e sostenuto che la scrittura è l’elemento più importante in una costruzione letteraria« , dice Peppino Neri ad Armando Adolgiso in un’intervista rilasciata dopo la pubblicazione del romanzo (2003). « È la scrittura che invera e legittima ogni narrazione. Ne “Il sole dell’avvenire”, sia la materia sia la natura dei personaggi mi hanno consentito di spingere più avanti la mia ricerca linguistica sul versante dell’espressionismo, mi hanno permesso degli innesti lessicali, dei recuperi dialettali, delle sprezzature di stile e tutto questo lavorio ha lo scopo di vivificare, di rinsanguare, di conferire nuovo vigore espressivo alla trama di una lingua resa sempre più inerte e inespressiva dall’uso, spesso sconsiderato, che ne fanno i mass-media”. D’altra parte, Neri si fa sempre carico di coniugare la sua originale forma espressiva con un impegno civile e politico netto e intransigente dalla parte degli sfruttati e degli esclusi. “Io mi considero« , dice, « un intellettuale (anche se la parola è ormai alquanto screditata) che tenta di leggere la realtà attraverso il filtro dell’intelligenza, che non crede nelle verità rivelate e dunque antepone il dubbio alle certezze. Da buon Capricorno, sono schivo, poco cerimonioso, di parco eloquio. Credo di essere leale, fedele alle amicizie, tenace nei sentimenti. Non tollero gli stupidi, anche perché sono pericolosi.”
In questo quadro “Il sole dell’avvenire” svolge dunque una funzione militante nel tramandare la verità storica, riuscendo a risvegliare le coscienze grazie ad una scrittura elegante e persuasiva dove l’uso della metafora e della sottile ironia convive armoniosamente con una parabola dolorosa e solenne e, a tratti, fiabesca.
Dalla nascita cubana all’ambiente mediterraneo della riviera ligure, tra Villa Meridiana e la campagna avita coltivata ad avocados e pompelmi, Calvino derivò certamente quell’amore inconscio per l’azione e il viaggio, quel “complesso ariostesco”, prima esistenzial-familiare che letterario, che costituirà in seguito il carattere peculiare della sua poetica. Quest’infanzia movimentata, su uno sfondo familiare laico, borghese, antifascista, con lontani ricordi massonici, si traduce, attraverso l’esplorazione continua e misteriosa delle piante e della natura, nel binomio tutto calviniano di fantasia-sguardo o, se si vuole, favola e realtà. In questo senso l’infanzia costituisce una preistoria poetica, un’ottica che nulla ha a che vedere con una mitologia o tematica decadente, ma è semmai il preannuncio di un metodo come lente d’ingrandimento e di schermo tra l’io e la realtà. La dimestichezza con la narrativa inglese di un Dickens e uno Stevenson e, al tempo stesso, con “l’aria botanica” di famiglia[1] connotano l’adolescente Calvino, che cristallizzerà questi momenti magici, irrecuperabili, nella definizione di “idillio difficile”[2].
Ingresso alla Villa Meridiana, Sanremo
Michel Foucault in Les mots et les choses, analizzando la metamorfosi del clima intellettuale tra Cinquecento e Barocco, afferma che il concetto di « struttura » si forma parallelamente al prevalere dello « sguardo » come “funzione privilegiata di conoscenza, di ordinamento descrittivo del mondo sensibile”[3]. “Il termine di ‘struttura’ è una nozione che si elabora proprio nella ricerca dei filosofi naturali, in primo luogo dei botanici”[4], soprattutto nell’analisi delle forme degli elementi di cui un organo è composto, nel loro confronto e nella misura dei loro rapporti. In questo caso la natura si presenta come un “complesso organico di oggetti e di caratteri (si pensi a un giardino botanico) equivalente a un libro”[5]. In alcuni “idilli difficili”[6] in contrapposizione allo “sguardo botanico”, prefigurazione inconsapevole della futura volontà razionalizzante, il polo fantastico funge da contrappeso emotivo, ma sempre in un rapporto armonico con la natura. In quest’atmosfera bimbi e uomini, animali e piante si scambiano gli attributi “testimoniando la sostanza unitaria del tutto, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che accade”[7]. Questo rapporto di totalità con la natura, dove l’opacità delle cose è già ordinata da uno “sguardo”, potrà essere recuperato in seguito solo artificialmente, attraverso una tecnica narrativa sui generis (la favola) e la creazione di uno stile a livello razionale.
Torino, via Roma negli anni ’40
A questa prima fase, di cui mancano testimonianze e dove la futura poetica agisce come humus naturale e inconsapevole, ne succede un’altra: il momento di transizione è sentito dal giovane borghese come un trauma lacerante. E’ nella partecipazione attiva all’irrazionale della guerra che Calvino nasce alla letteratura neorealista ed effettua una maturazione improvvisa, sia a livello intellettuale sia a livello politico. L’esperienza resistenziale costituisce una svolta storica decisiva, da cui emerge una figura nuova d’intellettuale, impegnato in senso gramsciano e, in seguito, sempre problematico. Questa sarà l’eredità culturale, non consolatoria ma culturalmente attiva e militante, che il giovane studente ligure riceve nella Torino della casa editrice Einaudi e nella Milano del settimanale “Il Politecnico”, diretto da Elio Vittorini. L’abbandono della facoltà di Agraria è parallelo alla lacerazione dell’armonia infantile e al precoce svezzamento intellettuale, effettuato nell’ambito di una cultura “nuova”, che agisce nell’ “hic” et “nunc”, esemplata sullo stoicismo pavesiano o sui “disperati lucidi” come Gobetti e, soprattutto, Giaime Pintor.
n. 1 del « Politecnico » diretto da Elio Vittorini, Roma, 29 settembre 1945
L’ottica dello sguardo appare esplicita nel romanzo-omaggio alla Resistenza – Il sentiero dei nidi di ragno – nelle brevi battute finali tra Pin e il Cugino: – “Le lucciole da vicino sono bestie schifose anche loro, rossicce” – dice Pin. “Ma viste da lontano sono belle” – dice il Cugino. Questa “distanza” è il prezzo che Calvino deve pagare per ritornare al “prima” (il “giardino incantato” dell’infanzia) dopo la guerra civile.
Nella famosa recensione pavesiana sull’ “Unità”, nell’ottobre del ’47, troviamo parole illuminanti come “fiaba”, “gioco”, “arrampicarsi sugli alberi”, “spirito ariostesco”. Da questo punto di vista l’approdo di Calvino verso un genere letterario come la favola-intellettuale, apparentemente discordante e disimpegnato nel clima neorealista degli anni Cinquanta, è sì un casuale ritrovamento della propria matrice botanico-mediterranea, ma caricata del pathos della guerra e della morte e, in seguito, maturata attraverso l’apprendistato storico-filosofico torinese (sotto l’esempio di un maestro, studioso di “riformatori” ed “eretici” del cinquecento, come Delio Cantimori); ed è, al tempo stesso, un sospiro di sollievo e una liberazione dall’ossessione romanzesca di tinta grigia e moraleggiante (il fallimento di I giovani del Po), di carattere più propriamente neorealista.
