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il ritratto incosciente

~ ritratti di persone e paesaggi del mondo

il ritratto incosciente

Archives de Tag: Claudia Patuzzi

Due anni appena

14 samedi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in poesie, scritti e disegni di e su claudia patuzzi

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ascensore, Claudia Patuzzi, Hôpital Broca, Infirmières, Sapeurs Pompiers

Claudia Patuzzi

Due anni appena

da quando imbambolata

per sempre da qui sei partita

da quando alla porta

accorse samaritana

una donna dolce e compita

che telefonò.

*

Due anni fa appena

cominciò il marasma

di saperti senza di me

allontanata, relegata

sola di giorno sola di notte

e la strana pena subliminale

di sapermi senza di te

con la colpa della vita

attaccata alle dita.

*

Due anni fa soltanto

ti rapì nuovo di zecca

l’ascensore mai usato.

Con precisione fosti aggiustata 

sul seggiolino del papa:

sembravi non capire

nemmeno più ti ribellavi

confortata o stordita

dalle voci confabulanti.

*

Incapace di alcunché

dalla finestra, al rallentatore

scrutavo la seggiola bianca

la maglietta rossa

i tuoi capelli spettinati

la rossa ambulanza

lo strappo del corpo e del cuore.

*

Due anni fa ti lasciai andare

con la disperata speranza

di saperti in mani forti

ospite di voci gentili

di gesti pronti e caritatevoli

ma intanto s’era sfasciato

il gomitolo dei nostri due corpi

e nessuno poteva aggiustarlo

né con mille colle e palliativi

tenerlo in vita.

*

Senza voltarmi, lo lasciavo

per terra tra le cose di casa

quell’abbraccio dilaniato e distrutto

e venivo da te, aggrappato

a strani ghirigori

rubati al metrò, alla folla dei passi

a quel corridoio oramai familiare

di camici verdi e poltrone a rotelle.

*

Accorrevo sorridendo

alla casa della tua vita.

Tornavo piangendo

alla casa della mia morte.

Giovanni Merloni

14 giugno 2023, boulevard Magenta, Parigi.

Già erano avvenute altre separazioni dalla Claudia donna,  madre, scrittrice, divoratrice di libri e di film, amante dei piccoli oggetti fino al collezionismo, Claudia alter ego e alter tutto per me e per tutte le persone a cui apriva il cuore. Ma quella di due anni fa fu la prima vera e irreversibile separazione. Era la morte che ci separava? Non ancora. Ma la vita sembrava non unirci più: tra di noi si era issato un muro invisibile e d’ora in poi, per entrare nella sua nuova dimora, bisognava trovare la porta nascosta. Certo, aperta la porta, una sorta di quasi-vita ci fu concessa, ma quanto precaria, squilibrata e ingiusta.

G. M.

TESTO IN FRANCESE

Piccolo vocabolario tascabile

12 jeudi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in poesie di claudia patuzzi, scritti e disegni di e su claudia patuzzi

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Albert Camus, Canal Saint-Martin, Carlo Levi, Claudia Patuzzi, Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, Italo Calvino, Jacques Prévert, Jean-Paul Sartre, Jorge Luis Borges, La riva destra, Parigi, Primo Levi, Umberto Saba, Vincenzo consolo

La passerella Bichat sul Canal Saint Martin (Parigi, X), acrilico su tela di Paolo Merloni

Piccolo vocabolario tascabile

Ovunque sola
ovunque straniera
ho compreso che le parole
come le pietre[1]
hanno il potere di abbattere
le lingue e le frontiere.

Quante parole cadono con fragore ?
Quante ondeggiano ancora nel vento ?
Quante parole tacciono, senza voce,
recluse nel cuore ?

Ci sono le parole-nave
veloci e leggere
che approdano sulla spiaggia dell’ « altro »
col sorriso di un ignoto marinaio[2]

Ci sono le parole-freccia
aguzze[3] come schegge di cristallo
che perforano lo schermo grigio
dell’ indifferenza e della rassegnazione.

Ci sono le parole-uccello
curiose e « vaghe »[4]
capaci di risuscitare la speranza
rinchiusa nella solitudine.

Ci sono le parole infantili
saltellanti come uno scoiattolo
che ci aiutano a ritrovare noi stessi
in un giardino perduto e incantato.[5]

Ci sono parole di sguincio rifrangenti
simili ai riflessi di uno specchio
prigioniere di misteriosi
labirinti e sogni.[6]

Ci sono le parole-onde
che attraversano gli ultimi rifugi
della storia, tutti gli inferni
e i cimiteri del mondo.

Ci sono le parole-fiore,
rosse come il sangue
degli innocenti,
che sbocciano sulle tombe
per ricordare l’ingiustizia.[7]

Ci sono le parole-rima
che raccontano ancora
senza annoiarci mai
le semplici parole :
« amore-fiore-cuore .» [8]

In fondo, per ultime,
ci sono le parole-vento
che volano minuscole nell’etere
in una bolla di sapone :
un folle volo.[9]

E per finire, nascoste in un angolo,
ci sono le parole inventate
non ancora trascritte
che premono sul guscio
come un pulcino nel nido.

002_finestra-gatto180

Qualcuno mi guarda (cliccare sulla foto per ingrandirla)

Claudia Patuzzi

[1] Carlo Levi
[2] Vincenzo Consolo
[3] Albert Camus et Jean Paul Sartre
[4] Jacques Prévert et Giacomo Leopardi
[5] Italo Calvino
[6] Jorge Luis Borges
[7] Primo Levi
[8] Umberto Saba
[9] Dante Alighieri

TRADUZIONE IN FRANCESE

13 aprile 2014

Un angelo per Francis Royo

11 mercredi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in poesie di claudia patuzzi, scritti e disegni di e su claudia patuzzi

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Claudia Patuzzi, Francis Royo

 (disegno di Claudia Patuzzi)

Un angelo per Francis Royo

Il tempo d’un attimo, ahimè

il cielo s’è fatto buio

l’aria, una lastra di ghiaccio

si è appesantita di lacrime senza speranza.

Sospesi ai rami

la testa nascosta sotto le ali

gli uccelli si sono azzittiti

quando, di colpo, in fondo allo stagno

un cuore spezzato ha smesso di spedire

fuori dalle sue porte il suo sangue.

Aiuto! Ai bordi dell’universo,

in un tourbillon di atomi vagabondi,

Francis Royo ha lasciato cadere i suoi versi!

Qui da noi,

l’eco della sua voce di miele

risuona nel volo leggero

dei denti di leone, nella linfa

degli alberi, al riparo di un cielo

infinito, scivolando, come in sogno

sull’onda sconosciuta di un mare-madre.

Nel buio delle stelle

non smette mai

di sorriderci, volteggiando

tra i frammenti appuntiti

dei firmamenti in fuga

sfiorando, come una stella filante

tutte le tragedie del mondo.

Da un capo all’altro del Cosmo

danzano le sue voglie sublimi

affidando ai più intimi amici

lo slancio generoso delle sue parole:

«Non abbiate paura di rompere il velo!

Infischiatevene della nostalgia!

Nell’universo dei poeti,

ancor lungi dallo svanire,

io vi conserverò un posto

per non morire!»

Claudia Patuzzi

N.B. Avevo scritto questi versi l’indomani della scomparsa di Francis Royo. Io non smetto di essere toccata dalla bellezza delle sue poesie, dove incontro ogni giorno una nuova meraviglia, e confesso che la personalità tanto discreta quanto energica di quest’uomo straordinario mi manca moltissimo. Chiedo dunque scusa per la semplicità dei miei sentimenti di allora, che lascio alla loro brusca spontaneità. (8 luglio 2017)

C.P.

