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Archives de Tag: Karl Marx

Confessioni di un bibliotecario n. 2

13 vendredi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Che fare?, Confessioni di un bibliotecario, Dobroljubov, Karl Marx, Marco Noccioli, Nekrasov, Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij, Orazio Torriani, Pietroburgo

“La strana gioventù”

“Si dovrebbero cancellare dalla faccia della terra le differenze di classe e di condizioni, appianarle almeno nel nostro modo di pensare” (pag. 46)

Carissimo Marco, scusami innanzitutto se, lo so già prima di cominciare, non riuscirò a condensare le mie osservazioni e riflessioni in un unico ragionamento e, invece, magari ripetendomi, affronterò lo stesso argomento più volte, anche se da diversi punti di vista. E scusami quando, a un certo momento, mi fermerò, nella consapevolezza che non posso, né saprei, scrivere “un altro libro” per parlare del tuo.

Innanzitutto, un breve confronto tra i due “romanzi bibliotecari”: “Il bibliotecario di Marx” è forse più immediato e facile da leggere (e ricordare) nel suo insieme, mentre, forse, le parti per così dire teorico-scientifiche possono risultare, un po’ impegnative. Ne “La strana gioventù”, invece, si capisce tutto, laddove però l’intreccio dei fatti e dei rimandi è molto più ricco e dettagliato. Dunque, se questo secondo libro non è particolarmente impegnativo nel suo scorrere, è più difficile poi da ricordare bene nel suo insieme.

Tuttavia, chiuso il libro, il cervello del lettore si mette subito in moto ed è indotto a “continuare” il ragionamento di fondo che vi è sviluppato, a collegare tra loro le idee che vi sono esplicitate o accennate, mettendole in relazione, ognuno secondo le sue conooscenze ed esperienze, con la storia successiva a quella narrata, e rileggendone poi i valori e i principi alla luce dell’oggi.

Questo tuo immenso lavoro di ricostruzione storica, oltre ad essere una evidente e inattaccabile risposta ai negazionismi di ogni tempo e origine, è “architettato”, mi sembra, per un più vasto e nobile (e lodevole) fine politico, che via via può tradursi in una proposta chiara e luminosa. È un invito ad “agire ragionando”, a “fare”, fino in fondo, qualcosa di sinistra, senza mai discostarsi, tuttavia, dal questionamento continuo sul “che fare?”, che a sua volta non può prescindere dal “quando” e dal “come” fare.

Per tutti questi motivi, ed altri che dirò, “La strana gioventù”, che completa (ma forse non esaurisce) il grande affresco delle “Confessioni di un bibliotecario” (l’allusione al coevo “italiano-ottuagenario” di Ippolito Nievo è d’obbligo) è un romanzo indiscutibilmente interessante, utile e avvincente. Interessante e utile grazie alla efficace e coinvolgente ambientazione, per così dire “teatrale” (ma anche molto cinematografica), di due mondi — quello politico degli albori della Rivoluzione e quello letterario descritto da grandi classici come Gogol e Dostojevski — che si fondono in un unico universo “pietroburghese”, dove “risuscitano” uno per uno, insieme ai “veri luoghi” e alla “vera società”, soprattutto i “veri protagonisti” di una vitalissima cordata di “saggi-ribelli” che credettero e lottarono per un mondo migliore. « Il bibliotecario di Marx » diventa poi avvincente quando si comincia a venire a capo della concatenazione dei fatti e del tourbillon dei personaggi, tutti necessari e inseriti in un flusso narrativo perfettamente scandito; quando si comincia a percepirne il messaggio, via via più esplicito e « reale ». D’altra parte, il lettore ha l’impressione di partecipare all’appassionante “traversata” di Orazio Torriani non come “imbucato” ma come “accompagnatore autorizzato”; e quando — affacciato a una finestra della Biblioteca Nazionale sulla piazza del Collegio Romano (forse corrispondente proprio alla stanza dove lavorava mia zia Augusta, bibliotecaria, attendendo ad un misterioso B.O.M.S.) — il nostro protagonista-testimone evoca le prime bandiere rosse, che finalmente cominciano a sventolare per le vie di Leningrado (e poi in quelle di tutto il mondo), questo stesso lettore prova di nuovo l’emozione che lo sorprendeva durante le manifestazioni degli anni ’60 di cent’anni dopo, a cui accorreva insieme agli altri esponenti della nuova “strana gioventù” di cui faceva parte.