Il “modo” calviniano di rispondere alla “crisi del romanzo” coincide dunque con la ricerca di una struttura oggettiva ma al tempo stesso epico-lirica: la favola. Con questa mossa[8], non a caso accolta dalla critica e dal pubblico con un certo stupore, Italo Calvino rivela il suo carattere affatto provinciale, tipico di chi, come lui, non ama sentirsi i “panni stretti addosso”, ma ambisce a un “collegamento maggiore con la cultura mondiale”. L’adozione cosciente della necessità di un rapporto dialettico tra intellettuale e realtà sociale si traduce, in Calvino, in una tensione profondamente morale cui corrisponde , a livello letterario, una narrazione “attiva”, dove la tensione tra poesia e impegno si traduce nel “ritmo” dinamico della parola e del racconto e, soprattutto, nella mediazione consapevole dell’ironia[9]. Calvino ha saputo raccogliere, della “crisi” neorealistico-politica, la componente più attualizzabile: quel nesso indispensabile tra intellettuale e storia che lo spingerà ad adottare una “poetica del negativo”, ma tenacemente fiduciosa nel cambiare la realtà (ottimismo della volontà) con la ragione (pessimismo dell’intelligenza)[10].
Contro l’uomo “ermetico” egli propone un intellettuale di tipo oggettivo, capace di resistere lucidamente alla “terribilità delle cose reali”: la realtà del suicidio di Cesare Pavese, del silenzio poetico di Elio Vittoriani e della fine de “Il Politecnico”; la realtà politica del successo degasperiano, della guerra fredda, del Piano Marshall fino al colpo di stato di Praga; la realtà disperata di Samuel Beckett. In questo quadro la logica della favola è la logica ferrea e geometrica della lotta, da cui promana, attraverso le “prove” cui l’uomo è sottoposto, una morale di resistenza e di attrito col negativo.
Autoritratto-caricatura di Italo Calvino con dedica a Piero Dentone
E’ proprio a questo livello che Calvino da “italiano” diviene “europeo”, per affrontare, attraverso una letteratura come educazione nella storia, il suo compito di “scrivente” in senso barthesiano[11]. Egli allora dovrebbe essere il cosiddetto uomo “transitivo”, per cui la parola costituisce veicolo e mezzo di pensiero, ma, adottando un genere letterario come la “favola intellettuale”, sembra voler restituire alla letteratura il suo carattere di “finzione”, dove la parola acquista la sua risonanza ambigua e complessa. Se in seguito affermerà che la letteratura consiste sempre nella “fondazione di uno stile” – il famoso “ponte” tra le parole e le cose – egli si garantisce fin da adesso uno spazio autonomo di gioco e di azione, sempre più arioso e infinito, dove il filo dell’intreccio si assottiglia nel filo dell’inchiostro; ma immettendo nella finzione la necessità della logica e, quindi, del controllo razionale, pone tra io e realtà, inevitabilmente, quella giusta mediazione, distante ma non troppo, che è l’ironia. E’ in questo equilibrio mediano che Calvino, intellettuale di sinistra, placa la sua ansia di impegno sociale: uno “scrivente-scrittore” al tempo stesso, che ha imparato a scrivere il “perché” del mondo con un “come scrivere” che non lo assorbe annullandolo nell’eleganza formale, ma semmai lo ordina in quella “spiegazione generale della vita”[12] che è la favola. Se lo schema di base della favola è geometrico-strutturale, la sua morale pedagogica – trionfo del bene sul male – insegna ai fanciulli e agli uomini fanciulli (gli intellettuali d’oggi) a diventare “uomini” attraverso le prove. In questa sostanza unitaria del tutto, dove il destino umano è presentato nelle sfaccettature del possibile, Italo Calvino tenta, nel XX secolo, di attuare l’ “uomo totale”, nel quale idea e azione, teoria e prassi, bene e male, coincidono in perfetto equilibrio.
« Il barone rampante » per le scuole medie, Einaudi Torino (1a ed. 1957)
Ma l’utopia del Barone rampante è situata in bilico tra il “dimezzamento” del visconte e l’ “inesistenza” del cavaliere, mentre controfigura amara del paesaggio di Ombrosa è l’impietosa “speculazione edilizia” della riviera ligure, dove l’intellettuale borghese in crisi ideologica cerca di emancipare il suo ruolo nel rapporto tra imprenditore e proprietario immobiliare. Pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà si rivelano inconciliabili. L’intellettuale può sì travestirsi da cavaliere, ma di fatto continua, oggi più che mai, a vivere il suo conflitto storico: “in quanto borghese è un parassita della classe dirigente, in quanto intellettuale opera, sul piano funzionale, contro chi gli fornisce i mezzi per vivere”[13].
« Le baron perché » con disegno di Italo Calvino, Seuil, Point 2001
Calvino si costruisce la sua “utopia”, sia morale sia letteraria: è la razionalità di Candide, il ritmo di Ariosto, il “falansterio” linguistico di Fourier, il tutto sullo sfondo della morale voltairiana di “coltivare il nostro orto”[14]. E’ una frase utopistica che, confrontata con le angosce moderne può risuonare egoistica e borghese, ma di grande fortuna: quasi un proverbio moderno, antimanicheo, dove l’uomo, non più sospeso tra i poli trascendenti del bene e del male, si limita finalmente a se stesso e a ciò che può fare. Nell’introduzione al Candide la famosa morale di Voltaire si prolunga in quella moderna di Italo Calvino: “le grandi scelte dell’uomo d’oggi” muovono tutte da “una morale dell’impegno pratico responsabile concreto”[15]. Da questo senso del limite, dell’azione attuabile nel contesto delle proprie possibilità, in rapporto a una morale di sostegno, deriva anche l’altro aspetto, questa volta espresso a livello puramente letterario, dell’azione immaginosa, del ritmo narrativo, dello spazio sempre più infinito. L’enciclopedico Voltaire e l’ “Ariosto degli utopisti”[16], entrambi figli del XVIII secolo, riflettono due piani tra loro comunicanti: il piano della ragione, come atteggiamento etico e volontaristico, e il piano del linguaggio, aperto, dialogico circolante e ambiguo, tra “geroglifici” vegetali e animali, tra “biniversi” e “triniversi”[17]. La passione ariostesca si traduce in insofferenza spaziale e temporale, in voglia di “movimento errante”[18] al di là dei limiti; si configura l’immagine della selva e del castello come luogo della ricerca, metafora cinetica della tensione morale, della non-quiete dei “rari uomini giusti: limitati e giusti, giusti in quanto limitati… tanto connaturati al loro incerto stato dal non volerlo cambiare con nessun altro” , come lo stesso Calvino dirà in seguito[19].
Con la favola Calvino verifica, quindi, sul piano della logica, una letteratura come campo privilegiato della “finzione” e del possibile, come ritmo e movimento e realizzazione poetica di un credo morale. Ma il periodo “utopistico” è breve: alle soglie degli anni Sessanta, dinnanzi al “mare dell’oggettività”, al “magma” e alla nausea delle cose, frutto del boom economico neocapitalista, all’unidimensionalità prodotta dall’alienazione della nuova ideologia multinazionale, Calvino reagisce pubblicamente, confermando la sua esigenza di messa a fuoco della realtà contemporanea[20]. Risponde al nuovo caos e alla logica del “labirinto” con una svolta letteraria decisiva, espressione e conseguenza di una delusione ideologica o, come lui stesso ama definirla, “crisi dello spirito rivoluzionario”. Le dimissioni dal partito comunista nel 1957 testimoniano della “diffidenza verso l’ideologia” che animerà parte della letteratura degli anni Sessanta, in seguito ai fatti d’Ungheria fino al’esplosione sessantottesca. Si è sempre più vicini alla “morte” della letteratura e dell’arte, mentre la cultura perde, durante la contestazione, buona parte della sua sacralità.