Il grido della natura (Disegni e caricature n. 44)

10 mardi Juin 2025

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Claudia Patuzzi, Disegni e caricature, Lido dei gigli

Claudia Patuzzi, Il grido della natura (2017)

«Non ho mai dimenticato il giardino fiorito della mia infanzia, tra nodose querce da sughero, un orto e un’altalena. Sul retro spiccava una pineta e un pratone selvaggio rosso di papaveri e, sul fondo, la lunga striscia azzurra del mare. Un cancello verde chiudeva quel giardino ameno in un bozzolo sicuro e profumato… Quanto tempo è passato da allora? Ma ecco che, molti anni dopo, un grido profondo e disperato, simile a un tuono, ha traforato l’aria e migliaia di lacrime di grandine hanno coperto le spiagge del nostro mondo trasformandole in laghi di ghiaccio, mentre la gente scappava impaurita verso la scalinata… Era il grido furioso della Natura… Il nostro mondo era un immenso e fiorente giardino, un tesoro insostituibile. Adesso respira a fatica. Gli animali e le api scompaiono. Abbiamo assoluto bisogno di un vero giardiniere…»

Claudia Patuzzi

(Pubblicazione trasferita da «Scarti e metamorfosi», precedente blog di Claudia Patuzzi)

Il blu di me

08 dimanche Juin 2025

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Claudia Patuzzi, Filippo La Porta, Gattomerlino, Piera Mattei, poesie, Roma, Scrittrice

«Poche parole per dire come questo libro è nato: sono stata contattata da Giovanni Merloni che non conoscevo.  Ma lui scriveva accanto al suo nome “marito di Claudia Patuzzi”, che invece ho conosciuto e ammirato, e mi ha fatto sapere che Claudia alcuni anni dopo il loro trasferimento a Parigi si era gravemente ammalata e che ora vive solo nel ricordo di lui, che cerca di fare ordine nelle carte di lei.   Aveva trovato molte poesie anche se Claudia non ne ha mai pubblicate, preferendo di legare il suo nome al romanzo.  Nasceva così il progetto del libro che conterrà le poesie scritte da Claudia nell’ultimo periodo, con due delle buffe storie che Claudia pubblicava sul suo blog parigino, e anche il disegno di copertina sarà un suo disegno. Ma il libro riunirà inoltre Giovanni e Claudia, mediante una breve nota di lui alla loro vita insieme.» 

Piera Mattei (scrittrice ed editrice)

Copertina « Claudia » di Claudia Patuzzi e Giovanni Merloni, Gattomerlino, Roma, 2025

Filippo La Porta parla della poesia di Claudia Patuzzi

*

Quando sarò vecchia

I

Quando sarò vecchia

avrò due ali di farfalla

trafitte da uno spillo

una mentina di riserva

e un vestito paraurti

del dottor Gibaud.

Da brava ammutinata

bucherò lo skyline

sfonderò il cupolone

dell’urbe indifferente.

Al rallentatore, aggirerò

la rabbia e le curve

saltellando

al centro della strada

come un passero

tra miliardi di accidenti

felice dei miei vistosi

occhiali blu.

II

Quando sarò vecchia

avrò una cipria invisibile

molte rughe a sfoglia

una treccia color paglia

e un lifting da ragazza.

Felice del mio vento

cinguetterò trasognata

tra file di befane

contraffatte

in una pomposa nuvola blu.

III

Quando sarò vecchia

avrò una sola cataratta 

un cane dalla coda alzata

compagno fedele di giornata.

Tra protesi lavabili

correrò via riciclata

abbaiando alla vita sulla mia

motocicletta blu.

IV

Quando sarò vecchia

non avrò petto né pube

mi sveglierò un mattino

tirata a lucido col sidol

una lavagna lavata

da un pennello intinto

nel nirvana.

A braccetto con Siddharta

guiderò a zig-zag

come una cieca

il mio vagone

d’inchiostro blu.

V

Quando sarò vecchia

non sarò più una piuma

leggera e svolazzante

sotto la quercia antica:

ritornerò pietra. Sarà il vento

a scolpire il mio volto

di anziana cheyenne

nel granito di Finisterre

o nel marmo di Carrara.

VI

Quando sarò vecchia

le ossa smetteranno di suonare

il carillon.

Inseguita da nere guardie

accetterò la sfida

incendierò i vestiti

getterò chiavi e porcellane

schiaccerò la croce

veloce come Trilli

lancerò il mio giocattolo a molla

su un’autostrada blu.

VII

Quando sarò vecchia

parlerò ai morti

a colazione

pregherò i vivi.

Prima di dormire

innaffierò le piante

all’alba

tra l’urlo dei gabbiani.

Prima di morire

leggerò Dante e Topolino

libererò la mosca dal bicchiere

poi, in silenzio

metterò il crocifisso

tra le scope.

VIII

Quando avrò cento anni

volerò su una vecchia

Maserati amaranto

leggera come

una strega arruffata

libera di ghignare

al vento

il vaniloquio blu

di un secolo già morto.

IX

Quando sarò vecchia

aggirerò scale e pozzanghere.

Col tacco basso eviterò i rifiuti

col bastone scalzerò le tracce

dei bugiardi e sniderò

l’olezzo benestante

dei morti benpensanti.

Tra cristiane grasse e cicisbei

trionfanti scivolerò in silenzio

in sintetici indumenti da Star Wars

aspettando

sul ciglio della strada

il lampeggiante occhio

del Blu.

X

Quando sarò vecchia

odierò i bambini sputasentenze

i clienti inodori di Blockbuster

i commercianti senza scontrino

i controllori dei supermercati

i vicini spioni che non salutano

i bulli depilati che ridono negli autobus

i politici imbroglioni che masticano l’ostia

i preti impiccioni che ti guardano il sedere

i medici che rifiutano la morte

e tutti quelli che si

fingono buoni

poi mi dissolverò nel blu

e dichiarerò guerra.

XI

Quando morirò

voglio qualcuno accanto a me

a vedere la commedia.

Voglio dare spettacolo senza vergogna

e raccontare la barzelletta più idiota

e il ricordo più dolce.

Voglio gridare l’urlo più disperato

e l’amore più assoluto.

Voglio consegnare

l’incandescente lampada blu

a colei che mi è più cara e tenera

a colui che piangerà al mio fianco,

– quel giorno – senza voltarsi.

XII

Quando sarò morta

caduta da un ponte

sottile come l’aria

dormirò nel silenzio

di una laguna blu

che il Guardi non dipinse.

I pesci mi scivoleranno accanto

sinuosi e indifferenti

tra fluorescenti meduse.

XIII

Quando ero vecchia

credevo di essere eterna

pompavo sangue come una

fisarmonica imbevuta di Chianti

lanciata a pieno ritmo su una cordigliera

poi non ho visto l’incrocio blu

e sono morta.

XIV

Ora non ho tomba né fiori:

sola come Bruto maledico

il silenzio e l’ingiustizia

scansando l’odore dei morti

a gara col vento.

Claudia Patuzzi

(Roma, 21 maggio 2007)

Copertina del libro « Claudia » edito da Gattomerlino, 2025, part.

La recita

07 samedi Juin 2025

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Claudia Patuzzi

Anita Azzolini, Carla Terenzi, Claudia Patuzzi e Lia Coronati

Domenica 30 agosto 1964

«Caro Beppe, e cari tutti, è venuto! È venuto il grande giorno, il giorno della recita! Ma ora, quando ti scrivo è finito tutto ed io mi trovo in uno stato di pieno relax, con i muscoli rilassati e gli occhi tristi. Eppure, dovrei essere felice e amare la felicità di quelle due ore, abbracciare con le lacrime gli applausi e le lodi. Sì, Beppe, sono stata la più brava! Il truccatore del signor Azzolini, di nome Laghi, mi ha truccato perfettamente ed io sono diventata di botto il vecchio Nat, che per tutta la recita ha fumato la pipa davvero. Mondo mio di quelle due ore! Che ansia! Quale piacere! “Magnifica, sei stata magnifica!” “Complimenti, Claudia sei stata la migliore non dico bugie”. “Brava bravissima! Sei stata molto disinvolta! Brava!” “Hai attitudine, molta attitudine!” Ma per me non è stato che silenzio, un silenzio di tristezza e di ronzio. Che volevo di più? La recita era andata bene ed io, poi, benissimo! ma… oh benedetto Iddio! fatemi capire cosa volevo! Cosa potevo volere di più! Forse il sole! No! il sole sarebbe stato troppo! Dopo la commedia sono diventata Claudia con coda di cavallo e vestito giallo: addio Nat! Ah! Le mie ali si squagliano al sole come quelle di Icaro! “Brava, brava, brava!” Basta!!! Smettetela o mi butterò dentro il pozzo, perché sento di odiare la felicità ed ho voglia di strapazzare le mie ali. Ma finalmente è finito tutto e sento i respiri regolari delle mie “colleghe” e l’odore del vermut che bevo: odio il vermut, ma finalmente è finito tutto.»