Il tuo è un “romanzo a tesi” e anche, in modo sano, “un “romanzo ideologico”, che si fa carico di rilanciare il dibattito sul comunismo – attualmente costretto a stare sulla difensiva, se non a languire in una posizione rinunciataria –, “ricominciando da tre”. Risalendo cioè a “prima dei danni” (e crimini) più evidenti, non solo per spiegare che il comunismo viene da lontano — e corrisponde alle giuste aspettative (economiche, sociali e culturali), perennemente insoddisfatte, delle popolazioni più svantaggiate oltreché dei proletari e degli sfruttati di tutte le latitudini — ma anche, soprattutto, per raccogliere e mettere in valore certe analisi fondamentali, insieme a certe soluzioni, ancora del tutto valide oggi, che non furono capite fino in fondo e/o furono seguite molto superficialmente o cinicamente messe da parte. Si può, dunque, “ricominciare da tre”. Chi sono questi tre? Da cosa si potrebbe “ricominciare”?

1_Dall’analisi di Marx, assolutamente attuale.

2_Dal “pacchetto” del “Che fare?” di Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij. Un pacchetto-vademecum assolutamente geniale, perché introduce, tra l’altro, in modo difficilmente contestabile, la centralità della “questione” femminile, che si pone come la principale “risorsa” strategica in vista dell’indispensabile “cambiamento” nella società e nei singoli rapporti umani.

3_Il “terzo” da cui si potrebbe-dovrebbe ripartire è, evidentemente, Antonio Gramsci. Sarà su di lui il tuo terzo libro?   

La tua è, dunque, un’opera aperta, come quelle di cui parlava Umberto Eco, maestro peraltro della trasformazione del saggio in romanzo e del romanzo in saggio e dunque apripista dell’interazione tra i due generi. Un’opera, la tua, che viaggia, giustamente, in netta controtendenza rispetto alla faciloneria e alla violenta ripetitività dei “best sellers mordi-e-fuggi” o dei pistolotti storici attuali. E si apprezza molto la lucidità e la pazienza con cui hai saputo mantenere il filo dell’attenzione pur nella complessità delle cose da dire.

Un romanzo come questo chiede dunque di essere studiato a fondo, costellato di appunti e di osservazioni. Dopo una prima lettura “senza la matita” (grave errore!) ne avevo iniziato una seconda, più sistematica, in vista di una esegesi approfondita e puntuale, seguendo l’itinerario dei successivi incontri, ambienti e personaggi — a cominciare dall’ex libreria Smirdin e dal Circolo degli Scacchi — di questa San Pietroburgo (che io continuo tra me e me a chiamare Leningrado), che tu attraversi e conosci come le tue tasche e dove solo gli abitanti dell’ex mondo sovietico possono calarsi (con il loro Google) alla riscoperta dei nomi delle vie e forse anche dei palazzi pubblici e dei negozi.

Ma a un certo punto mi sono fermato, decidendo di tenere per me il piacere di seguire liberamente le diverse suggestioni che via via mi sarebbero tornate da sole alla mente dopo la lettura, concedendomi divagazioni e tuffi “realistici e poetici” nel passato. Andando per esempio a cercare la corrispondenza dell’epoca della rivolta silenziosa di Pietroburgo con quella dell’impegno di Raffaele Merloni, il mio bisnonno romagnolo, al seguito di Garibaldi (all’epoca della terza guerra d’Indipendenza), e lasciando ad altri lettori il piacere di aggiungere a loro volta impressioni e riflessioni diverse dalle mie.

Passage a Pietroburgo

Anche perché gli spunti offerti dalla tua “strana gioventù” sono infiniti. Come quella frase a pag.443: “…Hai ragione. Pietroburgo e i primi anni Sessanta furono davvero un posto e un tempo molto speciali. Ricordo quelle notti – e quelle mattine, presto, molto presto -quando anziché tornare a casa, giravo senza meta per la città, sapendo che qualunque strada avessi imboccato, alla fine sarei comunque arrivato in un posto dove le persone, anche quelle che non conoscevo, erano ispirate e scatenate esattamente quanto me. Su questo, non c’erano dubbi: ovunque andassi vedevo gente come me. Questo era il movimento. C’era un’incredibile sensazione generale che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo… Questo era il punto: un senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio Mondo. Vittoria, ma non in senso militare: non ne avevamo bisogno! La nostra forza avrebbe prevalso. Semplicemente. Non aveva senso ingaggiare un duello tra la nostra parte e la loro. Tutto il potenziale, ce l’avevamo noi… Cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda…”

In ogni epoca, in ogni secolo, c’è sempre stato un momento di rottura, contrassegnato da una “strana gioventù”. Ci sono stati anche per noi, per esmpio, i “capelloni”, antesignani dei “sessantottini” e dei giovani del ’77 (da Guccini a Claudio Lolli…)

Tornando all’analisi storica e alla proposta politica implicita di questo libro, io trovo ineccepibili i filoni interpretativi (e le connesse associazioni di idee) che tu proponi. Cominciando dalla “contestualizzazione”, di cui abbiamo già parlato (tra la nascita del socialismo in Europa e in Russia e il Risorgimento in Italia), e dalla tua appassionata ricostruzione di quella straordinaria stagione rivoluzionaria e dei suoi protagonisti, tra cui Chernyshevskji, Dobroljubov, Nekrasov, eccetera. Io ci metterei la firma, se si decidesse di prendere questo esempio come punto di partenza per una discussione seria e approfondita nell’ambito della sinistra oggi.

Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij

Nello scegliere Chernyshevskji, un intellettuale onesto e culturalmente aperto al confronto, — un Antonio Gramsci russo —, tu prendi nettamente posizione per una visione politica unitaria e non settaria, ma non per questo meno rigorosa, del “mondo nuovo” di cui le nostre società hanno bisogno. Un mondo che per realizzarsi ha bisogno del “fare”, di un agire ragionato e tempestivo che, senza fughe in avanti, faccia progredire economicamente, socialmente e culturalmente ogni singola famiglia e società, nel rispetto delle esigenze insopprimibili della natura umana. Quando Chernyshevskji, nel sottolineare l’importanza del “fare”, parla dell’amore e della donna, anzi mette la donna e l’amore al centro di tutta la questione del vivere insieme, in società, egli traccia un confine invisibile, ma importantissimo, che non deve essere valicato, tra l’ambizione ideale, dirompente, prodigiosa e giusta di cambiare il mondo, che hanno questi “strani protorivoluzionari” e, appunto, il rispetto della donna e dell’uomo, a cui non si può chiedere di rinunciare al sacrosanto diritto alla felicità.

È fin troppo facile, col senno del poi, scoprire i momenti, nella storia dell’Unione sovietica, per esempio, in cui quasi tutti i precetti di Chernyshevskji sono stati ignorati o calpestati. Ma è ormai evidente che le idee più avanzate, gli ideali più giusti, devono sempre commisurarsi alla realtà dei rapporti umani, all’evoluzione delle singole società, alla loro capacità di prendere collettivamente le decisioni più eque e vantaggiose, in modo democratico, scegliendo i leaders giusti e controllandoli costantemente. L’aver assegnato a Vera Pavlovna il compito di rispondere, in modo esemplare, ad uno dei più pressanti “che fare?” — quello del lavoro affrancato dalle logiche dello sfruttamento — la dice lunga sulla lungimiranza e sull’apertura mentale di Chernyshevskji. Nel controbilanciare i rapporti (tuttora) esistenti tra uomo e donna nella famiglia e nella società, si attiva quella sana dialettica democratica di cui abbiamo tutti bisogno: “Lasciatele parlare, sentiamo che cosa hanno da dire e da proporre!” “Ma guarda, è interessante, non ci avevo pensato!”.

Il tuo libro, caro Marco, rimettendo un po’ di linfa marxista e sanamente rivoluzionaria nelle nostre vene ingombre di mostri, spinge a pensare, a ragionare, a ritrovare qua e là i vecchi e i nuovi compagni di una stagione ormai alle porte: la più disperata ma, forse, la più lucida. Ed ora la piccola sorpresa (per me). Qualche giorno fa, avevo appena finito di leggere “Una strana gioventù”, ma ero ancora incuriosito da questa parola-frase — “che fare?” — di cui avevo già letto e sentito parlare. Mi sono messo allora a cercare il libro di Chernyshevskij… e l’ho trovato, qui a casa mia! Forse non c’è libro importante o interessante che mia moglie Claudia non abbia portato da Roma a Parigi… Anche lei aveva, come te, la vocazione bibliotecaria!

La lettura di quel romanzo-lettera dal carcere del 1863 si integra bene con questa di oggi, anche se, nel mio caso, con una piccola frustrazione: nel mio “Che fare?”, edito da Garzanti nel 1973, manca la « Dama in nero » nonché l’emblematica gita delle due slitte! Ma forse non è una mancanza così grave. La storia di Vera Pavlovna — in cui l’Autore è sinceramente e fino in fondo dalla sua parte — è appassionante e piena di suspense, e dimostra che non si può fare la rivoluzione (ne alcunché) senza le donne, non solo perché non si può prescindere dall’amore (anzi ci si deve “fondare” su di esso), ma perché solo le donne — forse perché “costrette” dalla Natura a fare i figli e poi a doversene separare — sanno andare al di là delle diversità di classe e di mentalità.