Per Calvino, la “crisi dello spirito rivoluzionario” deriva soprattutto dalla sfiducia nella storia, il cui senso non trova ormai più giustificazione nel legame indissolubile e costruttivo con la ragione. La storia unidimensionale e magmatica sembra, invece, annullare l’io nel “farsi” trascendente l’uomo: “conoscere il mondo e cambiarlo”: oggi “pare si sia perso ogni rapporto tra i due termini”, “le cose (la grande politica dei due contrapposti sistemi di forze, americano e sovietico ed, in seguito, anche il Terzo mondo) sembrano andare avanti da sole”[21]. La risposta calviniana, in polemica con le neo-avanguardie, è netta e decisa: letteratura della coscienza contro la letteratura dell’oggettività ( il vuoto “sguardo” di Robbe-Grillet); ostinazione senza illusione e volontà di contrasto; non illudersi di trovare un equilibrio di tipo classico; sfida al labirinto “mirando ad avere una mappa (conoscenza) del labirinto (caos delle conoscenze prospettive e del mondo) più particolareggiata possibile”[22]. Solo così si può continuare a sperare nel potere determinante della cultura.
Italo Calvino (anni ’80)
La giornata di uno scrutatore costituisce l’exemplum paradigmatico di tale crisi storico-ideologica: la coscienza delle cose, cui l’intellettuale Amerigo Ormea assiste, si muta, gradatamente, dinnanzi all’umanità dis-umana del Cottolengo di Torino, mondo astorico e atemporale in attrito con la missione politica, in un alto dibattito interiore dove tutto si traduce in una problematica generale sui quesiti esistenziali dell’uomo. “L’ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco” si perde, tra le antinomie eterne di vita e morte, di bello e orrido, nell’impotenza della storia e della ragione. La poesia altamente drammatica della Giornata deriva dal progressivo avvicinamento, nella lotta continua del dubbio, all’umano: è la scoperta dell’homo faber, l’artigiano privo di mani capace di ricominciare da zero, vincendo con la sola forza della tenacia e delle fede ignara, le “maligne mutazioni biologiche”. Questa terza fase, di cui il Cottolengo costituisce la percezione disperata e lucida del non-umano e del non-senso della storia, coincide con il definitivo trasferimento a Parigi e con il passaggio dalla logica e la storia, proprie della seconda fase “utopistica”, ala prelogica e e alla preistoria. Calvino risponde alla delusione storica con il coraggioso tentativo di “rifare” la storia, di raggiungere una nuova vergine armonia tra uomo e natura ricominciando da zero.
« Le cosmicomiche », Einaudi, Torino, 1965
Con Le cosmicomiche e Ti con zero la fiducia nella storia è riconfermata nella possibilità di reinventare una prospettiva di significati con la stessa giuliva aderenza alle cose, propria dell’uomo primitivo: Qfwfq è l’antenato dell’homo significans, dell’uomo fabbricatore di senso che cerca di fissare con il “segno” l’infinità caotica del tempo e dello spazio. Si tratta di un umanesimo che ha oltrepassato le soglie dell’illuminismo per saltare d’un tratto il continuum storico, porsi nel cosmo e ricostruire, nel gioco-finzione della letteratura, la città dell’uomo intero. IL passaggio dalla logica a questa pre-logica è facilitato dal carattere atemporale e astorico della favola stessa, la cui “verità” più profonda si risolve nel timbro patriarcale della favola mitica, come voce epica e anonima della tribù e dell’umanità. In questo senso l’esperienza con il non-umano del Cottolengo e la sua riabilitazione attraverso la pietas (intesa in senso rousseauiano come identificazione a un altro essere vivente), permette a Calvino di sostituire all’intelletto storico, e perciò limitato, un punto di vista generico, spoglio d’ogni risonanza sociale, attraverso cui cogliere quel fondamentale passaggio dall’animalità all’umanità, dalla natura alla cultura, dal sentimento all’intelletto. La tensione morale scaturita dall’incontro con l’intellettuale con la realtà, che tocca il suo punto più drammatico nella Giornata, si traduce ormai nella scelta della letteratura come campo specifico d’azione e di intervento, concedendo alla parola il privilegio di sottintendere nella sua forza logico-ambigua la fede calviniana nella storia e nell’uomo. La pietà e l’amore, nonché la crisi ideologica, hanno generato una spersonalizzazione, una voce collettiva e universale la cui essenza consiste nel suono metallico e ricorrente delle parole, che si accavallano incessanti a creare una complicata eziologia del cosmo e dell’universo.
Non si tratta più dell’inconsapevole “sguardo botanico” dell’infanzia o della “struttura razionale” della favola, superba messa a fuoco del punto d’incontro tra realtà e fantasia: la distanza che separa il vecchissimo antenato di Le cosmicomiche e di Ti con zero dall’infelice uomo del XX secolo, è tanto immisurabile quanto chiara e sottile è la visione che ci comunica. Questa distanza, tutt’uno con la costruzione linguistica del libro attraverso il cozzare delle parole, moderne, arcaiche, scientifiche, singulti onomatopeici, formule matematiche, agisce da potentissima lente con cui il molteplice del mondo biologico e cosmologico è minuziosamente identificato. Nulla di questo caos è trascurato o perduto. Con il pretesto del gioco il nostro antenato ordina sistematicamente, come un dio casalingo e sbarazzino, attraverso la verifica di innumerevoli ipotesi, l’universo asemantico e vivente delle origini.
L’autonomia letteraria e il carattere sperimentale delle opere più propriamente “francesi” testimoniano il rapporto impegnato con lo strutturalismo linguistico di Roland Barthes e antropologico di Claude Lévi-Strauss, con l’antistoricismo di Maurice Blanchot fino ad approdare alla semiologia del racconto e alla matrice d’origine sud-americana e mediterranea: nel binomio Ariosto-Borges si placherà l’ultimo Calvino.
Collocatosi a metà strada, mediatore raffinato e attento, tra la cultura latino-americana e francese e la cultura italiana preferisce cercare personalmente, in opere e autori a lui più congeniali, quel “midollo del leone” di cui si faceva stoico e volontaristico interprete nel 1955. Piuttosto che divenire “uno dei tanti mandarini che corrono dietro all’attualità e sputano sentenze su tutto”[23], si mantiene su una posizione critica e vigile dove abbonda la sollecitazione proveniente dal “diverso”, da una cultura mondiale oltre che europea. La traduzione di Les fleurs bleues di Raymond Queneau gli fa ritrovare il senso dell’assurdo e il ritmo del Candide voltairiano, la tensione attiva tra realtà e fantasia, in cui il tempo e la storia non conoscono barriere cronologiche e spaziali. L’edizione dell’ Orlando furioso, curata subito dopo per la casa editrice Einaudi, gli offre l’occasione di nutrirsi ulteriormente di antichi umori e di nuovi stimoli, per rivelare quell’ “attualità” del testo, che altro non è se non la traduzione letteraria di quell’altra sua tendenza: di cogliere nel presente, l’attualità più viva. Se il Furioso fu per trent’anni la vera vita dell’Ariosto[24], l’ “anima ariostesca” di Italo Calvino si traduce in differenti soluzioni letterarie, il cui movente sotterraneo consiste nel rapporto dialettico dell’intellettuale borghese con la realtà contemporanea, rapporto la cui tensione rischia di tradursi in un “labirinto interminabile”, in errori a volte più importanti del “lontano traguardo finale”[25].