Claudia Patuzzi e Carla Terenzi

Lunedì 31 agosto

«Caro Beppe, mal di testa. Quel mal di testa familiare che viene dopo giorni come quello di ieri. Beppe! cosa c’è di più doloroso d’una speranza sfracellata, tolta con tutte le radici all’improvviso? Tutti mi dicono ancora “Brava! Brava! Brava! Sei stata brava! Vai all’arte drammatica! Hai attitudine! Vai all’arte drammatica, vai all’arte drammatica! drammaticaaaa!” E per un momento io ho pensato e ci potevo anche andare e mi ha preso allora la speranza di una vita nuova, meno pacata, ma le radici della mia casa, sono state staccate via forte dalla voce positiva e sobria di mia madre: “Ma che arte drammatica! Certo che reciti bene, ma non per questo devi rovinarti la tua posizione e lavoro futuro. L’arte drammatica non garantisce nulla e vi si lavora ben 10 ore al giorno, in severissimo regime. No! Dai retta a me, Picciotta, lascia stare. Il lavoro! Il piacere di avere un lavoro solido e sicuro!” Ed allora Picciotta ha sospirato e aveva gli occhi lucidi: Pazienza! Io ho solo quattro doti: recitazione, disegno, ballo, italiano. Dio! fammi realizzare almeno una di queste! Dio! Questa sera parto per Roma e vi sto tre giorni insieme a tutta la famiglia. Vado a Roma come in una fuga!» [1]

Anita Azzolini, Carla Terenzi e Claudia Patuzzi

[1] Estratto dal « Diario intimo di Claudia Patuzzi » (inedito)

Claudia Patuzzi

La camera di via Macrobio

05 jeudi Juin 2025

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Claudia Patuzzi

La scrittrice Claudia Patuzzi nella sua stanza di via Macrobio a Roma

«Se mi alzo e mi muovo per la stanza sento l’ombra del suo sguardo su di me; le sue occhiaie vuote, scure, si posano sulle mie spalle mentre leggo un verso, e la mia voce rimbalza come l’eco sulle pareti bianche, asettiche e incolori, di gesso. Il suo sguardo è lì, dovunque io vada o mi muova, mi sieda e mi rifugi in un angolo, come un chiodo su una parete bianca. È sempre su di me. In effetti non ha occhi ma un piccolo naso ocra scuro là dove posano le orbite. L’ovale del viso e così perfetto e leggero da conferire a quell’impalpabile sguardo una certa grazia. Il naso è dritto e la bocca, tagliata da una linea retta senza espressione, è ferma. Non mi incute paura, ma protezione. Un “genius loci”. Emana solitudine, quell’aria di chi ha avuto qualche indefinita sventura o dolore e che continua a vivere tra la gente, passando per via. Il colletto della camicia spicca sull’ocra scuro dello sfondo di destra. La fronte alta, smisurata e una fascia dello stesso color mattone ferma i capelli del capo. Col tempo ho imparato ad aspettarlo. Appena entro nella stanza è lì, sulla destra, ad aspettarmi, appollaiato su in alto, sopra la mia testa, là dove a volte pesa un crocifisso. Lui non conosce Dio, né dei. Lui vuole me dall’inizio e mi aspetta. L’abbiamo trovato nell’aula all’inizio dell’anno. Chi lo aveva lasciato? Era stato dimenticato? Subito ne ammirai l’insolita fattura, l’aria vaga e misteriosa, tipica dei segnali e dei simboli vuoti che aspettano di vivere sotto lo sguardo di un altro essere. Appena posai lo sguardo su di lui, mi trovai sotto controllo. Egli divenne l’implacabile corollario del mio corpo e del mio essere. Il mio guardiano, il mio fedele e implacabile “Tu devi”.»

Claudia Patuzzi

La scrittrice Claudia Patuzzi (16.3.1951-5.2.2024)

Italo Calvino: un intellettuale tra poesia e impegno

16 samedi Mar 2024

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Claudia Patuzzi

Italo Calvino (15.10.1923-19.9.1985)

Dalla nascita cubana all’ambiente mediterraneo della riviera ligure, tra Villa Meridiana e la campagna avita coltivata ad avocados e pompelmi, Calvino derivò certamente quell’amore inconscio per l’azione e il viaggio, quel “complesso ariostesco”, prima esistenzial-familiare che letterario, che costituirà in seguito il carattere peculiare della sua poetica. Quest’infanzia movimentata, su uno sfondo familiare laico, borghese, antifascista, con lontani ricordi massonici, si traduce, attraverso l’esplorazione continua e misteriosa delle piante e della natura, nel binomio tutto calviniano di fantasia-sguardo o, se si vuole, favola e realtà. In questo senso l’infanzia costituisce una preistoria poetica, un’ottica che nulla ha a che vedere con una mitologia o tematica decadente, ma è semmai il preannuncio di un metodo come lente d’ingrandimento e di schermo tra l’io e la realtà. La dimestichezza con la narrativa inglese di un Dickens e uno Stevenson e, al tempo stesso, con “l’aria botanica” di famiglia[1] connotano l’adolescente Calvino, che cristallizzerà questi momenti magici, irrecuperabili, nella definizione di “idillio difficile”[2].

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Ingresso alla Villa Meridiana, Sanremo

Michel Foucault in Les mots et les choses, analizzando la metamorfosi del clima intellettuale tra Cinquecento e Barocco, afferma che il concetto di « struttura » si forma parallelamente al prevalere dello « sguardo » come “funzione privilegiata di conoscenza, di ordinamento descrittivo del mondo sensibile”[3]. “Il termine di ‘struttura’ è una nozione che si elabora proprio nella ricerca dei filosofi naturali, in primo luogo dei botanici”[4], soprattutto nell’analisi delle forme degli elementi di cui un organo è composto, nel loro confronto e nella misura dei loro rapporti. In questo caso la natura si presenta come un “complesso organico di oggetti e di caratteri (si pensi a un giardino botanico) equivalente a un libro”[5]. In alcuni “idilli difficili”[6] in contrapposizione allo “sguardo botanico”, prefigurazione inconsapevole della futura volontà razionalizzante, il polo fantastico funge da contrappeso emotivo, ma sempre in un rapporto armonico con la natura. In quest’atmosfera bimbi e uomini, animali e piante si scambiano gli attributi “testimoniando la sostanza unitaria del tutto, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che accade”[7]. Questo rapporto di totalità  con la natura, dove l’opacità delle cose è già ordinata  da uno “sguardo”, potrà essere recuperato in seguito solo artificialmente, attraverso una tecnica narrativa sui generis (la favola) e la creazione di uno stile a livello razionale.