Del resto «anche i cuori più infangati nel materialismo hanno i loro grandi ideali, e ciò prova che la spiegazione materialistica della vita è falsa o insufficiente». (“Che fare?”, pag 78)

Vera si chiede la prima volta “che fare?” (e come fare) quando deve assolutamente “uscire dal sotterraneo” che era la sua famiglia. La sua rottura, peraltro incruenta, della situazione di immobilismo e di conflittualità estrema in cui viveva, costituisce di certo, pensando alla Russia zarista, la metafora dell’atto rivoluzionario, necessario e ormai maturo mentre Chernyshevskij scrive. Ma poi, come per Vera che, liberata dal giogo familiare desidera organizzarsi una vita felice, la domanda si affaccia una seconda volta: “che fare? » Con ciò Chernyshevskij lancia un ammonimento: non bisogna rinunciare alla felicità. Perché, attenzione, non basta la rivoluzione di un giorno! Da quel momento in poi, ad ogni pié sospinto e con una terribile accelerazione, bisogna saper rispondere ad una serie incalzante di “che fare?” estremamente concreti che non si potranno eludere se non si vuole essere costretti a tornare indietro. Dovendo scrivere il suo fondamentale testo in prigione, Chernyshevskij è estremamente abile nel dire e non dire, nel far capire in modo indiretto, ammortizzando i passaggi più tragici della storia narrata per invitare il lettore a vederli e a viverli con più distacco. Con lo stesso distacco, ben dissimulato, l’autore aggira la censura imperiale, fornendo la terza risposta alla domanda sul “che fare?” che la vita impone a Vera in quel passaggio cruciale della sua esistenza: la base della sua emancipazione e della sua salvezza è l’officina di sartoria modello che Vera crea sotto forma cooperativa.

Sede del Circolo degli Scacchi a Pietroburgo

Caro Marco, il tuo libro mi è servito e lo conserverò in modo di poterlo facilmente ritrovare, per rileggerlo, studiarlo e parlarne con qualche amico parigino. Un abbraccio. Giovanni Merloni.

Marco Noccioli

(Confessioni di un bibliotecario n. 1: « Il bibliotecario di Marx »)

Confessioni di un bibliotecario n. 1

13 vendredi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Confessioni di un bibliotecario, Karl Marx, Londra XIX secolo, Marco Noccioli, Mazzini, Orazio Torriani, Repubblica Romana

Marco Noccioli, « Il bibliotecario di Marx », Edizioni Efesto 2022

Prima avvertenza: ho letto uno dopo l’altro i due primi romanzi di Marco Noccioli, (« Il bibliotecario di Marx » e « La strana gioventù »), constatandone la continuità e la coerenza, al di là dei diversi momenti storici e contesti socio-geografici in cui si collocano l’incontro londinese con Karl Marx (1857-58) e, quattro anni dopo, il primo sussulto rivoluzionario nella Russia zarista (1862). Il filo di continuità che lega molto strettamente i due romanzi è, certo, occasionato dalla presenza del giovane bibliotecario Orazio Torriani, testimone tutt’altro che neutrale, anzi appassionato degli avvenimenti narrati, ma c’è, nelle due letture, qualcos’altro, scritto in modo per così dire in modo subliminale (forse con l’inchiostro simpatico), che alla fine ci convince e ci autorizza a sperare che questi due libri facciano nascere, o, se si vuole, ri-nascere la volontà di credere in un mondo migliore. Perché i due libri sono perfettamente complementari: il primo ponendo, grazie ad un serrato tête-à-tête con Karl Marx le basi teoriche da cui è bandita ogni possibile indulgenza all’utopia; il secondo indicando, attraverso il “Che fare?” di Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij, le azioni concrete da perseguire se si vuole realizzare una società in cui il lavoro è affrancato dalla brutalità capitalistica e la donna è affrancata dalla concezione paternalistica e tribale del matrimonio. Perché, lucidamente, in questa appassionante sequenza, Marco Noccioli intende proporre – a coloro che non studiano più i sacri testi e ascoltano sempre meno i discorsi, del resto assai poco carismatici, degli attuali leaders della sinistra -, di fare un passo indietro, e di farlo servendosi della modalità del romanzo, ritenuto giustamente un veicolo più adatto per il recupero delle basi indispensabili (storiche, filosofiche, culturali, umane) e per trovare già in questo passato non così lontano, e così efficacemente ricostruito, una chiave politica e filosofica su cui ri-cominciare a ragionare e raccogliere gli apporti delle “future strane gioventù”. Non ha dunque senso parlare del “bibliotecario di Marx” senza parlare della “strana gioventù” e viceversa. (Mi trovo del resto nella situazione del tutto eccezionale di annoverare tra i miei amici, da anni ormai, qui in Francia, anche Valère Staraselski, uno scrittore comunista molto valido e seguito, che adotta da tempo, anche, lui, come Marco Noccioli, la « forma romanzo » per risuscitare la storia e per dibattere le tematiche politiche contemporanee.) 