Le città invisibili », Einaudi, Torino, 1962 (Magritte, « Il castello dei Pirenei »)
Con Le città invisibili Calvino, ormai del tutto consapevole della transitorietà della nostra epoca, tipica età di passaggio, di sfasamento tra ragione storicizzante e una realtà sempre più fluida, vuole compiere un viaggio a ritroso nella memoria dell’uomo, nella ricerca di un “oggettivo” umano più largo e anonimo: il destino unico, tanto cantato dall’argentino Borges, che nello scrittore ligure si traduce nel ritorno alla città dell’infanzia. Il mito borgesiano del “labirinto”, già prefigurato da Calvino nell’originaria passione per l’Ariosto, sperimentato a livello esistenziale nel caos della guerra e, in seguito, nella tensione interiore tra poesia e impegno, , diviene, ne Il castello dei destini incrociati, il simbolo della ricerca continua e perseverante, di una logica del dubbio costretta entro le ferree leggi del racconto.
Dal “provinciale alla conquista del mondo”[26], dal giovane Calvino desideroso di “esprimersi” nel vivo clima ideologico creatosi negli anni del dopoguerra, sono ormai trascorsi vent’anni. Il Calvino più maturo si scopre, nel proprio intimo, più disincantato, più disperatamente lucido di prima. Sa bene, ormai, che l’uomo savio e guerriero “in ogni cosa che fa e che pensa”[27] è possibile solo sulla pagina: di fatto resta la tensione continua dell’intellettuale che si rapporta con la realtà. La condizione di “dimezzati”, cioè di crisi permanente dell’intellettuale, sospeso tra la realtà da un lato e la letteratura – in via di morte – dall’altro, è l’unica verità da vivere e osservare stoicamente. Se come scrittore ama definirsi un “giocoliere” o un “illusionista”[28], continua, nonostante tutto, la sua fede illuministica nella Storia e nell’Uomo, in un “diciottesimo secolo che si allarghi di molto dai suoi limiti temporali (…) situato in mezzo al disegno di costruzione cosmogonica che viene dal Rinascimento, da Giordano Bruno, da più lontano ancora: l’uomo contribuisce con la sua immaginazione e il suo lavoro di autocostruzione continua dell’universo”[29].
Claudia Patuzzi
La panchina di Sanremo », 1942. Il primo a sinistra è Eugenio Scalfari, il secondo da destra è Italo Calvino.
Lettera di Italo Calvino a Claudia Patuzzi (17/01/1977)
Le foto 1, 2, 3, 5, 8, 12 provengono da « Italo Calvino, biografia per immagini » a cura di Fabio Pierangeli e Patrizio Barbaro, Edizioni Paravia, Torino, 1995.
Articolo già pubblicato sulla « Nuova Antologia » n. 2105 – maggio 1976, Roma.
NOTE :
[1] Il padre fu infatti agronomo di San Remo e, in seguito, professore incaricato di agricoltura tropicale presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Torino ; la madre fu assistente di botanica all’Università di Pavia. La « Villa Meridiana » a San Ramo è stata per Calvino ciò che fu per Borges il « giardino botanico ».
[2] Cosi’ Italo Calvino ha classificato alcuni racconti, tra il favoloso e il realistico, scritti in un arco di tempo tra il 1946 e il 1958.
[3] Michel Foucault, Classificare, cap.V, in Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1970, seconda ed. it., pp.148-155 ; cfr. anche Ezio Raimondi, Verso il realismo, in Il romanzo senza idillio, Einaudi, Torino, 1974, pp.7-8 ;
[6] « Pesci grossi, pesci piccoli », « Un pomeriggio Adamo », « Un bastimento carico di granchi », « Il giardino incantato », in Racconti, Einaudi, Torino 1958.
[7] Cfr. prefazione a Fiabe italiane, Einaudi, Torino 1956; Mondadori, 1970, p.16
[8]Il visconte dimezzato esce nel 1952, pubblicato nella collana einaudiana dei « Gettoni », su proposta di Elio Vittorini.
[9] Cfr. Robert Klein, Il tema del pazzo e l’ironia umanistica, in La forma e l’intellegibile, Einaudi, Torino, 1975, pp. 477-97 : « l’ironia è quel progressivo distacco dalla densità opaca delle cose, iniziatosi con l’umanesimo e costituente un punto di passaggio obbligatorio per raggiungere il cogito ».
[10] Cfr. Il midollo del leone, in “Paragone”, VI, 66, giugno 1955.
[11] Cfr. Roland Barthes, Scrittori e scriventi, in Saggi critici, Einaudi, Torino, 1972, pp. 120-28.
[12] Cfr. prefazione a Fiabe italiane, cit., p. 15.
[13] Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 61.
[14] Cfr. introduzione di I.Calvino al Candide di Voltaire, Rizzoli, Milano 1974, p.9.
« Del mio viso, sapevo ormai qualcosa: che il suo smarrimento e la sua ansietà confondono un ardore malaticcio; che sono stata io a rendermene più pungenti i tratti, consumandoli a furia di emozione; che il volto necessario, corrente, si è lasciato via via sostituire da quello troppo privato, inservibile, incessantemente ritoccato e corretto dall’anima. Cara prigione. » Foto Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, p.42, in Scrittrici e intellettuali del Novecento.
L’ANIMALE come pensiero filosofico e primordiale
Marguerite Yourcenar non è l’unica scrittrice a partecipare con evidente immedesimazione alla sorte delle « creature » della terra dando voce al linguaggio del corpo e della carne. Anche la toscana Gianna Manzini(Pistoia 1986 – Roma 1974) è commossa dal mistero e dall’innocenza animale come se fosse un « barlume superstite dell’antico giardino » dell’Eden. Nel suo Bestiario (1960), nel precedente Animali sacri e profani (1953) e nei suoi romanzi, la vita animale è una presenza reale e al tempo stesso emblematica, « una sua preistoria stravagante » mischiata di « quel senso della carne », – istinto, malattia, ebbrezza, dolore, morte – un « controcanto analogico » della vita umana, veicolo del mistero e di uno « speciale silenzio » carico di fatalità e di significati non detti, pregni di parole antiche, dense di movimenti, odori, cose e sensazioni. Nella scrittrice pistoiese gli animali – sono compagni di viaggio nel presente e nella morte; oggetto di immedesimazione e di pietas ; nostalgia di un’intesa sacrale, « profanata » dal mondo crudele e indifferente dell’uomo che ne viola l’innocenza e ne sgozza o manipola il corpo insieme alla natura. Ecco allora l’immagine dei malinconici capponi castrati, inventati dall’uomo, « invenzione antica e contadinesca », a cui, per la Manzini, “se ne sovrappone una moderna, scientifica , cittadina : un animale nuovo di zecca, un cappone più ardito d’un gallo, d’una bellezza veemente, con una cresta battagliera… fra i capponi-capponi, ed i capponi « ultrarigenerati », c’è di mezzo il propinato di testosterone e la vitamina E, la vitamina della fecondità…”. Oppure l’immagine patetica e ridicola di un pero nano deformato dalla mano dell’uomo: “con una stampella per ogni ramo e un sacchetto di carta trasparente per ogni frutto, pareva un riccone ammalato o, allorché il sole era scomparso, un ragno mostruoso, oppure… uno di quei bambini che reggon male il testone, traballanti nella cesta di vimini…”.