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Torino, via Roma negli anni ’40

A questa prima fase, di cui mancano testimonianze e dove la futura poetica agisce come humus naturale e inconsapevole, ne succede un’altra: il momento di transizione è sentito dal giovane borghese come un trauma lacerante. E’ nella partecipazione attiva all’irrazionale della guerra che Calvino nasce alla letteratura neorealista ed effettua una maturazione improvvisa, sia a livello intellettuale sia a livello politico. L’esperienza resistenziale costituisce una svolta storica decisiva, da cui emerge una figura nuova d’intellettuale, impegnato in senso gramsciano e, in seguito, sempre problematico. Questa sarà l’eredità culturale, non consolatoria ma culturalmente attiva e militante, che il giovane studente ligure riceve nella Torino della casa editrice Einaudi e nella Milano del settimanale “Il Politecnico”, diretto da Elio Vittorini. L’abbandono della facoltà di Agraria è parallelo alla lacerazione dell’armonia infantile e al precoce svezzamento intellettuale, effettuato nell’ambito di una cultura “nuova”, che agisce nell’ “hic” et “nunc”, esemplata sullo stoicismo pavesiano o sui “disperati lucidi” come Gobetti e, soprattutto, Giaime Pintor.

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n. 1 del « Politecnico » diretto da Elio Vittorini, Roma, 29 settembre 1945

L’ottica dello sguardo appare esplicita nel romanzo-omaggio alla Resistenza – Il sentiero dei nidi di ragno –  nelle brevi battute finali tra Pin e il Cugino: – “Le lucciole da vicino sono bestie schifose anche loro, rossicce” – dice Pin. “Ma viste da lontano sono belle” – dice il Cugino. Questa “distanza” è il prezzo che Calvino deve pagare per ritornare al “prima” (il “giardino incantato” dell’infanzia) dopo la guerra civile.

Nella famosa recensione pavesiana sull’ “Unità”, nell’ottobre del ’47, troviamo parole illuminanti come “fiaba”, “gioco”, “arrampicarsi sugli alberi”, “spirito ariostesco”. Da questo punto di vista l’approdo di Calvino verso un genere letterario come la favola-intellettuale, apparentemente discordante e disimpegnato nel clima neorealista degli anni Cinquanta, è sì un casuale ritrovamento della propria matrice botanico-mediterranea, ma caricata del pathos della guerra e della morte e, in seguito, maturata attraverso l’apprendistato storico-filosofico torinese (sotto l’esempio di un maestro, studioso di “riformatori” ed “eretici” del cinquecento, come Delio Cantimori); ed è, al tempo stesso, un sospiro di sollievo e una liberazione dall’ossessione romanzesca di tinta grigia e moraleggiante (il fallimento di I giovani del Po), di carattere più propriamente neorealista.

Il “modo” calviniano di rispondere alla “crisi del romanzo” coincide dunque con la ricerca di una struttura oggettiva ma al tempo stesso epico-lirica: la favola. Con questa mossa[8], non a caso accolta dalla critica e dal pubblico con un certo stupore, Italo Calvino rivela il suo carattere affatto provinciale, tipico di chi, come lui, non ama sentirsi i “panni stretti addosso”, ma ambisce a un “collegamento maggiore con la cultura mondiale”. L’adozione cosciente della necessità di un rapporto dialettico tra intellettuale e realtà sociale si traduce, in Calvino, in una tensione profondamente morale cui corrisponde , a livello letterario, una narrazione “attiva”, dove la tensione tra poesia e impegno si traduce nel “ritmo” dinamico della parola e del racconto e, soprattutto, nella mediazione consapevole dell’ironia[9]. Calvino ha saputo raccogliere, della “crisi” neorealistico-politica, la componente più attualizzabile: quel nesso indispensabile tra intellettuale e storia che lo spingerà ad adottare una “poetica del negativo”, ma tenacemente fiduciosa nel cambiare la realtà (ottimismo della volontà) con la ragione (pessimismo dell’intelligenza)[10].

Contro l’uomo “ermetico” egli propone un intellettuale di tipo oggettivo, capace di resistere lucidamente alla “terribilità delle cose reali”: la realtà del suicidio di Cesare Pavese, del silenzio poetico di Elio Vittoriani e della fine de “Il Politecnico”; la realtà politica del successo degasperiano, della guerra fredda, del Piano Marshall fino al colpo di stato di Praga; la realtà disperata di Samuel Beckett. In questo quadro la logica della favola è la logica ferrea e geometrica della lotta, da cui promana, attraverso le “prove” cui l’uomo è sottoposto, una morale di resistenza e di attrito col negativo.

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Autoritratto-caricatura di Italo Calvino con dedica a Piero Dentone

E’ proprio a questo livello che Calvino da “italiano”  diviene “europeo”, per affrontare, attraverso una letteratura come educazione nella storia, il suo compito di “scrivente” in senso barthesiano[11]. Egli allora dovrebbe essere il cosiddetto uomo “transitivo”, per cui la parola costituisce veicolo e mezzo di pensiero, ma, adottando un genere letterario come la “favola intellettuale”, sembra voler restituire alla letteratura il suo carattere di “finzione”, dove la parola acquista la sua risonanza ambigua e complessa. Se in seguito affermerà che la letteratura consiste sempre nella “fondazione di uno stile” – il famoso “ponte” tra le parole e le cose – egli si garantisce fin da adesso uno spazio autonomo di gioco e di azione, sempre più arioso e infinito,  dove il filo dell’intreccio si assottiglia nel filo dell’inchiostro;  ma immettendo nella finzione la necessità della logica e, quindi, del controllo razionale, pone tra io e realtà, inevitabilmente, quella giusta mediazione, distante ma non troppo, che è l’ironia. E’ in questo equilibrio mediano che Calvino, intellettuale di sinistra, placa la sua ansia di impegno sociale: uno “scrivente-scrittore” al tempo stesso, che ha imparato a scrivere il “perché” del mondo con un “come scrivere” che non lo assorbe annullandolo nell’eleganza formale, ma semmai lo ordina in quella “spiegazione generale della vita”[12] che è la favola. Se lo schema di base della favola è geometrico-strutturale, la sua morale pedagogica – trionfo del bene sul male – insegna ai fanciulli e agli uomini fanciulli (gli intellettuali d’oggi) a diventare “uomini” attraverso le prove. In questa sostanza unitaria del tutto, dove il destino umano è presentato nelle sfaccettature del possibile, Italo Calvino tenta, nel XX secolo, di attuare l’ “uomo totale”, nel quale idea e azione, teoria e prassi, bene e male, coincidono in perfetto equilibrio.

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« Il barone rampante » per le scuole medie, Einaudi Torino (1a ed. 1957)

Ma l’utopia del Barone rampante è situata in bilico tra il “dimezzamento” del visconte e l’ “inesistenza” del cavaliere, mentre controfigura amara del paesaggio di Ombrosa è l’impietosa “speculazione edilizia” della riviera ligure, dove l’intellettuale borghese in crisi ideologica cerca di emancipare il suo ruolo nel rapporto tra imprenditore e proprietario immobiliare. Pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà si rivelano inconciliabili. L’intellettuale può sì travestirsi da cavaliere, ma di fatto continua, oggi più che mai, a vivere il suo conflitto storico: “in quanto borghese è un parassita della classe dirigente, in quanto intellettuale opera, sul piano funzionale, contro chi gli fornisce i mezzi per vivere”[13].

