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“Mémoires di vite complici e confuse” di Loris Maria Marchetti

26 jeudi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Loris Maria Marchetti

*

c’erano tutti sotto il sole bruciante

in attesa che la banda attaccasse

(in fondo allo spiazzo s’ergeva un muro

già in uso per le fucilazioni),

…….

e le parole svanirono e la musica forse

non ebbe inizio ma non avvennero fucilazioni

perché la guerra era finita da decenni

e ora tutti volevano vivere nella luce

I, VIII, pag. 14

Con la loro poesia-prosa densa e scorrevole, le “Mémoires di vite complici e confuse” di Loris Maria Marchetti (puntoacapo Editrice, 2024) sono una rara e speciale compagnia, una persona-vaso di Pandora (e anche vaso di preziosa porcellana dipinta) che nel raccontarsi suscita un sincero interesse sulla propria visione ed esperienza del mondo: un testo serio e profondo che sa essere anche molto divertente.

…e il perdersi non è perdersi e l’errare

stupiti ma non timorosi non è errare

fra incubi e spettri ma un trepido (quasi lieto)

tendere (un po’ purgatoriale) alla casa

del padre (Padre?)

I, VI, pag. 12

Vivendo stabilmente a Parigi, mi è venuto naturale, per prima cosa, correre alla Senna con le “Mémoires” sotto braccio, per un gemellaggio ideale tra questo fiume transalpino e il Po di Torino, e ho potuto constatare che le storie-punta (o coda) dell’iceberg raccontate da Loris Maria Marchetti vi scorrono senza troppe scosse, talvolta cercando di passare inosservate, talaltra facendo significative impennate. Questo è il mio sentimento generale.

la tempesta di vento era furiosa

e i mulinelli di polvere e foglie

ci travolgevano in plaza de Cataluña

e in plaza de España e ovunque cercassimo

rifugio — e mentre tentavo di coprirla

con il mio parka, Elena andava ripetendo

«tu non hai paura di niente,

mai nulla riesce a spaventarti»

Parerga, VI, pag.132

Poi, accomodandomi, con il libro in mano, sul parapetto del pont Mirabeau, immortalato da Apollinaire, così prossimo al “point du jour” di Parigi (là dove appaiono i primi bagliori dell’alba), mi sono messo a pensare, tentando di capire quale fosse il miglior criterio di lettura da adottare. Anche sfogliando le pagine a caso e contentadosi di dare una scorsa (come quando si è ammessi in un solenne museo o palazzo oppure invitati in una casa che trasuda vita e storia), ci si accorge subito della presenza significativa delle figure carismatiche e gentili del padre e della madre del poeta, presenti in delicati e struggenti ritratti o soltanto in effimeri passaggi, accompagnati dal sentimento di rammarico per la loro brevità:

dopo un cambio di treno, fra laghi incastonati

in oleografiche vallate, lasciandosi alle spalle

una Venezia merlettata e frammentaria dove mia madre

mi aveva salutato incamminandosi sull’acqua.

……

I, XIII, pag. 19

Raggruppare allora i ricordi-sogni della madre, quelli del padre, quelli delle storie surreali, quelli delle storie divertenti, e così via? No, ho chiesto consiglio ai poeti invisibili che vengono ogni mattina ad ispirarsi su questo ponte: niente raggruppamenti. Con una tale schematizzazione si rischia di fraintendere lo spirito autentico del retro-pensare o retro-sognare di Loris Maria Marchetti, il cui vero scopo è, invece, soprattutto quello di “fermare il bel momento” per rivendicarne l’irripetibilità e il distacco. Senza mai stracciarsi le vesti, senza mai (troppo) soccombere alla malinconia.

«Ma i malanni oramai sono passati, il cuore

si è rimesso» replicava impaziente

ovunque rovistando, spostando, ricercando,

sistemando i suoi oggetti con foga

come a riprendere possesso della vita

che era stata sul punto di lasciarla

II, XXIII, pag. 74

Tutto si inscrive nell’imperturbabile e inesorabile flusso della vita, come in un grande fiume. I singoli oggetti, i singoli relitti della memoria e del sogno — che io ritrovo qui, in un luogo lontano e separato ma caro al poeta e amico Marchetti — galleggiano o nuotano invisibili nell’acqua lambita dai primi bagliori del giorno. Essi si fonderanno poi, inseparabili, nel flusso del viaggio, diventando una beata sirena scaldata e poi scottata dal sole, o una tranquilla “péniche”, che, allontanandosi dalle anse di Parigi, continuerà a scivolare verso il mare delle “falaises”. Oppure, questo flusso di poesia pensierosa e sognante, con tutti i suoi grumi di inconsapevole gioia o strisciante dolore, viaggerà-navigherà controcorrente, avviandosi gloriosamente verso il sole di Notre Dame e dell’île Saint-Louis. Lì ci saranno altre copie delle « Mémoires di vite complici e confuse » in bella mostra negli scaffali dei bouquinistes, mentre delle sorridenti fanciulle bionde leggeranno ai passanti delle poesie a caso. Anzi, ciò sarà fatto a ragion veduta: una di loro attirerà l’attenzione dei presenti, cercando poi di convincerli, con il tipico atteggiamento “tranchant” dei francesi, che tutto è retto da un primordiale “égarement”. Secondo loro non ci sono possibili alternative: lo “spaesamento” fa da sottofondo a tutta l’opera di Marchetti, e a questo bellissimo brano in particolare:

in piazza Vittorio Veneto alla fermata del 56

incontrai Lucia in attesa del bus diretto in centro.

«E allora?» le chiesi. «Beh, mi metto al lavoro»

rispose col suo ironico sorriso siciliano.

Poi mi affrettai a guadagnare i portici verso via Plana

attraversando la piazza invasa dall’acqua

del Po straripato, che ormai arrivava ai ginocchi

Parerga XI, pag. 137

Senza rinunciare al mio indefettibile attaccamento alla letteratura francese mi aggrappo però, d’accordo con Marchetti, a due grandi maestri dell’“understatement” come Jacques Prévert e Raymond Queneau, e resisto all’ipotesi troppo sbrigativa, suggeritami all’ombra di Notre Dame. Perché, per entrare e accomodarsi nel testo di Marchetti come in un confortevole “abri” bisogna capirne la struttura. Al di là della evidente citazione dei tre canti della Divina Commedia di Dante — che serve a tracciare una parabola in cui Inferno, Purgatorio e Paradiso corrispondono a tre fasi della vita personale e poetica dell’Autore (ma anche, probabilmente, a tre diverse angolazioni visuali sulla commedia umana oramai vissuta e vista vivere in altre esistenze complici e confuse) —, queste “Mémoires” di Loris Maria Marchetti poggiano su due veri e propri “pilastri” formali e tematici, distaccandosi così dalle sue precedenti composizioni poetiche o in prosa. 

Il ritmo e il sogno

Il primo pilastro è il ritmo, il tempo musicale e psicologico a cui il lettore deve potersi adeguare spontaneamente, se vuole leggere-ascoltare-capire-assaporare pienamente questo testo e trarne poi insegnamenti ed emozioni. Il ritmo con cui Marchetti restituisce narrativamente e poeticamente il disordinato e schizofrenico flusso della vita (con dentro l’eterno agguato della morte) si potrebbe, allora, identificare con il ritmo impresso da una voce particolarmente intonata (la sua stessa voce) che, dopo aver ricondotto lo sguaiato “can can” della vita a materia musicale omogenea, riesce poi a restituircene un’interpretazione armonica e allo stesso tempo unica, inconfondibile. Nel conferire, dunque, alla sua caratteristica voce di narratore-jongleur un timbro confidenziale e sempre ironico, Marchetti riesce a trasformare la raccolta e il collage di frammenti e momenti di diversa tonalità gravità e spessore in un’opera perfettamente e direi musicalmente compiuta.

la famigliola riunita

guardava la televisione

in perfetto silenzio stando a letto

(a sinistra la madre, come sempre,

a destra il padre, in mezzo il figlio ormai

maturo). A un certo punto compariva

in bianco e nero sullo schermo un complessino

che prendeva a suonare Quando calienta el sol:

in breve il figlio non riusciva più a trattenere

le lacrime e fra singhiozzi farfugliava

(non è ben chiaro se a sé stesso oppure ai suoi

che non battevano ciglio imperturbabili)

«trent’anni, trent’anni, lo capite?

sono passati trent’anni, sono passati trent’anni…»

III, XXIV, pag. 112

È a tutti noto che Marchetti ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la musica, classica soprattutto. Ma egli apprezza anche le belle canzoni. Riandando agli anni ’60, mi parlava per esempio di Sergio Endrigo, di Bruno Martino (autore della famosa “Odio l’estate”), di Franco Battiato, Paolo Conte, eccetera. Anche perché riconosce alla canzone d’autore un indiscutibile valore culturale, sociale e a volte anche politico: la stessa funzione aggregante — spesso più di contestazione che non di identificazione con miti e valori stantii —, che avevano i brani d’opera di Rossini, Donizetti, Verdi e Puccini nell’Italia risorgimentale e post-unitaria. La “simpatia” che, dopo le prime due o tre letture, provocano vigorosamente i versi di queste “Mémoires di vite complici e confuse”, aumenta nelle letture successive perché, mentre qualche frase comincia ad entrare nella nostra memoria, agiamo nei confronti del libro né più né meno come se si trattasse di un disco a noi particolarmente caro. (Ciò mi fa riflettere ai comportamenti che ci vengono imposti oggi, così lontani da quella facilità “fisica” nel contatto-appropriazione, sia pur parzialissimo, con la “musica del cuore”. Lo stesso “riflesso condizionato” dell’immergersi nella musica delle canzoni non è più lo stesso, nella grave mutazione e involuzione culturale in atto, aggravata dai sistemi e metodi della diffusione del prodotto musicale e dell’organizzazione dell’ascolto quasi completamente sottratte alle iniziative indipendenti.) Mentre il libro di Marchetti è là. Non servono fili né ricariche. Lo si può leggere a voce alta o solo con la voce della mente: esso ci darà ogni volta una nuova emozione, come un vero quadro che, quando è frutto di vita e di sincerità, ha sempre qualcosa di nuovo da dire e da dare.

*

ieri mio padre mi cercò, mi chiese

se avevo un’ora per andare con lui

una domenica al ristorante. Gli dissi

alle undici e mezzo di domenica

prossima e si mise a ridere perché sa

che di solito pranzo molto tardi.

Voleva stare, credo, un poco insieme a me

perché a tavola c’è sempre troppa gente in quella

villa e non si riesce mai ad avere un attimo di pace

I, II, pag. 8       

Il secondo pilastro è il sogno che, evidentemente, non è solo un accorgimento, un modo per riacciuffare la realtà vissuta o “fantasmée”, ma anche, soprattutto, in questo libro, la principale sostanza, più o meno trasfigurata, della narrazione. D’altra parte, il sogno non è evasione né gioco di parole volto a inseguire un viaggio insensato e favoloso, ma soprattutto filtro di una verità che è esistita e cerca di riprendere corpo e vita. Il sogno, dunque, è propizio al ricordo, che ritorna inevitabilmente travisato e relativizzato dalla natura frammentaria e dispettosa del sogno stesso. Nelle “Mémoires” di Marchetti l’io sognante si affida fiduciosamente al sogno (come in una seduta spiritica non troppo paurosa), perché solo così può instaurarsi un rapporto confidenziale con i morti (che appaiono in sogno come strani vivi o come vivi a metà) e con la morte stessa. Con il filtro del sogno la morte può addirittura diventare una festa:

sul vasto piano della massiccia

credenza Rinascimento fiorentino

lucida nera in sala da pranzo

posavano panini pizzette salatini

vol-au-vents. Li aveva procurati

Benedetta, dicevano,

ed era severamente proibito

allungare le mani anzitempo

II, XII, pag. 63

Il ritmo poetico si avvale dunque del sogno e viceversa: essi fanno un tutt’uno che diventa, quando il lettore è pronto a saltare su quel treno, un flusso omogeneo che equivale al racconto di un’intera vita e dunque all’affidamento benevolo (anche se sempre circostanziato e prudente) di tale vita ai lettori contemporanei e a quelli che verranno.

entrato di gran furia dal carraio

feci due giri del cortile, velocissimo,

quando, alzati gli occhi al terrazzo,

senza staccare le mani dal manubrio

vidi mia madre intenta a stendere

della biancheria. Come sempre provai

un forte brivido in quella circostanza

per la sua abitudine a sporgersi oltre

misura. E quella volta l’irreparabile trionfò:

perduto l’equilibrio, precipitò in cortile

avvolta nel lenzuolo che stendeva.

Ricordo solo il grido atroce e lacerante

che mi uscì dalla gola e l’impotenza

a scendere di sella e ad accostarmi

all’immoto viluppo silenzioso

III,VIII, pag. 95

Nel sogno di Marchetti, il ricordo è metabolizzato, smembrato e ricomposto in qualcosa che ci coinvolge, pur restando separato, al di fuori e al di là di una parete invisibile, che non è la membrana dell’occhio o del vetro, ma la percezione fisica, sottile e spaventosa, della separazione inesorabile che avviene, nella vita di ognuno, nel passaggio dell’addio, della partenza e della morte.

«sì» disse (in una stanza colore del vuoto e del dolore,

alla presenza di persone mute come fantasmi

diafani inconsistenti, ma forse non c’era

nessuno oltre me a raccogliere la voce)

«approfittàtene» (non disse così testualmente

ma il senso era questo) «sono io e sono tornato,

ma è per l’ultima volta e quando me ne andrò sarà

per sempre». Non disse nulla della sua nuova residenza,

ma l’aspetto lo sguardo la voce erano molto tristi: per via

della sua attuale condizione o per l’angoscia

di vederci e parlarci proprio per l’ultima volta?

Non lo sapemmo né allora né dopo

perché, fino ad oggi, ha mantenuto la parola

I, XVII, pag. 24

In molte delle poesie di questa raccolta il poeta Marchetti sembra viaggiare anche lui, come Giorgio Bassani, in una “Rolls Royce” che ripercorre la città (in questo caso Torino e non Ferrara) e rasenta i volti e le voci che furono vive nel presente della vera vita oramai lontana e perduta. Tutto ciò è vissuto come in uno stato di malattia e di consapevole diversità: la diversità di chi si trova già al di là della sottilissima membrana che protegge gli occhi, le orecchie, le mani e la stessa pelle come un “vestito” invisibile, che ci portiamo addosso e finisce per fondersi, nel corso del nostro invecchiare (senza mai diventare adulti), con il vestito di stoffa sgualcita della nostra “nonchalance” nonché della nostra “insouciance”, protettrice dei misteri più segreti.

mia madre mi telefonava

per avvertirmi che bisognava

sistemare le armi — ripulirle, riporle

o che so io. Di lì a poco salivo da lei

al quinto piano e trovavo le armi

in gran disordine, ogni tipo

di arma, antica e nuova,

in prevalenza pistole e rivoltelle,

ma non trovavo mia madre,

forse uscita nel mentre — sempre che

non avesse chiamato da altro luogo

Parerga, IV, pag. 130

Trovata questa chiave di lettura e scoperto che in questo libro essa è quasi una costante (ogni cosa avvenuta è perduta, anzi si allontana e si perde nell’attimo stesso il cui il poeta si sforza di ricordarla), il lettore si accorge che non è necessario, anzi, forse, sarebbe fuorviante, per esempio, dare eccessiva importanza alla chiave cronologica, nella lettura di questi frammenti (così densi, compiuti e “soli nella mente”).

già in automobile, mia dolcissima Elizabeth

(tu guidavi, io sedevo alla tua destra,

dietro di te c’era Vittorio ed al suo fianco

quel simpatico ragazzo americano),

ero sicuro che tu eri quella giusta

e che ti avrei adorato per la vita

Parerga, IX, pag. 135

La memoria del sogno è sì, molto spesso, il frutto o l’eco di avvenimenti più o meno traumatici o sconvolgenti, che “ritornano” in modo tanto perentorio quanto illusorio. Succede poi, a volte, che situazioni e personaggi “canonici” del nostro passato lontano (o lontanissimo) tornino insieme ad altri personaggi, del tutto estranei, affioranti di straforo, come altrettanti “imbucati”, da un passato vicino e più squisitamente “nostro”.

mia madre e sua sorella Matilde

parlavano della sorella minore defunta,

quel pomeriggio al ristorante, in tono

molto affettuoso ma anche assai oggettivo

(io mi chiedevo se avesse ancora un senso,

a conti fatti, quell’oggettività, considerando

l’infelice esistenza della morta,

ora semmai di fronte a ben più alto tribunale).

In un tavolo accanto, Ray Charles pranzava

con alcuni amici, mentre un registratore

trasmetteva molto forte senza sosta

brani del suo repertorio (morivo

dalla voglia di sapere quali cose

stesse ascoltando lui, nella sua cuffia)

III, XX, pag. 108

In ogni caso, per il lettore, ogni “evento” evocato è, inevitabilmente, fuori dal tempo, essendosi tra l’altro l’autore imposto di inscrivere i vari blocchi narrativi in modo “décalé” rispetto alle epoche della sua vita, che dunque raramente e solo in parte si possono legare a eventuali fatti precisi, se non agli accadimenti “esterni” nella Torino, Italia, Europa e mondo degli anni via via toccati:

in un clima festante (carnevale?

San Giovanni? uno scudetto del Torino?)

il piccolo corteo si snodava

lungo corso Regina Margherita

sui binari del tram verso il ponte sul Po,

entrambi i genitori, una sorella

della madre, il figlio (che chiudeva

la fila), tutti suonando, cantando,

ballando o reggendo in mano qualcosa –

all’imbocco del ponte si fermarono,

poi piegarono a destra, non passarono

il fiume, pur continuando a palesare

una perfetta condizione di letizia

III, XXXIII, pag. 123

Da un certo momento della lettura in poi, il lettore più appassionato comincia a provare la gradevole e un po’ inquietante sensazione di sognare la persona sognante e, via via, conoscerla in modo profondo ed esclusivo, come se il poeta Marchetti dedicasse intenzionalmente a lui soltanto, in un bar o in salotto, il racconto spesso minuzioso di “quello che è successo”, la descrizione viva di luoghi, personaggi, gioie inaspettate, traumi e sconvolgimenti che, attraverso il racconto stesso, diventano ricordo e sogno del ricordo. E non importa sapere se e in che misura colui che racconta sia stato attore unico o centrale o soltanto una figura coinvolta, “imbucata” in quello che si svela e poi sfuma.

non era mai successo, in tanti anni

di lavoro in comune e di amichevole

cameratismo, ma un pomeriggio ascoltando

musica del Sud-America (una bachianas

di Villa-Lobos, mica una lambada)

i loro visi si trovarono sempre

più vicini e le labbra finirono

per incontrarsi. Un bacio casto,

a dire il vero, quasi prudente, più affettuoso

che passionale, ma sempre un bacio.

Poi si recarono alla stazione

perché lei doveva partire e lui meditava

seriamente di prendere il treno con lei

III, XXI, pag. 109

Eros e Thanatos

Sta di fatto che rileggendo queste “Mémoires” — “viaggio di ritorno” in cui Dante e Virgilio si scambiano continuamente i ruoli — ci si accorge del peso addirittura schiacciante che hanno in esso le due grandi forze antagoniste che accompagnano, da svegli o da addormentati-sognanti, la nostra vicenda terrena: Eros e Thanatos. Con un paragone calcistico (pensando con Marchetti al Torino e non alla Juventus), potremmo dire che qui, in questo libro, la squadra del Thanatos è sempre all’attacco, anche se spesso “confusamente” e senza grande incisività. Di goal ne ha fatti già tanti, e per la sua indole e natura continua a imperversare, ma a volte sembra contentarsi soltanto di fare paura. D’altra parte, la squadra dell’Eros, tipicamente italiana, è molto ben attrezzata in difesa ed è imbattibile nel contropiede. La revanche amorosa, l’ebbrezza dell’incontro incredibile, paradossale e casuale, fa così da contrappeso sdrammatizzante a situazioni minacciose o ad incontri solenni con gli scomparsi (la madre, il padre, una zia, il padre di un amico, eccetera) e spesso l’incursione salvifica dell’eros è accompagnata da una folgorante comicità:

non era male come ospedale o clinica,

……

e l’evasione, propiziata da Giuliana (senza la quale

nulla avrei potuto), avvenne attraverso una finestra

con il solo pigiama addosso. Mi misi poi alla guida

di una spider e percorremmo tutto corso Raffaello

rispettosamente sulla destra ma correndo

all’indietro a gran velocità…

I,XVIII, pag. 25

C’è poi il filone  autobiografico, accuratamente nascosto tra le righe dei versi, in cui Marchetti — senza mai discostarsi dalla regola della “confusione”, rivendicata nel titolo, grazie alla quale nessuno può dire con assoluta sicurezza che è di lui che si parla, che è lui che parla di sé —, celebra, con la sua, la temeraria-saggia e ubbidiente giovinezza (unica e irripetibile) della sua/nostra generazione, con tutto il connesso travaglio psicologico, sentimentale, morale e (segretamente o palesemente) fisico che non fu esente da incertezze e sofferenze, ma anche da gioie totali e insperate. Dunque anche, inevitabilmente, dai contraccolpi delle separazioni e degli addii:

entrato furioso nel famoso caffè

….

…solo gli riuscì di intravedere

una folta chioma fulva («è lei, è lei!»)

in intimo colloquio con uno sconosciuto.

