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“Sì, mi ricordo!”

09 lundi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in ritratti

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Lella Amaroli, Regione Emilia-Romagna, Urbanistica

Lella Amaroli (1947-2025) (ritratto eseguito da Saveria Bologna)

Carissima Lella, forse non ti ho mai detto che il mio nonno omonimo, romagnolo di Cesena, chiamò la sua seconda figlia Gabriella, che poi fu detta Lellina, mentre il terzogenito Merloni, mio padre Raffaele, era da tutti chiamato Lello. Dunque il tuo nome, Lella, mi è particolarmente caro. Del resto, quando a mia volta ho chiamato mia figlia Gabriella, in nome della zia Lellina e di una ragazza dagli occhi verdi che lavorava al bar del Bagno Ferrara a Cesenatico, Giancarlo Ferniani, il nostro comune grande amico, si mostrò contento per la scelta di quel nome “romagnolo”. Ma di Lella ce n’è una sola, e tu sei “la Lella” a cui tutti noi vogliamo bene, l’amica comune di cui parliamo sempre con la Saveria, la Patrizia Mantovani e la Paola Stanzani: tu sei proprio una “romagnola di Bologna”, dall’indole pacifica ma non necessariamente docile, portatrice di un’allegria festosa e di un contagioso entusiasmo, attraverso cui tu hai sempre filtrato, se non nascosto, le contrarietà della vita. La vita, ahimè, è difficile per tutti, ed è spesso vero che “mal comune mezzo gaudio”, ma poi non è così vero che tutti soffrono o godono allo stesso modo. E tu, come me, invece di prendertela troppo e di recriminare all’infinito, hai sempre considerato molto più dignitoso e luminoso dare a tutte le persone che lo meritano la tua amicizia e il tuo amore. Anch’io ti voglio bene, e mi ricordo benissimo di te, spesso accomunata alla magnifica Rossella e alla rimpianta dolcissima Anna Agnetti, e in numerose altre occasioni – tra cui la vacanza insieme in Ungheria nella « carovana di Ferniani » dell’agosto 1975 -, nonostante le varie lontananze che si sono succedute da quando, a metà degli anni ‘90, si è fatto sempre più sporadico il mio rapporto pendolare con Bologna (ci incontrammo, se ben ti ricordi, in occasione del Congresso dell’INU del 1995). Anzi, la distanza – in linea d’aria o ripercorrendo il tortuoso tracciato di una carta stradale immaginaria che scavalca le Alpi e piomba su Torino, poi su Piacenza e infine sulla via Emilia – mi aiuta a concentrarmi di più sul peso della mancanza di tante persone di Bologna che difficilmente mi capiterà di incontrare per caso, come avveniva quando si viveva tutti in quella stessa città. Ora che sono a Parigi, questo esercizio della memoria si è fatto ancora più intenso e, di anno in anno, frustrante e doloroso; ma credo appartenga a ogni essere umano, accanto al bisogno di ricordare, il desiderio di essere ricordati; tutti gli esseri umani sperano che alla domanda “Ti ricordi?” segua la risposta “Sì, mi ricordo!”

Già l’immagine qui sopra (che fa parte di un vasto dossier, curato da Saveria Bologna, intitolato « Noi di via Alessandrini »), pur ritraendoti di profilo dietro alla collega Graziella Musolesi, sarebbe già sufficiente per ricreare in me il sapore e l’atmosfera di questo nostro straordinario passato comune. Ricordo di un’epoca certo imperfetta, ma sostenuta da una guida (nella fattispecie un « Guido » Fanti, a sinistra nella foto) e dal comune ideale « di fare », di « fare il meglio possibile » e, soprattutto, di agire « dalla parte giusta ». E i nostri « capi » ci coinvolgevano anche nelle iniziative politiche importanti. In questa foto, per esempio, l’allora semplice geometra Lella Amaroli, da poco « imbarcata all’urbanistica regionale » (insieme ad altri 39, grazie ad una famosa delibera in cui erano assunti architetti, ingegneri, geologi, geometri e disegnatori, tra cui c’ero anch’io), stringe la mano ad una rappresentante del ministero degli esteri del Vietnam a cui l’Emilia-Romagna dava un appassionato sostegno, non solo morale. Ricordo di persone che ebbero la « chance » di essere messe in valore, di potersi esprimere al meglio.