Seconda avvertenza: circolano già alcune recensioni sui libri di Marco Noccioli che, nell’invitare gli italiani alla lettura, descrivono molto bene la struttura dei due romanzi, il ruolo dei relativi personaggi e la coerenza storica e filosofica del loro fondamento teorico e politico. Io, invece, non mi rivolgo tanto ai futuri lettori quanto a coloro che questi romanzi, come me, li hanno già letti, per avviare così, insieme a loro, un dibattito costruttivo con l’Autore e attirare poi l’attenzione di tutti coloro che, sinceramente e drammaticamente, si interrogano sull’attuale “che fare?” ma anche, in una situazione sociale ed economica nazionale e internazionale che non chiede altro, “come fare” ad affrancarci dalle « avversità » e ripristinare il clima ideale e l’azione politica collettiva conseguente per quel nuovo e urgente “che fare ora?” 

Terza avvertenza: il mio contributo consisterà in due lettere e non in due commenti distaccati e inevitabilmente freddi. Anche perché conosco Marco Noccioli da trent’anni e non riesco a trovare un altro modo di esprimere le mie osservazioni e riflessioni che quello di indirizzarmi direttamente a lui e, indirettamente, a tutti coloro che leggeranno i due libri con la mia stessa attenzione e passione. 

V0013519 The British Museum: the reading room under construction. Woo Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org The British Museum: the reading room under construction. Wood engraving by J. Brown after C. W. Sheeres, 1855. 1855 By: Charles William Sheeresafter: Sydney Smirke and John BrownPublished: – Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/

Dagherrotipo della Reading Room del British Museum in costruzione.

“Il bibliotecario di Marx”

Caro Marco, esprimerò le mie osservazioni sul “bibliotecario di Marx” un po’ liberamente, senza andare a riaprire il libro per trovare la pagina esatta dove tu avevi detto questa o quella cosa, né per sincerarmi di aver ricordato bene i fatti e i nomi dei personaggi. I piani del racconto (e della mia lettura) sono molteplici e, pur presentandosi in una mirabile sintesi, meritano di essere commentati man mano che mi tornano in mente. Dico “tornano in mente” perché, seguendo il consiglio che mi diede un dì mio nonno Alfredo Perna (che, come il tuo Orazio Torriani, s’intendeva di matematica e di calcolo differenziale), ho preso ormai l’abitudine di fissare nella memoria l’essenza di ogni libro subito dopo aver finito di leggerlo. Per così dire a occhi chiusi. Salvo poi ritornarci per una restituzione più fedele ed efficace. In questa lettura, inevitabilmente condizionata dalla conoscenza dell’autore, non ho avuto però nessuna difficoltà a calarmi nel racconto e via via appassionarmi alle vicende storiche rievocate e narrate, nonché al dibattito ideale, così approfondito, in cui si affaccia anche la questione dell’architettura e della città, nient’affatto secondaria quando la questione filosofica fondamentale è quella di decidere “cosa fare dell’utopia”.

Ma veniamo al libro. Il tuo « bibliotecario » mi è piaciuto moltissimo. È un romanzo che merita di circolare anche al di fuori dei confini, spesso distratti e fuorviati, della nostra pur amata Italia; un testo-outsider nell’ambito della letteratura storica e politica, che ha il pregio di essere anche un serio e meditato veicolo di discussione. Se non l’hai fatto, dovresti adoperarti seriamente per la sua pubblicazione in Inghilterra. Anche i francesi potrebbero essere interessati, ma sono assai capricciosi e forse meno liberi degli inglesi in queste cose. E poi, col tuo romanzo, tu fai un bellissimo omaggio alla Library del British Museum e dai prova di una profonda dimestichezza con la città di Londra e i suoi paesaggi urbani e suburbani.

D’altronde, con questo libro, tu coroni un sogno. Il sogno dei tanti e tanti, non solo filosofi, che pensano in cuor loro, in ogni parte del mondo, che Marx non è affatto morto, che anzi è doppiamente vivo in un’epoca in cui, dopo l’implosione catastrofica dell’utopia comunista nei paesi dell’Europa dell’Est – e l’inevitabile contraccolpo nel resto del mondo -, il capitalismo ricalca gli stessi metodi di sempre ed è diventato più aggressivo che mai. Il sogno dei tanti e tanti che avrebbero voluto incontrare il Moro, come tu lo chiami, e parlare con lui a tu per tu: facendo così un salutare ritorno alle origini, là dove “tutto è cominciato”, alla ricerca di un più preciso insegnamento, o piuttosto di una conferma di tante amare constatazioni e trovando infine la tanto attesa risposta: la lotta al capitalismo non può basarsi né tantomeno esaurirsi nell’utopia, ma deve scontare umilmente la diabolica e perversa capacità del capitalismo di riorganizzarsi su basi sempre nuove, come un virus dalle infinite varianti.