Non osò avvicinarsi, ma gridando

«è finita, adesso è davvero finita»

imboccava un corridoio interno del locale

percorrendolo tutto in una corsa esaltata

che sembrava non avere mai fine,

davvero non avere mai fine

III,III, pag. 89

Chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscere di persona Loris Maria Marchetti e di ascoltarlo raccontare con rabdomantica efficacia pezzi di vita sua e non sua, come se fossero aneddoti più verosimili che veri, lo ritrova senz’altro in questo stupore esistenziale, fanciullesco ed eterno (in cui ritrovo spesso la mia similare o identica esperienza): «Viviamo e soffriamo, ci troviamo coinvolti in azioni e situazioni a catena, che fummo, chi lo sa? magari noi stessi a determinare. Ma eravamo davvero noi, quelli?»

al Regio cercavo con inquietudine crescente

il mio posto numerato che sembrava non esistere

dissolto nella giungla delle poltrone rosse

tutte uguali, finché, riuscito a conquistare

un posto laterale di proscenio, ancora

in piedi mi misi a leggere il programma

…venendo subito

inquadrato da una telecamera: invano

con energici gesti mi sforzavo a far intendere

all’operatore che non ero io lo speaker

ufficiale da riprendere e da mandare in onda,

ma il regista stesso, materializzatosi d’incanto

non si sa da dove, gridava che non gliene fregava

niente, che andava benissimo chiunque leggesse

il programma ad alta voce (anche uno sconosciuto),

perché il concerto stava ormai iniziando

e non c’era tempo da perdere in quisquilie

II, XIV, pag. 65

Mi era, per finire, venuta un’idea che ho subito abbandonato, perché avrebbe travalicato il mio compito di lettore-osservatore: prendere un solo verso da ogni singolo componimento, e poi costruire con i 100 + 13 totali (di dantesca strutturale memoria, come si è detto), un poemetto fuori sacco, naturalmente diviso in quattro parti, in cui ri-raccontare il più fedelmente possibile lo straordinario poeta e amico Loris Maria Marchetti.

non c’era anima viva nei pressi

di Torino Esposizioni quel pomeriggio

torrido e desolato di primo agosto,

nemmeno un’auto, ad eccezione della sua,

unica in vista, la ruota posteriore

sinistra frantumata dopo l’urto

contro la sola palina esistente

nello spazio di centinaia di metri…

Tuttavia fece in tempo ugualmente

a consegnare a Stefano il manoscritto

del commento a Carducci, che lui

avrebbe letto con calma nel corso

del mese, tanto, quell’estate, non era

certo il caso di parlare di vacanze

II, XVII, pag. 68

Giovanni Merloni

Pasolini, poeta civile in rivolta

16 lundi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Alberto Moravia, Elsa Morante, Enzo Siciliano, Laura Betti, Pier Paolo Pasolini, Totò, Tullio Pericoli

Pier Paolo Pasolini (5.3.1922-2.11.1975), disegno di Claudia Patuzzi

Ripubblico oggi un articolo su Pier Paolo Pasolini che avevo pubblicato su « La faute à Diderot » nel novembre 2021.

Pasolini, poeta civile in rivolta

«…sono come un gatto bruciato vivo,

pestato dal copertone di un autotreno,


impiccato da ragazzi a un fico, 

ma ancora almeno con sei


delle sue sette vite,


come un serpe ridotto a poltiglia di sangue


un’anguilla mezza mangiata 

le guance cave sotto gli occhi abbattuti,


i capelli orrendamente diradati sul cranio


le braccia dimagrite come quelle di un bambino


un gatto che non crepa…

La morte non è
nel non poter comunicare

ma nel non poter più essere compresi.»

Pier Paolo Pasolini da “Poesie in forma di rosa”, 1964

Di Pasolini si continua a commentare la morte, più terribile della più terribile morte di un film americano di cattivo gusto. Una morte a maggior ragione impunita perché “girata” come in un film da gelidi orchestratori di assassinii di stato, di quelli che non si fermano davanti a nessun accorgimento, anche il più perverso, pur di depistare e nascondere la verità. «Non si ammazza un poeta!” ha urlato Elsa Morante nel triste pomeriggio del 5 novembre 1975, a Campo de’ fiori, la stessa piazza romana dove, 375 anni prima, Giordano Bruno fu bruciato vivo per eresia, mentre tutti avevano davanti agli occhi, in mezzo alle lagrime di sgomento e di rabbia, la scena presunta eppure convincente in cui un povero corpo era stato selvaggiamente finito, fingendo così, nello squallido paesaggio notturno dell’Idroscalo di Ostia, una morte “cercata” perché avvenuta in un contesto tipicamente pasoliniano, preso in prestito da uno dei suoi film: il primo, Accattone e l’ultimo, Salò.

«Pasolini fu un comunista eretico, che inseriva in permanenza, in ciò che tradizionalmente è chiamato “politica” (Stato o partiti), delle realtà apparentemente “non politiche: diversità, subcosciente, violenza, vita privata e pratica della scrittura, Una contraddizione ai suoi tempi intollerabile, che fa esplodere la politica, sovvertendone le norme e certe forme de militanza. Tale contraddizione suscita inevitabilmente violenze, processi, condanne, silenzi complici o imbarazzati. Pasolini ne è morto.» Christine Buci-Glucksmann, Pasolini, Gramsci, lettura di una marginalità in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pier Paolo Pasolini.

Se mi recassi oggi, in un giorno di mercato, in quello stesso Campo de’ Fiori, aggirandomi tra i rettangoli di luce o riparandomi all’ombra solenne della statua pensante di Giordano Bruno, troverei forse la chiave di un pensiero, riguardo a Pasolini, che mi porto dietro da tanto tempo. Questa chiave potrebbe essere quella della ineluttabile alternanza della luce e del buio; del bel tempo e della pioggia, del pianto e del riso, dei corsi e ricorsi storici, delle rotazioni e rivoluzioni dei corpi celesti. La stessa altalenante vicenda della nostra penisola è una storia di alti e bassi, di inesorabile alternanza tra fortuna e sfortuna, tra oblio e saggezza. No, decisamente, l’Italia di tutti gli ossimori e di tutte le possibili sfumature non potrà mai essere il paese dell’aurea mediocritas, a dispetto della sua millenaria civiltà fondata su un’idea pacifica e equilibrata dei rapporti umani e sociali. Se potessimo assistere ad una sequenza cinematografica al rallentatore dell’alterno destino del nostro sciagurato fortunato paese, vi troveremmo inscritte, con la loro frenetica intermittenza di luce e di ombra, l’opera e la vita di Pasolini. E capiremmo che anche la sua morte si inscrive nella fase buia della nostra esistenza comune, costituendo l’anticipazione emblematica delle tragedie successive, che furono ancora più gravi. Per questo, all’indomani della morte del poeta, non si sono voluti ascoltare né tantomeno capire i segnali di pericolo che Pasolini aveva lanciato in un crescendo spasmodico e coraggioso. Egli non si rivolgeva ai poteri palesi o occulti (del resto refrattari all’ascolto) che imponevano la rovina al paese, e nemmeno alle “mosche cocchiere della rivoluzione”, pronte a cercare nelle sue parole un incoraggiamento autorevole alle loro pericolose avventure, ma a tutti gli italiani che avevano a cuore la democrazia repubblicana e l’unità antifascista perché reagissero al più presto. In tutti questi anni di celebrazioni e scoperte pasoliniane, poi, quasi nulla si è fatto per riparare al danno arrecato alla sua memoria. Pasolini, insieme a Gramsci, aveva spesso parlato del “genocidio della lingua” operato con la mortificazione e marginalizzazione dei dialetti, immensa risorsa della nostra cultura vasta e articolata, perfettamente cosciente del fatto che anche la sua voce sarebbe stata messa a tacere. Non importa che si trattasse della sola voce o di una delle rare voci che aveva osato levarsi al di sopra del nostro italianissimo “parlarci addosso” (che tanto comodo fa ai potenti), il genocidio di quella voce e con esso dell’importanza della verità fu perpetrato e continua ad essere perpetrato nell’allegria generale… Tornando a Campo de’ fiori, questa piazza popolare di stampo veneziano che non smetterà mai di ricordare questi due eretici ribelli, Giordano Bruno e Pier Paolo Pasolini, mi viene in mente la prima condanna politica che Pasolini subì nel 1949 con l’espulsione dal partito comunista per indegnità morale: «Cogliamo l’occasione dei fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini di Casarsa — scrive il 26 ottobre la Federazione del PCI di Pordenone — per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche di personaggi come Gide, Sartre e poeti e letterati altrettanto decadenti, che pretendono di essere progressisti ma raccolgono in verità gli aspetti più deleteri della degenerazione borghese.»

Pasolini con Laura Betti e Alberto Moravia.

Certo, al di là delle conseguenze di questo provvedimento disciplinare, estremamente duro per Pasolini, costretto dall’oggi al domani a esiliarsi dal Friuli a Roma con sua madre, può essere utile inquadrare un atto simile nella mentalità assai stretta dell’epoca, fortemente condizionata, anche per i comunisti, dalla chiesa cattolica di Pio XII, un papa notoriamente reazionario: «…l’esperienza personale e politica di una irriducibile differenza produce un legame esplosivo in cui l’omosessualità, imbattendosi nella politica, la fa esplodere nel suo incosciente. Una sorta di ambivalenza iniziale e violenta. All’epoca, giovane dirigente della sezione comunista di Casarsa, in lotta per i contadini del Friuli, Pasolini ne fu cacciato per “indegnità morale” alla fine di un doppio processo: quello del tribunale e quello del suo partito. In questo periodo di guerra fredda, caratterizzato da uno stalinismo rigidamente moralista che se la prendeva con la “decadenza”, la “differenza” era considerata, come scriverà l’Unità, “una deviazione ideologica”. D’altronde l’esigenza di un radicamento “di massa” del PCI nella società civile e nella cultura non gli consentiva di andare “due passi avanti” rispetto alle masse e alla mentalità della maggioranza in fatto di moralità.» Christine Buci-Glucksmann, « Pasolini, Gramsci, lettura di una marginalità » in « Pasolini, Seminario » diretto da Maria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pasolini con Moravia da Rosati a piazza del Popolo.

Nonostante questa brusca condanna, cinica e vergognosa secondo la sensibilità di oggi, quest’uomo, meno tormentato che orgoglioso della sua diversità, non smise mai di considerarsi comunista e fu dunque in nome della sua formazione marxista e della sua fede nel partito di Togliatti e Gramsci che egli ne fu un critico sempre costruttivo e un importante alleato. Ma è stata molto più penosa e mortificante la lotta di resistenza di Pasolini contro la persecuzione cieca dello stato, e dell’amministrazione giudiziaria in particolare: un ciclo continuo di processi e di attacchi sulla stampa che è durato fino al giorno del suo assassinio. Anche in questo angoscioso terreno la sua lotta, lucida e coraggiosa, è sempre sfociata in atti pubblici dove l’uomo Pasolini, anche nel pieno della più profonda mortificazione, non rinunciava ad esprimersi appieno come poeta civile: «…sin dalle origini, poi sempre, Pasolini è stato quello che un tempo si chiamava un poeta civile. Poeta perché poeta e giustamente civile per la sua volontà costante di intervenire sulle cose e modificarle, fatto senza dubbio legato alla sua emarginazione iniziale, al suo stato originale, di nascita, al suo bisogno di stare in mezzo agli altri, di essere amato. Ma, naturalmente, il suo impulso fondamentale era quello di influire sugli altri, di orientarli in una certa direzione, di illuminarli e istruirli; Certo, di istruirli, perché non dobbiamo dimenticare che Pasolini era stato professore e, per lui, il lato didattico è molto importante. […] La grande originalità di Pasolini è stata proprio quella di essere un poeta civile di sinistra che non si riallacciava alla retorica dell’umanesimo, ma alla moderna poesia decadente europea…. C’era in lui la rivolta de l’uomo ai margini… e la sensibilità del mondo moderno.» Alberto Moravia, “Pasolini poeta civile », in « Pasolini, Seminario » diretto da Maria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pasolini calciatore.

Di quest’uomo gentile e buono si dirà ancora per molto tempo che era “strano” e che la sua dichiarata omosessualità, vissuta peraltro come una malattia e una insanabile mancanza, si traduceva in una visione del tutto personale, distorta e scandalosa della realtà. In verità, attraverso “l’altra realtà” che viene dal mondo talvolta atrocemente “reale” della periferia romana, poeticamente trasfigurata in una fiabesca metafora o in una dolorosa parabola, Pasolini ci offre una chiave per guardare in faccia la realtà che ci è propria, ci invita ad interrogarci sul senso ultimo e profondo della nostra esistenza. «Pasolini amava molto Rimbaud e, poi, ha visto in Rimbaud il poeta civile, ma di sinistra, a cui poteva rassomigliare …Rimbaud… oltre ad essere il poeta che fu, è stato il poeta della Comune di Parigi… un poeta in rivolta nella tradizione quasi del tutto criminale di Villon. Ed è proprio dalla strana simbiosi di un friulano e di un francese del nord, tutti e due ragazzi, che è nata la poesia civile di Pasolini, così originale e talmente attuale, che però, bisogna dirlo, stranamente si riallaccia al nostro più grande poeta dell’Ottocento, a Leopardi…» Alberto Moravia, “Pasolini poeta civile” in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pasolini e Totò sul set di « Uccellacci e uccellini »

Nessuno può dimenticare i suoi film e la forza evocativa del suo modo di sognare ad occhi aperti, lo sguardo di uccellaccio e di uccellino con cui Pasolini sapeva cogliere la vita delle cose e strapparla alla morte. Nessuno dimenticherà il suo grido di ragazzaccio irriverente ma a ben guardare affettuoso nei confronti dei tanti mondi che si barricavano nel loro imbarazzato silenzio pur di non ammettere le sue ragioni, pur di non ammettere che Pasolini aveva ragione. Lasciato fuori da tutte quelle porte, Pasolini non è però restato solo: da una parte, rinnegando le sue origini borghesi, egli si formò una vera e propria “famiglia” nl contesto delle “borgate” romane dove trovò anche la sua fondamentale fonte di ispirazione (tra gli altri con Sergio Citti [1933-2005], Franco Citti [1935-2016] e Ninetto Davoli [1948]); dall’altra, manteneva legami regolari, spesso molto amichevoli, con scrittori, poeti, registi, attori, giornalisti e critici letterari  (come Alberto Moravia [1907-1990], Attilio Bertolucci [1911-2000], Elsa Morante [1912-1985], Gianfranco Contini [1912-1990], Maria Antonietta Macciocchi [1922-2007], Francesco Rosi [1922-2015], Maria Callas [1923-1977], Paolo Volponi [1924-1994], Anna Magnani (1908-1973) Laura Betti [1927-2004], Enzo Siciliano [1934-2006], Dacia Maraini [1936], etc.). Tutto questo volume di gioco si tradusse per Pasolini in una “doppia vita” costellata di combattimenti interiori e di strappi dolorosi: «Lo so bene […] come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio.» Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Saggi sulla politica e la società, Mondadori, Milano 1999, p. 320.

Pier Paolo Pasolini, Autoportrait.

Dalla sua frequentazione dei mondi poveri, anzi miserabili ed emarginati della campagna friulana dell’immediato dopoguerra, poi delle “borgate” sottoproletarie romane, Pasolini ha tratto la sua visione primordiale, creativa e liberatrice, di un mondo epurato dove si poteva assaporare la vera “essenza” delle cose, mentre i centri intellettuali e borghesi — luogo ideale per le sue battaglie politiche e uscite pubbliche aventi nel PCI alternativamente un motore positivo o un bersaglio privilegiato — gli offrivano soprattutto uno spazio di riflessione e di razionalità. Queste due vite erano ambedue indispensabili per alimentare in Pasolini quella sua forza compulsiva in cui la ricerca continua e intrecciata del giusto e del bello approdava sempre, alla fine, a quella “bellezza della verità” (o “verità della bellezza”) che soltanto il genio è in grado di raggiungere. Come si può apprezzare nella seguente riflessione di Antonino Sorci sul tema della doppia vita di Pasolini e di Nietzsche: «Da Socrate a Walter Benjamin passando per Rosa Luxemburg, molti pensatori hanno pagato con la loro vita la scelta di non rinunciare alla propria libertà d’espressione, di fronte a un sistema che imponeva una visione del mondo unilaterale e totalizzante. Ma se si volesse ricercare, in mezzo a questi martiri, qualcuno che ha sacrificato non una ma due vite alla causa della conoscenza, non potrebbe evitare di citare i nomi di Friedrich Nietzsche e di Pier Paolo Pasolini. Questi due autori hanno concepito, più di altri, la contraddizione come un’arma per fare scandalo, per sovvertire i luoghi comuni, allo scopo di ritrovare un’autenticità nel loro modo di vivere. Il sacrificio di questi due pensatori assume un valore particolare, essendo l’espressione più efficace di una volontà di potenza che trova nella propria negazione la manifestazione della propria libertà.» Antonino Sorci, “Posture del pensatore inattuale alla ricerca dell’autenticità: l’esempio della doppia vita di Pasolini e di Nietzsche”, Università de la Sorbonne Nouvelle Paris 3

Pasolini e Laura Betti.

Ben prima dei “ragazzi di vita” e delle proficue amicizie intellettuali, vennero in soccorso di Pasolini Arthur Rimbaud e Antonio Gramsci e, dietro di loro, tutti coloro che non capivano tanta sordità, miopia, mancanza di fiuto, di gusto e di tatto nei Palazzi che si stavano sgretolando da soli davanti al suo sdegno meravigliato. Uno sdegno sì provocatorio, ma difficilmente riconducibile a una boutade, a un semplice gesto anticonformista o decadente Dedicherò uno dei prossimi articoli al rapporto ideale, assai fecondo e ravvicinato, tra Pasolini e la figura del grande capo comunista e pensatore che fu Antonio Gramsci. Quanto a Rimbaud — la cui “rêverie” agisce come una miccia esplosiva sul giovane Pasolini, facendo scattare in lui la ferma determinazione di divenire “poeta-vate” — «egli è stato il poeta della rivolta solo nella sua opera» scrive Albert Camus ne “L’Homme révolté” : «La grandezza di Rimbaud… esplode nell’istante in cui, fornendo alla rivolta il linguaggio più stranamente appropriato che essa abbia mai avuto, egli comunica nello stesso tempo: il suo trionfo e la sua angoscia; la vita assente rispetto al mondo e l’inevitabilità del mondo; il grido alla ricerca dell’impossibile e la vita ruvida nella stretta; il rifiuto della morale e la nostalgia irresistibile del dovere. [Questo avviene proprio]nel moment in cui, portando dentro di sé l’illuminazione e l’inferno, insultando e salutando la bellezza, [Rimbaud] fa d’una contraddizione irriducibile un canto doppio e alternato, egli è il poeta della rivolta, il più grande. […] Ma egli non è l’uomo-dio, l’esempio feroce, il monaco della poesia che hanno voluto presentarci… […] La sua vita, lungi dal legittimare il mito che ha suscitato, illustra soltanto… l’accettazione del peggior nichilismo che possa esistere. Rimbaud è stato deificato per aver rinunciato al proprio genio, come se questa rinuncia presupponesse una virtù sovrumana. Anche se ciò toglierà valore agli alibi dei nostri contemporanei, bisogna dire, invece, che soltanto il genio presuppone una virtù, mentre nella rinuncia al genio… [non c’è alcun merito].» Albert Camus, Surrealismo e Rivoluzione, ne L’Homme révolté, Quarto Gallimard 2013

Pasolini con Franco Citti e Anna Magnani.

Le parole di Camus a proposito del coraggio che ci si deve attendere dal genio, in questo caso il genio di Rimbaud, possono rappresentare efficacemente, opportunamente rivoltate, la concezione della poesia e dell’arte di Pasolini che per lui è, sempre, azione politica e culturale totale. Pur avendo manifestato, nell’impegno civile e politico, la coerenza e il coraggio che non ebbe il suo “amico” Rimbaud, Pasolini, in perfetta sintonia con Gramsci, non anelava ad essere un leader né un capo. Per questo decise di esprimersi artisticamente, poeticamente sul tema difficile e doloroso della nostra sfortunata e a volte meravigliosa realtà italiana. Quest’uomo che avrebbe potuto evadere da se stesso rifiutando le regole, quelle regole tenacemente le ricercava e non esitava a scontrarcisi. Francesco Rosi ha detto che Pasolini era un “uomo contro”. Furio Colombo ha detto che era un protagonista. Alberto Moravia, citando Rimbaud, ha detto che Pasolini era un poeta civile di sinistra. Camus avrebbe detto, se non fosse anche lui scomparso prematuramente, che Pasolini era un uomo in perenne rivolta la cui coerenza nell’impegno politico e culturale era molto più solida e affidabile di quella del più grande dei poeti maledetti.

«È un fatto che [Pasolini] viveva l’omosessualità come una malattia che lo separava dal mondo. Ma è anche un fatto ch’egli riuscì a trasformare questo sentimento della separazione e della differenza in una forza non soltanto morale, ma anche di conoscenza. […] Il fatto di essere o piuttosto di sentirsi separato alimentò nella sua immaginazione delle strategie obiettivanti, fece in modo che si decantassero dagli appesantimenti metaforici e intellettuali, per liberarsi di ossessioni soggettive; ma questa liberazione, in lui, fu dialettica. Pasolini non negò mai la radice individuale della sua scrittura, ma egli la colloca sempre all’interno di un contesto storico, all’interno di un giudizio complesso e articolato sulle vicende politiche e culturali della società italiana.» Enzo Siciliano, Pasolini non riconciliato in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Pier Paolo Pasolini.

Tra qualche mese, il 5 marzo 2022, per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini si svolgeranno, dappertutto in Europa, iniziative politico-culturali in cui la sua opera sarà certamente riletta alla luce dei 47 anni allora trascorsi dalla sua morte e di un cambiamento così profondo della società e degli uomini all’epoca della globalizzazione, che forse nemmeno Pasolini avrebbe potuto immaginare. Per tutti sarà evidente la contraddizione, ancora più dolorosa oggi; tra la forza espressiva e morale dei film di Pasolini, per esempio, forza che nasceva dalla povertà dei mezzi tecnici compensata dalla poesia e dall’ingegno e la banalità di gran parte di quello che si produce, spesso con dispendio di mezzi e di energie. Pasolini viveva nel rimpianto di un “paradiso perduto” di cui, nelle rare gioie dell’infanzia e dell’adolescenza aveva percepito la “bellezza tangibile” della vita, ora tutti noi rimpiangiamo il paradiso perduto che era Pasolini. «La confessione. Se si dovesse ricostituire i significati complessi che l’atto di confessarsi ha renduto espliciti nella tradizione cattolica, si dovrebbero evocare e immaginare le più atroci sofferenze dell’io. Nella confessione, è l’io coperto di piaghe, diviso, inginocchiato, cioè raccolto il più possibile su se stesso il più vicino possibile alla terra (e alla madre) che tenta, attraverso la prova atroce della verbalizzazione, di vincere la schizofrenia e di rimettere insieme le proprie membra sparse. C’è volontà di guarigione: perché il peccato è una malattia – una malattia molto particolare che si cura dichiarandola. Ebbene, perché non supporre nell’ansia di auto-svelamento che contrassegna tutta la produzione pasoliniana, in questa confessione reiterata, un’urgenza autentica, nient’affatto ambigua, di “salute”, di guarigione, di liberazione dalla malattia?» Enzo Siciliano, Pasolini non riconciliato in Pasolini, Seminario diretto daMaria Antonietta Macciocchi (Parigi, 10, 11 et 12 mai 1979), Grasset 1979.