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« Le baron perché » con disegno di Italo Calvino, Seuil, Point 2001

Calvino si costruisce la sua “utopia”, sia morale sia letteraria: è la razionalità di Candide, il ritmo di Ariosto, il “falansterio” linguistico di Fourier, il tutto sullo sfondo della morale voltairiana di “coltivare il nostro orto”[14]. E’ una frase utopistica che, confrontata con le angosce moderne può risuonare egoistica e borghese, ma di grande fortuna: quasi un proverbio moderno, antimanicheo, dove l’uomo, non più sospeso tra i poli trascendenti del bene e del male, si limita finalmente a se stesso e a ciò che può fare. Nell’introduzione al Candide la famosa morale di Voltaire si prolunga in quella moderna di Italo Calvino: “le grandi scelte dell’uomo d’oggi” muovono tutte da “una morale dell’impegno pratico responsabile concreto”[15]. Da questo senso del limite, dell’azione attuabile nel contesto delle proprie possibilità, in rapporto a una morale di sostegno, deriva anche l’altro aspetto, questa volta espresso a livello puramente letterario, dell’azione immaginosa,  del ritmo narrativo,  dello spazio sempre più infinito. L’enciclopedico Voltaire e l’ “Ariosto degli utopisti”[16], entrambi figli del XVIII secolo, riflettono due piani tra loro comunicanti: il piano della ragione, come atteggiamento etico e volontaristico, e il piano del linguaggio, aperto, dialogico circolante e ambiguo, tra “geroglifici” vegetali e animali, tra “biniversi” e “triniversi”[17]. La passione ariostesca si traduce in insofferenza spaziale e temporale, in voglia di “movimento errante”[18] al di là dei limiti; si configura l’immagine della selva e del castello come luogo della ricerca, metafora cinetica della tensione morale, della non-quiete dei “rari uomini giusti: limitati e giusti, giusti in quanto limitati… tanto connaturati al loro incerto stato dal non volerlo cambiare con nessun altro” , come lo stesso Calvino dirà in seguito[19].

Con la favola Calvino verifica, quindi, sul piano della logica, una letteratura come campo privilegiato della “finzione” e del possibile, come ritmo e movimento e realizzazione poetica di un credo morale. Ma il periodo “utopistico” è breve: alle soglie degli anni Sessanta, dinnanzi al “mare dell’oggettività”, al “magma” e alla nausea delle cose, frutto del boom economico neocapitalista, all’unidimensionalità prodotta dall’alienazione della nuova ideologia multinazionale, Calvino reagisce pubblicamente, confermando la sua esigenza di messa a fuoco della realtà contemporanea[20]. Risponde al nuovo caos e alla logica del “labirinto” con una svolta letteraria decisiva, espressione e conseguenza di una delusione ideologica o, come lui stesso ama definirla, “crisi dello spirito rivoluzionario”. Le dimissioni dal partito comunista nel 1957 testimoniano della “diffidenza verso l’ideologia” che animerà parte della letteratura degli anni Sessanta, in seguito ai fatti d’Ungheria fino al’esplosione sessantottesca. Si è sempre più vicini alla “morte” della letteratura e dell’arte, mentre la cultura perde, durante la contestazione, buona parte della sua sacralità.

Per Calvino, la “crisi dello spirito rivoluzionario” deriva soprattutto dalla sfiducia nella storia, il cui senso non trova ormai più giustificazione nel legame indissolubile e costruttivo con la ragione. La storia unidimensionale e magmatica sembra, invece, annullare l’io nel “farsi” trascendente l’uomo: “conoscere il mondo e cambiarlo”: oggi “pare si sia perso ogni rapporto tra i due termini”, “le cose (la grande politica dei due contrapposti sistemi di forze, americano e sovietico ed, in seguito, anche il Terzo mondo) sembrano andare avanti da sole”[21]. La risposta calviniana, in polemica con le neo-avanguardie, è netta e decisa: letteratura della coscienza contro la letteratura dell’oggettività ( il vuoto “sguardo” di Robbe-Grillet); ostinazione senza illusione e volontà di contrasto; non illudersi di trovare un equilibrio di tipo classico; sfida al labirinto “mirando ad avere una mappa (conoscenza) del labirinto (caos delle conoscenze prospettive e del mondo) più particolareggiata possibile”[22]. Solo così si può continuare a sperare nel potere determinante della cultura.

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Italo Calvino (anni ’80)

La giornata di uno scrutatore costituisce l’exemplum paradigmatico di tale crisi storico-ideologica: la coscienza delle cose, cui l’intellettuale Amerigo Ormea assiste, si muta, gradatamente, dinnanzi all’umanità dis-umana del Cottolengo di Torino, mondo astorico e atemporale in attrito con la missione politica, in un alto dibattito interiore dove tutto si traduce in una problematica generale sui quesiti esistenziali dell’uomo. “L’ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco” si perde, tra le antinomie eterne di vita  e morte, di bello e orrido, nell’impotenza della storia e della ragione. La poesia altamente drammatica della Giornata deriva dal progressivo avvicinamento, nella lotta continua del dubbio, all’umano: è la scoperta dell’homo faber, l’artigiano privo di mani capace di ricominciare da zero, vincendo con la sola forza della tenacia e delle fede ignara, le “maligne mutazioni biologiche”. Questa terza fase, di cui il Cottolengo costituisce la percezione disperata e lucida del non-umano e del non-senso della storia, coincide con il definitivo trasferimento a Parigi e con il passaggio dalla logica e la storia, proprie della seconda fase “utopistica”, ala prelogica e e alla preistoria. Calvino risponde alla delusione storica con il coraggioso tentativo di “rifare” la storia, di raggiungere una nuova vergine armonia tra uomo e natura ricominciando da zero.

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« Le cosmicomiche », Einaudi, Torino, 1965

Con Le cosmicomiche e Ti con zero la fiducia nella storia è riconfermata nella possibilità di reinventare una prospettiva di significati con la stessa giuliva aderenza alle cose, propria dell’uomo primitivo: Qfwfq è l’antenato dell’homo significans, dell’uomo fabbricatore di senso che cerca di fissare con il “segno” l’infinità caotica del tempo e dello spazio. Si tratta di un umanesimo che ha oltrepassato le soglie dell’illuminismo per saltare d’un tratto il continuum storico, porsi nel cosmo e ricostruire, nel gioco-finzione della letteratura, la città dell’uomo intero. IL passaggio dalla logica a questa pre-logica è facilitato dal carattere atemporale e astorico della favola stessa, la cui “verità” più profonda si risolve nel timbro patriarcale della favola mitica, come voce epica e anonima della tribù e dell’umanità. In questo senso l’esperienza con il non-umano del Cottolengo e la sua riabilitazione attraverso la pietas (intesa in senso rousseauiano come identificazione a un altro essere vivente), permette a Calvino di sostituire all’intelletto storico, e perciò limitato, un punto di vista generico, spoglio d’ogni risonanza sociale, attraverso cui cogliere quel fondamentale passaggio dall’animalità all’umanità, dalla natura alla cultura, dal sentimento all’intelletto. La tensione morale scaturita dall’incontro con l’intellettuale con la realtà, che tocca il suo punto più drammatico nella Giornata, si traduce ormai nella scelta della letteratura come campo specifico d’azione e di intervento, concedendo alla parola il privilegio di sottintendere nella sua forza logico-ambigua la fede calviniana nella storia e nell’uomo. La pietà e l’amore, nonché la crisi ideologica, hanno generato una spersonalizzazione, una voce collettiva e universale la cui essenza consiste nel suono metallico e ricorrente delle parole, che si accavallano incessanti a creare una complicata eziologia del cosmo e dell’universo.

Non si tratta più dell’inconsapevole “sguardo botanico” dell’infanzia o della “struttura razionale” della favola, superba messa a fuoco del punto d’incontro tra realtà e fantasia: la distanza che separa il vecchissimo antenato di Le cosmicomiche e di Ti con zero dall’infelice uomo del XX secolo, è tanto immisurabile quanto chiara e sottile è la visione che ci comunica. Questa distanza, tutt’uno con la costruzione linguistica del libro attraverso il cozzare delle parole, moderne, arcaiche, scientifiche, singulti onomatopeici, formule matematiche, agisce da potentissima lente con cui il molteplice del mondo biologico e cosmologico è minuziosamente identificato.  Nulla di questo caos è trascurato o perduto. Con il pretesto del gioco il nostro antenato ordina sistematicamente, come un dio casalingo e sbarazzino, attraverso la verifica di innumerevoli ipotesi, l’universo asemantico e vivente delle origini.

L’autonomia letteraria e il carattere sperimentale delle opere più propriamente “francesi” testimoniano il rapporto impegnato con lo strutturalismo linguistico di Roland Barthes e antropologico di Claude Lévi-Strauss, con l’antistoricismo di Maurice Blanchot fino ad approdare alla semiologia del racconto e alla matrice d’origine sud-americana e mediterranea: nel binomio Ariosto-Borges si placherà l’ultimo Calvino.