Disegno di Claudia Patuzzi

Quello che sta succedendo oggi, in Europa e nel mondo, corrisponde ancora, esattamente, riga per riga, passaggio per passaggio, a quello che Marx aveva previsto come logica conseguenza di un capitalismo che evolve continuamente “eppure non cambia”: la parabola del comunismo, dunque, non si è affatto conclusa. Ciò detto, l’insperato e prolungato colloquio tra il bibliotecario e il Dr. Marx non si limita a lanciare un sasso nella “piccionaia” degli affossatori del comunismo. In esso il passato-presente di allora e il futuro-presente di oggi non sono visti come un sogno, ma come un’ipotesi. In questa “ipotesi”, poi, se ne annida un’altra: quella di poter ritrovare i nostri padri della patria al di fuori degli schemi, delle frasi fatte e degli sterili determinismi dei libri di storia. Tu offri a tanti italiani – che considerano ancora Marx (come anche Freud) il caposaldo di una rottura culturale e direi morale ancora viva e assolutamente indispensabile – la possibilità di sentirsi “di casa” in mezzo ai membri della sua famiglia londinese, e fai vivere la realtà di 167 anni fa come se fosse quella di oggi. Raccogliendo « en passant » le osservazioni e i giudizi di Marx su Mazzini, sugli esuli italiani e dunque sul nostro Risorgimento: «…Ora anche il signor Mazzini non disdegna di indugiare sulle realtà sociali, sugli interessi delle diverse classi: è possibile che egli sia rimasto impressionato dal colpo vibrato al Secondo Impero dalle convulsioni commerciali che ebbero inizio a New York e poi fecero il giro del mondo. C’è soltanto da sperare che non voglia arrestarsi a questo punto e proceda a riformare tutto il suo catechismo politico alla luce della scienza economica…»

Una tale contestualizzazione, senz’altro più vera che veritiera, è rara, rarissima e rende il tuo libro meritevole di ulteriori, adeguati riconoscimenti. Ma oltre alla valorizzazione della contemporaneità tra Marx e Pisacane, tra Marx e Napoleone III, ecc., “Il bibliotecario di Marx” offre al lettore una seconda gradevole sensazione di contemporaneità, quando tu proietti nel mondo di oggi la Londra di metà Ottocento, che, in mezzo ai lavori della metropolitana, rinasce “più bella che pria”, molto più viva e vera della Londra imbalsamata dei nostri attuali, stereotipati viaggi organizzati. Un’altra caratteristica del tuo romanzo è quella di evitare di strutturarsi nella forma di una “intervista immaginaria”, che darebbe per scontata l’inavvicinabilità di Marx in quanto icona, alias figura imbalsamata dalla storia e dal tempo. Non assistiamo nemmeno, del resto, all’approccio di tipo personale-sentimentale del postino-apprendista-poeta con il “vero poeta” che fu Pablo Neruda. Né si assiste alla ricerca, nel Dr. Marx, di un padre o di un nonno mitizzato.

Partendo da queste prime osservazioni, per meglio comprendere la genesi di questo romanzo, ho cercato di individuare alcuni dei suoi punti di forza. Per ora me ne vengono in mente quattro.

Il primo è quello, già accennato, della contestualizzazione delle problematiche politiche e filosofiche del comunismo ascendente e delle sorti del Risorgimento nel decennio compreso tra la fine della Repubblica Romana e l’impresa dei Mille, con la lucida messa in evidenza dello scarto tra la maturazione filosofica e politica “internazionale” di Marx e il contemporaneo dibattito risorgimentale intorno all’idea di Repubblica (argomento quanto mai attuale nella Francia del 2025), che si palesa contraddittorio se solo si considera l’assoluta modernità della Costituzione romana del 1849 e le idee rigide e condizionanti di Giuseppe Mazzini.

Il secondo è il superamento del duo – e dello schema classico, spesso alterno e ambivalente, che si instaura tra “maître et valet”, “maestro e allievo”, “padre e figlio”, ecc. – attraverso la creazione di un terzo interlocutore di analogo peso e importanza. Infatti, il giovane Orazio Torriani, protagonista ed io narrante, per essere posto nella condizione “ottimale” (scusa il termine) per dialogare con Marx, aveva bisogno che quest’ultimo non fosse (troppo) più in alto di lui. Per il ruolo per così dire paterno, che esige rispetto, tu inserisci allora la figura del Direttore della library, Sir Anthony Panizzi: un italiano, anch’egli esule risorgimentale, autorevole ma non autoritario, che si è perfettamente mimetizzato nello stile inglese e sa intrattenere molto abilmente i propri segreti. Grazie a questo preventivo “spostamento dell’autorità”, da Marx a Sir Anthony, diventa possibile un dialogo “quasi alla pari” tra il bibliotecario e il Dr. Marx, che senza difficoltà, a questo punto, può essere riguardato come un fratello maggiore o uno zio disponibile e simpatico. 