Tullio Pericoli, Ritratto di Pier Paolo Pasolini (1990)

Insieme a molte altre possibili similitudini e coincidenze, questo aspetto della “confessione” apparenta Pasolini a un altro pensatore solitario, Jean-Jacques Rousseau, mentre per altri aspetti — come l’indipendenza del giudizio e il bisogno assoluto della verità, nonostante il vivo attaccamento ideale e morale al destino della sinistra in generale e del Partito comunista in particolare — Pasolini mostra delle impressionanti affinità con Albert Camus… Un confronto tra questi tre “geni in rivolta” sarà svolto in uno dei prossimi articoli. Intanto, a modo mio, parlerò anch’io di Pasolini: non per celebrarlo ma per capirlo. Nella consapevolezza che per parlare di Pasolini bisogna saperlo ascoltare, evitando di discostarsi troppo dal suo modo (metaforico, paradossale, esoterico e solenne) di introdurre temi e problemi. Quelle di Pasolini non sono mai fino in fondo delle storie: i luoghi e i personaggi interpretano quasi sempre una parte che non sembra essere la loro, provocando nello spettatore una serie di reazioni immediate che troveranno una composizione e una spiegazione solo alla fine del film del libro o della poesia. O anche ore e giorni dopo. Lo stesso avviene per gli scritti politici di Pasolini, corsari o luterani che siano: nonostante la forza dirompente e a volte esplosiva di ogni singolo passaggio, solo alla fine, chiudendo gli occhi, cominciamo a capire e a trattenere il senso del suo messaggio. Ora, oggi, le cose sono cambiate in maniera impressionante. Ma quello che conta, per salvarci, è l’essenza arcaica e addirittura preistorica dell’uomo: per questo Pasolini, come del resto tutti i grandi che sanno guardare oltre, è ancora presente tra noi. Non come un essere mitico o un padre, ma un fratello strano che pur avendo sempre ragione non ti fa sentire una nullità. Pasolini è particolarmente importante per la nostra generazione, per noi giovani o adulti comunisti che abbiamo vissuto dall’interno le dinamiche della grande trasformazione da Togliatti a Berlinguer e poi la lenta e inesorabile involuzione fino all’implosione finale: Pasolini, con il pungolo della sua voce inconfondibile e delle sue immagini forti, anche quando ci lanciava critiche feroci e spietate, ci è stato vicino molto di più di quanto lo siano stati i gruppettari più o meno estremi o compromessi con il “sistema”. Nell’Italietta “americanizzata” e disgraziata che non rispetta nessuno e non concepisce l’idea di un’opera complessa e polifonica, continuamente messa in discussione (come avrebbe voluto Trotski nella sua “rivoluzione permanente”?) perché via via arricchita dai contributi e dalle invenzioni, Pasolini ha saputo imporsi come protagonista, rivolgendosi singolarmente e personalmente ad ognuno dei suoi lettori o spettatori, un po’ come Garibaldi. Ciò che ci trasmette Pasolini, in particolare riguardo alla verità storica del suo tempo – molto importante e cruciale per la vita, parallela, della mia generazione – cattura sempre la mia attenzione con una violenza, certo disarmata, che mi costringe però a riflettere attentamente prima di proporre le mie sensazioni ed esperienze riguardo ai fatti, da me vissuti direttamente o indirettamente, che hanno spinto Pasolini a ricercarne la “vera” causa. D’altra parte, nella mia analisi delle “verità” di Pasolini non mi limiterò a ricordare quello che so oppure ho vissuto personalmente del suo/nostro tempo, ma farò riferimento anche a quello che è successo poi, in Italia e in Europa, fino ad oggi. Le verità di Pasolini sono ancora attuali e drammaticamente positive, non solo per noi, giovani comunisti squinternati di allora, sopravvissuti al 68, all’euforia delle Regioni rosse e infine alla tragedia delle strgi e degli anni di piombo. Resta il fatto che analizzare i grovigli, anche i più conosciuti, del pensiero politico di Pasolini non è affatto facile, non tanto in relazione alla vastità e ricchezza della sua opera multiforme, quanto piuttosto per la densità e la forza di ognuna delle sue immagini, di ognuno dei suoi versi, che trascinano di volta in volta sulla scena o nella mischia una nuova luce, una nuova voce, una nuova verità. Cercherò di farlo, nel modo più sintetico possibile, frugando tra gli scritti politici di Pasolini e ripercorrendo le sequenze di alcuni suoi film emblematici, già sapendo che dai suoi messaggi emergeranno assai raramente atteggiamenti dogmatici riconducibili a formule semplificate o a parole d’odine. Sarà comunque molto difficile se non impossibile “rispondere” a Pasolini o dialogare con lui su un piano di assoluta parità. Mi saranno allora di grande aiuto la complessità del suo linguaggio spezzato e quella indispensabile “presa di distanza” raccomandata con argomenti irrefutabili dal filosofo francese Jacques Derrida (1930-2004) : «…il miglior modo di essere fedeli a un’eredità, è quello di esserle infedeli. Nessuno deve ripetere come un pappagallo l’insegnamento del maestro. Bisogna sempre “smontare” ciò che si eredita per poter reinventare un pensiero che tenga conto del passato per meglio comprendere il futuro.» Élisabeth Roudinesco, “La déconstruction contre la tyrannie du dogme” sur “Le Monde” 19 mai 2021.

Giovanni Merloni, 24 giugno 2021

Testo originale IN FRANCESE

Confessioni di un bibliotecario n. 2

13 vendredi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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“La strana gioventù”

“Si dovrebbero cancellare dalla faccia della terra le differenze di classe e di condizioni, appianarle almeno nel nostro modo di pensare” (pag. 46)

Carissimo Marco, scusami innanzitutto se, lo so già prima di cominciare, non riuscirò a condensare le mie osservazioni e riflessioni in un unico ragionamento e, invece, magari ripetendomi, affronterò lo stesso argomento più volte, anche se da diversi punti di vista. E scusami quando, a un certo momento, mi fermerò, nella consapevolezza che non posso, né saprei, scrivere “un altro libro” per parlare del tuo.

Innanzitutto, un breve confronto tra i due “romanzi bibliotecari”: “Il bibliotecario di Marx” è forse più immediato e facile da leggere (e ricordare) nel suo insieme, mentre, forse, le parti per così dire teorico-scientifiche possono risultare, un po’ impegnative. Ne “La strana gioventù”, invece, si capisce tutto, laddove però l’intreccio dei fatti e dei rimandi è molto più ricco e dettagliato. Dunque, se questo secondo libro non è particolarmente impegnativo nel suo scorrere, è più difficile poi da ricordare bene nel suo insieme.

Tuttavia, chiuso il libro, il cervello del lettore si mette subito in moto ed è indotto a “continuare” il ragionamento di fondo che vi è sviluppato, a collegare tra loro le idee che vi sono esplicitate o accennate, mettendole in relazione, ognuno secondo le sue conooscenze ed esperienze, con la storia successiva a quella narrata, e rileggendone poi i valori e i principi alla luce dell’oggi.

Questo tuo immenso lavoro di ricostruzione storica, oltre ad essere una evidente e inattaccabile risposta ai negazionismi di ogni tempo e origine, è “architettato”, mi sembra, per un più vasto e nobile (e lodevole) fine politico, che via via può tradursi in una proposta chiara e luminosa. È un invito ad “agire ragionando”, a “fare”, fino in fondo, qualcosa di sinistra, senza mai discostarsi, tuttavia, dal questionamento continuo sul “che fare?”, che a sua volta non può prescindere dal “quando” e dal “come” fare.

Per tutti questi motivi, ed altri che dirò, “La strana gioventù”, che completa (ma forse non esaurisce) il grande affresco delle “Confessioni di un bibliotecario” (l’allusione al coevo “italiano-ottuagenario” di Ippolito Nievo è d’obbligo) è un romanzo indiscutibilmente interessante, utile e avvincente. Interessante e utile grazie alla efficace e coinvolgente ambientazione, per così dire “teatrale” (ma anche molto cinematografica), di due mondi — quello politico degli albori della Rivoluzione e quello letterario descritto da grandi classici come Gogol e Dostojevski — che si fondono in un unico universo “pietroburghese”, dove “risuscitano” uno per uno, insieme ai “veri luoghi” e alla “vera società”, soprattutto i “veri protagonisti” di una vitalissima cordata di “saggi-ribelli” che credettero e lottarono per un mondo migliore. « Il bibliotecario di Marx » diventa poi avvincente quando si comincia a venire a capo della concatenazione dei fatti e del tourbillon dei personaggi, tutti necessari e inseriti in un flusso narrativo perfettamente scandito; quando si comincia a percepirne il messaggio, via via più esplicito e « reale ». D’altra parte, il lettore ha l’impressione di partecipare all’appassionante “traversata” di Orazio Torriani non come “imbucato” ma come “accompagnatore autorizzato”; e quando — affacciato a una finestra della Biblioteca Nazionale sulla piazza del Collegio Romano (forse corrispondente proprio alla stanza dove lavorava mia zia Augusta, bibliotecaria, attendendo ad un misterioso B.O.M.S.) — il nostro protagonista-testimone evoca le prime bandiere rosse, che finalmente cominciano a sventolare per le vie di Leningrado (e poi in quelle di tutto il mondo), questo stesso lettore prova di nuovo l’emozione che lo sorprendeva durante le manifestazioni degli anni ’60 di cent’anni dopo, a cui accorreva insieme agli altri esponenti della nuova “strana gioventù” di cui faceva parte.

Il tuo è un “romanzo a tesi” e anche, in modo sano, “un “romanzo ideologico”, che si fa carico di rilanciare il dibattito sul comunismo – attualmente costretto a stare sulla difensiva, se non a languire in una posizione rinunciataria –, “ricominciando da tre”. Risalendo cioè a “prima dei danni” (e crimini) più evidenti, non solo per spiegare che il comunismo viene da lontano — e corrisponde alle giuste aspettative (economiche, sociali e culturali), perennemente insoddisfatte, delle popolazioni più svantaggiate oltreché dei proletari e degli sfruttati di tutte le latitudini — ma anche, soprattutto, per raccogliere e mettere in valore certe analisi fondamentali, insieme a certe soluzioni, ancora del tutto valide oggi, che non furono capite fino in fondo e/o furono seguite molto superficialmente o cinicamente messe da parte. Si può, dunque, “ricominciare da tre”. Chi sono questi tre? Da cosa si potrebbe “ricominciare”?

1_Dall’analisi di Marx, assolutamente attuale.

2_Dal “pacchetto” del “Che fare?” di Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij. Un pacchetto-vademecum assolutamente geniale, perché introduce, tra l’altro, in modo difficilmente contestabile, la centralità della “questione” femminile, che si pone come la principale “risorsa” strategica in vista dell’indispensabile “cambiamento” nella società e nei singoli rapporti umani.

3_Il “terzo” da cui si potrebbe-dovrebbe ripartire è, evidentemente, Antonio Gramsci. Sarà su di lui il tuo terzo libro?   

La tua è, dunque, un’opera aperta, come quelle di cui parlava Umberto Eco, maestro peraltro della trasformazione del saggio in romanzo e del romanzo in saggio e dunque apripista dell’interazione tra i due generi. Un’opera, la tua, che viaggia, giustamente, in netta controtendenza rispetto alla faciloneria e alla violenta ripetitività dei “best sellers mordi-e-fuggi” o dei pistolotti storici attuali. E si apprezza molto la lucidità e la pazienza con cui hai saputo mantenere il filo dell’attenzione pur nella complessità delle cose da dire.

Un romanzo come questo chiede dunque di essere studiato a fondo, costellato di appunti e di osservazioni. Dopo una prima lettura “senza la matita” (grave errore!) ne avevo iniziato una seconda, più sistematica, in vista di una esegesi approfondita e puntuale, seguendo l’itinerario dei successivi incontri, ambienti e personaggi — a cominciare dall’ex libreria Smirdin e dal Circolo degli Scacchi — di questa San Pietroburgo (che io continuo tra me e me a chiamare Leningrado), che tu attraversi e conosci come le tue tasche e dove solo gli abitanti dell’ex mondo sovietico possono calarsi (con il loro Google) alla riscoperta dei nomi delle vie e forse anche dei palazzi pubblici e dei negozi.

Ma a un certo punto mi sono fermato, decidendo di tenere per me il piacere di seguire liberamente le diverse suggestioni che via via mi sarebbero tornate da sole alla mente dopo la lettura, concedendomi divagazioni e tuffi “realistici e poetici” nel passato. Andando per esempio a cercare la corrispondenza dell’epoca della rivolta silenziosa di Pietroburgo con quella dell’impegno di Raffaele Merloni, il mio bisnonno romagnolo, al seguito di Garibaldi (all’epoca della terza guerra d’Indipendenza), e lasciando ad altri lettori il piacere di aggiungere a loro volta impressioni e riflessioni diverse dalle mie.

Passage a Pietroburgo

Anche perché gli spunti offerti dalla tua “strana gioventù” sono infiniti. Come quella frase a pag.443: “…Hai ragione. Pietroburgo e i primi anni Sessanta furono davvero un posto e un tempo molto speciali. Ricordo quelle notti – e quelle mattine, presto, molto presto -quando anziché tornare a casa, giravo senza meta per la città, sapendo che qualunque strada avessi imboccato, alla fine sarei comunque arrivato in un posto dove le persone, anche quelle che non conoscevo, erano ispirate e scatenate esattamente quanto me. Su questo, non c’erano dubbi: ovunque andassi vedevo gente come me. Questo era il movimento. C’era un’incredibile sensazione generale che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo… Questo era il punto: un senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio Mondo. Vittoria, ma non in senso militare: non ne avevamo bisogno! La nostra forza avrebbe prevalso. Semplicemente. Non aveva senso ingaggiare un duello tra la nostra parte e la loro. Tutto il potenziale, ce l’avevamo noi… Cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda…”

In ogni epoca, in ogni secolo, c’è sempre stato un momento di rottura, contrassegnato da una “strana gioventù”. Ci sono stati anche per noi, per esmpio, i “capelloni”, antesignani dei “sessantottini” e dei giovani del ’77 (da Guccini a Claudio Lolli…)

Tornando all’analisi storica e alla proposta politica implicita di questo libro, io trovo ineccepibili i filoni interpretativi (e le connesse associazioni di idee) che tu proponi. Cominciando dalla “contestualizzazione”, di cui abbiamo già parlato (tra la nascita del socialismo in Europa e in Russia e il Risorgimento in Italia), e dalla tua appassionata ricostruzione di quella straordinaria stagione rivoluzionaria e dei suoi protagonisti, tra cui Chernyshevskji, Dobroljubov, Nekrasov, eccetera. Io ci metterei la firma, se si decidesse di prendere questo esempio come punto di partenza per una discussione seria e approfondita nell’ambito della sinistra oggi.

Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij

Nello scegliere Chernyshevskji, un intellettuale onesto e culturalmente aperto al confronto, — un Antonio Gramsci russo —, tu prendi nettamente posizione per una visione politica unitaria e non settaria, ma non per questo meno rigorosa, del “mondo nuovo” di cui le nostre società hanno bisogno. Un mondo che per realizzarsi ha bisogno del “fare”, di un agire ragionato e tempestivo che, senza fughe in avanti, faccia progredire economicamente, socialmente e culturalmente ogni singola famiglia e società, nel rispetto delle esigenze insopprimibili della natura umana. Quando Chernyshevskji, nel sottolineare l’importanza del “fare”, parla dell’amore e della donna, anzi mette la donna e l’amore al centro di tutta la questione del vivere insieme, in società, egli traccia un confine invisibile, ma importantissimo, che non deve essere valicato, tra l’ambizione ideale, dirompente, prodigiosa e giusta di cambiare il mondo, che hanno questi “strani protorivoluzionari” e, appunto, il rispetto della donna e dell’uomo, a cui non si può chiedere di rinunciare al sacrosanto diritto alla felicità.

È fin troppo facile, col senno del poi, scoprire i momenti, nella storia dell’Unione sovietica, per esempio, in cui quasi tutti i precetti di Chernyshevskji sono stati ignorati o calpestati. Ma è ormai evidente che le idee più avanzate, gli ideali più giusti, devono sempre commisurarsi alla realtà dei rapporti umani, all’evoluzione delle singole società, alla loro capacità di prendere collettivamente le decisioni più eque e vantaggiose, in modo democratico, scegliendo i leaders giusti e controllandoli costantemente. L’aver assegnato a Vera Pavlovna il compito di rispondere, in modo esemplare, ad uno dei più pressanti “che fare?” — quello del lavoro affrancato dalle logiche dello sfruttamento — la dice lunga sulla lungimiranza e sull’apertura mentale di Chernyshevskji. Nel controbilanciare i rapporti (tuttora) esistenti tra uomo e donna nella famiglia e nella società, si attiva quella sana dialettica democratica di cui abbiamo tutti bisogno: “Lasciatele parlare, sentiamo che cosa hanno da dire e da proporre!” “Ma guarda, è interessante, non ci avevo pensato!”.

Il tuo libro, caro Marco, rimettendo un po’ di linfa marxista e sanamente rivoluzionaria nelle nostre vene ingombre di mostri, spinge a pensare, a ragionare, a ritrovare qua e là i vecchi e i nuovi compagni di una stagione ormai alle porte: la più disperata ma, forse, la più lucida. Ed ora la piccola sorpresa (per me). Qualche giorno fa, avevo appena finito di leggere “Una strana gioventù”, ma ero ancora incuriosito da questa parola-frase — “che fare?” — di cui avevo già letto e sentito parlare. Mi sono messo allora a cercare il libro di Chernyshevskij… e l’ho trovato, qui a casa mia! Forse non c’è libro importante o interessante che mia moglie Claudia non abbia portato da Roma a Parigi… Anche lei aveva, come te, la vocazione bibliotecaria!

La lettura di quel romanzo-lettera dal carcere del 1863 si integra bene con questa di oggi, anche se, nel mio caso, con una piccola frustrazione: nel mio “Che fare?”, edito da Garzanti nel 1973, manca la « Dama in nero » nonché l’emblematica gita delle due slitte! Ma forse non è una mancanza così grave. La storia di Vera Pavlovna — in cui l’Autore è sinceramente e fino in fondo dalla sua parte — è appassionante e piena di suspense, e dimostra che non si può fare la rivoluzione (ne alcunché) senza le donne, non solo perché non si può prescindere dall’amore (anzi ci si deve “fondare” su di esso), ma perché solo le donne — forse perché “costrette” dalla Natura a fare i figli e poi a doversene separare — sanno andare al di là delle diversità di classe e di mentalità.

Del resto «anche i cuori più infangati nel materialismo hanno i loro grandi ideali, e ciò prova che la spiegazione materialistica della vita è falsa o insufficiente». (“Che fare?”, pag 78)

Vera si chiede la prima volta “che fare?” (e come fare) quando deve assolutamente “uscire dal sotterraneo” che era la sua famiglia. La sua rottura, peraltro incruenta, della situazione di immobilismo e di conflittualità estrema in cui viveva, costituisce di certo, pensando alla Russia zarista, la metafora dell’atto rivoluzionario, necessario e ormai maturo mentre Chernyshevskij scrive. Ma poi, come per Vera che, liberata dal giogo familiare desidera organizzarsi una vita felice, la domanda si affaccia una seconda volta: “che fare? » Con ciò Chernyshevskij lancia un ammonimento: non bisogna rinunciare alla felicità. Perché, attenzione, non basta la rivoluzione di un giorno! Da quel momento in poi, ad ogni pié sospinto e con una terribile accelerazione, bisogna saper rispondere ad una serie incalzante di “che fare?” estremamente concreti che non si potranno eludere se non si vuole essere costretti a tornare indietro. Dovendo scrivere il suo fondamentale testo in prigione, Chernyshevskij è estremamente abile nel dire e non dire, nel far capire in modo indiretto, ammortizzando i passaggi più tragici della storia narrata per invitare il lettore a vederli e a viverli con più distacco. Con lo stesso distacco, ben dissimulato, l’autore aggira la censura imperiale, fornendo la terza risposta alla domanda sul “che fare?” che la vita impone a Vera in quel passaggio cruciale della sua esistenza: la base della sua emancipazione e della sua salvezza è l’officina di sartoria modello che Vera crea sotto forma cooperativa.

Sede del Circolo degli Scacchi a Pietroburgo

Caro Marco, il tuo libro mi è servito e lo conserverò in modo di poterlo facilmente ritrovare, per rileggerlo, studiarlo e parlarne con qualche amico parigino. Un abbraccio. Giovanni Merloni.