La Sparviera, Oscar Mondadori, Milano,1956.
In “La Sparviera” («una delle pochissime opere di cui ha bisogno la gente di domani») il titolo stesso è un’allegoria dell’ostinata tosse bronchiale che opprime fin dall’infanzia il protagonista del romanzo : una “rivale” e una “compagnaassidua” che lo spinge sempre più a sfidare la vita fino alla morte. Un emblema del volto avverso della morte-destino a cui, prima o poi, ci si deve arrendere. Gli aggettivi di questa immanente e impalpabile presenza ricordano la simbologia misteriosa che aleggia attorno a quel nome “arcaico” di « rapace » in un crescendo spietato : volante, spavalda, un peso, un brivido che “si avventava alle spalle” , “entrava sotto le lenzuola, lo scuoteva”, “apriva le dita come un pettine, se le metteva davanti, sbarrando gli occhi. Era qualcosa di tenace e vibratile che ha uno strano potere di insinuarsi… Nodo di nodi. Ammiccava nel fumo. Si snodava, si agitava, diventava prima alta, poi larga; e, mutata in uno straccio di fumo, l’avviluppava. Era ghiaccia e calda. A volte si faceva piccolissima. Si nascondeva in una briciola di pane, in un grano di riso, in un chicco d’uva… »
Ritratto in piedi (Oscar Mondadori, Milano,1971)
Ritratto in piedi inizia con una forte analogia tra la scrittrice e il cavallo da piazza, a Firenze, che scalpita e non vuole più attraversare il ponte di Santa Trinita: «S’impuntava; schiumava; impazziva… E soltanto su quel ponte. Nessuno sapeva spiegarsi la cosa…. Che avrà visto, a metà dell’arcata del ponte? Quale ricordo, quale spettro sarà insorto a bloccarlo?… Il tempo è un sogno, specie per un cavallo… Ebbene in certi momenti, mentre mi provo a scrivere la vita del babbo, sono anch’io quel cavallo, a metà dell’arcata del ponte. M’impenno. Non vado avanti. Addirittura torno indietro…”; “lui”, il cavallo, “è un congegno di nervi e di rapporti, e di legami e di poteri ultra-umani. Che gara assurda sarebbe la mia. Eppure, io ho a che fare con quel cavallo. Udire, vedere: una collisione, sia pure irresistibile, in un sovrapporsi di tempi: lastre trasparenti di tempi, anni, lustri, decenni, connesse in un presente assoluto. Col fiato mozzo, provo, riprovo. Voglio una franca paura, una decifrabile paura; o una insostenibile pietà, o una decisa vergogna. In “Sulla soglia” – Mondadori, Milano,1973 – c’è un racconto molto poetico intitolato “Una quieta voragine”: il protagonista è quel luogo « di tutti e nessuno, incerto e nebbioso » – il confine tra la vita e la morte, il tutto e il niente – un incessante duello dove l’umano e il non umano coesistono e si confondono in un’identica sorte e destino ineluttabile. Ne è protagonista la femmina di un passero, una madre con il suo compagno, che assiste impietrita alla morte di un motociclista, – « massa scura, mostruosamente estranea » – incagliata su un abete che copre col suo corpo il nido con tutta la covata provocando la morte lenta e ineluttabile dei passeretti o, meglio, i suoi piccolini … Mentre una nera scia di formiche, moscerini e mosconi preparano l’assedio, la madre-uccello segue la scena con « occhio vigile e dilatato, aperto, netto, anzi, più che aperto, sbarrato, e nudo, nero, tondo, feroce… son qui, son qui… », mentre il passero si ferma accanto alla compagna: « Uguale in tutti e due il silenzio. Identica la concentrazione atterrita al cospetto della schiera nera che aumenta con incredibile rapidità ». La passeretta continua a seguire la scena, istante per istante, fino alla fine, per poi scegliere il volo e la futura vita insieme al suo compagno: « Vita; immensa infinita plenitudine, impalpabile, inconoscibile, dilettosa armonia di dolore e di dolcezza. Canto. Il nostro canto. Così densa, così ricca, disorienta, sembra altra cosa da ciò che è in me, in noi. – Vieni… è breve la vita di un passero. Vieni. – Lei gli teneva ormai dietro, fiduciosa, con un bel volo regolare ».
Foto con dedica ad Arnoldo Mondadori
Claudia Patuzzi
Articolo apparso nella rivista « Leggendaria » N° 77-78, Roma, novembre 2009
Il tema dell’animalità nella scrittura delle donne : un percorso di lettura attraverso alcuni testi emblematicia partire dal Novecento…
Da sempre gli animali sono stati e sono ancora i grandi mediatori tra l’uomo e il mistero dell’universo, accompagnando e veicolando l’ indicibile, a volte troppo oscuro e orribile per essere compreso. Ci vorrebbero interi volumi per parlare delle diverse “interpretazioni” dell’animalità da parte di innumerevoli testi, rischiando di disperderci in mille rivoli. Ho pensato dunque di cominciare da un ambito più ristretto, quello dell’animalità al femminile, attraverso un percorso di lettura basato su alcuni testi emblematici del Novecento.