Il terzo è nella necessaria autorevolezza dello stesso Orazio Torriani: un vero rivoluzionario (non proprio del tutto inventato se somiglia così tanto all’autore…), che lavora come bibliotecario alla Library della Londra in piena trasformazione urbana della metà dell’Ottocento, che, per farsi accettare e ben volere da Sir Anthony, si comporta alla stregua di un Archie Goodwin efficiente e sorridente, che non farà mai ombra al suo Nero Wolfe. Si scopre ben presto che Orazio non è affatto l’ultimo arrivato, un volonteroso e intelligente giovane bibliotecario dalla promettente carriera. Anche se lui non lo dirà mai, egli è un eroe, un patriota che ha avuto a che fare con Garibaldi, Carlo Pisacane, Felice Orsini e, naturalmente, sia pur mantenendo qualche distinguo, fa parte della costellazione degli esuli londinesi che direttamente o indirettamente fanno capo a Giuseppe Mazzini.

Ed ecco il quarto punto: grazie al suo lavoro alla Library e ai suoi brillanti studi di matematica, Orazio Torriani potrà essere utile a Karl Marx, frequentatore assiduo della sala di lettura, dove dispone del suo posto fisso (tavolo 7, fila G): egli darà delle “lezioni” al grande filosofo del Capitale e del Manifesto del comunismo. Da questo inedito e azzeccatissimo rapporto docente-discente, costantemente invertito, scaturisce uno degli aspetti della modernità-attualità del tuo libro e della sua assoluta originalità.

Pagina originale dei manoscritti matematici di Karl Marx

Nei cinque mesi della sua collaborazione con l’uomo geniale e carismatico, il bibliotecario dialoga intensamente con il Dr. Marx, diventando ben presto amico suo e di sua moglie Jenny. Pur seguendo il fondatore del comunismo in tutte le sue peripezie mentali – qualche rara volta un po’ faticose per il lettore come forse per lui stesso, Orazio riuscirà, alla fine, a spingere il confronto e il dialogo ben al di là di una semplice analisi e riflessione dottrinale, ottenendo da quella icona-fatta-uomo giudizi liberi e spregiudicati, che attraversano il tempo come lampi gettati sul nostro drammaticissimo presente. Incontri del genere avvengono spesso, in ogni tempo, nella vita reale: al di là della cortina della gloria e dell’autorevolezza delle loro grandi opere, i grandi uomini sono quasi sempre persone semplici, disponibili e socievoli. Ma tu hai osato far scendere Karl Marx « giù dal pero », come direbbero a Bologna. A te è riuscito, meglio che ad altri, il miracolo di rendere accessibile a tutti il profeta e padre del comunismo nel mondo.

Nel rivelarci un “Marx dal volto umano” (ti ricordi il “socialismo dl volto umano”?), lo stesso Orazio si umanizza, tanto che, alla fine, al compiersi del lungo soggiorno londinese, egli si confida, aprendosi all’amicizia con il lettore.  Dopo cinque mesi di confronto ravvicinato con quell’inimitabile maestro, Orazio decanterà e vincerà la frustrazione e il sentimento di sconfitta per la fine drammatica della Repubblica Romana; tornerà nella sua città con una nuova, più solida consapevolezza riguardo al significato e alle prospettive della “rivoluzione italiana” e della vera libertà; superando in cuor suo la concezione individualistica e “gruppettara” che aveva caratterizzato il primo Risorgimento. Egli diventerà per tutti noi un promotore e portavoce autorevole della necessità di una immensa opera collettiva, la sola possibile. Come gli aveva detto Sir Anthony nell’ultimo saluto: «per afferrare il cielo… bisogna essere in tanti e mettere ogni giorno un mattone sopra l’altro, senza sosta. Ognuno porta il suo mattone, più o meno grande, e chi è più anziano li dispone sapientemente, fino a che altri, i più giovani, un giorno, salendo quei gradini, possano arrivare agevolmente alla meta, senza rischiare di cadere nel vuoto».