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Ingres: « Orlando Furioso », Canto X, Ruggero salva Angelica

Collocatosi a metà strada, mediatore raffinato e attento, tra la cultura latino-americana e francese e la cultura italiana preferisce cercare personalmente, in opere e autori a lui più congeniali, quel “midollo del leone” di cui si faceva stoico e volontaristico interprete nel 1955. Piuttosto che divenire “uno dei tanti mandarini che corrono dietro all’attualità e sputano sentenze su tutto”[23], si mantiene su una posizione critica e vigile dove abbonda la sollecitazione proveniente dal “diverso”, da una cultura mondiale oltre che europea. La traduzione di Les fleurs bleues di Raymond Queneau gli fa ritrovare il senso dell’assurdo e il ritmo del Candide voltairiano, la tensione attiva tra realtà e fantasia, in cui il tempo e la storia non conoscono barriere cronologiche  e spaziali. L’edizione dell’ Orlando furioso, curata subito dopo per la casa editrice Einaudi, gli offre l’occasione di nutrirsi ulteriormente di antichi umori e di nuovi stimoli, per rivelare quell’ “attualità” del testo, che altro non è se non la traduzione letteraria di quell’altra sua tendenza: di cogliere nel presente, l’attualità più viva. Se il Furioso fu per trent’anni la vera vita dell’Ariosto[24], l’ “anima ariostesca” di Italo Calvino si traduce in differenti soluzioni letterarie, il cui movente sotterraneo consiste nel rapporto dialettico dell’intellettuale borghese con la realtà contemporanea,  rapporto la cui tensione rischia di tradursi in un “labirinto interminabile”, in errori a volte più importanti del “lontano traguardo finale”[25].

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Le città invisibili », Einaudi, Torino, 1962 (Magritte, « Il castello dei Pirenei »)

Con Le città invisibili Calvino, ormai del tutto consapevole della transitorietà della nostra epoca, tipica età di passaggio, di sfasamento tra ragione storicizzante e una realtà sempre più fluida, vuole compiere un viaggio a ritroso nella memoria dell’uomo, nella ricerca di un “oggettivo” umano più largo e anonimo: il destino unico, tanto cantato dall’argentino Borges,  che nello scrittore ligure si traduce nel ritorno alla città dell’infanzia. Il mito borgesiano del “labirinto”, già prefigurato da Calvino nell’originaria passione per l’Ariosto, sperimentato a livello esistenziale nel caos della guerra e, in seguito, nella tensione interiore tra poesia e impegno, , diviene, ne Il castello dei destini incrociati, il simbolo della ricerca continua e perseverante,  di una logica del dubbio costretta entro le ferree leggi del racconto.

Dal “provinciale alla conquista del mondo”[26], dal giovane Calvino desideroso di “esprimersi” nel vivo clima ideologico creatosi negli anni del dopoguerra, sono ormai trascorsi vent’anni. Il Calvino più maturo si scopre, nel proprio intimo, più disincantato, più disperatamente lucido di prima.  Sa bene, ormai,  che l’uomo savio e guerriero “in ogni cosa che fa e che pensa”[27] è possibile solo sulla pagina: di fatto resta la tensione continua dell’intellettuale che si rapporta con la realtà. La condizione di “dimezzati”, cioè di crisi permanente dell’intellettuale, sospeso tra la realtà da un lato e la letteratura – in via di morte – dall’altro, è l’unica verità da vivere e osservare stoicamente. Se come scrittore ama definirsi un “giocoliere” o un “illusionista”[28], continua, nonostante tutto, la sua fede illuministica nella Storia e nell’Uomo, in un “diciottesimo secolo che si allarghi di molto dai suoi limiti temporali (…) situato in mezzo al disegno di costruzione cosmogonica che viene dal Rinascimento, da Giordano Bruno, da più lontano ancora: l’uomo contribuisce con la sua immaginazione e il suo lavoro di autocostruzione continua dell’universo”[29].

Claudia Patuzzi

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La panchina di Sanremo », 1942. Il primo a sinistra è Eugenio Scalfari, il secondo da destra è Italo Calvino.

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Lettera di Italo Calvino a Claudia Patuzzi (17/01/1977)

Le foto 1, 2, 3, 5, 8, 12 provengono da « Italo Calvino, biografia per immagini » a cura di Fabio Pierangeli e Patrizio Barbaro, Edizioni Paravia, Torino, 1995.

Articolo già pubblicato sulla « Nuova Antologia » n. 2105 – maggio 1976, Roma.

NOTE :

[1] Il padre fu infatti agronomo di San Remo e, in seguito, professore incaricato di agricoltura tropicale presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Torino ; la madre fu assistente di botanica all’Università di Pavia. La « Villa Meridiana » a San Ramo è stata per Calvino ciò che  fu per Borges il « giardino botanico ».

[2] Cosi’ Italo Calvino ha classificato alcuni racconti, tra il favoloso e il realistico, scritti in un arco di tempo tra il 1946 e il 1958.

[3] Michel Foucault, Classificare, cap.V, in Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1970, seconda ed. it.,  pp.148-155 ;  cfr. anche Ezio Raimondi, Verso il realismo, in Il romanzo senza idillio, Einaudi, Torino, 1974, pp.7-8 ;

[4] Ezio Raimondi, Ibidem, p.8.

[5] Idem, p.8

[6] « Pesci grossi, pesci piccoli », « Un pomeriggio Adamo »,  « Un bastimento carico di granchi », « Il giardino incantato », in  Racconti, Einaudi, Torino 1958.

[7] Cfr. prefazione a Fiabe italiane, Einaudi, Torino 1956; Mondadori, 1970, p.16

[8] Il visconte dimezzato esce nel 1952, pubblicato nella collana einaudiana dei « Gettoni », su proposta di Elio Vittorini.

[9] Cfr. Robert Klein, Il tema del pazzo e l’ironia umanistica, in La forma e l’intellegibile, Einaudi, Torino, 1975, pp. 477-97 : « l’ironia è quel progressivo distacco dalla densità opaca delle cose, iniziatosi con l’umanesimo e costituente un punto di passaggio obbligatorio per raggiungere il cogito ».

[10]  Cfr. Il midollo del leone, in “Paragone”, VI, 66, giugno 1955.

[11] Cfr. Roland Barthes, Scrittori e scriventi, in Saggi critici, Einaudi, Torino, 1972, pp. 120-28.

[12] Cfr. prefazione a Fiabe italiane, cit., p. 15.

[13] Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 61.

[14] Cfr. introduzione di I.Calvino al Candide di Voltaire, Rizzoli, Milano 1974, p.9.

[15] Ibidem, p.10.

[16] Cfr. Introduzione di I.Calvino a Teoria dei quattro movimenti – Il nuovo mondo amoroso, di Charles Fourier, Einaudi, Torino, 1971, p.VII.

[17] Ibidem, p.XXX.

[18] Cfr. Introduzione al Furioso di Ludovico Ariosto, Einaudi 1970, p. XXV.

[19] Cfr. I giusti, in “Menabò`”, fasc.7, 1965.

[20] Cfr. Il mare dell’oggettività, in « Menabò », fasc.2, 1960 ; La sfida al labirinto, in “Menabo”, fasc.5, 1962.

[21]  Il mare dell’oggettività, Ibidem.

[22] La sfida al labirinto in “Menabò” fasc. 5, Einaudi, Torino, 1962.

[23] Cfr. intervista in « Avvenire », il 20 luglio 1969.

[24] Introduzione a Orlando Furioso, cit., p. XVII.

[25] Ibidem, p.24

[26]  Il castello dei destionio incrociati, Einaudi, Torino 1973, p.104

[27] Ibidem, p.111.

[28] Ibidem, p.104

[29] Cfr. intervista in «  Le monde », 25 aprile 1970.