Se da una parte le donne, – legate biologicamente al ciclo del sangue e della riproduzione – hanno il potere di “comunicare” in modo più immediato con la natura e la condizione animale, dall’altra sembrano muoversi più liberamente oltre la « banale ma coriacea crosta del visibile » (Italo Calvino) con un linguaggio in grado di resistere alla mercificazione attuata dal crescente dominio “dell’irrealtà” (nel senso inteso da Elsa Morante) : un linguaggio metamorfico che la scrittrice Antonia S. Byatt ha definito con la metafora della “foresta-giardino” in rapporto con “l’occhio della mente” in cui “il sottobosco scricchiola” ogni qual volta si presta voce alla Bestia e/o al desiderio-dolore fuori di noi e dentro di noi. In cerca di “parole diverse” mi sono quindi avvicinata ad alcune autrici – Marguerite Yourcenar, Gianna Manzini, Anna Maria Ortese, Piera Mattei, Elsa Morante e Antonia S.Byatt – che danno particolare rilievo all’animalità, sperimentando nuovi linguaggi che vanno e vengono tra vita vissuta e vita immaginaria, tra parola e pagina scritta, tra scrittura e realtà, ragione e emozioni, corpo e desiderio/ intelletto…
« Marguerite Yourcenar : il recupero sociale e culturale dell’animalità »
In Marguerite Yourcenar il « diverso » in particolare l’animale come realtà biologica, è spesso collegato alla morte o alla cieca e spesso gratuita crudeltà umana, in un’epoca in cui « gli dei verdi » e l’uomo hanno ormai del tutto dimenticato il primordiale e reciproco rapporto di armonia. Il primo animale nominato in “Care memorie” appare all’inizio della narrazione, nel capitolo intitolato “Il parto”, nel momento in cui la neonata – un “pezzetto di carne rosea piangente… coperta di una peluria nera simile al pelo di un topo” – « succhia quasi selvaggiamente » il latte tra «lenzuola sporche di sangue ed escrementi ». La violenza espressiva che connota quella minuscola « creatura » richiama, attraverso il biancore inamidato delle lenzuola e il rosso vivo del sangue, la parentela prossima con tutte le specie animali. Marguerite non lascia dubbi sull’unione primordiale e cosmica delle creature quando scrive: “la neonata gridava a pieni polmoni, provando le sue forze, manifestando già quella vitalità quasi terribile di cui è dotato ogni essere, perfino il moscerino che i più ammazzano con un manrovescio senza darsene pensiero…; essa grida l’orrore di essere stata espulsa dal grembo materno, il terrore dello stretto tunnel…”; e conclude: “quella bambina vecchia di un’ora è (…) già presa nella realtà della sofferenza animale e del dolore umano”. (1)
Il giudizio della Yourcenar sulle donne/creature è spiegato in modo forse provocatorio in una lettera del 1968 alla romanziera Helen Howe Allen (2), in un’epoca che assiste ai primi incerti albori di un movimento di pensiero alternativo rispetto allo standard borghese : “Perché le donne si richiudono nel loro piccolo mondo ristretto, pretenzioso e povero? (penso alla frase che faccio pronunciare a Adriano: “Ritrovavo la visuale limitata delle donne, il loro duro senso pratico, il loro cielo grigio non appena cessa di ridervi l’amore”). Non voglio sostenere che l’uomo possieda tutte le virtù: il mondo in rovina nel quale viviamo è la riprova del contrario. Ma penso che in parte è al miserabile piccolo egoismo della signora per bene che profuma di lavanda e si concede una vita ‘armoniosa’ che noi dobbiamo la continuazione e la crescita del caos. Per quanto mi riguarda (…) mi stupirò fino alla fine dei miei giorni che creature le quali per la loro costituzione e la loro funzione dovrebbero assomigliare alla terra stessa, che partoriscono tra deiezioni e sangue, che le mestruazioni legano al ciclo lunare e al mistero stesso del flusso sanguigno, che portano come docili vacche un alimento primordiale nelle loro ghiandole mammarie, che cucinano, ovvero che lavorano sulla carne morta e sui legumi ancora sporchi di terra, che infine, nei loro corpi, nel loro viso, nella loro disperata lotta contro l’età, assistono perennemente alla lenta distruzione e corruzione delle forme, affrontano giorno dopo giorno la morte nelle rughe che si accentuano o nei capelli che ingrigiscono, possano essere a tal punto false. False nel caso della bambola truccatissima che vuol sedurre usando gli stessi sistemi della prostituzione, a qualunque ceto appartenga, e forse più false ancora quando si tratta della signora per bene? Si cerca invano la donna…”(2 ).
La giovane Marguerite
Ma torniamo alla narrazione di Care memorie in cui l’autrice, dopo la descrizione del parto, prende spunto da un semplice ninnolo sacro di avorio, una croce ornata di una testa di angioletto, « per passare subito alla descrizione di un elefante “ucciso nelle foreste del Congo, le cui zanne sono state vendute a basso prezzo dagli indigeni a qualche mercante belga”. Poi aggiunge: “Quella grande massa di vita intelligente, discendente di una dinastia che risale almeno all’inizio del Pleistocene, è approdata qui. Un animale che ha brucato l’erba e bevuto l’acqua dei fiumi, che si è bagnato nella buona melma tiepida, che si è servito di quell’avorio per combattere un rivale o per tentare di difendersi dagli attacchi dell’uomo, che ha accarezzato con la sua proboscide la femmina con la quale si accoppiava. L’artista che ha lavorato quel materiale non ha saputo ricavarne altro che un oggetto bigotto di lusso”. (3)
Ma basta che “il latte calmi le urla della piccola”, perché un altro animale, estremamente pacifico e familiare, appaia ancora come “compagno di viaggio” sulla scena del parto – la mucca – “una bestia-nutrice, simbolo della terra feconda, che dà agli uomini non soltanto il suo latte, ma più tardi, quando le sue mammelle saranno definitivamente esaurite, la sua magra carne e infine il suo cuoio, i suoi tendini e le sue ossa con le quali si farà la colla e il nero animale. Strappata ai suoi parti morirà di una morte quasi sempre atroce, dopo un lungo viaggio nel vagone bestiame che la sballotterà verso il macello, spesso pesta, assetata, in ogni caso terrorizzata da quelle scosse… Oppure sarà spinta in pieno sole, lungo una strada … talvolta accecata, consegnata nelle mani di carnefici incattiviti dal loro spregevole mestiere, i quali forse cominceranno a squartarla non ancora morta del tutto. Perfino il suo nome, che dovrebbe essere sacro a coloro che essa nutre, in francese suona ridicolo…”. (4)
In un’altra lettera diretta alla poetessa e romanziera Lise Deharme, l’opinione di Marguerite sul comportamento degli abitanti della sua isola di Mont Desert verso gli animali è di un pessimismo lapidario: “cacciano nel parco nazionale e nella riserva servendosi del semplice espediente di appostarsi in automobile al limitare del bosco con i fari accesi, per poi massacrare in tutta tranquillità i cervi attirati dalle luci … L’uomo ha poche speranze di smettere di seviziare l’uomo, finché continuerà a imparare sugli animali il proprio mestiere di carnefice…” (5)
Claudia Patuzzi
(1) Care Memorie, Einaudi Tascabili, 1991, pp.5, 22
(2) Lettere ai contemporanei, 7 agosto 1957 e 24 febbraio 1968, Giulio Einaudi editore, 1995, pp.151-53
(3) Care memorie, Edizioni Einaudi Tascabili, 1981, 1992, p.23
(4) Idem, p.25
(5) Lettere ai contemporanei, 7 agosto 1957 e 24 febbraio 1968, Giulio Einaudi editore, 1995, pp.151-53, pp 61-62.
Articolo apparso nella rivista « Leggendaria » (libri letture linguaggi), N° 77-78, Roma, novembre 2009.
Claudia Patuzzi (Roma 16 marzo 1951 – Parigi 5 febbraio 2024)
«Chi volesse ancora oggi trovare i resti della martire Regard, può girare tra le chiese della campagna francese, in cerca delle sue reliquie. Ancora oggi al calendimaggio, il tepore del sole è festeggiato con un albero inghirlandato, piantato con rito solenne su una zolla fresca. Questo è l’albero di Regard e nella zolla il suo scheletro si è frantumato in preziosa silice, nutrendo l’humus di feconde e lillipuziane reincarnazioni pregne di vita e linfa mentre il profumo di zenzero e zibibbo, di cui era golosa, si diffonde nell’aria. Dove sei Regard? Dov’è il tuo ritratto? Dov’è la tua treccia? Dov’è andato il tuo angelo custode? Ogni anno a Pasqua, certi bambini festeggiano la prima confessione con un albero di pero su cui ogni penitente, ormai assolto dall’atto di dolore, pone un fiocco di colore azzurro. Nella brutta chiesa si sente allora l’odore di zenzero e zibibbo e nessuno sa dire da dove venga. Solo noi lo sappiamo. È Regard che ritorna, è Regard che respira. Sono le parole magiche di Regard, che ora è driade di boschi, di alberi, foglie e radici e piccole erbe aromatiche e, insieme a Maddalena, Santa Genoveffa e Meridiana, sembra dire:
– La vita è mia, la vita è mia!