Marco Noccioli

(Confessioni di un bibliotecario n. 1: « Il bibliotecario di Marx »)

Confessioni di un bibliotecario n. 1

13 vendredi Juin 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Confessioni di un bibliotecario, Karl Marx, Londra XIX secolo, Marco Noccioli, Mazzini, Orazio Torriani, Repubblica Romana

Marco Noccioli, « Il bibliotecario di Marx », Edizioni Efesto 2022

Prima avvertenza: ho letto uno dopo l’altro i due primi romanzi di Marco Noccioli, (« Il bibliotecario di Marx » e « La strana gioventù »), constatandone la continuità e la coerenza, al di là dei diversi momenti storici e contesti socio-geografici in cui si collocano l’incontro londinese con Karl Marx (1857-58) e, quattro anni dopo, il primo sussulto rivoluzionario nella Russia zarista (1862). Il filo di continuità che lega molto strettamente i due romanzi è, certo, occasionato dalla presenza del giovane bibliotecario Orazio Torriani, testimone tutt’altro che neutrale, anzi appassionato degli avvenimenti narrati, ma c’è, nelle due letture, qualcos’altro, scritto in modo per così dire in modo subliminale (forse con l’inchiostro simpatico), che alla fine ci convince e ci autorizza a sperare che questi due libri facciano nascere, o, se si vuole, ri-nascere la volontà di credere in un mondo migliore. Perché i due libri sono perfettamente complementari: il primo ponendo, grazie ad un serrato tête-à-tête con Karl Marx le basi teoriche da cui è bandita ogni possibile indulgenza all’utopia; il secondo indicando, attraverso il “Che fare?” di Nikolaj Gavrilovich Chernyshevskij, le azioni concrete da perseguire se si vuole realizzare una società in cui il lavoro è affrancato dalla brutalità capitalistica e la donna è affrancata dalla concezione paternalistica e tribale del matrimonio. Perché, lucidamente, in questa appassionante sequenza, Marco Noccioli intende proporre – a coloro che non studiano più i sacri testi e ascoltano sempre meno i discorsi, del resto assai poco carismatici, degli attuali leaders della sinistra -, di fare un passo indietro, e di farlo servendosi della modalità del romanzo, ritenuto giustamente un veicolo più adatto per il recupero delle basi indispensabili (storiche, filosofiche, culturali, umane) e per trovare già in questo passato non così lontano, e così efficacemente ricostruito, una chiave politica e filosofica su cui ri-cominciare a ragionare e raccogliere gli apporti delle “future strane gioventù”. Non ha dunque senso parlare del “bibliotecario di Marx” senza parlare della “strana gioventù” e viceversa. (Mi trovo del resto nella situazione del tutto eccezionale di annoverare tra i miei amici, da anni ormai, qui in Francia, anche Valère Staraselski, uno scrittore comunista molto valido e seguito, che adotta da tempo, anche, lui, come Marco Noccioli, la « forma romanzo » per risuscitare la storia e per dibattere le tematiche politiche contemporanee.) 

Seconda avvertenza: circolano già alcune recensioni sui libri di Marco Noccioli che, nell’invitare gli italiani alla lettura, descrivono molto bene la struttura dei due romanzi, il ruolo dei relativi personaggi e la coerenza storica e filosofica del loro fondamento teorico e politico. Io, invece, non mi rivolgo tanto ai futuri lettori quanto a coloro che questi romanzi, come me, li hanno già letti, per avviare così, insieme a loro, un dibattito costruttivo con l’Autore e attirare poi l’attenzione di tutti coloro che, sinceramente e drammaticamente, si interrogano sull’attuale “che fare?” ma anche, in una situazione sociale ed economica nazionale e internazionale che non chiede altro, “come fare” ad affrancarci dalle « avversità » e ripristinare il clima ideale e l’azione politica collettiva conseguente per quel nuovo e urgente “che fare ora?” 

Terza avvertenza: il mio contributo consisterà in due lettere e non in due commenti distaccati e inevitabilmente freddi. Anche perché conosco Marco Noccioli da trent’anni e non riesco a trovare un altro modo di esprimere le mie osservazioni e riflessioni che quello di indirizzarmi direttamente a lui e, indirettamente, a tutti coloro che leggeranno i due libri con la mia stessa attenzione e passione. 

V0013519 The British Museum: the reading room under construction. Woo Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org The British Museum: the reading room under construction. Wood engraving by J. Brown after C. W. Sheeres, 1855. 1855 By: Charles William Sheeresafter: Sydney Smirke and John BrownPublished: – Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/

Dagherrotipo della Reading Room del British Museum in costruzione.

“Il bibliotecario di Marx”

Caro Marco, esprimerò le mie osservazioni sul “bibliotecario di Marx” un po’ liberamente, senza andare a riaprire il libro per trovare la pagina esatta dove tu avevi detto questa o quella cosa, né per sincerarmi di aver ricordato bene i fatti e i nomi dei personaggi. I piani del racconto (e della mia lettura) sono molteplici e, pur presentandosi in una mirabile sintesi, meritano di essere commentati man mano che mi tornano in mente. Dico “tornano in mente” perché, seguendo il consiglio che mi diede un dì mio nonno Alfredo Perna (che, come il tuo Orazio Torriani, s’intendeva di matematica e di calcolo differenziale), ho preso ormai l’abitudine di fissare nella memoria l’essenza di ogni libro subito dopo aver finito di leggerlo. Per così dire a occhi chiusi. Salvo poi ritornarci per una restituzione più fedele ed efficace. In questa lettura, inevitabilmente condizionata dalla conoscenza dell’autore, non ho avuto però nessuna difficoltà a calarmi nel racconto e via via appassionarmi alle vicende storiche rievocate e narrate, nonché al dibattito ideale, così approfondito, in cui si affaccia anche la questione dell’architettura e della città, nient’affatto secondaria quando la questione filosofica fondamentale è quella di decidere “cosa fare dell’utopia”.

Ma veniamo al libro. Il tuo « bibliotecario » mi è piaciuto moltissimo. È un romanzo che merita di circolare anche al di fuori dei confini, spesso distratti e fuorviati, della nostra pur amata Italia; un testo-outsider nell’ambito della letteratura storica e politica, che ha il pregio di essere anche un serio e meditato veicolo di discussione. Se non l’hai fatto, dovresti adoperarti seriamente per la sua pubblicazione in Inghilterra. Anche i francesi potrebbero essere interessati, ma sono assai capricciosi e forse meno liberi degli inglesi in queste cose. E poi, col tuo romanzo, tu fai un bellissimo omaggio alla Library del British Museum e dai prova di una profonda dimestichezza con la città di Londra e i suoi paesaggi urbani e suburbani.

D’altronde, con questo libro, tu coroni un sogno. Il sogno dei tanti e tanti, non solo filosofi, che pensano in cuor loro, in ogni parte del mondo, che Marx non è affatto morto, che anzi è doppiamente vivo in un’epoca in cui, dopo l’implosione catastrofica dell’utopia comunista nei paesi dell’Europa dell’Est – e l’inevitabile contraccolpo nel resto del mondo -, il capitalismo ricalca gli stessi metodi di sempre ed è diventato più aggressivo che mai. Il sogno dei tanti e tanti che avrebbero voluto incontrare il Moro, come tu lo chiami, e parlare con lui a tu per tu: facendo così un salutare ritorno alle origini, là dove “tutto è cominciato”, alla ricerca di un più preciso insegnamento, o piuttosto di una conferma di tante amare constatazioni e trovando infine la tanto attesa risposta: la lotta al capitalismo non può basarsi né tantomeno esaurirsi nell’utopia, ma deve scontare umilmente la diabolica e perversa capacità del capitalismo di riorganizzarsi su basi sempre nuove, come un virus dalle infinite varianti.

Disegno di Claudia Patuzzi

Quello che sta succedendo oggi, in Europa e nel mondo, corrisponde ancora, esattamente, riga per riga, passaggio per passaggio, a quello che Marx aveva previsto come logica conseguenza di un capitalismo che evolve continuamente “eppure non cambia”: la parabola del comunismo, dunque, non si è affatto conclusa. Ciò detto, l’insperato e prolungato colloquio tra il bibliotecario e il Dr. Marx non si limita a lanciare un sasso nella “piccionaia” degli affossatori del comunismo. In esso il passato-presente di allora e il futuro-presente di oggi non sono visti come un sogno, ma come un’ipotesi. In questa “ipotesi”, poi, se ne annida un’altra: quella di poter ritrovare i nostri padri della patria al di fuori degli schemi, delle frasi fatte e degli sterili determinismi dei libri di storia. Tu offri a tanti italiani – che considerano ancora Marx (come anche Freud) il caposaldo di una rottura culturale e direi morale ancora viva e assolutamente indispensabile – la possibilità di sentirsi “di casa” in mezzo ai membri della sua famiglia londinese, e fai vivere la realtà di 167 anni fa come se fosse quella di oggi. Raccogliendo « en passant » le osservazioni e i giudizi di Marx su Mazzini, sugli esuli italiani e dunque sul nostro Risorgimento: «…Ora anche il signor Mazzini non disdegna di indugiare sulle realtà sociali, sugli interessi delle diverse classi: è possibile che egli sia rimasto impressionato dal colpo vibrato al Secondo Impero dalle convulsioni commerciali che ebbero inizio a New York e poi fecero il giro del mondo. C’è soltanto da sperare che non voglia arrestarsi a questo punto e proceda a riformare tutto il suo catechismo politico alla luce della scienza economica…»

Una tale contestualizzazione, senz’altro più vera che veritiera, è rara, rarissima e rende il tuo libro meritevole di ulteriori, adeguati riconoscimenti. Ma oltre alla valorizzazione della contemporaneità tra Marx e Pisacane, tra Marx e Napoleone III, ecc., “Il bibliotecario di Marx” offre al lettore una seconda gradevole sensazione di contemporaneità, quando tu proietti nel mondo di oggi la Londra di metà Ottocento, che, in mezzo ai lavori della metropolitana, rinasce “più bella che pria”, molto più viva e vera della Londra imbalsamata dei nostri attuali, stereotipati viaggi organizzati. Un’altra caratteristica del tuo romanzo è quella di evitare di strutturarsi nella forma di una “intervista immaginaria”, che darebbe per scontata l’inavvicinabilità di Marx in quanto icona, alias figura imbalsamata dalla storia e dal tempo. Non assistiamo nemmeno, del resto, all’approccio di tipo personale-sentimentale del postino-apprendista-poeta con il “vero poeta” che fu Pablo Neruda. Né si assiste alla ricerca, nel Dr. Marx, di un padre o di un nonno mitizzato.

Partendo da queste prime osservazioni, per meglio comprendere la genesi di questo romanzo, ho cercato di individuare alcuni dei suoi punti di forza. Per ora me ne vengono in mente quattro.

Il primo è quello, già accennato, della contestualizzazione delle problematiche politiche e filosofiche del comunismo ascendente e delle sorti del Risorgimento nel decennio compreso tra la fine della Repubblica Romana e l’impresa dei Mille, con la lucida messa in evidenza dello scarto tra la maturazione filosofica e politica “internazionale” di Marx e il contemporaneo dibattito risorgimentale intorno all’idea di Repubblica (argomento quanto mai attuale nella Francia del 2025), che si palesa contraddittorio se solo si considera l’assoluta modernità della Costituzione romana del 1849 e le idee rigide e condizionanti di Giuseppe Mazzini.

Il secondo è il superamento del duo – e dello schema classico, spesso alterno e ambivalente, che si instaura tra “maître et valet”, “maestro e allievo”, “padre e figlio”, ecc. – attraverso la creazione di un terzo interlocutore di analogo peso e importanza. Infatti, il giovane Orazio Torriani, protagonista ed io narrante, per essere posto nella condizione “ottimale” (scusa il termine) per dialogare con Marx, aveva bisogno che quest’ultimo non fosse (troppo) più in alto di lui. Per il ruolo per così dire paterno, che esige rispetto, tu inserisci allora la figura del Direttore della library, Sir Anthony Panizzi: un italiano, anch’egli esule risorgimentale, autorevole ma non autoritario, che si è perfettamente mimetizzato nello stile inglese e sa intrattenere molto abilmente i propri segreti. Grazie a questo preventivo “spostamento dell’autorità”, da Marx a Sir Anthony, diventa possibile un dialogo “quasi alla pari” tra il bibliotecario e il Dr. Marx, che senza difficoltà, a questo punto, può essere riguardato come un fratello maggiore o uno zio disponibile e simpatico. 

Il terzo è nella necessaria autorevolezza dello stesso Orazio Torriani: un vero rivoluzionario (non proprio del tutto inventato se somiglia così tanto all’autore…), che lavora come bibliotecario alla Library della Londra in piena trasformazione urbana della metà dell’Ottocento, che, per farsi accettare e ben volere da Sir Anthony, si comporta alla stregua di un Archie Goodwin efficiente e sorridente, che non farà mai ombra al suo Nero Wolfe. Si scopre ben presto che Orazio non è affatto l’ultimo arrivato, un volonteroso e intelligente giovane bibliotecario dalla promettente carriera. Anche se lui non lo dirà mai, egli è un eroe, un patriota che ha avuto a che fare con Garibaldi, Carlo Pisacane, Felice Orsini e, naturalmente, sia pur mantenendo qualche distinguo, fa parte della costellazione degli esuli londinesi che direttamente o indirettamente fanno capo a Giuseppe Mazzini.

Ed ecco il quarto punto: grazie al suo lavoro alla Library e ai suoi brillanti studi di matematica, Orazio Torriani potrà essere utile a Karl Marx, frequentatore assiduo della sala di lettura, dove dispone del suo posto fisso (tavolo 7, fila G): egli darà delle “lezioni” al grande filosofo del Capitale e del Manifesto del comunismo. Da questo inedito e azzeccatissimo rapporto docente-discente, costantemente invertito, scaturisce uno degli aspetti della modernità-attualità del tuo libro e della sua assoluta originalità.

Pagina originale dei manoscritti matematici di Karl Marx

Nei cinque mesi della sua collaborazione con l’uomo geniale e carismatico, il bibliotecario dialoga intensamente con il Dr. Marx, diventando ben presto amico suo e di sua moglie Jenny. Pur seguendo il fondatore del comunismo in tutte le sue peripezie mentali – qualche rara volta un po’ faticose per il lettore come forse per lui stesso, Orazio riuscirà, alla fine, a spingere il confronto e il dialogo ben al di là di una semplice analisi e riflessione dottrinale, ottenendo da quella icona-fatta-uomo giudizi liberi e spregiudicati, che attraversano il tempo come lampi gettati sul nostro drammaticissimo presente. Incontri del genere avvengono spesso, in ogni tempo, nella vita reale: al di là della cortina della gloria e dell’autorevolezza delle loro grandi opere, i grandi uomini sono quasi sempre persone semplici, disponibili e socievoli. Ma tu hai osato far scendere Karl Marx « giù dal pero », come direbbero a Bologna. A te è riuscito, meglio che ad altri, il miracolo di rendere accessibile a tutti il profeta e padre del comunismo nel mondo.

Nel rivelarci un “Marx dal volto umano” (ti ricordi il “socialismo dl volto umano”?), lo stesso Orazio si umanizza, tanto che, alla fine, al compiersi del lungo soggiorno londinese, egli si confida, aprendosi all’amicizia con il lettore.  Dopo cinque mesi di confronto ravvicinato con quell’inimitabile maestro, Orazio decanterà e vincerà la frustrazione e il sentimento di sconfitta per la fine drammatica della Repubblica Romana; tornerà nella sua città con una nuova, più solida consapevolezza riguardo al significato e alle prospettive della “rivoluzione italiana” e della vera libertà; superando in cuor suo la concezione individualistica e “gruppettara” che aveva caratterizzato il primo Risorgimento. Egli diventerà per tutti noi un promotore e portavoce autorevole della necessità di una immensa opera collettiva, la sola possibile. Come gli aveva detto Sir Anthony nell’ultimo saluto: «per afferrare il cielo… bisogna essere in tanti e mettere ogni giorno un mattone sopra l’altro, senza sosta. Ognuno porta il suo mattone, più o meno grande, e chi è più anziano li dispone sapientemente, fino a che altri, i più giovani, un giorno, salendo quei gradini, possano arrivare agevolmente alla meta, senza rischiare di cadere nel vuoto».

Concludo questa mia nota con un aspetto, volutamente meno sviluppato in questo libro, ma certo importante: quello dell’amore. Ho molto apprezzato la tua maniera di raccontare, quasi solo alla fine, ed in modo sintetico e traslato, le vicende amorose che il tuo Orazio aveva così scrupolosamente vissuto in segreto, affidandone la rivelazione alle canzoni del cuore-e-della-lotta insieme a quelle, più esplicite, ma “in inglese”, di Leonard Cohen. È a questo punto che mi è venuto da dire, d’istinto, a voce alta, nel nostro dialetto romano: «Bravo, me sei piaciuto!», perché la confidenza intima del personaggio-io narrante, lungamente attesa, sfociava in una conclusione liberatrice, in cui la mente eccitata del “personaggio narrante” si fondeva finalmente col corpo e col cuore: Orazio Torriani si mostrava a tutto tondo, con la sua personalità di poeta rivoluzionario. Ma erano stati altrettanto liberatori e propizi alla lettura anche quegli squarci di aria e di luce che sprigionavano dalle passeggiate nei parchi londinesi e, in genere, tutte le “pause” in cui Orazio fa la spola tra i suoi primordiali punti di riferimento: prima Sir Anthony Panizzi e Karl Heinrich Marx, poi il vecchio libraio romano, ormai novantenne, che sembra avere per solo ultimo scopo quello di un simbolico passaggio di testimone, o più esattamente quello di essere testimone dello sbocciare in Orazio di una nuova vita, la terza dopo i venti mesi della Repubblica Romana e i cinque mesi condivisi con Marx. Ed è tanto straordinario quanto inaspettato il finale, con l’ultima immagine della Roma ritrovata: Orazio non ha nessuna fretta di riallacciare i fili di una nuova quotidianità familiare, ha bisogno, prima, subito, di ritornare nel punto in cui la sua prima vita si era bruscamente interrotta: un palcoscenico a ciel sereno dove si era fatta la storia, in cui nulla però gli sembrava cambiato: « quando lasciai la libreria sapevo che era arrivato il momento che aspettavo da tanto tempo: tornare lì dove tutto era cominciato. Oltrepassai Porta del Popolo e mi incamminai lungo la Flaminia fino al limitare del Tempietto di S. Andrea. Una leggera brezza stava mitigando un caldo asfissiante a cui non ero più abituato. Quasi nulla mi sembrò cambiato da quella mattina in cui avevo visto cadere i miei compagni del Battaglione Universitario. Mi accostai ad un rudere romano, coperto di sterpi, decisamente meno nobile e imponente di quella colonna rosa che mi era apparsa in sogno qualche mese prima. Ma era quello il posto. Senza dubbio. «Eccomi fratelli. Sono tornato.» »

Caricatura di Honoré de Balzac esposta al Grand Palais, Parigi, 2016

Infine, caro Balzac, quello che fai dire ad Orazio a proposito della scrittura mi sembra estremamente coerente con tutto ciò che ti caratterizza e hai saputo costruire in modo veramente originale: «…Più leggo storie e più mi immagino di partire da lì per scrivere io nuove avventure, incastrando il mio di personaggio nelle pieghe della vita dei personaggi degli altri e aggiungendo quei particolari che creano un nuovo punto di vista, una contraddizione nella storia. Sono convinto che la contraddizione è spesso la più limpida forma di verità… [perché] ogni testo può essere letto come un mosaico di citazioni di altri testi, una mescolanza foriera di nuove assonanze. In questo modo, ogni testo nuovo è sia assorbimento sia trasformazione di altri testi ad esso preesistenti. E in questa operazione di riuso, le parole fatalmente diventano ambigue, ambivalenti, perché accanto al vecchio significato ne emerge sempre anche uno nuovo. L’intera opera è ambigua.»

Potrei continuare a scrivere, seguendo le altre tante suggestioni che questo tuo libro “bello e giusto” inanella, o magari sforzandomi di addentrarmi nei complessi ragionamenti sul plusvalore o sul “town design”… Mi piacerebbe avere la capacità, in particolare, di sviluppare un ragionamento sull’accresciuto ruolo della tecnologia e, in particolare, sul potere totalitario della tecnologia informatica nel Capitale dei tempi nostri. Mi ricordo che Renato Nicolini, in una relazione che fece per l’esame di Tecnica delle costruzioni, testo che passò di mano in mano per essere copiato, a volte di sana pianta, parlava molto efficacemente della tecnologia come una “ancella zelante” del capitalismo. Oggi, altro che “ancella”! Con un noto titolo teatrale si potrebbe ribattezzarla “La serva padrona”!

“Tutto ciò premesso e considerato”, come si diceva nei polverosi pareri di una gloriosa e obsoleta urbanistica comunale valutata “a spanna”, il tuo libro va bel al di là di quello che io ho potuto rappresentare: esso è talmente ricco, elegante e leggero anche nei suoi passaggi più “ponderosi”, che in un certo senso non è raccontabile e non può essere dunque colto in tutto il suo fascino al di fuori di un’adeguata e ripetuta lettura. A te, caro amico, i miei complimenti entusiastici e sinceri. Oltre ai tanti meriti che ti conoscevo e riconoscevo, e a quelli che rivela in gran quantità questo tuo romanzo, ce n’è uno che mi colpisce in particolare: la tua straordinaria pazienza, tenacia e determinazione nel costruire, pezzo pezzo, quasi di nascosto, come un vero rivoluzionario, questo perfetto mosaico, senza avere fretta, si direbbe, di rivelare in anticipo anche una sola delle sue tessere… e poi avere-trovare, al momento del “déclic”, la forza, la freschezza del gesto, la capacità di trasformare il castello di sabbia (e di rabbia) in un mondo dove scorre il fiume palpitante della vita. Un caro abbraccio Giovanni Merloni.

Marco Noccioli

(Confessioni di un bibliotecario n. 2: « Una strana gioventù »)

 

Il pericolo viene da Kafka

01 dimanche Juin 2025

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Giuseppe Neri

“Il pericolo viene da Kafka”, libro di cui Francesco Neri trovò il manoscritto in bella evidenza sulla scrivania del padre dopo la sua morte, rispecchia in ogni suo passaggio la personalità e la “misurata complessità” del suo Autore. E anche, in filigrana, l’epoca, anzi le epoche che i diciannove racconti evocano e illustrano: altrettante fasi, spesso cruciali, della vita reale di Giuseppe Neri (da tutti conosciuto come Peppino).

Volutamente, in questi diciannove “momenti esemplari”, e in qualche modo didascalici di un’epoca oramai al tramonto, l’Autore non dice mai tutto, non spiega, preferendo lasciare il lettore libero di scorrazzare sulla pagina e fornendogli soltanto qualche breve raccomandazione e istruzione perché eviti di smarrirsi. La prima sensazione che vuole darci, infatti, è quella di “leggere con lui” un libro che parla di altri da lui, ma anche quella di offrirci un testo dove potremo anche incontrare, tra le righe, le voci di coloro a cui vanno le sue più sentite predilezioni: un parallelo invito alla lettura di Kafka, Musil, Joyce, Giuseppe Berto, Carlo Levi e magari, implicitamente, anche Borges o Bulgakov: veri e propri amici e compagni di strada che Neri chiama a testimoni delle proprie divagazioni e illuminazioni poetiche.