Claudia Patuzzi

GIANNA MANZINI (Animalità e altre parole, 2)

08 vendredi Mar 2024

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Claudia Patuzzi

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Gianna Manzini, Firenze:

« Del mio viso, sapevo ormai qualcosa: che il suo smarrimento e la sua ansietà confondono un ardore malaticcio; che sono stata io a rendermene più pungenti i tratti, consumandoli a furia di emozione; che il volto necessario, corrente, si è lasciato via via sostituire da quello troppo privato, inservibile, incessantemente ritoccato e corretto dall’anima. Cara prigione. » Foto Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, p.42, in Scrittrici e intellettuali del Novecento.

L’ANIMALE come pensiero filosofico e primordiale

Marguerite Yourcenar non è l’unica scrittrice a partecipare con evidente immedesimazione alla sorte delle « creature » della terra dando voce al linguaggio del corpo e della carne. Anche la toscana Gianna Manzini (Pistoia 1986 – Roma 1974) è commossa dal mistero e dall’innocenza animale come se fosse un « barlume superstite dell’antico giardino » dell’Eden. Nel suo Bestiario (1960), nel precedente Animali sacri e profani (1953) e nei suoi romanzi, la vita animale è una presenza reale e al tempo stesso emblematica, « una sua preistoria stravagante » mischiata di « quel senso della carne », – istinto, malattia, ebbrezza, dolore, morte – un « controcanto analogico » della vita umana, veicolo del mistero e di uno « speciale silenzio » carico di fatalità e di significati non detti, pregni di parole antiche, dense di movimenti, odori, cose e sensazioni. Nella scrittrice pistoiese gli animali – sono compagni di viaggio nel presente e nella morte; oggetto di immedesimazione e di pietas ; nostalgia di un’intesa sacrale, « profanata » dal mondo crudele e indifferente dell’uomo che ne viola l’innocenza e ne sgozza o manipola il corpo insieme alla natura. Ecco allora l’immagine dei malinconici capponi castrati, inventati dall’uomo, « invenzione antica e contadinesca », a cui, per la Manzini, “se ne sovrappone una moderna, scientifica , cittadina : un animale nuovo di zecca, un cappone più ardito d’un gallo, d’una bellezza veemente, con una cresta battagliera… fra i capponi-capponi, ed i capponi « ultrarigenerati », c’è di mezzo il propinato di testosterone e la vitamina E, la vitamina della fecondità…”. Oppure l’immagine patetica e ridicola di un pero nano deformato dalla mano dell’uomo: “con una stampella per ogni ramo e un sacchetto di carta trasparente per ogni frutto, pareva un riccone ammalato o, allorché il sole era scomparso, un ragno mostruoso, oppure… uno di quei bambini che reggon male il testone, traballanti nella cesta di vimini…”.

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La Sparviera, Oscar Mondadori, Milano,1956.

In “La Sparviera” («una delle pochissime opere di cui ha bisogno la gente di domani») il titolo stesso è un’allegoria dell’ostinata tosse bronchiale che opprime fin dall’infanzia il protagonista del romanzo : una “rivale” e una “compagna assidua” che lo spinge sempre più a sfidare la vita fino alla morte. Un emblema del volto avverso della morte-destino a cui, prima o poi, ci si deve arrendere. Gli aggettivi di questa immanente e impalpabile presenza ricordano la simbologia misteriosa che aleggia attorno a quel nome “arcaico” di « rapace » in un crescendo spietato : volante, spavalda, un peso, un brivido che “si avventava alle spalle” , “entrava sotto le lenzuola, lo scuoteva”, “apriva le dita come un pettine, se le metteva davanti, sbarrando gli occhi. Era qualcosa di tenace e vibratile che ha uno strano potere di insinuarsi… Nodo di nodi. Ammiccava nel fumo. Si snodava, si agitava, diventava prima alta, poi larga; e, mutata in uno straccio di fumo, l’avviluppava. Era ghiaccia e calda. A volte si faceva piccolissima. Si nascondeva in una briciola di pane, in un grano di riso, in un chicco d’uva… »

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Ritratto in piedi (Oscar Mondadori, Milano,1971)

Ritratto in piedi inizia con una forte analogia tra la scrittrice e il cavallo da piazza, a Firenze, che scalpita e non vuole più attraversare il ponte di Santa Trinita: «S’impuntava; schiumava; impazziva… E soltanto su quel ponte. Nessuno sapeva spiegarsi la cosa…. Che avrà visto, a metà dell’arcata del ponte? Quale ricordo, quale spettro sarà insorto a bloccarlo?… Il tempo è un sogno, specie per un cavallo… Ebbene in certi momenti, mentre mi provo a scrivere la vita del babbo, sono anch’io quel cavallo, a metà dell’arcata del ponte. M’impenno. Non vado avanti. Addirittura torno indietro…”; “lui”, il cavallo, “è un congegno di nervi e di rapporti, e di legami e di poteri ultra-umani. Che gara assurda sarebbe la mia. Eppure, io ho a che fare con quel cavallo. Udire, vedere: una collisione, sia pure irresistibile, in un sovrapporsi di tempi: lastre trasparenti di tempi, anni, lustri, decenni, connesse in un presente assoluto. Col fiato mozzo, provo, riprovo. Voglio una franca paura, una decifrabile paura; o una insostenibile pietà, o una decisa vergogna. In “Sulla soglia” – Mondadori, Milano,1973 – c’è un racconto molto poetico intitolato “Una quieta voragine”: il protagonista è quel luogo « di tutti e nessuno, incerto e nebbioso » – il confine tra la vita e la morte, il tutto e il niente – un incessante duello dove l’umano e il non umano coesistono e si confondono in un’identica sorte e destino ineluttabile. Ne è protagonista la femmina di un passero, una madre con il suo compagno, che assiste impietrita alla morte di un motociclista, – « massa scura, mostruosamente estranea » – incagliata su un abete che copre col suo corpo il nido con tutta la covata provocando la morte lenta e ineluttabile dei passeretti o, meglio, i suoi piccolini … Mentre una nera scia di formiche, moscerini e mosconi preparano l’assedio, la madre-uccello segue la scena con « occhio vigile e dilatato, aperto, netto, anzi, più che aperto, sbarrato, e nudo, nero, tondo, feroce… son qui, son qui… », mentre il passero si ferma accanto alla compagna: « Uguale in tutti e due il silenzio. Identica la concentrazione atterrita al cospetto della schiera nera che aumenta con incredibile rapidità ». La passeretta continua a seguire la scena, istante per istante, fino alla fine, per poi scegliere il volo e la futura vita insieme al suo compagno: « Vita; immensa infinita plenitudine, impalpabile, inconoscibile, dilettosa armonia di dolore e di dolcezza. Canto. Il nostro canto. Così densa, così ricca, disorienta, sembra altra cosa da ciò che è in me, in noi. – Vieni… è breve la vita di un passero. Vieni. – Lei gli teneva ormai dietro, fiduciosa, con un bel volo regolare ».

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Foto con dedica ad Arnoldo Mondadori 

Claudia Patuzzi

Articolo apparso nella rivista « Leggendaria » N° 77-78, Roma, novembre 2009

MARGUERITE YOURCENAR (Animalità e altre parole, 1)

25 dimanche Fév 2024

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Claudia Patuzzi

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Il tema dell’animalità nella scrittura delle donne : un percorso di lettura attraverso alcuni testi emblematici a partire dal Novecento…

Da sempre gli animali sono stati e sono ancora i grandi mediatori tra l’uomo e il mistero dell’universo, accompagnando e veicolando l’ indicibile, a volte troppo oscuro e orribile per essere compreso. Ci vorrebbero interi volumi per parlare delle diverse “interpretazioni” dell’animalità da parte di innumerevoli testi, rischiando di disperderci in mille rivoli. Ho pensato dunque di cominciare da un ambito più ristretto, quello dell’animalità al femminile, attraverso un percorso di lettura basato su alcuni testi emblematici del Novecento.