Quindi attenti a tagliare un albero, potrebbe sanguinare e l’anima di Regard potrebbe volare via sotto forma di un merlo o di un pettirosso o di un usignolo dicendo – la vìtaèmìalavìtaèmìa – oppure: – vìta mèa èst vìta mèa èst VITA MEA EST VITA MEA EST! gridano d’estate le cicale in coro. Così i parassiti divorano il sughero delle querce secolari. Così può morire una prostituta analfabeta sfiorata dall’alone periferico della filosofia…»
Claudia Patuzzi, La riva proibita, Ed. dell’Oleandro, 2000
«Vi auguro di rispettare le differenze degli altri, Perché il merito e il valore di ciascuno sono spesso da scoprire. Vi auguro di resistere all’insabbiamento, all’indifferenza e alle virtù negative della nostra epoca…» Jacques Brel
Nella mia mente incapace di reagire eppure affascinata dai misteri, si insinua ogni notte, ormai, la paura di dimenticare quello che ho appena capito nel bel mezzo del sogno: un sogno destinato peraltro a essere inesorabilmente cancellato. Ci sarà sempre un interlocutore, un destinatario che condividerà le rivelazioni del mio viaggio nell’incoscienza e non dirà niente di quello che ha visto e capito standomi vicino. Tuttavia, sapendo che lui conosce la spiegazione del mistero, gli affido il compito di aspettarmi là, vicino alla porta: quest’ombra travestita da essere umano mi aiuterà di certo nella penosa ricostruzione della mia splendida verità o allora della traballante trama dei miei sogni tenaci. Stanotte agiva su di me il rimorso per aver subito passivamente la valanga dell’auto-rappresentazione reciproca, imposta, da Facebook e Whatsapp in particolare, ancora una volta in occasione della fine dell’anno: come fanno tutti, ormai, anch’io ho inviato — prima a benevole persone di famiglia, poi ad interlocutori più sensibili e pronti a scattare, urtati magari dalla mia innocente vetrina di oggetti quotidiani — fotografie senza storia che per di più risentono, inevitabilmente, del peso dell’esistenza. Per ogni ritratto, invece, bisognerebbe prepararsi in anticipo, oppure avere quella sicurezza innata e assoluta che permette, a chi ce l’ha, di “bucare lo schermo”: un talento che solo i grandi attori o i grandi impuniti sanno tenere in allenamento. Dall’altra parte della macchina fotografica ci deve poi essere qualcuno che conosca a fondo l’arte di captare a nostra insaputa le nostre espressioni più fedeli. Se è per esempio Wim Wenders colui che ci spia ed “estrae” abilmente i tratti essenziali del nostro volto fuggitivo o assente, — assorto in pensieri definitivi oppure spaesato per l’assenza di vere riflessioni —, il nostro ritratto sarà efficace anche se l’immagine sarà sfuocata o mossa, o anche immersa in un chiaro-scuro portato alle estreme conseguenze dalla scelta di colori troppo accesi o brutali…
Care A* E* I* O* e U*, Esattamente nove mesi dopo la mia ultima pubblicazione, comincio con voi un resoconto sotto forma di lettera, che sarà seguito da altri scritti similari, che saranno inviati di volta in volta ad ognuna di voi. Da voi mi aspetto la stessa indulgenza que in altre occasioni mi avete dimostrato, la stessa attenzione distratta che è stata sempre capace, anche da sola, di darmi la forza di portare avanti una simile avventura. «Di che si tratta?» mi domandate. «Perché hai smesso così rudemente di darci del tu?» Si tratta di rompere una spessa cappa di silenzio indurito, che ha assunto, col tempo, il carattere di altezzosa impenetrabilità di un Palazzo dei Papi dalle immense sale vuote, dove, da alcuni mesi — tranne i pochi addetti al controllo dei sistemi di sicurezza —, nessuno ha il diritto di avventurarsi. Il mio racconto dei mesi appena trascorsi sarà inevitabilmente frammentario e incompleto. Innanzitutto perché non si può dire tutto e spiegare tutto. Io condivido poi, con tutti i mei corrispondenti, il silenzio di cristallo di questa interminabile battuta d’arresto, e ciò ha dato vita a une società sotterranea piuttosto orgogliosa dei suoi segreti. Infine, non è corretto lamentarsi, almeno fino a quando avremo la fortuna di sopravvivere: la cosa più importante in fin dei conti. Ecco, mie care amiche, l’interstizio attraverso il quale osserverò d’ora in poi queste lunghe giornate di trepidazione e di solitudine passate e future: uno specchio di Alice che il mio isolamento personale e familiare non ha mai smesso di attraversare, generando abitudini, piccoli vizi, nostalgie e sogni. Ed ecco una delle ragioni per cui mi rivolgo a voi cinque: tre di voi siete mie compatriote, voialtre due siete innamorate dell’Italia! Sta di fatto che al di là dei riquadri della mia finestra il viale parigino si lascia volentieri rimpiazzare dalle montagne e dalle acque che ci dividono gentilmente e senza scosse da quest’altro paese d’Europa colpito per primo dalla pandemia con una spaventosa concentrazione di lutti e di minacce che seminavano riguardarlo in modo esclusivo. Grazie alla gratuità di “Free” e di “Wathsapp”, i miei rapporti con l’Italia sono molto cambiati rispetto agli anni precedenti: insieme alle telefonate, la corrispondenza affidata alle mail è da allora diventata la mia compagna quotidiana. Se da una parte vivevo isolato in una Parigi trasfigurata, che mi diventava ancora più cara, i mille ponti virtuali, vocali o telepatici che mi raccordavano alle mie famiglie d’origine, mi obbligarono a mettere provvisoriamente da parte il mio francese d’elezione e riprendere con gran lena la mia lingua materna. Con i miei corrispondenti — di Torino, Milano, Bologna, Genova, Perugia, Roma e Napoli — si parlava soprattutto della pandemia oppure dell’Europa durante e dopo la crisi sanitaria: «Chissà se l’Europa riuscirà a riavvicinare i paesi che la compongono; a valorizzare sul serio l’immenso patrimonio artistico prodotto nei secoli da ognuno di loro… Che ruolo avranno in essa le differenti lingue e culture letterarie?» Per l’Italia, le tre circostanze combinate della pandemia, del Brexit e della caduta di Trump potrebbero cambiare le cose. D’altronde, l’ubriacatura mitologica e tecnologica del modello anglo-americano ha ormai toccato la vetta più alta: essa si relativizzerà davanti alla prospettiva, in Europa, d’un nuovo slancio socio-economico e culturale che non potrà trascurare la crescente domanda di uguaglianza e di giustizia sociale Ma quanti anni o secoli dovremo aspettare prima che una solida cultura europea circoli veramente da un paese all’altro secondo il nobile principio dei vasi comunicanti? Accanto all’ottimismo della volontà federativa bisogna riconoscere una qualche dignità al pessimismo della ragione quando si deve constatare che un tale travaso di risorse e patrimoni si verifica molto sporadicamente, anche meno che nel passato, tra Francia e Italia. Uno dei simboli più rappresentativi degli scambi reciproci tra i nostri due paesi è il famoso Palatino, il treno di notte che ha avvicinato per decenni Roma a Parigi: protagonista tra l’altro di uno straordinario romanzo di Michel Butor — “La modification” — questo fondamentale “link” è stato soppresso. Nel