Questo suo desiderio di condivisione di una propria “passione dominante” è in ogni caso rigorosamente irregimentato in uno stile di racconto e di vita dove la sua naturale, inconfondibile riservatezza si traduce sempre nella fissazione di un limite e di un filtro. C’è un grande pudore nell’opera di Peppino Neri e nella sua stessa persona, che scaturisce dal pudore-orgoglio della dura e nobile lotta esistenziale da lui sostenuta per il progressivo affrancamento dalle condizioni di abbandono e di isolamento culturale subite nella prima parte della sua vita, legate soprattutto alla terra — una zona interna della Ciociaria — in cui nacque, nel 1936, in pieno ventennio fascista. Ma Neri non è un « self made man” come tanti altri, magari emigrati in America per farvi fortuna (tra cui si annoverano tra l’altro alcuni suoi mitici zii e cugini). Giovanissimo, a metà degli anni Cinquanta, Neri si trasferì nella Capitale dove poté assumere, sin dai primi giorni, e poi sempre più validamente e intensamente, un riconosciuto e apprezzato ruolo centrale nell’immenso lavoro di svecchiamento e di diffusione intelligente e meditata dei valori che la letteratura italiana e straniera potevano veicolare, rendendo gli italiani più civili e aperti al nuovo. Tanto più prodigioso fu questo lavoro quanto più riservato, disinteressato e in fin dei conti umile era il modo con cui Neri si poneva e proponeva le sue invenzioni e scoperte.

Tanto riservato da diventare quasi ostile agli elogi e alle critiche positive del suo operato e dei suoi libri. A me capitò, per esempio, di non avere risposta al mio entusiastico e convinto commento al suo “Sole dell’avvenire”, perché, evidentemente, lo avevo messo in imbarazzo se non addirittura infastidito.

Venendo più specificatamente a “Il pericolo viene da Kafka”, corre l’obbligo di aggiungere che in Peppino Neri albergava un’altra passione, anch’essa dominante, quella della politica, nel senso più nobile ed elevato del termine. Accanto alla necessaria rivendicazione delle sofferenze patite dai popoli, e delle lotte non sempre vittoriose per affrancarsene — che anche in questo ultimo libro ispirano a Neri alcune pagine scultoree e asciutte dedicate alla sua Colleforte d’origine (Sant’Apollinare, in provincia di Frosinone), prima e durante la Seconda guerra mondiale —, l’Autore collega l’amaro paradosso degli “eterni traditi e sconfitti del sud” ai personaggi senza patria di Kafka, Bulgakov e Musil (che quasi si divertono nel constatare l’ineluttabilità della loro condizione di perdenti), aprendo così uno squarcio sulle gravi e non risolte contraddizioni del nostro accidentato dopoguerra e del nostro tipicamente italiano dramma esistenziale.

«Evitate di leggere Kafka…», consiglia Neri a tutti coloro che, prigionieri della società dei consumi e di un modello di vita estremamente frustrante come quello americano, non possono rinunciare ai nuovi mulini a vento prodotti dal dio denaro e alle relative catastrofi: “Voi direte: cosa c’entra lo scrittore praghese [Kafka] con l’imprevedibile, misteriosa, enigmatica avventura del successo? Io sono convinto che c’entri. […] Che cos’è il successo? Lo so che ci si sono provati in molti, sociologi, psicologi, mass-mediologi, fior di professori a rispondere a questo interrogativo e tutti hanno elaborato dotte e complicate teorie, hanno avanzato acute e sottili ipotesi. Anch’io — scusate la modestia — ho la mia piccola teoria in proposito. Il successo, per me, è il coraggio della banalità. Il successo poggia sulla protervia del luogo comune, sull’assenza di ogni problematicità…” (pag. 63)

Questo argomento è via via sviscerato o soltanto evocato con un’eleganza e una leggerezza estrema, mentre i personaggi dei diversi racconti, incapsulati come sono nel loro limitato destino, subiscono in silenzio e nella più terribile solitudine le assurdità del mondo.

Peppino Neri (Formia, primi anni 2000)

Sei racconti della raccolta (“Gli asini”, “Il sacrificio”, “Il predicatore”, “Il disfattista”, “Il discorso” e “L’odore della letteratura”) sono ambientati a Colleforte. Tutti e sei trascinano il lettore nell’atmosfera speciale di un ricordo lucido, appassionato e quasi pudico: si direbbe lo sguardo di un bambino ed è probabilmente sulla base dei suoi ricordi d’infanzia e d’adolescenza che Neri ha rivissuto questi episodi strani o magici, misteriosi o scandalosi, eroici o ridicoli, lasciando peraltro trasparire in essi i parametri di interpretazione dei fenomeni che erano tipici di quella collettività arcaica, posta ai margini della cosiddetta civiltà.

Il racconto più personale, da riconnettere però ad uno sguardo più adulto, è “L’odore della letteratura”, in cui un giovane intelligente e curioso scopre la lettura grazie ai vecchi giornali con cui il pescivendolo ambulante incartava il suo pesce non sempre freschissimo: “Da allora, Ettore, associa la letteratura a quell’inconfondibile odore. Ma se all’origine questa percezione era legata solo a ragioni per così dire olfattive, in seguito, quando anche lui incominciò a sperimentare la fatica e l’aspra felicità di dar corpo ai fantasmi della mente, di rendere credibili, con le parole, le azioni di personaggi inventati, si rese conto che lo scrittore, e dunque la letteratura, non fa altro, e i grandi della letteratura altro non hanno fatto, che dannarsi su due grandi temi: la vita e la morte”. (pagg. 104-105)

Un racconto-ponte tra due epoche lontanissime e inconfrontabili tra loro è “Il Natale del clochard” dove il mendicante di nome Nazareno, nel pieno della sua solitaria e disperata “riappropriazione proletaria” in un supermercato romano, cede per un attimo al terribile ricordo della tragedia personale e familiare, ai tempi della Seconda Guerra mondiale, che condivise con un gruppo di compaesani di Colleforte e probabilmente lo segnò indelebilmente: “Gli abitanti del paese avevano abbandonato le loro case e si erano rifugiati, nell’illusione di scampare ai perigliosi agguati, alle mortali insidie della furia bellica, ai tuoni, agli scoppi, alle deflagrazioni di proiettili, granate, bombarde che presero a grandinare all’improvviso e con cieca e ostinata determinazione nella vasta e attonita piana, gli abitanti di quel piccolo paese in terra di Ciociaria, avevano cercato riparo sulle colline di tufo che s’incurvavano a semicerchio sugli sconfinati spazi della valle. Laggiù, oltre l’orizzonte, c’era Cassino dove, da mesi, il fronte si era impantanato e la morte vi celebrava quotidianamente i suoi fasti. (pag. 20)[…] Lì, nel suo giaciglio di cartone, ricorda ancora, con crescente angoscia, il suo sbigottito stupore di fronte a quel paesaggio che solo poco prima era vivo di voci, di svolazzi e di suoni ed ora mostrava le devastazioni, lo sconquasso, lo scempio di una violenza di cui la sua mente non riusciva a trovare una spiegazione. Un gioco assurdo e crudele gli sembrava, come quello di certi bambini che si divertono a mozzare la coda alle lucertole. E incomprensibile gli risultava la lamentazione dei grandi: «È la guerra, la cagione di tutto questo lutto!» E che cos’è la guerra? E perché la guerra? si domandava allora nel suo offeso candore e continua a chiederselo anche adesso, nel buio del suo giaciglio. Certo, oggi gli verrebbe facile rispondersi che è una follia, una pura semplice follia, alimentata dagli egoismi degli uomini, sobillata dalla cupidigia delle nazioni. Ma allora? Allora non era facile capire e quello spettacolo di morte gli si impresse, come un marchio a fuoco, nelle cellule più riposte. Lo segnò nel profondo. No, non vuole accampare alibi al naufragio successivo della sua esistenza, altre furono le cause e queste sono seppellite o, forse, addirittura abrase dalla sua memoria e nessuno mai le conoscerà.” (pag. 22)

Peppino e Francesca Neri

Ma di racconti consacrati al sud ce ne sono altri quattro, di cui due ambientati a Formia, luogo ben conosciuto, dove Peppino Neri aveva preso una casa con la giovanissima moglie Francesca, e dove essi si recarono, immancabilmente, tutte le estati.

Ne “La bella Napoli” — il racconto più vicino alla nostra sciagurata attualità —, si avverte una punta di amarezza e sottile fastidio di fronte al “cambiamento epocale” che insieme al protagonista, Neri osserva in un gruppo di chiassosi villeggianti napoletani: “No, davvero non era possibile. Manù, Deborah, Marlena, Azzurra, ma anche Maristella, Gabri e perfino Noemi, per non dire dei nomi dei maschietti, nomi doppi, ricercati, inusuali, che ricordavano quelli di certi personaggi di Totò nei ruoli del blasonato decaduto. Giacomo Nervini non riusciva a capacitarsi. Dove erano finiti i nomi di tutti quei frignanti piccirilli delle estati precedenti, Gennarino, Ciro, Pasquale, Immatella, Assuntina, Nunziatella, Concettina? Perché, nel giro di pochi anni, nei rioni napoletani, si era verificata questa mutazione onomastica? […] Era soltanto un effetto — quello più immediato ed epidermico — delle troppe telenovele trasmesse dalla televisione, oppure derivava dal fastidio, dall’uggia, dal disagio, avvertiti maggiormente dai più giovani, di essere considerati sempre e soltanto i figli di Pulcinella?” (pag. 11)

Ne “L’ultimo giorno delle vacanze” Neri si cala, con sincera e poetica nostalgia, nella “prima storia d’amore”, corroborata dal “leitmotiv” chagalliano di un onnipresente costume bianco: “Un giorno che il sole era già alto e dalla sabbia si sprigionavano vampe di fuoco la vide dirigersi verso il mare e istintivamente si mosse anche lui in quella direzione. Si teneva a una certa distanza, facendo attenzione però a non perderla di vista e in questo era facilitato dalla macchia bianca del suo costume che si segnalava come un richiamo. Ma mano a mano che Mila s’inoltrava nell’acqua il rischio che si confondesse con gli altri bagnanti diventava sempre più probabile, anzi ci fu un momento in cui, ostacolato da un nugolo di bambocci, di pargoli, di citti, di mammoli, insomma di bimbi che acciambellati a paperi, avvinghiati a canotti, avviluppati a salvagenti, aggrappati a plastificati coccodrilli e ad altri galleggianti di varie fogge si schizzavano, si spruzzavano, sciaguattavano in un clamore di voci e gridolini e scoppiettii di riso, in quel momento Daniele credette davvero di averla persa di vista e quando già l’ansia lo stava proditoriamente acciuffando ecco che si rese nuovamente visibile il bianco richiamo del suo costume e allora non ebbe più esitazione. Si tuffò e aggirando la fanciullesca gazzarra, si avvicinò alla ragazza che, con agili bracciate, si dirigeva verso gli scogli”. (pagg. 51-52)

In “Una sera d’estate con Luca Marano” assistiamo al trascinante racconto dell’incontro di Peppino Neri con un “eroe molisano”, vittima del fascismo nascente: “Non era un violento Luca Marano, era invece un candido e aveva fiducia nel prossimo e ancora non sapeva che, a volte, nel cuore degli uomini si annida l’inganno e alla lealtà si può rispondere con il raggiro. E quando lo capì, quando capì che nel petto di donna Laura, avvenente proprietaria terriera, sventolava lo stendardo della falsità e che questa femmina bella e ingannatrice non si faceva scrupoli di barattare il destino di molte famiglie contadine con una manciata di banconote, era ormai troppo tardi. Si agitò Luca, corse per vicoli, entrò ed uscì da molte casupole, supplicò molte persone, s’intrattenne con i contadini e poi, con una schiera di disperati, si precipitò sulle terre del Sacramento, dove erano ad attenderlo i fucili dei fascisti. […] Ma quel sangue versato sulle terre del Sacramento si levò come una bandiera ad indicare, alle generazioni future, la strada del riscatto e della libertà”. (pag. 62)

Un lettore attento, che rileggesse almeno una volta questo racconto e lo confrontasse con l’insieme della raccolta, si accorgerebbe che solo in un contesto “eroico” e fuori dal tempo come questo Peppino Neri poteva lasciarsi andare a una espressione come “si levò come una bandiera ad indicare, alle generazioni future, la strada del riscatto e della libertà”. Tutto il resto del libro, infatti, ci trasmette un profondo senso di amarezza davanti al constatato riflusso dei valori fondatori della nostra democrazia repubblicana, in cui si sta peraltro inserendo una nuova ancor più minacciosa onda di buio. Quel racconto, infatti è del tutto “inventato”: “Già, perché dimenticavo di dire che Luca è un personaggio di carta, fatto di parole, anche se è più vivo di un uomo vivo, un personaggio che abita le pagine del romanzo di Francesco Jovine, scrittore di Guardialfiera, Campobasso.” (pag. 62)

In “Un viaggio”, Neri immagina invece un durissimo e lunghissimo viaggio contemporaneo, in treno — forse sognato, certo desiderato, malgrado la scomodità —, da Napoli Centrale a Capo Vaticano: un omaggio a Giuseppe Berto che ne fu lo scopritore ma anche, soprattutto, un tuffo all’indietro verso un luogo del “suo sud” che la memoria si ostinava a volere “ancora intatto e selvaggio” (pag. 90).

Peppino Neri (Formia, primi anni 2000)

Tra i restanti otto racconti, che si svolgono in una “grande città” che è senza dubbio Roma, ce n’è un altro (“La morte del campione”) in cui si fa ancora riferimento ad un abitante di Colleforte che, insieme ad altri compaesani emigrati, era riuscito a sottrarsi alla miseria e aveva trovato in America un effimero “trionfo”. È la dolorosa e infine tragica parabola di un ex pugile, “Faccia d’angelo”, considerato invincibile fino al giorno in cui la sua vita cambiò di nuovo… Lo vediamo ora aggirarsi in mezzo ad una strana nebbia, del tutto inabituale per quella città: “In quel silenzio vertiginoso, lo scalpiccio dei suoi passi, uno scalpiccio sonoro, come se i suoi piedi urtassero qualcosa di ferrigno, le rotaie, i binari della strada ferrata, riecheggiava irreale e sinistro. Ma ben presto quel tonfare di passi fu soverchiato da un vocio confuso e indistinto che, avvicinandosi, si gonfiò in uno strepito di urla eccitate e poi esplose in un coro d’incitamenti, di esortazioni a resistere alla furia belluina, agli assalti forsennati del suo avversario, lo vede Toro scatenato, massiccio e ringhioso sul ring del Madison, che avanza con fredda determinazione, con implacabile risolutezza, svelto ad eludere le sue eleganti schermaglie e stringerlo di colpo nella rovinosa morsa dei corpo a corpo. I suoi sostenitori, vedendolo in difficoltà, continuano a incoraggiarlo, a spronarlo a gran voce, anche i secondi da bordo-ring gli urlano qualcosa che però non riesce a decifrare, intento com’è a contenere gli attacchi ininterrotti, prolungati, portati con calma furiosa, con bellicosa imperturbabilità da Toro scatenato che ormai incombe gigantesco, mostruoso, in quel mare di nebbia e quello che sente non è il suono del gong, ma il fischio lacerante del treno, lo stridore disperato dei freni, inutilmente azionati dal macchinista appena si accorse di quella sagoma scura, ferma sui binari” (pagg. 39-40). “Faccia d’angelo” è il prototipo del “looser”, del perdente, che ritroviamo, in diverse dosi, anche in altri personaggi. Non si tratta in genere di veri perdenti, ma di uomini e donne che hanno subito comunque un “vulnus” che riaffiora sempre, inesorabile, scompaginando il precario equilibrio delle loro esistenze.

Una situazione opposta a quella del vecchio pugile la ritroviamo ne “Il figurante”, la storia della fine paradossale di un attore tanto volenteroso quanto sfortunato, la cui vita è costellata di frustrazioni e di bocconi amari, ed è drammaticamente sanzionata, alla fine, da un “volo” spettacolare e del tutto inaspettato: “La morte, persino la morte ha voluto defraudare il vecchio figurante”. (pag. 82)

Il tema della “prova” da cui può dipendere tutta una vita, si sviluppa ancora, in modo sempre più articolato e approfondito, in altri due racconti esemplari di Peppino Neri:

In “Molly, oh cara”, straordinario omaggio all’”Ulisse” di Joyce, il lettore può seguire da vicino gli alti e bassi, i crolli annunciati, le riprese improvvise e l’inspiegabile fluidità che succede al momentaneo mutismo di un’attrice che “vive” il personaggio di Molly Bloom ed anzi “presta” a quell’inafferrabile e soprannaturale personaggio il fatto di essere, lei stessa, una Molly Bloom altrettanto spavalda, infelice e ostinata donna che mai si darà per vinta. “Le parole che uscivano ormai incrinate, strozzate dalla gola, sembravano lapilli incandescenti e quando, con il cuore galoppante, prese a dire sì mi metterò una rosa rossa tra i capelli come le ragazze andaluse sì la voce si assottigliò, sfumò in un sussurro e con quel filo di seta, con quella corda il violino sul punto di spezzarti sibilò sì dissi voglio sì. […]. Curva in avanti e con lo sguardo smarrito, la rediviva Molly Bloom sentiva che il peso di quegli applausi le gravava sempre più sulle fragili spalle, come un macigno. Era un trionfo: eppure correva il rischio di essere travolta sì, annichilita sì, dall’esplosione incontrollata, convulsa di tutto quell’entusiasmo”. (pag. 71).

Ne “Il discorso” del “camerata della prima ora” la prova, esageratamente preparata, subisce inevitabilmente il peso di una situazione ridicola, assurda e paradossale. Davanti ad una popolazione rassegnata e sconfitta, quel discorso falso e retorico, che dovrebbe conferire dignità e autorità ad un apparato retorico e falso, inevitabilmente si inceppa: “Non ricordava più nulla. Le parole del discorso che aveva tanto accuratamente preparato, gli fluttuavano disarticolate, senza nesso nella testa, come relitti alla deriva. Si frugò affannosamente nelle tasche: ma il discorso, fidando nella memoria, lo aveva irrimediabilmente lasciato nel cassetto del comò”. (pag. 100)

“La voce del sangue” e “L’illusione di un mattino” raccontano la precarietà della condizione umana contemporanea, le infinite conseguenze che possono scaturire dalla distrazione e dall’imprevidenza, dalla mancanza di preparazione e di allenamento. Il primo è particolarmente inquietante per qualcuno come me che era affezionato alla persona Peppino Neri al di là dei suoi meriti e del suo carisma. Fa pensare ad un celebre episodio del “Caro diario” di Nanni Moretti, e l’esperienza della paura che insorge quando c’è il sospetto di una grave malattia è restituita con analoga stringatezza e leggerezza. E anche qui, alla fine del fantasmagorico fuoco artificiale della risonanza magnetica, si scopre che allora non si trattò della malattia che se lo sarebbe portato via, qualche anno dopo: “Comunque provò una sottile soddisfazione, prossima da gioia, nel sapere che la macchina non aveva dato scacco all’uomo. Essa infatti confermò la diagnosi di quell’ometto dall’aria ascetica e dalle robuste mani” (pag. 32).

Questo racconto introduce, in ogni caso, il tema della solitudine dell’uomo davanti alla morte. In “Bussano alla porta”, il più stringato e cinematografico di tutti i racconti della raccolta, Peppino Neri inscena con grande lucidità e dolcezza l’arrivo inatteso e surreale della morte: “«Bussano alla porta» dice e resta in ascolto. La donna, scossa dal suono improvviso di quelle parole, ha un leggero soprassalto. «Ma chi vuoi che bussi a quest’ora» dice. «Eppure… eppure m’era sembrato…» Non completa la frase spinto dall’urgenza di riannodare il filo, di recuperare la suggestione del ricordo. Ma lo sforzo risulta vano, sterile: quell’improvvisa e casuale accensione della memoria si è dissolta, definitivamente incenerita. Tenta allora di andare avanti nella lettura del copione, ma le righe si accavallano, le parole gli appaiono sfocate. All’improvviso si sente oppresso da una profonda stanchezza, come se tutto quel silenzio gli premesse sulle membra, gli pesasse sul cuore. Dal fondo di questa spossatezza avverte, per la seconda volta, i due colpi di nocche sulla porta d’ingresso, ma così nitidi e precisi che sembrano picchiati direttamente sul suo petto…” (pag. 74).

Peppino Neri (Formia, primi anni 2000)

Nell’ambito della mia lista “tematica” (che non è quella scelta dall’Autore), gli ultimi due racconti sono quelli più strettamente legati al titolo del libro. Se la situazione tipicamente kafkiana de “I latrati del padrone” è anche, probabilmente, un omaggio ai Fantozzi e ai Fracchia di Paolo Villaggio, “filmati” però con una freddezza accattivante e pietosa degna di Buster Keaton, “Il pericolo viene da Kafka” è un breve e pungente manifesto di “disobbedienza civile” e di “messa in guardia” nei confronti della burocrazia (a cui oggi si dovrebbe aggiungere la tecnologia numerica e la minacciosissima “Intelligenza Artificiale”), inesorabile regolatrice delle nostre paure come dei nostri falsi bisogni e corrotti valori imposti dalla società dei consumi.

Ma, evidentemente, la portata del titolo di questo racconto si estende a tutto il libro, offrendone la chiave interpretativa e il senso più profondo.   

Dopo un’intensa e apprezzata attività giornalistica in periodici come “Il Mondo” di Mario Pannunzio e in quotidiani come “Il Messaggero” e alcune significative prove letterarie, nel 1976 il giornalista-scrittore Peppino Neri entrò alla RAI, di cui colse subito l’aspetto di carrozzone e di consumistica fiera delle vanità, ma in cui riconobbe anche alcune straordinarie potenzialità. Intelligentemente, optò dunque per la Radio, una forma di trasmissione senz’altro più adatta all’approfondimento e alla riflessione. Attraverso i programmi radiofonici di cui fu ideatore e conduttore (primo fra tutti “Il Paginone”, che egli stesso definiva “la più grande terza pagina italiana”; ma poi anche, per esempio, “Galassia Gutenberg”, “Hollywood Party”, ecc.), Neri riuscì a far conoscere agli italiani “un’altra Italia” non corrotta, impegnata e fondamentalmente refrattaria alle lusinghe del potere.