Se da una parte le donne, – legate biologicamente al ciclo del sangue e della riproduzione – hanno il potere di “comunicare” in modo più immediato con la natura e la condizione animale, dall’altra sembrano muoversi più liberamente oltre la « banale ma coriacea crosta del visibile » (Italo Calvino) con un linguaggio in grado di resistere alla mercificazione attuata dal crescente dominio “dell’irrealtà” (nel senso inteso da Elsa Morante) : un linguaggio metamorfico che la scrittrice Antonia S. Byatt ha definito con la metafora della “foresta-giardino” in rapporto con “l’occhio della mente” in cui “il sottobosco scricchiola” ogni qual volta si presta voce alla Bestia e/o al desiderio-dolore fuori di noi e dentro di noi. In cerca di “parole diverse” mi sono quindi avvicinata ad alcune autrici – Marguerite Yourcenar, Gianna Manzini, Anna Maria Ortese, Piera Mattei,  Elsa Morante e Antonia S.Byatt – che danno particolare rilievo all’animalità, sperimentando nuovi linguaggi che vanno e vengono tra vita vissuta e vita immaginaria, tra parola e pagina scritta, tra scrittura e realtà, ragione e emozioni, corpo e desiderio/ intelletto…

« Marguerite Yourcenar : il recupero sociale e culturale dell’animalità »

In Marguerite Yourcenar il « diverso » in particolare l’animale come realtà biologica, è spesso collegato alla morte o alla cieca e spesso gratuita crudeltà umana, in un’epoca in cui « gli dei verdi » e l’uomo hanno ormai del tutto dimenticato il primordiale e reciproco rapporto di armonia. Il primo animale nominato in “Care memorie” appare all’inizio della narrazione, nel capitolo intitolato “Il parto”, nel momento in cui la neonata – un “pezzetto di carne rosea piangente… coperta di una peluria nera simile al pelo di un topo” – « succhia quasi selvaggiamente » il latte tra «lenzuola sporche di sangue ed escrementi ». La violenza espressiva che connota quella minuscola « creatura » richiama, attraverso il biancore inamidato delle lenzuola e il rosso vivo del sangue, la parentela prossima con tutte le specie animali. Marguerite non lascia dubbi sull’unione primordiale e cosmica delle creature quando scrive: “la neonata gridava a pieni polmoni, provando le sue forze, manifestando già quella vitalità quasi terribile di cui è dotato ogni essere, perfino il moscerino che i più ammazzano con un manrovescio senza darsene pensiero…; essa grida l’orrore di essere stata espulsa dal grembo materno, il terrore dello stretto tunnel…”; e conclude: “quella bambina vecchia di un’ora è (…) già presa nella realtà della sofferenza animale e del dolore umano”. (1)

Il giudizio della Yourcenar sulle donne/creature è spiegato in modo forse provocatorio in una lettera del 1968 alla romanziera Helen Howe Allen (2), in un’epoca che assiste ai primi incerti albori di un movimento di pensiero alternativo rispetto allo standard borghese : “Perché le donne si richiudono nel loro piccolo mondo ristretto, pretenzioso e povero? (penso alla frase che faccio pronunciare a Adriano: “Ritrovavo la visuale limitata delle donne, il loro duro senso pratico, il loro cielo grigio non appena cessa di ridervi l’amore”). Non voglio sostenere che l’uomo possieda tutte le virtù: il mondo in rovina nel quale viviamo è la riprova del contrario. Ma penso che in parte è al miserabile piccolo egoismo della signora per bene che profuma di lavanda e si concede una vita ‘armoniosa’ che noi dobbiamo la continuazione e la crescita del caos. Per quanto mi riguarda (…) mi stupirò fino alla fine dei miei giorni che creature le quali per la loro costituzione e la loro funzione dovrebbero assomigliare alla terra stessa, che partoriscono tra deiezioni e sangue, che le mestruazioni legano al ciclo lunare e al mistero stesso del flusso sanguigno, che portano come docili vacche un alimento primordiale nelle loro ghiandole mammarie, che cucinano, ovvero che lavorano sulla carne morta e sui legumi ancora sporchi di terra, che infine, nei loro corpi, nel loro viso, nella loro disperata lotta contro l’età, assistono perennemente alla lenta distruzione e corruzione delle forme, affrontano giorno dopo giorno la morte nelle rughe che si accentuano o nei capelli che ingrigiscono, possano essere a tal punto false. False nel caso della bambola truccatissima che vuol sedurre usando gli stessi sistemi della prostituzione, a qualunque ceto appartenga, e forse più false ancora quando si tratta della signora per bene? Si cerca invano la donna…”(2 ).

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 La giovane Marguerite

Ma torniamo alla narrazione di Care memorie in cui l’autrice, dopo la descrizione del parto, prende spunto da un semplice ninnolo sacro di avorio, una croce ornata di una testa di angioletto, «  per passare subito alla descrizione di un elefante “ucciso nelle foreste del Congo, le cui zanne sono state vendute a basso prezzo dagli indigeni a qualche mercante belga”. Poi aggiunge: “Quella grande massa di vita intelligente, discendente di una dinastia che risale almeno all’inizio del Pleistocene, è approdata qui. Un animale che ha brucato l’erba e bevuto l’acqua dei fiumi, che si è bagnato nella buona melma tiepida, che si è servito di quell’avorio per combattere un rivale o per tentare di difendersi dagli attacchi dell’uomo, che ha accarezzato con la sua proboscide la femmina con la quale si accoppiava. L’artista che ha lavorato quel materiale non ha saputo ricavarne altro che un oggetto bigotto di lusso”. (3)

Ma basta che “il latte calmi le urla della piccola”, perché un altro animale, estremamente pacifico e familiare, appaia ancora come “compagno di viaggio” sulla scena del parto – la mucca – “una bestia-nutrice, simbolo della terra feconda, che dà agli uomini non soltanto il suo latte, ma più tardi, quando le sue mammelle saranno definitivamente esaurite, la sua magra carne e infine il suo cuoio, i suoi tendini e le sue ossa con le quali si farà la colla e il nero animale. Strappata ai suoi parti morirà di una morte quasi sempre atroce, dopo un lungo viaggio nel vagone bestiame che la sballotterà verso il macello, spesso pesta, assetata, in ogni caso terrorizzata da quelle scosse… Oppure sarà spinta in pieno sole, lungo una strada … talvolta accecata, consegnata nelle mani di carnefici incattiviti dal loro spregevole mestiere, i quali forse cominceranno a squartarla non ancora morta del tutto. Perfino il suo nome, che dovrebbe essere sacro a coloro che essa nutre, in francese suona ridicolo…”. (4)

In un’altra lettera diretta alla poetessa e romanziera Lise Deharme, l’opinione di Marguerite sul comportamento degli abitanti della sua isola di Mont Desert verso gli animali è di un pessimismo lapidario: “cacciano nel parco nazionale e nella riserva servendosi del semplice espediente di appostarsi in automobile al limitare del bosco con i fari accesi, per poi massacrare in tutta tranquillità i cervi attirati dalle luci … L’uomo ha poche speranze di smettere di seviziare l’uomo, finché continuerà a imparare sugli animali il proprio mestiere di carnefice…” (5)

Claudia Patuzzi

(1) Care Memorie, Einaudi Tascabili, 1991, pp.5, 22

(2) Lettere ai contemporanei, 7 agosto 1957 e 24 febbraio 1968, Giulio Einaudi editore, 1995, pp.151-53

(3) Care memorie, Edizioni Einaudi Tascabili, 1981, 1992, p.23

(4) Idem, p.25

(5) Lettere ai contemporanei, 7 agosto 1957 e 24 febbraio 1968, Giulio Einaudi editore, 1995, pp.151-53, pp 61-62.

Articolo apparso nella rivista « Leggendaria » (libri letture linguaggi), N° 77-78, Roma, novembre 2009.

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