Concludo questa mia nota con un aspetto, volutamente meno sviluppato in questo libro, ma certo importante: quello dell’amore. Ho molto apprezzato la tua maniera di raccontare, quasi solo alla fine, ed in modo sintetico e traslato, le vicende amorose che il tuo Orazio aveva così scrupolosamente vissuto in segreto, affidandone la rivelazione alle canzoni del cuore-e-della-lotta insieme a quelle, più esplicite, ma “in inglese”, di Leonard Cohen. È a questo punto che mi è venuto da dire, d’istinto, a voce alta, nel nostro dialetto romano: «Bravo, me sei piaciuto!», perché la confidenza intima del personaggio-io narrante, lungamente attesa, sfociava in una conclusione liberatrice, in cui la mente eccitata del “personaggio narrante” si fondeva finalmente col corpo e col cuore: Orazio Torriani si mostrava a tutto tondo, con la sua personalità di poeta rivoluzionario. Ma erano stati altrettanto liberatori e propizi alla lettura anche quegli squarci di aria e di luce che sprigionavano dalle passeggiate nei parchi londinesi e, in genere, tutte le “pause” in cui Orazio fa la spola tra i suoi primordiali punti di riferimento: prima Sir Anthony Panizzi e Karl Heinrich Marx, poi il vecchio libraio romano, ormai novantenne, che sembra avere per solo ultimo scopo quello di un simbolico passaggio di testimone, o più esattamente quello di essere testimone dello sbocciare in Orazio di una nuova vita, la terza dopo i venti mesi della Repubblica Romana e i cinque mesi condivisi con Marx. Ed è tanto straordinario quanto inaspettato il finale, con l’ultima immagine della Roma ritrovata: Orazio non ha nessuna fretta di riallacciare i fili di una nuova quotidianità familiare, ha bisogno, prima, subito, di ritornare nel punto in cui la sua prima vita si era bruscamente interrotta: un palcoscenico a ciel sereno dove si era fatta la storia, in cui nulla però gli sembrava cambiato: « quando lasciai la libreria sapevo che era arrivato il momento che aspettavo da tanto tempo: tornare lì dove tutto era cominciato. Oltrepassai Porta del Popolo e mi incamminai lungo la Flaminia fino al limitare del Tempietto di S. Andrea. Una leggera brezza stava mitigando un caldo asfissiante a cui non ero più abituato. Quasi nulla mi sembrò cambiato da quella mattina in cui avevo visto cadere i miei compagni del Battaglione Universitario. Mi accostai ad un rudere romano, coperto di sterpi, decisamente meno nobile e imponente di quella colonna rosa che mi era apparsa in sogno qualche mese prima. Ma era quello il posto. Senza dubbio. «Eccomi fratelli. Sono tornato.» »

Caricatura di Honoré de Balzac esposta al Grand Palais, Parigi, 2016

Infine, caro Balzac, quello che fai dire ad Orazio a proposito della scrittura mi sembra estremamente coerente con tutto ciò che ti caratterizza e hai saputo costruire in modo veramente originale: «…Più leggo storie e più mi immagino di partire da lì per scrivere io nuove avventure, incastrando il mio di personaggio nelle pieghe della vita dei personaggi degli altri e aggiungendo quei particolari che creano un nuovo punto di vista, una contraddizione nella storia. Sono convinto che la contraddizione è spesso la più limpida forma di verità… [perché] ogni testo può essere letto come un mosaico di citazioni di altri testi, una mescolanza foriera di nuove assonanze. In questo modo, ogni testo nuovo è sia assorbimento sia trasformazione di altri testi ad esso preesistenti. E in questa operazione di riuso, le parole fatalmente diventano ambigue, ambivalenti, perché accanto al vecchio significato ne emerge sempre anche uno nuovo. L’intera opera è ambigua.»

Potrei continuare a scrivere, seguendo le altre tante suggestioni che questo tuo libro “bello e giusto” inanella, o magari sforzandomi di addentrarmi nei complessi ragionamenti sul plusvalore o sul “town design”… Mi piacerebbe avere la capacità, in particolare, di sviluppare un ragionamento sull’accresciuto ruolo della tecnologia e, in particolare, sul potere totalitario della tecnologia informatica nel Capitale dei tempi nostri. Mi ricordo che Renato Nicolini, in una relazione che fece per l’esame di Tecnica delle costruzioni, testo che passò di mano in mano per essere copiato, a volte di sana pianta, parlava molto efficacemente della tecnologia come una “ancella zelante” del capitalismo. Oggi, altro che “ancella”! Con un noto titolo teatrale si potrebbe ribattezzarla “La serva padrona”!

“Tutto ciò premesso e considerato”, come si diceva nei polverosi pareri di una gloriosa e obsoleta urbanistica comunale valutata “a spanna”, il tuo libro va bel al di là di quello che io ho potuto rappresentare: esso è talmente ricco, elegante e leggero anche nei suoi passaggi più “ponderosi”, che in un certo senso non è raccontabile e non può essere dunque colto in tutto il suo fascino al di fuori di un’adeguata e ripetuta lettura. A te, caro amico, i miei complimenti entusiastici e sinceri. Oltre ai tanti meriti che ti conoscevo e riconoscevo, e a quelli che rivela in gran quantità questo tuo romanzo, ce n’è uno che mi colpisce in particolare: la tua straordinaria pazienza, tenacia e determinazione nel costruire, pezzo pezzo, quasi di nascosto, come un vero rivoluzionario, questo perfetto mosaico, senza avere fretta, si direbbe, di rivelare in anticipo anche una sola delle sue tessere… e poi avere-trovare, al momento del “déclic”, la forza, la freschezza del gesto, la capacità di trasformare il castello di sabbia (e di rabbia) in un mondo dove scorre il fiume palpitante della vita. Un caro abbraccio Giovanni Merloni.

Marco Noccioli

(Confessioni di un bibliotecario n. 2: « Una strana gioventù »)

 

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