In questa seconda immagine (facente sempre parte del citato dossier e scattata lo stesso giorno della precedente) ti vedo circondata da alcuni dei « pionieri » dell’urbanistica regionale di cui facevo parte anch’io. Riconosco da sinistra verso destra Patrizia Canella, Gianni Ravaglia, Magda Zuccheri, l’assessore Fausto Bocchi, Paola Elmi, Graziella Musolesi, Lella Amaroli ed Ermanno Colafranceschi. Nell’assumersi nuove, gigantesche responsabilità la neonata Regione (siamo nel 1972) non aveva paura di sbagliare perché era pronta a correggere il tiro, ad avanzare fiduciosamente verso l’avvenire come può verificarsi ancora oggi nelle famiglie unite e responsabili purché, attenzione, si sforzino sempre di non essere gelose della loro felicità. Lo stesso dialogo aperto e costruttivo (ma veramente aperto e costruttivo) che si svolgeva tra tecnici e politici all’interno degli uffici regionali, si svolgeva poi con i comuni, con le provincie e con i comprensori, che erano i nostri principali interlocutori. Forse, nel tempo, la patina burocratica ministeriale – che avevamo trovato arrivando e spazzato via grazie al cosiddetto « appoggio responsabilizzante » di Fausto Bocchi (il nostro instancabile assessore all’urbanistica, che, « coprendoci le spalle », ci mandava avanti nella nostra azione di svecchiamento e di rottura) si è incrostata di nuovo su quel mondo e su quelle difficili « pratiche ». Ma io credo che il nostro lavoro di allora abbia lasciato una traccia profonda e difficile da cancellare: io sono convinto che in quella Regione lo sforzo di ragionevolezza e di onestà culturale regni ancora, incontrastato, da tutt’e due le parti del tavolo, mentre gli interessi locali, anche se, spesso, condizionati fortemente da quelli privati, vengano ancora oggi inquadrati in una visione equilibrata e corretta delle necessità (dei cittadini e delle imprese), nonché dell’estrema limitatezza e fragilità delle risorse (tra cui c’è anche il suolo).

Scusami, Lella, per essermi addentrato in un discorso un po’ noioso, che magari interessa a te e molto meno a chi ora ci legge, ma questa fotografia mi ha fatto ritornare indietro nel tempo e, poi, ripercorrendolo per tornare al presente, ti ho vista nella tua stanza, in quei corridoi, con quelle carte in mano, con quel sorriso spavaldo e ho avuto la netta sensazione che, almeno per quel che riguarda la tua lunga e dura vita lavorativa tu hai dato un contributo essenziale, lavorando nella giusta direzione. Mio zio Edoardo Perna, uomo politico e giurista di primo piano, che sgobbò tutta la vita senza mai cercare il microfono e i riflettori, prima di morire mi disse: «Si viene al mondo, si cerca di fare qualcosa, e si muore…» Una frase un po’ amara e dolorosa, che contiene però in sé l’orgoglio e la viva consapevolezza di aver fatto qualcosa di grande e soprattutto di necessario. E tu, anche tu Lella, hai fatto una cosa bella e necessaria che resta. Di cui puoi essere pienamente orgogliosa.  

Ricordo benissimo, cara Lella, quel mitico viaggio notturno verso l’Est, capitato in un momento particolarmente “scomodo” della mia vita difficile. Mi ero separato da soli venti giorni, avevo accompagnato a Piombino la mia ex famiglia (con la Volkswagen nera di Patrizia Mantovani), l’avevo vista salire, non senza angoscia, sul traghetto dell’isola d’Elba, ma dopo tutto questo trambusto ero solo per le vie di Bologna, la mia nuova “fidanzata” essendo partita per un bel viaggio, lasciandomi per consolazione una manciata di libri da leggere nei giardini e sulle panchine di Bologna. Con la sua trascinante allegria Ferniani mi aveva tirato fuori da quella patetica condizione “invitandomi” nel suo Balaton e, in quattro e quattr’otto, con l’aiuto prezioso di Colafranceschi Ermanno detto Cola, mi procurai il visto, indispensabile per entrare in Ungheria. Dovetti anche rinnovare in fretta il passaporto e ciò fece ridere il suddetto Cola, quando si sentì dire che, così abbronzato e arruffato nella foto della macchinetta, mi avevano preso per il terrorista Mario Tuti, ricercato… 