Se tutto ciò fu possibile, vuol dire che egli non fu certamente il solo a seguire quella via di onestà e di assunzione di responsabilità. Tuttavia, la sua convocazione di Kafka in questo ultimo, estremo messaggio rappresenta una condanna esplicita di quel “lato oscuro della forza”, diventato predominante nel corso degli anni, che non ha avuto scrupoli nel corrompere e lasciarsi corrompere, nello svalutare, involgarire e insomma tradire il proprio ruolo primario. Il successo dei presentatori, dei comici, dei cantanti e delle migliaia di figuranti stabili o occasionali è spesso lo specchio di questo imperdonabile tradimento, contro cui Neri ha lottato difendendo in modo ragionevole, dunque non settario né elitario, la verità dell’informazione giornalistica e la sacralità della trasmissione culturale.

“Giuseppe Neri” sull’enciclopedia Garzanti-Radio, a cura di P. Ortoleva e B. Scaramucci.  

Egli ci invita dunque a proseguire la sua lotta contro il pericolo “kafkiano” che si avvera sempre quando si lascia a qualche “potere invisibile” lo spazio e il modo di cambiare via via le regole di una costruttiva e libera convivenza e poi di imporne altre, sempre più assurde e incomprensibili, la cui logica sarà inevitabilmente “scoperta” da tutti, ma sempre tardi, troppo tardi. Ennio Flaiano, che Neri non cita, ma di sicuro ammira profondamente, sintetizzava questa mostruosa e diabolica metamorfosi nella famosa frase: «Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore». Si tratta soprattutto di un “male nostrano”, ma certo, nel corso degli anni, esso è stato eletto a sistema, a seguito della sempre più capillare e devastante presenza, in ogni ordine e grado della nostra società, e con particolare concentrazione e intensità nella televisione, degli aspetti più negativi del cosiddetto “modello americano”.

Del resto, come in tanti altri intellettuali di valore — in primis Furio Colombo, Umberto Eco e Gianni Vattimo (che furono chiamati “corsari” per l’innovazione che portarono alla RAI, svecchiando i programmi e trasformando l’ambiente culturale della televisione, dando anche vita a una specifica trasmissione per i giovani) — anche in Peppino Neri hanno sempre convissuto due Americhe assai distanti tra loro: l’America mitica di terra d’asilo, di inarrivabile progresso e di emancipazione economica e culturale; quella venuta da noi con il suo pragmatismo prepotente e corruttore, intrinsecamente legato alla ideologia del successo e del denaro in cambio di una società di consumi onnivora e distruttrice del libero pensiero e della società stessa.

Nell’accomiatarci da questo subliminale e non conformistico “testamento morale” di Peppino Neri, così denso di significati, eppure così miracolosamente scorrevole e benevolo verso di noi poveri e fragili eredi-continuatori, ci siamo guardati in giro con lo sguardo perduto, incapaci di aprire la porta e uscire. All’ultimo momento, di soppiatto e con un’aria da cospiratore, ci è corso dietro un personaggio di cui avevamo già notato la fedeltà, la coerenza e l’impressionante rassomiglianza all’Autore, al punto di assumerne il tono appassionato della voce. Era “Il disfattista”: “Nel corso della passeggiata serale, durante la quale il gruppetto degli antifascisti o «il clan dei disfattisti», secondo la definizione del segretario del Fascio, passava in rassegna gli avvenimenti nazionali ed anche i fatti locali, Antonio accennò alla cerimonia che si era svolta nella mattinata. Per la maggioranza quella era stata una delle tante buffonate care al regime, buona per farci sopra quattro risate di gusto o meglio di disgusto, soprattutto all’indirizzo di quel povero diavolo del centurione, così goffo su quel cavallo bianco. Ecco: sembrava proprio un sorcio, un topolino a cavallo, come si espresse qualcuno di loro. Ma Antonio, anche se concordava su questo giudizio, sosteneva però che era giunto il momento di fare qualcosa, di passare all’azione. «Sradicare quelle piante, per esempio, sarebbe un gesto di protesta, un modo per far capire a tutti che noi siamo stufi delle loro pagliacciate» concluse. «Bravo! Così domani finiremo tutti al fresco. Perché, è evidente che solo uno di noi potrebbe compiere una simile azione. E quale sarebbe il risultato? Avremmo cavato due piante, ma l’Idea, come loro dicono, l’avresti intaccata?» gli fecero notare i compagni. Non v’è dubbio, i compagni avevano ragione, eppure Antonio sentiva che quelle piante andavano distrutte. Non che si illudesse che con esse, anche un poco di fascismo sarebbe stato scalfito. Ma ecco: sentiva che bisognava cavarle”.

Giuseppe Neri, “Il pericolo viene da Kafta, Manni, 2025

 Giovanni Merloni

Il sole dell’avvenire di Giuseppe Neri

29 jeudi Mai 2025

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Giuseppe Neri

In copertina: « Manifestazione », della pittrice Francesca Gargano Neri.

Il 29 aprile 2023, si tenne a Roma un Convegno (curato da Francesco Neri e patrocinato dal comune di Sant’Apollinare (FR), dal Comune di Cassino e dall’Università degli Studi di Cassino) che aveva due scopi fondamentali: ricordare, a otto anni dalla morte, Giuseppe Neri “innovatore dell’informazione radiofonica della Rai”; celebrare, vent’anni dopo la sua pubblicazione, “Il sole dell’avvenire”, il romanzo che il grande giornalista e scrittore dedicò alla sua terra di Ciociaria. In questi giorni, due anni dopo, ho avuto occasione di leggere un nuovo bellissimo testo di Neri, “Il pericolo viene da Kafka”, di cui parlerò in un prossimo articolo, che sarà presentato a Roma il prossimo 5 giugno: in tale incontro saranno senz’altro ricordate anche le altre sue opere.

Eccovi di seguito il commento “a ruota libera” e a tutto campo (fino ad oggi inedito) che inviai al caro amico Peppino Neri il 21 dicembre 2003.  

Giuseppe Neri – « Il sole dell’avvenire« 

Quando si chiude “Il sole dell’avvenire” di Giuseppe (Peppino) Neri, con lo stesso dispiacere che si prova quando una nave o un treno in partenza ci costringe a separarci da un caro amico o da un pezzo della nostra vita, la prima cosa che viene in mente è che, fortunatamente, ci sono ancora, in Italia, persone che rispettano i morti e la storia e che, nonostante tutto, continuano ad amare la vita e a concepire il mondo come un luogo di incontro e di confronto civile.

Peppino Neri mette dunque la propria sicurezza di scrittore e la propria viva e profonda sensibilità al servizio della verità storica, andando inevitabilmente controcorrente, in un’epoca in cui, soprattutto in Italia, vanno di moda le storie posticce e i revisionismi di comodo. Un’epoca in cui tutti i paesaggi originari sono stravolti e gli uomini che li abitano sono disorientati e confusi.

“Il sole dell’avvenire” è la ricostruzione fedele di un passaggio particolarmente delicato e complesso della vicenda italiana tra le due guerre. Un bellissimo racconto-romanzo, che si aggiunge ai pochi che hanno già celebrato, non sempre con la semplicità e la devota stringatezza di cui dà prova Neri, le radici “socialiste” e “democratiche” del nostro paese più unico che raro.

Siamo nel 1920. Anche Colleforte, un piccolo paese nella piana del fiume Liri in provincia di Frosinone, ha avuto la sua rivolta contadina di ispirazione socialista, il suo primo “sciopero”, che ha dato luogo, qui come in altre parti d’Italia, a positivi risultati per i contadini, da allora, anch’essi, un po’ meno sfruttati ed emarginati.

Il libro scorre senza incertezze in un crescendo di emozioni e di aspettative: limpido come un film di Visconti o di Rosi, privo di retorica e, anzi, alimentato dall’avvincente fascinazione delle “prove” a cui l’uomo – che non si contenta di “viver come bruto” – spontaneamente si assoggetta. A volte si tratta di piccole prove, di eroismi inutili – come quello di Giapone che traversa il fiume aggrappandosi al tirante d’acciaio della “scafa” – oppure di incontri-scontri con il “potere costituito” pieni di buon senso e di umani dubbi.

Ma è evidente che i personaggi positivi di Neri, coloro che percepiscono l’importanza del sociale, dell’unione-che-fa-la-forza e, allo stesso tempo, l’amore per il lavoro e per la propria terra, stanno tutti dalla stessa parte.

Per l’avvocato Nardone, che scende a Colleforte dopo la disastrosa alluvione che ha distrutto il lavoro di un anno, non ci vuole molto ad accendere gli animi: il socialismo era la risposta attesa, la medicina necessaria, il legante umano e culturale capace di conferire all’azione dirompente il carattere di una vera e propria liberazione.

Due personaggi, tra i contadini, coagulano l’attenzione e diventano punto di riferimento e di snodo per l’azione narrativa: il ribelle Giapone e il prudente Francesco del Turco. Il primo potrebbe essere inquadrato come un estremista generoso, ma incapace di qualsiasi strategia; il secondo come un riformista e un paziente organizzatore: la sua aia e la sua casa sono il luogo di incontro del gruppo dirigente dello sciopero. Del Turco, del resto, ha potuto recepire subito, senza difficoltà, il significato profondo del messaggio dell’avvocato Nardone, perché lui, solo lui, a Colleforte e forse in un vastissimo territorio circostante, ha avuto l’avventura di trovarsi a Torino il giorno del comizio di Antonio Gramsci.

Seducente è poi la figura del maestro Cocchiara, una specie di esiliato volontario che trova nell’umanità dell’insegnamento e nella solitudine della caccia una sua personale catarsi. Sarà Cocchiara a dare il “la” al popolo di Colleforte, dicendo a Francesco del Turco la semplice frase: “Dovete essere tanti, una fiumana”.

La fiumana dei contadini che decidono di scioperare il primo giorno e tornano più numerosi il secondo giorno sotto le finestre dell’inaccessibile palazzo del padrone don Tricò… è identica alla fiumana dei manifestanti raffigurati nel “quarto stato” di Pelizza da Volpedo. Ma è anche il grande fiume degli uomini che, in un momento irripetibile e fatidico, prendono coscienza e contribuiscono a deviare il corso della storia, quasi cancellando le tremende devastazioni operate dalla fiumana inarrestabile della grande alluvione abbattutasi poco prima sulla conca a valle dell’abitato di Colleforte.

Giuseppe Pellizza da Volpedo, « Il quarto stato » (1901, particolare)

La semplificazione “filmica” operata da Neri, per cui l’insurrezione è scatenata dall’incontro tra Francesco del Turco e il maestro Cocchiara, sta a significare che la storia è sempre fatta dagli uomini, dagli incontri e dagli scontri tra di essi: la “scintilla” del socialismo forse, chissà, non avrebbe incendiato i cuori e messo in moto gambe braccia e bandiere nel piccolo e isolato paese di Colleforte se non vi fosse tornato Francesco del Turco (reduce dall’esperienza torinese e dalla “visione” di Gramsci) e se non vi fosse arrivato il maestro Cocchiara, volto “istruito” dell’egualitarismo socialista (che ha “visto” Pelizza da Volpedo mentre realizzava il più celebre “poster” della sinistra italiana).

Ci sono poi alcuni essenziali capisaldi simbolici — come la bandiera rossa, come le donne – tratteggiati con lo stesso amore e lo stesso rispetto che dovevano avere per loro questi personaggi “realmente esistiti” che, pur senza mai smettere di “ascoltare” gli altri, hanno avuto il coraggio di “pensare-e-agire” con la propria testa. D’altra parte, tutto lo svolgimento del romanzo è governato dal dialogo a distanza tra il “sole dell’avvenire” (imprigionato nella copertina) e “l’alba del secolo appena tramontato” (citata nel prologo e all’inizio del racconto vero e proprio). Nel 1920 (l’alba del secolo) la tensione ideale verso un futuro più giusto e più umano (“l’internazionale futura umanità”) poteva identificarsi nell’attesa operosa, nella costruzione inarrestabile di un mondo migliore, che avrebbe di sicuro premiato gli sforzi, le rinunce e l’adesione all’ideale socialista. Il premio atteso era simboleggiato proprio dal sole dell’avvenire. In questa proiezione non c’era solo l’aspettativa di un mondo senza classi, ma anche, intrinsecamente connessa, l’entusiastica ed ingenua fiducia nel progresso scientifico e tecnologico: ciò che ha diviso unirà, e le macchine saranno messe al servizio della causa dei deboli e degli sfruttati.

Ma, come dice Neri, questo secolo (il Novecento) è ormai, da poco tramontato. Forse anche prematuramente finito, nel 1989, con la caduta del muro di Berlino e la diaspora del socialismo reale. Nella parola “tramonto” è insita l’espressione di un malessere profondo, di una grave incertezza: il progresso si è rivelato una forza buona e cattiva e anche gli uomini sono buoni e cattivi. Dunque “il sole dell’avvenire” rappresenterebbe, ormai, una chimera, una nostalgica bandiera che sventola in una piazza senza popolo. Ma è proprio da questo dialogo a distanza — “alba”, “sole dell’avvenire”, “secolo tramontato” — che può scaturire, invece, il seme di una nuova tensione ideale, come quella che ha mobilitato milioni di italiani negli ultimi due anni, all’alba di questo XXI secolo. Di fronte a coloro che oggi tentano di riscrivere la storia del Novecento — cercando di ridimensionare la portata del movimento socialista, la resistenza al fascismo e al nazismo, negando le lotte sindacali e di difesa della democrazia che hanno impegnato le forze di sinistra in tutto il XX secolo, senza mai dare luogo, in Italia, a nessuna esperienza in alcun modo confrontabile con quelle, negative, osservate nel sistema sovietico o in altri “paesi socialisti” — il libro di Neri si fa dunque portavoce della passione e della riconoscenza dei posteri, ma apre anche la strada ad una riflessione non scritta su ciò che è accaduto “dopo”.

Peppino Neri, va ricordato, da giovanissimo ha vissuto in una Colleforte molto più simile a quella del 1920 che a quella di oggi. Nonostante ciò, la sua accurata ricostruzione non sembra volersi limitare alla lettura retrospettiva e statica di un anno cruciale. Si sa, ad esempio, che dopo ottant’anni dalla vicenda del libro non si è ancora posto un valido rimedio al rischio che una nuova altrettanto terribile alluvione si abbatta su questa piana oggi infarcita di case e di capannoni industriali. Si sa, d’altra parte, che una simile “trasformazione” del paesaggio, decretando una nuova marginalità per l’agricoltura, non ha spezzato l’antico isolamento. Sulla carta, nell’epoca della globalizzazione, ognuno può muoversi, andare dovunque e trovare ovunque occasioni di confronto e di crescita individuale e collettiva. Sta di fatto che questa possibilità, più “virtuale” che reale, è negata del tutto dal bombardamento mediatico che sciaguratamente si sposa alle difficoltà degli individui, ovunque essi abitino. Dunque, la metafora del paesino tagliato fuori dai traffici, raggiungibile solo nelle ore di va-e-vieni della “scafa”, ben si adatta alla metafora implicita del libro di Neri: gli inurbati consumisti di oggi, prigionieri di un rigido va-e-vieni tra casa e lavoro somigliano come gocce d’acqua ai contadini sfruttati e isolati di allora. L’ignoranza che faceva un gran comodo a don Tricò è la stessa che oggi rimpingua le casse di un’oligarchia di nuovi ricchi e giocatori d’azzardo. Francesco del Turco, nel momento decisivo del romanzo, soffia dentro la “tufa”, una specie di corno arcaico che sembra arrivare da lontane civiltà sconfitte-e-recuperate dai dominatori romani. È proprio lui che, forte delle parole del maestro Cocchiara, accende la “scintilla”. Peppino Neri, che nella sua mite saggezza incarna sia la “vis politica” di Francesco del Turco sia l’umanità “disincantata ma incorruttibile” del maestro Cocchiara, sembra soffiare anche lui, con tutte le sue forze, dentro la tufa, che gli restituisce tutte intere le sue radici. E accende la scintilla della letteratura, che si distingue nettamente nel panorama del romanzo contemporaneo, abbandonando la “fiction” ed evitando con cura ogni possibile esercitazione barocca.

“Ho sempre pensato e sostenuto che la scrittura è l’elemento più importante in una costruzione letteraria« , dice Peppino Neri ad Armando Adolgiso in un’intervista rilasciata dopo la pubblicazione del romanzo (2003). « È la scrittura che invera e legittima ogni narrazione. Ne “Il sole dell’avvenire”, sia la materia sia la natura dei personaggi mi hanno consentito di spingere più avanti la mia ricerca linguistica sul versante dell’espressionismo, mi hanno permesso degli innesti lessicali, dei recuperi dialettali, delle sprezzature di stile e tutto questo lavorio ha lo scopo di vivificare, di rinsanguare, di conferire nuovo vigore espressivo alla trama di una lingua resa sempre più inerte e inespressiva dall’uso, spesso sconsiderato, che ne fanno i mass-media”. D’altra parte, Neri si fa sempre carico di coniugare la sua originale forma espressiva con un impegno civile e politico netto e intransigente dalla parte degli sfruttati e degli esclusi. “Io mi considero« , dice, « un intellettuale (anche se la parola è ormai alquanto screditata) che tenta di leggere la realtà attraverso il filtro dell’intelligenza, che non crede nelle verità rivelate e dunque antepone il dubbio alle certezze. Da buon Capricorno, sono schivo, poco cerimonioso, di parco eloquio. Credo di essere leale, fedele alle amicizie, tenace nei sentimenti. Non tollero gli stupidi, anche perché sono pericolosi.”

In questo quadro “Il sole dell’avvenire” svolge dunque una funzione militante nel tramandare la verità storica, riuscendo a risvegliare le coscienze grazie ad una scrittura elegante e persuasiva dove l’uso della metafora e della sottile ironia convive armoniosamente con una parabola dolorosa e solenne e, a tratti, fiabesca.

Giovanni Merloni                                                                          

Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

06 samedi Fév 2016

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Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (regia di Giorgio Strehler)

Mi viene spesso da pensare che ogni persona di genio, alla fine della sua esistenza, viene punita con un male che lo colpisce, inesorabilmente, proprio nel punto più vivo e essenziale della sua espressione artistica.
A volte la natura si sbaglia, privando per esempio Edward Hopper dell’udito invece che della vista o dell’uso delle mani e dandogli, per così dire, in cambio la possibilità di raccontare ai posteri il suo speciale mondo ovattato, la sua visione «spaesata» dei rapporti umani al di qua e al di là del baratro.
Anche Omero, privato degli occhi, ha potuto sviluppare meglio la sua drammaturgia poetica imparando e restituendo a memoria le sue edificanti battaglie. E Tiresia, per veder meglio il futuro, poteva rinunciare senza troppe tragedie alla sua vista di uomo o di donna.
Ma non potrei mai sminuire la sofferenza di Ludwig van Beethoven, colpito nell’organo più importante per un musicista, l’udito, o per quel grande corridore dei cento metri che finì sulla sedia a rotelle, o per Auguste Renoir che cadendo dalla bicicletta compromise gravemente l’uso della spina dorsale perdendo progressivamente l’uso delle mani.
Certo Renoir dipinse fino alla morte e Beethoven riuscì à vedere nel buio della sua sordità le note della nona sinfonia senza perderne una battuta né la minima sfumatura.
Ma come doveva sentirsi Carlo Levi, un grande pittore (e scrittore) italiano del novecento, quando, diventato ormai cieco, cercava lo stesso di lasciare un’impronta del suo discorso interrotto, dipingendo all’interno di una speciale griglia sospesa sulla tela che lui chiamava «quaderno a cancelli»?
Altri grandi, come Michelangelo Antonioni, hanno dovuto passare gli ultimi anni della loro vita in uno stato di confusione o di assenza, privati dal solo clic di una malattia invisibile dell’acuta e inesauribile forza del loro ragionare, inventare, scandalizzare, rovesciare i parametri e finalmente trasmettere una nuova forma di arte e di cultura.

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Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

Pierangelo Summa fa parte di quei geni unici e straordinari che vengono interrotti lungo il loro generoso percorso artistico da un male subdolo che non si limita a colpire un organo o un senso, ma aggredisce progressivamente tutto il corpo. Guarda caso, Pierangelo Summa era appunto un artista che aveva il proprio fondamentale strumento di espressione nel corpo, in tutto il corpo: il corpo umano nella sua straordinaria elasticità e adattabilità alle più diverse azioni e emozioni; il corpo in maschera delle marionette o pupazzi più o meno elastici o smidollati che lui stesso creava o che lui faceva rivivere nel corpo di attori veri o improvvisati. Mettendo in moto la «seconda vita» di ognuno di noi, quella appunto del corpo, Pierangelo Summa ha inventato e fatto conoscere un teatro «al rovescio» o «all’improvvista» in cui l’antica tradizione della commedia dell’arte italiana si fonde «dialetticamente» e aggiungerei «ironicamente» con il teatro impegnato, dalla tragedia greca fino a Jean Genet.