criticare questa decisione — dovuta meno a un malinteso diplomatico che alle politiche ferroviarie dei due paesi che apparentemente decisero di abolire questa linea in funzione del progetto della rete internazionale dell’Alta Velocità e del TGV francese, lungi dall’essere compiuta tra Torino e Lione come tra Genova e Nizza — ci si interroga anche sulle ragioni che fino ad oggi impediscono o comunque non favoriscono lo sviluppo, tra i miei due paesi, di scambi culturali effettivi, sistematici e non soltanto formali. Storicamente, si può dire che la Francia ha vissuto fino in fondo sia il potere schiacciante dei Re sia quello sanguinario della Rivoluzione; mentre in Italia, dalla notte dei secoli, oltre alla costante presenza dei Papi, c’è stata sempre una vasta costellazione di Poteri in lotta tra di loro. Questa differenza strutturale — geografica e storica — dà inevitabilmente luogo a due culture diversamente strutturate, per quanto riguarda la lingua, il patrimonio, i contenuti e le forme letterarie e artistiche che si sono via via imposte. Se in Francia si assiste ad una certa rigidità e intransigenza nella difesa ad ogni costo della lingua nazionale, in Italia si è sempre riconosciuta l’importanza dei dialetti, considerati essi stessi come vere e proprie lingue. Basti ricordare il teatro veneziano di Carlo Goldoni (1707-1793), quello genovese di Gilberto Govi (1885-1966) e quello napoletano di Eduardo De Filippo (1900-1984): teatri e culture che nulla levano al prestigio dei poli culturali di Torino, Milano, Bologna, Roma come della Sicilia, dove i rispettivi dialetti sono anch’essi riconosciuti e valorizzati. Questa ricchezza discende dall’estrema parcellizzazione geo-politica della nostra penisola fino all’unità nazionale, compiuta il 20 settembre 1870, cioè 150 anni fa, molto di recente, mentre l’unita della Francia può vantare almeno dieci secoli, se non vogliamo risalire a Carlo Magno… Bisogna poi considerare che in questo tempo così ridotto la nazione italiana ha subito, con le due guerre mondiali e il fascismo, un pesante rallentamento nella sua evoluzione economica, sociale e culturale che gli anni successivi alla Liberazione del 1945 non sono bastati a recuperare in modo soddisfacente. In una delle prossime lettere, parlerò del ruolo della televisione nella profonda trasformazione culturale dell’Italia, caratterizzata tra l’altro da un fastidioso miscuglio di dialetti che rischiano di perdere la loro identità o se si vuole, da un gran calderone in cui la lingua italiana, contaminata dai dialetti e accresciuta dalla creatività dei popoli si alimenta sempre più di parole ed espressioni importate dalla lingua (soprattutto tecnologica) degli Stati Uniti. In definitiva il diverso atteggiamento delle istituzioni culturali della Francia e dell’Italia riguardo alla lingua nazionale e ai dialetti è uno dei principali fattori di incomprensione tra francesi e italiani.
Una piccola traccia di una serie di malintesi “culturali” tra questi due “grandi popoli” la di può ritrovare nella diversa concezione della “comicità” nella scena teatrale e cinematografica in ciascuno dei due paesi. Se si considera per esempio il mio entusiasmo e la mia ingenua disponibilità a stupirmi e ad ammirare senza limiti le cose “fatte a regola d’arte” à règle d’art”, in Italia sono considerato un sognatore che non ha capito niente della vita, mentre il Francia rischio di essere additato come un “tipo ridicolo” che ambisce a cose che non gli appartengono. Recentemente, a breve distanza, ho avuto l’occasione di vedere due film in cui la figure del “borghese gentiluomo” era al centro della narrazione. Questo personaggio mi ha fatto ricordare di un famoso film, precedente, in cui Yves Montand prendeva lezioni di teatro nella speranza di conquistare l’affascinante e inafferrabile Marilyn Monroe: in questa storia, risulta in po’ patetica la goffaggine dell’uomo ricco che prende inutilmente delle lezioni di naturalezza, anche se alla fine egli raggiunge il suo scopo. Nelle interpretazioni del borghese gentiluomo, incarnato nel primo film da Michel Serrault e nel secondo da Fabrice Luchini, si arriva a capire, una volta per tutte, la nozione di “ridicolo” che il teatro e la vita di tutti i giorni, in Francia, ereditano dalla eterna “regola del gioco” che regnava alla corte del Re Sole e regna ancora oggi nelle piccole e grandi “nicchie” dove si esercita il potere, compreso quello culturale. Nel borghese recitato da Michel Serrault (1968) il ridicolo risiede meno nella sua passione impossibile per la marchesa Dorimène che nella sua ambizione di essere considerato un gentiluomo. Nonostante le magnifiche invenzioni che Serrault aggiunge al personaggio di Molière con un’interpretazione surreale e auto-ironica —, il suo borghese gentiluomo cozza contro il muro del potere assoluto in un’epoca in cui la Rivoluzione è ancora molto lontana. Nell’interpretazione di Luchini (2007), si assiste ad una situazione molto differente, che si potrebbe intitolar “la vera storia del borghese gentiluomo”. Salvato dalla prigione (dove languiva per i debiti accumulati) da un ricchissimo borghese, il giovane Molière è invitato a mettere in scena una commedia che costui aveva scritto senza averne l’ispirazione né le capacità. Sottraendosi all’obbligo della fedeltà assoluta al testo del grande drammaturgo del XVII secolo, la sceneggiatura di questo secondo film tiene conto del rovesciamento storico operato nella società francese dalla Rivoluzione francese (1789-1794). Dunque, se il borghese è ridicolo in tutto ciò che gli è fondamentalmente estraneo, la nobiltà spendacciona, anzi in rovina con cui egli cerca di imparentarsi è, anch’essa, scandalosa nella sua assoluta mancanza di spina dorsale. Col tempo, la concezione italiana della comicità, molto complessa e diversificata, ha dato luogo, tra l’altro, ad un uso sempre meno sopportabile della derisione, pesante e spesso volgare, che spesso sottintende un’ammirazione servile e del tutto acritica dei vincenti, senza fare alcuna differenza tra le persone oneste e disoneste. Sennò, in Italia come in Francia, pareti invalicabili separano i “popoli eletti” da coloro che restano fuori. E la commedia umana, di cui Molière è uno dei padri più illuminati, si traduce dappertutto in questo incredibile spreco di energie vitali che consiste nel far finta di credere o di non credere alle “regole del gioco” secondo le situazioni e le convenienze.
Nelle lettere che riceverete, sarà sviluppata una riflessione su questi temi, allo scopo di aggiungere qualche testimonianza al quotidiano dibattito culturale tra le nazioni-sorelle d’Europa e, in particolare tra la Francia e l’Italia. Nella consapevolezza di poter superare, almeno a livello personale, ogni sentimento di frustrazione per le possibili incomprensioni tra le mie due patrie, ho deciso di riprendere le mie pubblicazioni sul “ritratto incosciente” : il rapporto con la lingua e la cultura francese è, per me, un rapporto d’amore da cui nessuno potrà distogliermi.