Partimmo di sera, con due macchine. All’andata, ero io a guidare quella di Giancarlo, mentre Giancarlo guidava quella di Luigi, il tuo compagno di viaggio, un uomo di qualche anno più grande di noi, dal comportamento gentile e riservato. Dopo il confine con la Jugoslavia, all’altezza di Lubiana, un temporale si abbatté sul nostro percorso e dovetti arrangiarmi nonostante il tergicristallo spezzato, viaggiando con il braccio fuori dal finestrino per combattere con un fazzoletto zuppo il “combinato disposto” dell’appannamento e della pioggia, a rischio di perdere il contatto con la macchina davanti. Accanto a me c’era Marisa, la “fidanzata” di Giancarlo che poi diventò sua moglie, che faceva il possibile per aiutarmi. Dietro c’era il quarantenne Gattini, che non ricordo più cosa facesse nella vita e il più giovane Cavina, provetto piastrellista. Ricordo benissimo che, ad ogni casello autostradale, Giancarlo aveva sempre pronte le monete precise per ognuna delle due macchine. Quando ormai era l’alba, entrammo in Ungheria. Era la prima volta (su due) che mi recavo in un paese dell’Europa dell’Est. La Jugoslavia, dove avevo fatto una vacanza nove anni prima, per me non contava. Una certa emozione cominciò a serpeggiare nella mia testa ronzante. Ma non mancarono, in quella eroica traversata della notte, le ondate di malinconia, anzi il mio più che pesantissimo magone esistenziale. Raccontai alla mia compagna di viaggio gli eventi traumatici che, nell’arco del precedente “luglio di fuoco”, avevano sconvolto irreversibilmente la mia vita. 

Quando arrivammo nella nostra dimora ungherese, eravamo tutti distrutti. Lo deduco ora dal fatto che, dopo tutto quel buio, mi ricordo solo di essermi svegliato in un lindo lettino ai piedi di una scala piena di luce, e di aver visto scendere con aria solenne e quasi militare una distintissima famiglia ungherese, costituita da padre, madre e figlia di tredici-quattordici anni, vestiti a festa, in procinto di fare la solita “bella passeggiata” lungo il lago. «Che or’è?» domandai alla bionda romagnola che sgusciava da una porta del pianterreno. «Ti ho portato un panino, non ti ricordi? hai mangiato dormendo», mi disse affettuosamente. Poco dopo, tutti coloro di cui avevo intravisto la testa e le spalle nell’oscurità del viaggio uscirono come topi dalle tane, come se la partenza dei padroni di casa fosse un segnale convenuto. Cominciò così quella stramba vacanza, in cui ci aggiravamo un po’ a caso, come dei forsennati, in piedi o in macchina, sempre al seguito della nostra guida esperta e carismatica, ansiosa di raggiungere ora l’uno ora l’altro dei paesi dal nome esotico e favoloso che costeggiavano quel lungo lago orizzontale il cui fascino non sta in una travolgente bellezza ma piuttosto nella sua misteriosa e ipocrita capacità di nascondere, di giorno, le qualità umane dei tanti e  tante che vi si recano, per poi rivelarle… di notte. Insomma, la lunga distesa d’acqua piatta del Balaton ha qualcosa di molto affine se non identico alla lunga riviera adriatica romagnola, da Gabicce a Lido di Savio. Allora, perché andare tanto lontano? Tra i tanti ricordi di quella breve vacanza mi sono rimaste impresse le “terrazze” dei bar, da cui non si vedeva quasi mai il lago. (Quello, il lago, si vedeva solo quando ci entravi dentro, con l’inquietante sensazione della sabbia melmosa sotto i piedi, mentre l’acqua, densa come nebbia e impregnata di alghe, si strusciava subdolamente tra le nostre gambe incerte). In quelle terrazze si oziava animatamente, sotto gli ombrelloni con su scritto OUZO o MARTINI, sempre preoccupati di fare corpo intorno a colui che riuniva tutto e tutti con la sua sorridente bontà, ma anche, fatto non trascurabile, con la conoscenza di quella incomprensibile lingua magiara che non offriva nessun appiglio di somiglianza con nessuna delle nostre parlate, ufficiali o dialettali che fossero. Un osservatore esterno — vedendo il nostro gruppo stravaccato alzarsi di scatto per seguire il “capo” dall’espressione arguta, che sembrava voler andar via, ma poi ci ripensava, andando a risedersi in un altro angolo della terrazza — sarebbe restato forse interdetto vedendo i nostri continui spostamenti di bicchieri e tazzine. Ma forse non facevamo che adeguarci ad un’abitudine del posto, forse lì facevano tutti così. Certo non ci annoiavamo del tutto: non mancavano le battute più o meno spinte, con cui Giancarlo intratteneva le diverse sensibilità del suo pubblico; oppure venivamo trascinati in balli surreali e grotteschi dove potevano verificarsi in modo del tutto naturale delle stranezze. Come quella volta che un ungherese male in arnese mi invitò, con gesti un po’ grossolani, a ballare. E Giancarlo disse, facendo una vocina divertita: «Vuole ballare con te!» Credo che quelle imbarazzanti situazioni fossero la naturale  conseguenza del gemellaggio ideale tra la Romagna e il Balaton, di cui Ferniani era promotore e artefice nello stesso tempo. Credo che siano perlomeno un centinaio, ormai, le persone che sono andate in Ungheria con lui, ed è probabile che qualcuno dei suoi “discepoli” abbia finito per installarsi laggiù, attirato dalla semplicità della vita, meno stressante e costosa  laggiù rispetto a quella che si svolge qui da noi. Ma perché strapparsi dalla Romagna, la patria della “tolleranza amorosa” per eccellenza? Le nostre giornate di terrazza in terrazza erano in realtà ipotecate  dalla nullafacenza e dall’attesa dell’uscita serale. Ora, ripensandoci bene, potrei scommettere che tu, Lella, non c’eri o sparivi discretamente con il tuo Luigi per ricomparire magari il giorno dopo. Oppure andavi a fare il bagno con la Marisa, o, insieme, andavate in giro da sole. Noi uomini partivamo in macchina con Giancarlo il cui grido preferito era «Avanti Siófok!», perché Balatonsiófok era il principale centro di attrazione di tutto il bacino lacustre. Lì, una sera, tra il lusco e il brusco di una improvvisa solitudine, fui provvisoriamente attratto dalla silhouette e dagli occhi romantici di una ragazza bionda che, mentre cercavo di parlarle in un inglese molto elementare, si girava continuamente verso il palco. E dovetti subito arrendermi all’evidenza: a nulla potevano le mie poesie improvvisate o i miei scarni ritratti a penna, di fronte al potere di una chitarra e di una voce dotata di microfono. Del resto, ero tutto fuorché un uomo libero, né ero minimamente capace di approfittare di quella passerella di corpi slanciati o cicciottelli dentro cui albergavano tante anime dallo sguardo comprensivo. Dunque mentre i più “motivati” se ne stavano ficcati in un letto con la sola interruzione del mangiare e di qualche ora di sonno; mentre Giancarlo correva di qua e di là con la sua fidanzata per andare a trovare i suoi amici del Balaton, io leggevo “La realtà separata” di Carlos Castaneda.