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Creatore di maschere e animatore di spettacoli di strada per vocazione naturale, Pierangelo Summa è stato senza dubbio uno dei capofila del movimento teatrale italiano degli anni ’70, svolgendo gran parte della sua attività artistica in Lombardia, dove una ricchissima tradizione di canti e spettacoli popolari trovava un riscontro teatrale autorevole in figure carismatiche come Giorgio Strehler e Dario Fo, tra gli altri. Se la famosa messa in scena dell’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler non fu indifferente al giovane Summa per l’importanza conferita al ruolo della maschera, il «teatro della parola» di Dario Fo, con il suo straordinario recupero del mélange linguistico dei dialetti della valle Padana, divenne il secondo polo della formazione del Summa più adulto e aperto al nuovo. Ma bisogna attendere un evento assai importante e direi cruciale per lo sviluppo organico di una forma originale unica di espressione e di messa in scena teatrale da parte di Pierangelo Summa: il suo trasferimento a Parigi. Forse la piena consapevolezza dell’importanza dialettica e ironica del corpo rispetto alla maschera e alla parola non si sarebbe sviluppata così prodigiosamente in Pierangelo Summa se l’artista non si fosse profondamente calato anche nella cultura francese e nel suo vasto e stimolante mondo teatrale.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

Pierangelo Summa e il suo fratello gemello, Massimo, sono cresciuti, hanno studiato e lavorato a Como, ma fanno parte di una famiglia di Casalvieri, un piccolo paese della Ciociaria (provincia di Frosinone) a sud di Roma, situato in un paesaggio di montagna ancora oggi integro e selvaggio. Dunque, tutte le estati, la famiglia Summa si recava a Casalvieri per passarvi dei lunghi periodi di vacanza e di piena libertà. Rispetto alla «città» di Como, lambita da uno dei più bei laghi d’Italia, Casalvieri rappresentava la natura allo stato primitivo, ancestrale. Oltre all’affetto di una famiglia tradizionale molto calorosa, i fratelli Summa trovarono a Casalvieri le loro prime «fidanzate». Pierangelo vi conobbe Mirella, di tre anni più piccola, sin dalla più tenera adolescenza. Mirella, nata a Parigi, dove passava tutto l’anno con la sua famiglia che vi si era recentemente trasferita, parlava da sempre un perfetto francese senza accento, ma era perfettamente bilingue, la madre avendogli trasmesso l’italiano e, forse, anche qualche frase del dialetto ciociaro. Ma d’estate, il richiamo di Casalvieri valeva anche per la famiglia di Mirella che, tutti gli anni era presente.

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Pierangelo Summa incontra Patrizia Molteni di Focus In, Parigi, 2011

Da allora, Mirella è stata la compagna della vita di Pierangelo Summa. Per circa venti anni hanno vissuto a Como, dove ambedue lavoravano. Pierangelo, nelle ore libere dal suo impiego «alimentare», fabbricava le sue straordinarie maschere e allestiva spettacoli dove il teatro «improvvisato» e di strada si legava ad attività più tipicamente circensi, popolate di mangiatori di fuoco e di funamboli che avanzavano sui trampoli. Mirella, la «matematica» della famiglia, seguiva con entusiasmo suo marito in tutte le sue iniziative teatrali, partecipando attivamente, tra l’altro, ad un importante e approfondito lavoro di raccolta di canti tradizionali e storie popolari in molte realtà regionali del Nord Italia. In questo periodo Pierangelo Summa fu chiamato a sovrintendere la Festa di Isola Dovarese, dove per un’intera settimana si succedono ancor oggi spettacoli teatrali e musicali insieme ad attrazioni di vario tipo.

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Quando Mirella ottenne un incarico universitario a Parigi, Pierangelo la seguì con i due figli Sara e Robin, decidendo di dedicarsi a tempo pieno alla regia di spettacoli teatrali, con l’intenzione, tra l’altro, di introdurvi maschere e pupazzi del suo ricco universo fantastico.
Senza mai interrompere i legami con il mondo della sua ispirazione originaria, che egli fece conoscere ed apprezzare ai nuovi amici francesi, Pierangelo Summa trovò a Parigi e in Francia un contesto estremamente favorevole alle sue interpretazioni originali dei testi di autori già di per se stessi originali. È il caso delle «Bonnes» di Jean Gênet, un testo che Summa rende ancora più provocatorio e dirompente attraverso il paradosso della sostituzione del personaggio di Madame con un fantoccio a grandezza naturale, costruito dallo stesso regista.

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È il caso di Dario Fo… Si inserisce qui, da parte mia, una testimonianza diretta risalente all’ultimo trimestre del 2011. Sotto la guida di Pierangelo Summa, mia figlia Gabriella ha interpretato la parte di Maria in «Una donna sola» di Dario Fo al teatro dei Déchargeurs a Parigi. Personalmente, con l’aiuto artistico e manuale di mio figlio Paolo, ho partecipato anch’io a questa esperienza, realizzando alla bell’e meglio, secondo le benevole ma chiare indicazioni di Pierangelo, i modestissimi decori da lui concepiti : due o tre cornici dipinte di rosso, una specie di «quadro svedese» da collocare sul fondo, uno sgabello, un telefono grigio e una pistola giocattolo. Tutto ciò è stato più che sufficiente…
Non potrò mai dimenticare la voce di Pierangelo né il suo intendo sguardo blu-celeste (Piero era forse un Angelo?), capace di ascoltare gli altri, il suo coraggio dissimulato da una continua ironia e autoironia.
Già allora Pierangelo Summa combatteva con il Parkinson, questo male che si serve di un nome quasi divertente e invece, purtroppo, è una delle più terribili torture che possano capitare a un essere umano.
Durante lo spettacolo di Gabriella, che fu coronato da un certo successo di pubblico e di critica, Pierangelo era sempre presente, attento, a volte severo, ma sempre sorridente. Avevamo fatto amicizia, lui disse anche una volta, forse in ragione della vicinanza d’età, che per lui ero un fratello. Ma lui si era molto affezionato soprattutto a Gabriella e a Paolo.
Dopo lo spettacolo, per i tanti stupidi doveri che ci sembrano importanti, e anche per l’insorgere di preoccupazioni e dolori familiari, ci perdemmo di vista.

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Andammo con tutta la famiglia a trovare Pierangelo e Mirella Summa verso la fine del 2014. Fummo tutti felici di incontrarci, commossi e contrariati vedendo sul volto sereno e indomito di quest’uomo generoso le tracce evidenti dell’aggravamento del suo stato. Nonostante la fatica e l’emozione, Pierangelo disse una parola affettuosa ad ognuno di noi. Riuscimmo perfino a brindare all’italiana e a «incontrare» via Skype sua figlia Sara, in quel momento a Berlino
Poi Mirella si prese il carico di parlare per tutti, raccontandoci tutto quello che era successo, trasmettendoci contemporaneamente, e fedelmente, quello che Pierangelo, ne sono sicuro, avrebbe voluto dire egli stesso. Mirella parlò del calvario che suo marito stava subendo, ma anche le straordinarie attività artistiche che egli aveva saputo portare a termine, con la complicità della figlia Sarà, che aveva del resto splendidamente recitato negli ultimi drammi da lui creati e/o diretti, aiutandolo anche in un altro progetto più importante, lanciato verso il futuro: Pierangelo Summa non rinunciava a trasmettere, fino all’ultimo, il suo sapere coraggioso.

Il 2015 è stato un anno spaventoso per tutti. Ma è stato particolarmente terribile per Pierangelo Summa, reso sempre più debole dalla malattia che gli rendeva sempre più difficile il mangiare e il bere.
Ho avuto perfino l’impressione che le istituzioni ospedaliere lo abbiano «lasciato morire». Fino all’ultimo, questo povero corpo così difficile da dirigere e governare, avrebbe voluto vivere in pace, mentre la sua povera anima sensibile non avrebbe desiderato che le cure normali che si adottano per combattere la febbre, la fame e la sete.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

In una delle sue ultime degenze in un ospedale parigino, il famoso «protocollo» che si stabilisce per «evitare cure eccessive o inutili» si era tradotto in una frase significativa che compariva sulla sua cartella clinica: «il paziente Pierangelo Summa non parla in francese». Un falso che serviva da pretesto per non dare al malato, tra l’altro, una qualsivoglia assistenza psicologica.
Un tale atteggiamento corrisponde forse a una delle tante prevenzioni ancestrali che non si possono discutere, come le tradizioni orali o i proverbi. Un luogo comune come quello di mettere insieme due italiani nella stessa stanza dando per scontato che saranno subito amici e si aiuteranno a vicenda. (Laddove la mia amicizia ricambiata con Pierangelo, per esempio, è senza dubbio un’eccezione alla regola che dice l’esatto contrario…)
Pierangelo Summa viveva a Parigi da più di trent’anni, una città che amava e conosceva bene già prima della definitiva installazione. Dunque, quando la recalcitrante psicologa, trascinata da Mirella, si recò al suo capezzale e gli disse:
— Di cosa ha bisogno, signor Summa?
Pierangelo aveva subito risposto, in perfetto francese:
— Vorrei che qualcuno mi aiuti a venire a patti con questo cervello che se ne va per conto suo…
Si può essere tutti d’accordo contro il cosiddetto «accanimento terapeutico», ma senza rinunciare a quel minimo di «umanità» che fa la differenza: a volte basterebbe molto poco.

« Pierangelo Summa, scultore di maschere e di marionette e regista teatrale, ha chiuso gli occhi mercoledì 15 luglio 2015 — scrive Sara Summa, la figli primogenita, attrice e regista teatrale —. Quelli che l’hanno conosciuto sanno che, leggero ormai come l’aria, egli resta con noi per sempre, per tutto quello che ci ha trasmesso e perché siamo tutti impregnati da quella forza creatrice che lo ha sempre animato. »

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Pierangelo Summa con Gabriella Merloni, Parigi, 2011

Pensando ora a questo amico che ha tanto sofferto, resto esterrefatto al ricordo delle marionette a dimensione umana di Pierangelo Summa che ho visto nelle «Bonnes» di Jean Gênet e poi nell’«Edipo Re» di Sofocle del 2012. Quelle maschere «molli» o smidollate, che non erano fatte per stare in piedi come delle statue, ma per essere trascinate, abbracciate, malmenate, aggrappate a un chiodo o addossate a una spalliera… quelle maschere nate per contestare, rivoltare il senso scontato delle cose, erano, senza che lui lo sapesse fino in fondo, un presagio di quello che sarebbe, alla fine, capitato al suo corpo. Il suo corpo un dì sano e scattante sarebbe diventato sempre più dispettoso e incontrollabile col progredire della malattia.
Metaforicamente, egli stesso si sarebbe trasformato, suo malgrado, in uno dei suoi «pupazzi umani». Mentre la sua mente, fortunatamente per lui e tutti quelli che lo amavano, sarebbe restata sempre lucida, serena, attenta fino all’ultimo a cogliere ogni attimo di questa meravigliosa cosa che si chiama Vita.
Se dunque questo «vero artista» è stato colpito in quello che aveva più caro è necessario per il suo lavoro di artigiano e di maestro — il suo corpo, che gli era servito per tutta la vita a «insegnare» agli attori e alle stesse marionette come interpretare, «al rovescio», il mistero della rappresentazione teatrale — non si può non constatare che la sua intelligenza, intatta fino alla fine, ha saputo in un certo senso «prendersi gioco» del corpo stesso, invertendo per una volta la procedura da lui stesso creata per il suo straordinario «anti-teatro dal volto umano».

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Mirella Summa, Théâtre des Déchargeurs, 2011

Nel mese di novembre 2015, Mirella Summa ha «riportato» Pierangelo, simbolicamente, prima sulle rive del lago di Como — dove sono accorsi tutti i parenti e gli amici della Lombardia, compresi gli attori e le comparse di Isola Dovarese, per salutare in un clima festoso il sorriso di quest’uomo straordinario con una carovana in maschera — poi sulle montagne di Casalvieri, dove tutti gli amici italiani e francesi hanno ricordato la sua voce indimenticabile con la recita di un estratto dei «Giganti della montagna» di Luigi Pirandello, rielaborato in modo originale da Mirella Summa.

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Ora noi, commossi e smarriti per la perdita di un amico e di un maestro — che aveva il sorriso noncurante e lo sguardo penetrante di una guida ispirata, come il Gesù che rideva dei propri miracoli del «Vangelo secondo Gesù» di José Saramago —, ci sentiamo particolarmente tristi per la consapevolezza che avremmo seguito Pierangelo anche in capo al mondo, con fiducia e innocente complicità, mentre questo «cammino affascinante» è stato, invece, bruscamente interrotto.
Che fare, allora? Non ci resta che adoperarci perché l’immenso e delicato lavoro di creazione e di riflessione di Pierangelo Summa sia raccolto, protetto, studiato, riprodotto e divulgato a tutti i giovani che vorranno seguirne il cammino.

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Giovanni Merloni

TESTO IN FRANCESE

L’Italia : un paese « dal volto umano ». Seconda lettera a Giorgio Muratore

07 mercredi Oct 2015

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Aldo Natoli, Battaglia di Valle Giulia, Facoltà di Architettura, Giancarlo Pajetta, Giorgio Muratore, Luciana Castellina, Lucio Magri, Luigi Longo, Luigi Pintor, Marina Natoli, Maurizio Ascani, Palmiro Togliatti, Paolo Pietrangeli, Pier Paolo Pasolini, Pietro Ingrao, Renato Guttuso, Renato Nicolini, Rossana Rossanda, Umberto Schettino

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

L’Italia : un paese « dal volto umano ». Seconda lettera a Giorgio Muratore

Caro Giorgio,
voglio innanzitutto ringraziarti per avermi fatto superare un assurdo «imbarazzo linguistico». Ho finalmente capito l’importanza di una scelta coerente: ogni volta che si scrive, bisogna domandarsi chi è il destinatario della nostra lettera. Dunque, se mi rivolgo a te, è più logico che io scriva in italiano, nella nostra lingua comune. Farò così d’ora in poi. L’eventuale traduzione in francese verrà poi. (1)
Da quando ho « scoperto » il tuo blog e « verificato » che tu, grazie al cielo, non sei cambiato, è aumentato in me il desiderio di tornare idealmente sui luoghi da cui ero fuggito a gambe levate o, per meglio dire, che avevo attraversato come un campo di battaglia dove non avevo trovato il coraggio di combattere.
Come Pierre Bezukov vagante senz’armi tra i morti, i feriti e le sciabolate della battaglia di Borodino, o come il dottor Zivago che non poteva condividere l’assolutismo delle parole d’ordine.

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Foto presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

Del resto io desideravo da tanto tempo raccontare, senza filtri romanzeschi o poetici, la giornata del primo marzo 1968, che ho per così dire « attraversata » in qualità di attore e spettatore nello stesso tempo. Questa giornata, che ha segnato la mia vita, voglio raccontarla prima di tutto per «contestare» l’atteggiamento a volte conformista di coloro che dicono «io c’ero!» per ricavarne un merito… Del resto, so bene che i miei ricordi non potranno aggiungere granché a tutto ciò che si è scritto su questo fatto, da Pasolini fino all’ultimo giornalista del Messaggero o del Tempo, senza contare la bella e celeberrima canzone di Paolo Pietrangeli.

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Foto presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

La rilettura della lettera che Pasolini aveva indirizzato ai capi del movimento studentesco mi ha suggerito quattro piste da tenere presenti nel mio racconto :
1) gli studenti erano dei figli di papà, per la maggior parte di estrazione borghese ;
2) il movimento era fondamentalmente anti-comunista e dunque destinato a creare, come è poi effettivamente successo, una costellazione di formazioni politiche extraparlamentari, fino alle Brigate Rosse ;
3) gli studenti del ’68 promuovevano una « reificazione », una strumentalizzazione della rivolta per ottenere risultati concreti, in una concezione mercantile e opportunista dello scambio politico e culturale ;
4) il movimento degli studenti pretendeva di bypassare le lunghe e faticose discussioni imposte dal centralismo democratico del PCI, per afferrare il potere, come voleva farlo la Vispa Teresa con le farfalle.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Veniamo dunque ai pochi ricordi che mi sento di far emergere dal cappello affumicato della memoria.
«Fuori la polizia dall’università!» gridavano tutti e gridavo anch’io, sommessamente e timidamente. Ma poi, quando fummo davanti ai poliziotti schierati, la mia indignazione — per la « serrata » decisa dalle autorità scolastiche, che ci impediva di entrare nella facoltà mentre alcuni « compagni » erano « chiusi dentro » — non riuscì a trasformarsi in rabbia, in aggressività o violenza. Del resto io non avevo mai « fatto a botte » in vita mia, e non ero il solo. Ma almeno, il nostro amico Maurizio Ascani, anche lui incapace di far del male a una mosca, era rimasto lì, impalato, spettatore di prima linea e, mentre noi scappavamo inseguiti dai poliziotti, lui si beccò una randellata in testa che lo mandò dritto all’ospedale. Mentre noi — io e mio fratello Francesco, tra molti altri — scavalcavamo la siepe che delimita il prato di via Gramsci, scoprendo che al di là di questo esile confine di foglie c’era già un dirupo… altri invece contrattaccavano, a mani nude oppure trasformando le panchine in rudimentali bastoni…
Non eravamo preparati a una simile evenienza. Né all’ipotesi di essere «caricati» dalla polizia né a quella di doverci difendere e addirittura contrattaccare.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Ricordo che allora si era unito al corteo di via dei Frentani — che era passato, in quell’occasione, mi pare, con tutto il suo rimbombo di voci nella galleria della stazione Termini —, Agostino, uno studente di scienze politiche, socialista « di sinistra » come lo erano allora i miei fratelli, che lavorava alla «sezione cultura» del suo partito, nella famosa sede di via del Corso. Con nostra grande sorpresa, Agostino, un tipo abbastanza pacifico, si lanciò senza esitazioni incontro ai poliziotti, come del resto un caro compagno del Mamiani prematuramente scomparso, Umberto Schettino, che ebbe il giorno dopo il prezioso riconoscimento di vedersi effigiato in prima pagina.
Io e Francesco, mio fratello, non passammo, come si suol dire, all’azione fisica, né allora né mai, sia perché nel fondo non eravamo d’accordo, sia perché nostro padre era morto da soli tre mesi, lasciando un vuoto incolmabile. Nostra madre, una donna coraggiosa, più sbilanciata, come me, verso il partito comunista che verso il socialismo moderato e lungimirante di mio padre, non ci aveva certo impedito di partecipare alla «lotta». Ma io trascinai mio fratello nella direzione opposta a quella degli scontri: — pensiamo a nostra madre! gli dissi. Per quanto mi riguardava, io sarei stato d’accordo per sedermi in terra e aspettare che i poliziotti mi portassero via. Credevo alla protesta dei «sit-in», alla resistenza passiva, alla forza delle idee nobili e giuste che finiranno sempre per trionfare, come l’amore.
Intanto persino le ragazze partivano all’attacco, brandendo la loro borsetta e cercando di colpire con quella. Tra loro c’era anche Lucia, una persona sempre sorridente e tranquilla… Quanto a Marina Natoli, la nostra amica carissima, sono sicuro di avere parlato a lungo con lei, perché lei mi aveva aggiornato su quello che stava succedendo… Ma non so dove collocare questo nostro scambio, in quale momento di quella lunga giornata. Nei mesi successivi, Marina ci parlava spesso del dissenso interno al PCI, del gruppo del Manifesto che si stava consolidando intorno alle figure carismatiche di Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Luciana Castellina… Che strano! In quel periodo, pur avendo già votato una volta comunista, non mi ero ancora iscritto al partito, salvo una prima esperienza della organizzazione giovanile, durata poco più di un anno nel 1963. Eppure, una voce interna mi raccomandava di essere «fedele» a questo partito un po’ monolitico ma calato nella realtà. All’epoca, il segretario era Luigi Longo e, insieme al grande Pietro Ingrao c’erano Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta… delle figure straordinarie, oneste, incredibilmente alla mano. Altro che «doppiopetto», come diceva Pasolini! E poi c’era il senatore Edoardo Perna, membro della direzione del partito. Non solo gioviale e allegro in famiglia, mio zio tirava fuori la sua verve «artistica» anche quando, durante le riunioni di partito, adattava motivetti conosciuti a canzoni politiche ferocemente scherzose.

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Renato Guttuso, I funerali di Togliatti,
immagine presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

Il Partito comunista non poteva certo amare quell’Italia governata da un centro-sinistra debole e ricattata dai cosiddetti poteri forti che si annidavano non soltanto nella borghesia destrorsa ma anche nelle mafie crescenti della speculazione edilizia e dei cosiddetti «corpi separati dello Stato», come la Cassa del Mezzogiorno, l’IRI-Italstat, eccetera. Al tempo stesso il PCI si arroccava un po’, mostrandosi diffidente nei confronti degli intellettuali-borghesi-figli di papà, scoprendo il fianco sinistro.
Ripensandoci, caro Giorgio, nonostante la pubblicazione del memoriale di Yalta di Togliatti che indicava chiaramente la «via italiana al socialismo»; nonostante l’idea gramsciana del «comunismo dal volto umano», immanente nello spirito e nello stile del vecchio partito proletario, questi uomini nobili non seppero afferrare l’occasione che si offriva loro, con la rivolta studentesca prima e con le critiche del Manifesto poi.
Certo ci fu l’incontro di Luigi Longo con i giovani, e ci fu poi «l’autunno caldo» del 1969, che fecero maturare la nascita, nel 1970, delle Regioni volute dalla Costituzione del 1948 ed osteggiate con ogni mezzo dai difensori dello stato centralizzato imperniato sulla Democrazia Cristiana.
Tutto ciò si attuò frettolosamente, avanzando senza una strategia condivisa. Le Regioni dovettero lottare per avere il potere necessario per esercitare le loro funzioni, dovettero conquistarsi a fatica il diritto di legiferare pienamente nell’ambito delle loro nuove competenze. D’altronde non tutte le realtà regionali erano pronte ad assumere un tale impegno con la stessa efficacia e soprattutto con la stessa determinazione…
Ma furono anche anni di costruzione, di entusiasmo, di lavoro sodo e di scambio culturale. Del resto, fu proprio nel 1970 che la legge sul divorzio fu approvata. Una legge che metteva in luce un cambiamento epocale, soprattutto in un paese egemonizzato dalla chiesa cattolica come l’Italia. La prima vera legge Di sicuro, tutto questo non sarebbe avvenuto se non ci fosse stato il ’68, se non ci fosse stata quella «rottura» traumatica, se non ci fossero stati anche loro, quei gruppi e gruppuscoli che hanno dato voce a un malessere diffuso, infondendoci il coraggio di criticare.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Se chiudo gli occhi, riesco a vedere quella giornata di Valle Giulia come in un film. Allontanandomi, con mio fratello e altri paurosi come noi, assistemmo alla battaglia da vari punti di vista. In quei tempi, scattare delle foto e soprattutto dei film non era facile come oggi… Bisognava in ogni caso pensarci prima. Altrimenti, con la mia Canon, avrei di certo fissato quello che vedevamo, e anche il nostro sbalordimento pieno di angoscia su una ventina di immagini almeno. Il punto di vista più distante era il bordo di villa Borghese, quel punto in cima alla scalinata di via di valle Giulia dietro cui si cela l’ingresso al giardino del Lago. Vedemmo tram e macchine messe di traverso, per bloccare il traffico. Vedemmo delle nuvolette di fumo scaturire dal vialetto di accesso alla facoltà, assistemmo all’incendio di una jeep della Celere… Ci riavvicinavamo più volte. Una di queste volte, nella scalinata in discesa in prossimità dell’Accademia Britannica, incontrammo Renato Nicolini.
— Sono pazzi, dissi io.
— No, sono coraggiosi, disse Renato.
Anche lui provava, io credo, la stessa sensazione di smarrimento, anche se ad un livello più elevato e consapevole di me. Essendo dirigente dei Goliardi Autonomi e iscritto al partito comunista, conosceva a fondo il trauma di questo movimento che, in un certo senso, si arrampicava sugli specchi, inventando una rivoluzione per scuotere il padre, il padrone, il partito. Partito, padrone e padre che, lui lo sapeva bene, sarebbero stati sordi e diffidenti. Forse anche lui pensava, come me, che non ci potevano essere scorciatoie… ma quando un sentiero nuovo si apre, come si fa a non essere tentati di imboccarlo?