Le uniche persone che cercavano di trarre il miglior profitto da quella stramba pausa ungherese eravate voi due, Lella, tu e il tuo compagno Luigi. Fu così che, del tutto spontaneamente, si creò una piccola succursale della grande comitiva ed io, tu e Luigi, con la scusa che io non ci ero mai stato, partimmo ad un certo punto per Budapest e per una regione ad est della capitale che tu non avevi ancora visitato. Avevate una grande tenda bianca familiare, ora ricordo, e ci dormimmo una o due notti. Quella piacevole e liberatoria parentesi “culturale” fu resa possibile dal cambio favorevole e dal fatto che là tu, ormai “veterana”, cominciavi a destreggiarti con quella lingua impossibile e te la cavavi perfettamente con i conti e i menù dei ristoranti. Ti lasciammo volentieri l’iniziativa e, sempre dietro di te, girammo a lungo per la capitale ungherese. Ricordo con precisione la bella terrazza panoramica di Buda, dove troneggiava la statua di un terribile tiranno. Questo imponente personaggio offrì a Luigi l’occasione per manifestare la sua sperticata ammirazione: «Mattia Corvino! Quello lì non scherzava mica. Quando arrivava lui, tutti rigavano dritto!» Dall’alto, si godeva una visione straordinaria del Danubio, del suo magnifico ponte “Erzsébet” e dell’altra metà della capitale ungherese. Scendemmo poi a Pest, dove sostammo, un po’ perplessi, nella piazza degli Eroi, delimitata da una grande esedra su cui spiccavano almeno sei statue equestri lanciate in una corsa sfrenata. Al centro, in groppa al cavallo più robusto e spasmodico, c’era Attila, quello che da noi è chiamato “flagello di Dio” mentre lì è egli stesso Dio. Più tardi, mentre passeggiavamo per quei quartieri dai larghi marciapiedi, calò la sera, che ci sorprese per la sua animazione “parigina”, con i suoi parrucchieri aperti alle undici di sera e i giovani che pattinavano sulle strade larghe e lisce. Tu chiedesti a una signora molto alta se conosceva un ristorante un po’ tipico. Seguendo i gesti e le poche parole di quella austera abitante di Pest, tornammo a girare per le viuzze di Buda, di notte, prima e dopo aver piacevolmente soggiornato in un ristorante dove un gruppo di zingari cantava e ballava al ritmo della “czarda”.

In una bancarella dove il folklore si riproduceva in più esemplari, comprai una camicetta bianca con un ricamo rosso per la “donna assente” che, da quella distanza, era diventata, ormai, una piccola matrioska, anzi la più piccola di quelle che Luigi aveva comprato per il suo scaffale di Bologna. Se ben mi ricordo, cara Lella, in quella vacanza, fosti contenta di scoprire con me vie, piazze, monumenti e locali caratteristici, ma alla fine eri preoccupata, più per me che vivevo tra l’incudine e il martello che per il nostro comune amico, che in fondo era libero come un uccel di bosco.

Giovanni Merloni

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