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Più tardi, incontrammo di nuovo Agostino. Con un sorriso smagliante disse che noi due, io e mio fratello, ci eravamo comportati come i generali delle «guerre pacioccone», che se ne stanno lì beati, a distanza, con il loro cannocchiale, a scrutare il campo di battaglia.
Sempre sorridendo, Agostino ci trascinò al suo ufficio di via del Corso. In ascensore, Agostino si rivolse a un funzionario del Partito socialista unificato, raccontandogli animatamente quello che era successo. La risposta fu più o meno la seguente: — per fortuna, in questo momento ci sono dei margini nelle casse dello Stato, daremo un po’ di lavoro e di borse di studio a tutti questi giovani… che problema c’è?
Poi, forse anche sollecitato dalla nostra apprensione, Agostino ebbe l’ardire di telefonare al segretario del partito.
— Segretario, oggi è successa una cosa gravissima, disse Agostino, la polizia ha caricato gli studenti! Ci sono stati dei feriti…
— Hanno fatto bene! rispose il segretario.

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Renato Guttuso, graffiti sur la façade de la Faculté d’Architecture de Rome,
photo de Giorgio Muratore, depuis Archiwatch

Giovanni Merloni

(1) Dovendo, per forza di cose, scrivere in una lingua — l’italiano o il francese — per poi tradurre nell’altra, agli inizi del mio «esilio parigino» scrivevo i miei brogliacci un po’ in italiano un po’ in francese, secondo l’ispirazione del momento. Ma la cosa non funzionava. Per me, infatti, era più facile tradurre dal francese in italiano piuttosto che il contrario e anche perché dovevo decidere ogni volta a chi rivolgere le mie riflessioni di viaggio. Sì, viaggio, perché per molto tempo mi sono sentito sospeso nella gradevole precarietà del «viaggiatore»… Ne risultavano dei testi informi, né carne né pesce. In questi giorni, mi sono accorto di un cambiamento. Se scrivo a te, immaginando che forse qualche altro architetto o amico di architetti leggerà il mio testo in Italia, mi viene ormai naturale scrivere in italiano. Poi, anche se più laboriosa, la traduzione francese verrà. Nell’articolo sulle «ceneri di Pasolini», invece, era agli amici francesi frequentatori del mio blog che dovevo rivolgermi, era a loro che dovevo spiegare, in prima battuta, la banale complessità di ciò che abbiamo traversato e che, in parte, Pasolini aveva «sgamato», come si dice a Roma. In francese riesco a scrivere abbastanza scorrevolmente, anche se il vocabolario è inevitabilmente più limitato, mancandomi spesso le frasi fatte, i modi di dire, i proverbi. Ma poi la traduzione in italiano scorre facile, come le ruote di una macchina in discesa.
G.M.

TESTO IN FRANCESE

Le ceneri di Pasolini

04 dimanche Oct 2015

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Battaglia di Valle Giulia, Carlo Marx, Facoltà di Architettura, Giorgio Muratore, Herbert Marcuse, Italia, Pier Paolo Pasolini, Roma

001_paso 1 180 Le ceneri di Pasolini

Se scavo tra i miei ricordi degli anni ’60, ci trovo, molto prima della data del primo marzo 1968, molti episodi e circostanze che hanno contribuito all’avvio, nel mio paese, dei fenomeni politici e sociali del tutto inediti del biennio ’68-’69, i cosiddetti anni «caldi».
Si tratta talvolta di fatti a cui ho assistito in prima persona, come l’occupazione della Sapienza a Roma in aprile-maggio 1966, a seguito dell’omicidio, davanti alla facoltà di lettere, dello studente Paolo Rossi. Già quella fu una prova, e non la prima, di una tensione crescente, che durava da molto tempo, tra le istituzioni universitarie, sorde e ostili ad ogni richiesta di modernizzazione, e gli studenti, sempre più preoccupati per il loro inserimento lavorativo. Quel l’occupazione fu, per noi studenti, la svolta della piena e definitiva presa di coscienza: d’ora in poi, dovevamo tutti impegnarci, farci carico di un confronto politico che andava al di là delle nostre piccole beghe universitarie.
In ogni caso, per il cambiamento tanto atteso, bisognava che scattasse qualcosa di nuovo e di diverso. Questo scatto avvenne con la giornata del primo marzo 1968, segnata dagli scontri tra poliziotti e studenti proprio davanti alla facoltà di architettura a Valle Giulia a Roma. Una vera e propria «battaglia» che diede luogo a sua volta all’esplosione di un fenomeno che andava ben oltre ciò che si era immaginato alla vigilia. Un fenomeno, chiamato sinteticamente «il ’68», che ha toccato le nostre esistenze nel vivo, mettendo una forte ipoteca sui successivi sviluppi della vita politica in Italia.

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Nella mia recente lettera a Giorgio Muratore, avevo ricordato un episodio occorsomi durante un’assemblea degli studenti, nell’aula magna della Facoltà, qualche giorno dopo la battaglia, allo scopo di svolgere, nei successivi articoli, una riflessione sulla nostra esperienza comune — in libro-progetto intitolato «Diritto alla città» che condividemmo con altri compagni — alla luce degli impegni che ognuno di noi ha poi assunto, come il mio lavoro di urbanista presso la regione Emilia-Romagna a Bologna.
Une fase della mia vita bruscamente interrotta, in un contesto, quello di Bologna, che per forza di cose si è modificato nel tempo e comunque rappresenta, per me, la prova che certe realizzazioni molto positive sono esistite e hanno resistito a lungo. Nello stesso tempo, non posso ignorare che c’è stato un momento in cui il nostro paese ha smesso di progredire, un’ora «x» dopo la quale si assiste allo spreco delle energie e del patrimonio culturale e professionale della nostra generazione (e delle successive) fino a ridursi ad un impressionante «analfabetismo di ritorno», una vera e propria rottura nel circolo virtuoso del progresso civile e culturale. Fatto inatteso è incredibile per un paese come l’Italia, che fu per tanto tempo additata come un esempio di equilibrio e di progresso.
Tutto ciò mi addolora enormemente, tanto più che in questa regressione vedo il riflesso di una serie infinita di passi indietro con cui si deve avere a che fare da quando la corruzione ha preso il sopravvento in Italia. Una corruzione, o decadenza o degenerazione che attraversa ormai tutto il paese ed ha senza dubbio delle ragioni profonde e lontane, che meriterebbero di essere studiate a fondo. Un impegno che, per motivi di spazio e di tempo, non posso assumere in questo momento, anche se alcuni elementi per una simile analisi potrebbero facilmente scaturire da quello che ho visto e vissuto direttamente nel corso degli anni.
Del resto nel mio blog ho deciso di limitarmi soprattutto agli aspetti estetici o specifici dell’attività degli artisti, degli architetti o degli urbanisti che sono inevitabilmente sfiorati da tali trasformazioni e regressioni.
Comunque, prima di «saltare» al tema specifico dell’urbanistica e parlare del libro collettivo sul «diritto alla città», in una delle prossime pubblicazioni del «ritratto incosciente» mi soffermerò sulla famosa «battaglia di Valle Giulia».

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Oggi, dopo aver letto e riletto molte volte «Il PCI ai giovani», poema che Pier Paolo Pasolini indirizzò ai capi del movimento studentesco all’indomani degli scontri, ho deciso di tradurlo in francese, proponendolo per una lettura che si rivelerà, credo, tanto interessante quanto indispensabile.
Questo poema di Pasolini contiene molte premonizioni. La polemica sui poliziotti — nei quali egli vede soprattutto dei figli di famiglie povere e emarginate — è ben nota. Questa polemica corrisponde peraltro alla sua peculiare tematica filosofica e poetica. Totalmente in controtendenza rispetto al mondo della politica come a quello della cultura, Pasolini si rivendica «antiborghese», alimentando i suoi capolavori di una visione, sempre originale e efficace, in cui il realismo si sposa a una ideologia della catarsi e della vittoria morale del bene sul male e del bello sul brutto, anche nelle situazioni più difficili e dolorose.
Pier Paolo Pasolini ha perfettamente ragione quando dice che è sbagliato confondere i poliziotti con la polizia. Ha ragione anche quando afferma che la polizia che interviene in una università non è la stessa polizia che fa irruzione in una fabbrica occupata.
E, di sicuro, il grande poeta e regista cinematografico ha ragione quando rileva nel movimento studentesco del ’68 un fondo di anticomunismo, di delusione o di diffidenza nei confronti di questo Partito fino ad allora indiscusso e carismatico.
Si trattava in ogni caso di un anticomunismo all’italiana, dove «il nemico PCI» era, come evidenzia Pasolini, un partito «di opposizione» che rispettava scrupolosamente le regole del sistema parlamentare di cui era, tra l’altro, il principale pilastro. Un partito che aveva sempre cercato, anche nei momenti più drammatici, di «non accettare le provocazioni», evitando con cura di affrontare la polizia durante le sue manifestazioni…
Dunque, al di là dello choc emotivo che provocano le parole aspre e sincere di Pasolini, non si può che aderire al fondo di quello che l’autore delle «ceneri di Gramsci» coraggiosamente dichiara o, per meglio dire, proclama.
Eppure, rileggendo questo testo quarant’anni dopo la scomparsa violenta del suo Autore, devo confessare di avere provato una profonda angoscia. Perché Pasolini, dopo aver consigliato a questi giovani «disorientati» di integrarsi attivamente nel più grande partito della sinistra — che poteva vantarsi di una lunga tradizione di lotte e di conquiste sociali e culturali — ha poi, da un momento all’altro, rivelato la sua tentazione personale di abbandonare la propria fede irriducibile nella rivoluzione, per aderire d’allora in poi a questa «moda» della guerra civile?
Tutti sanno che Pasolini è stato sempre al di fuori di tali logiche, pur avendo maturato nel tempo, interiormente e nelle sue opere straordinarie, una visione via via più pessimista delle derive probabili che il nostro paese stava per traversare. La sua visione, vicina a quella di Gandhi o di Anna Arendht, molto più che a quella di Herbert Marcuse, il filosofo amato dagli studenti del ’68, si collega d’altra parte all’idea di Gramsci di una interpretazione del verbo di Carlo Marx il più possibile coerente alla realtà italiana e alle sue molteplici anime e culture. Inoltre, grazie alla sua sensibilità a fior di pelle, Pasolini intuiva il «gioco pericoloso» che poteva scaturire dallo spirito guerriero degli studenti che avevano partecipato ai fatti di Valle Giulia.
E aveva anche colto la debolezza del pachiderma: questo partito comunista che non aveva saputo né probabilmente voluto aprire ai giovani, rinnovandosi come i tempi esigevano.
Tragicamente, nel finale disperato del messaggio pubblicato di seguito, la sfiducia di Pasolini nei confronti della capacità del PCI di assumere fino in fondo le sue responsabilità è perfino più forte del suo odio per i borghesi, suoi eterni nemici.
All’indomani della battaglia di Valle Giulia e delle manifestazioni che seguirono, l’estrema destra delle bombe e dei colpi di Stato non fu più sola a minacciare dall’esterno la nostra repubblica parlamentare e il suo precario equilibrio. Dopo una fase di euforia imprudente, caratterizzata da una gigantesca mescolanza di generi, si presentarono sulla scena nuovi soggetti «a sinistra della sinistra». Avevano forse l’illusione di «risolvere tutto» e «tutto capire» come «I Giusti» di Albert Camus ? O invece, come dice Pasolini, volevano accedere al potere tout court, attraverso qualche scorciatoia?

Giovanni Merloni

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Il PCI ai giovani!
La poesia dell’autore delle “ceneri di Gramsci”. I versi di Pier Paolo Pasolini sugli scontri di Valle Giulia che hanno scatenato dure repliche fra gli studenti, La Repubblica, 16 giugno 1968

Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.

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Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da sub-utopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.

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E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.

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A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
si tratta di una lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.

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Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino,
a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il movimento studentesco (?)
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
il teppismo conformista del fratello maggiore
(naturalmente avviato per la strada del padre),
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine anche se già lontane.
Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione
al potere.

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Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti,
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.

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E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi
un giovane operaio di occupare una fabbrica
senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli,
ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi
a dei giovani operai perché possano occupare,
insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.
È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza
(che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati)
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.

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Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama
vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud):
quindi, i Maestri
– che sapranno sempre di essere Maestri –
non saranno mai Maestri: né Gui né voi
riuscirete mai a fare dei Maestri.
I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti)
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, cari! Ecco,
gli Americani, vostri odorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione
del Times e del Tempo).
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale,
“più a sinistra”. Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante ereticale
ma sulla base del più basso idioma referenziale
dei sociologi senza ideologia.

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Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto (da bravi figli borghesi):
una serie di improrogabili riforme
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
e il rinnovamento di un organismo statale. I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica
borghese (con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco)
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.
Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
la noia di un’azione rivoluzionaria vera.

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Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci
del Comitato Centrale: Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…
Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!

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Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità…
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.
Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?

Pier Paolo Pasolini

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TESTO IN FRANCESE

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore (1)

01 jeudi Oct 2015

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Bologna, Emilia-Romagna, Facoltà di Architettura, Giorgio Muratore, Roma

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ASCANI Maurizio, BARBERA Luigi Maria (Mario), FIORE (Francesco Paolo), GERBINO Renato, MARCHITELLI Antonio, MERLONI Giovanni, MURATORE Giorgio, NATOLI Marina, SARACENO Andrea, QUADERNO N. UNO

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore

Caro Giorgio,
ognuno di noi, ognuno di quelli «che hanno cercato di fare qualcosa » dovrebbe spiegare le radici e le cause profonde della sua «indignazione».
Forse, nonostante le molteplici affinità elettive che ci rendono fratelli o cugini, non abbiamo esattamente le stesse idiosincrasie, le stesse rabbie per le stesse offese all’occhio e allo stomaco, all’estetica e alla morale, voglio dire.
Forse, nel tempo, le nostre rispettive battaglie sono diventate più specialistiche o si sono trovate per forza di cose imprigionate in contesti più circoscritti o comunque diversi e lontani uno dall’altro.
Certo, dopo un percorso comune, le nostre vite si sono separate. Non solo per il fatto che a due anni dalla laurea, inaugurando una nuova ondata di architetti romani emigranti a Bologna (di cui hanno fatto parte, tra gli altri, Giuseppe Manacorda, Pier Camillo Beccaria, Marco Peticca, Edoardo Pregher, Maurizio Ascani e Gian Piero Rossi) io avevo deciso di varcare gli Appennini per spezzare il cordone ombelicale con l’odiata-amata Roma, mentre tu hai fatto la scelta di restarvi, lottando, a Roma, dentro quella stessa facoltà di architettura, dando alle nuove generazioni un luminoso esempio di trasmissione democratica delle esperienze e del sapere.

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Ma io feci anche la scelta dell’urbanistica. Di quella «cosa» che da studenti avevamo guardato con sospetto, e criticato ferocemente come la principale responsabile della «non forma» delle nostre città.
Se apro, con circospezione — e paura di trovarvi chissà che — quel «libro», che volevamo intitolare «Diritto alla città», in cui riversammo le nostre speranze ma anche le nostre frustrazioni, mi rendo conto che forse, se dovessimo fare una sincera e utile autocritica, dovremmo partire proprio da lì.
Retrospettivamente, e in maniera sintetica, io vedo la nostra esperienza universitaria ipotecata da due fattori principali.
Il primo, certo il più importante nel cosiddetto «lungo periodo», è stato quello della grande svogliatezza della maggior parte dei nostri docenti e assistenti, a parte alcune luminose eccezioni, come giustamente fu l’esempio Maurizio Sacripanti, o la tenacia di Antonio Quistelli, o la serietà di Paolo Marconi e Vieri Quilici, per esempio. Alla base di tutto, con la dubbia giustificazione del numero (la nostra generazione, chiamata non a caso la generazione del baby boom, comportò, per la prima volta, l’iscrizione di 500 studenti al primo anno di Architettura) si è imposta, a danno dei futuri architettI dell’epoca, una irriducibile gelosia professionale, eccezion fatta per coloro che potevano rientrare, attraverso forme di cooptazione del tutto discrezionali, negli «atelier dei maestri».

Quindi, non si è «voluto» insegnare i segreti del mestiere di architetto alla stragrande maggioranza degli studenti e laureandi. Nel contempo, furono indicati loro degli obiettivi troppo vasti e difficili.

Non posso non ricordare Ludovico Quaroni con affetto e stima grandissima. Un uomo straordinario e carismatico che sapeva trasmettere grandi suggestioni. Sulla sua bocca e nei suoi gesti il «town design» prendeva corpo, sembrava una cosa abbordabile, a portata di mano. Ma come si fa a concepire il «town design», cioè il disegno preventivo e unitario di interi pezzi di città, ignorando o dimenticando l’urbanistica, ignorando o dimenticando che non possono essere le singole persone da sole a «risolvere tutto» con la loro bacchetta magica, se ce l’hanno?

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Il secondo fattore di disturbo, caduto circa a metà della nostra laboriosa e tormentata «auto-formazione» è stata l’esplosione, con il movimento del 1968, di una dimensione politica trascinante ma radicalizzante, che ci obbligò a riconsiderare, alla velocità del fulmine, tutte le nostre modeste certezze.
Il fenomeno dell’università «di massa», come si diceva allora, trovò nella cosiddetta «contestazione» una specie di falso alleato. Se l’università doveva far fronte a un cambiamento quantitativo nel rapporto professori/studenti e forse anche nei sistemi formativi, educativi e di avvio professionale, il movimento di allora predicava una rottura verticale e definitiva con il «sistema», andando molto al di là della giusta ipotesi dello svecchiamento e della lotta all’autoritarismo dietro cui si celava, senza dubbio, un’idea oscurantista, elitaria e antidemocratica della scuola e delle istituzioni culturali, come Pasolini stesso l’aveva sottolineato, all’indomani della « battaglia » di Valle Giulia nel suo poema « Il PCI ai giovani« . Invece di « uccidere il padre » per assumersi fino in fondo delle vere responsabilità, gli è stata tolta l’autorità formale, salvo approfittare delle risorse reali del padre stesso per sfruttare al massimo tutti i privilegi e vantaggi possibili e immaginabili.

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Insomma Giorgio, forse tu non ricordi che nel lontano 1968 presi una volta la parola, nell’aula magna gremita, per dire, sotto lo sguardo beffardo di Sergio Petruccioli, che avremmo potuto e dovuto approfittare di un’occasione. Ricordo che i nostri compagni di università mi ascoltavano molto attentamente, anche se io ero timidissimo e parlavo a scatti. Bisognava utilizzare quel provvisorio «potere», che il ’68 ci regalava, per dire la nostra, per «metterci intorno a un tavolo» con professori e assistenti e cercare di capire, insieme, cosa non andava nella nostra sgangherata facoltà, per cercare di impostare una didattica e una ricerca più coerenti con le nuove esigenze e soprattutto con l’esigenza di una vera democrazia. Non si usava, allora, la parola «trasparenza». Per quella abbiamo dovuto aspettare l’avvento del povero grand’uomo che è stato Michail Gorbaciov, ma, ne sono sicuro, nel mio timido intervento pensavo soprattutto alla trasparenza.
Se c’eri, forse ti ricorderai che questo mio invito alla concretezza e all’onestà fu interpretato come una «azione di disturbo». Petruccioli mi attaccò, dicendo in sostanza che non avevo diritto di parlare, perché non avendo partecipato attivamente a tutte le azioni e riunioni del movimento studentesco, non sapevo di cosa stessi parlando. In verità, il leader indiscusso del movimento nella nostra facoltà era molto preoccupato, perché subito dopo accese un registratore, a tutto volume, obbligando l’uditorio ad ascoltare la voce sofferente di Oreste Scalzone. Quest’ultimo aveva rischiato la morte durante una recentissima manifestazione davanti alla facoltà di legge, essendo stato colpito sulla schiena dal lancio di un banco di scuola, che uno studente di estrema destra aveva fatto cadere da una finestra. Un episodio dolorosissimo che mi riporta alla memoria il clima spettrale di quella giornata veramente tragica.

Resta il fatto che la mia buona volontà fu zittita e ridicolizzata. Continuai a seguire me stesso e mi accorsi tra l’altro di non essere il solo a pensarla così. Renato Nicolini, per esempio, non era certo un facinoroso e fu anzi sempre lucido su questo punto, realizzando poi in prima persona, dieci anni più tardi, il rovesciamento che molti si aspettavano. Pur nell’ipotesi «effimera» dell’Estate Romana, la sua idea di cultura popolare — ma elevata, intelligente, ambiziosa, inserita nel contesto europeo — era una delle strade giuste da seguire.

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Dunque, folgorati sulla via di Damasco da questo «bel momento» del ’68, abbiamo tutti concluso i nostri studi universitari nella condizione meno serena e tranquilla possibile. Avevamo infatti davanti a noi, in questa Roma incapace di diventare capitale d’Italia, un mondo esterno sempre più latitante, dove l’autoritarismo stupido era sostituito da una burocrazia dispettosa. Dentro di noi una vocina, una strana ostinazione e quasi una volontà ci obbligavano a resistere, a cercare a tutti i costi una strada, per noi, per gli altri e forse anche per il mondo.
Ma, ripensandoci alla luce di quello che viviamo oggi, già allora c’erano tutti i germi della degenerazione futura.

Giovanni Merloni

(Continua)

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