Zigzagando a ritroso, 1975 (Ossidiana n. 64)

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Foto presa in prestito da Archiwatch di Giorgio Muratore

Zigzagando a ritroso (1)

I
Mi sto conoscendo,
sto imparando a rispondermi.

Zigzagando a ritroso
nel silenzio assorto
di riflessioni profonde
ridisegno il mio itinerario
tra le trappole della pigrizia
dello spreco insensato
di energie disordinate:
lì ritrovo
il caleidoscopio spezzato
degli episodi brucianti
di una vita bruciata.

Scarabocchiando nel vuoto
mi tuffo nelle pieghe
di una fantasia nascosta,
affacciato
come un timido scolaro
dietro il soffocante muro
di una impossibile pazienza
di un esausto quieto vivere
di un ottuso, gutturale
ombroso assalto
a vischiose istituzioni
a rassegnati gerarchi
a loschi e ipocriti sensali.

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Pier Claudio Pantieri, Mercato Ortofrutticolo, Forlì, da un
articolo di Giancarlo Gatta, Forlì, pubblicato su Archiwatch
de Giorgio Muratore

II
Oggi
schiacciato dalle angosce
dai desideri inarticolati
mi riscopro vulnerabile
contestatore solitario
incapace di urlare.

Oggi
vorrei carezzare con foga
la sfuggente sirena
delle mie sterili ribellioni
delle mie voglie di rivolta
impresse sul film trasparente
di quel passato
di quei giorni
di quegli anni difficili
che esplodono
in silenzio e in ritardo
in mezzo ai passi vorticosi
di questi echi moribondi
che non muoiono mai.

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Un quadro di Michelangelo Antonioni, foto presa in prestito da Archiwatch
di Giorgio Muratore

III
Scarabocchiando
mi incammino su una terra mossa
aggrappato al miraggio
di una vita di doveri solidali
di tran tran coraggiosi.

Zigzagando m’avanzo
gettando via l’indirizzo
di questa chiocciola ricolma
di forza e di debolezza.

Dentro una natura ostile
nell’aperta campagna
minacciata da una tempesta
mai mi abbandono
mai mi rassegno
in un letto di formiche e avvoltoi.

D’improvviso
sotto le stelle
la musica degli zingari
mi regala — oh conquista! —
l’estraneità delle cose.

D’improvviso
il mio corpo è capace
di infinite prodezze
e divento ricco
attento, rispettoso
ansioso di misteri.

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Foto presa in prestito da Archiwatch di Giorgio Muratore

IV
Zigzagando di fuori,
il viaggio nella vita
nutrendosi di stupore
di riflessione e di azzardo
ha bruscamente spezzato
l’intimità
l’introversione patetica
del ragazzo
precocemente pensoso
che fui.

E’ un duro tragitto
cominciare e continuare
a pensare
gettare squarci di luce gialla
sull’estenuante manicheismo
di un mondo
che ha perso il coraggio
di scrutare l’ignoto
che disprezza la dialettica
e sa solo sbandare
senza mai sbagliare
tra bianco e nero
tra buono e cattivo
morale e immorale
onesto e disonesto
pigro e laborioso.

Durante la strada
dei miei trent’anni
sto diventando
forse un
UOMO.

Giovanni Merloni

(1) Questa poesia è nata da un abbozzo poetico del 1975, che ho rielaborato, parallelamente, nelle due lingue della mia vita : l’italiano d’origine e il francese d’adozione. A questa nuova scrittura ha del resto contribuito, inevitabilmente, l’esperienza della vita, le numerose prove che spesso hanno confermato, col passare del tempo, ciò che provavo allora sotto forma di disturbo indistinto o di intuizione anticipatrice.

Questa poesia è protetta da ©Copyright.

Salire tra i gomiti d’acciaio, 1975 (Ossidiana n. 63)

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Salire tra i gomiti d’acciaio

Salire tra i gomiti d’acciaio
delle montagne del tuo sguardo.

Entrare come un ospite
nel tuo sorriso.

Parlare sottovoce
indirettamente
d’amore
con la tua pelle
che esplode.

Abbracciare come un appiglio
tra la schiuma del motoscafo
le tue mani.

Rovesciare verso la sabbia
verso il testo incompleto
di una poesia d’amore
i miei occhi e i tuoi.

Nuotare insieme al tuo collo
carezzato dai ricci della nuca
verso un fondale di alghe gialle.

Ascoltare la tua versione
dei nostri errori
e riderne insieme.

Diventare protagonisti
di una ricchezza di emozioni
di un urlo di baci
di un felice passaggio
tra siepi rosse.

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Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta dal ©Copyright.

TESTO IN FRANCESE

L’Italia : un paese « dal volto umano ». Seconda lettera a Giorgio Muratore

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

L’Italia : un paese « dal volto umano ». Seconda lettera a Giorgio Muratore

Caro Giorgio,
voglio innanzitutto ringraziarti per avermi fatto superare un assurdo «imbarazzo linguistico». Ho finalmente capito l’importanza di una scelta coerente: ogni volta che si scrive, bisogna domandarsi chi è il destinatario della nostra lettera. Dunque, se mi rivolgo a te, è più logico che io scriva in italiano, nella nostra lingua comune. Farò così d’ora in poi. L’eventuale traduzione in francese verrà poi. (1)
Da quando ho « scoperto » il tuo blog e « verificato » che tu, grazie al cielo, non sei cambiato, è aumentato in me il desiderio di tornare idealmente sui luoghi da cui ero fuggito a gambe levate o, per meglio dire, che avevo attraversato come un campo di battaglia dove non avevo trovato il coraggio di combattere.
Come Pierre Bezukov vagante senz’armi tra i morti, i feriti e le sciabolate della battaglia di Borodino, o come il dottor Zivago che non poteva condividere l’assolutismo delle parole d’ordine.

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Foto presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

Del resto io desideravo da tanto tempo raccontare, senza filtri romanzeschi o poetici, la giornata del primo marzo 1968, che ho per così dire « attraversata » in qualità di attore e spettatore nello stesso tempo. Questa giornata, che ha segnato la mia vita, voglio raccontarla prima di tutto per «contestare» l’atteggiamento a volte conformista di coloro che dicono «io c’ero!» per ricavarne un merito… Del resto, so bene che i miei ricordi non potranno aggiungere granché a tutto ciò che si è scritto su questo fatto, da Pasolini fino all’ultimo giornalista del Messaggero o del Tempo, senza contare la bella e celeberrima canzone di Paolo Pietrangeli.

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Foto presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

La rilettura della lettera che Pasolini aveva indirizzato ai capi del movimento studentesco mi ha suggerito quattro piste da tenere presenti nel mio racconto :
1) gli studenti erano dei figli di papà, per la maggior parte di estrazione borghese ;
2) il movimento era fondamentalmente anti-comunista e dunque destinato a creare, come è poi effettivamente successo, una costellazione di formazioni politiche extraparlamentari, fino alle Brigate Rosse ;
3) gli studenti del ’68 promuovevano una « reificazione », una strumentalizzazione della rivolta per ottenere risultati concreti, in una concezione mercantile e opportunista dello scambio politico e culturale ;
4) il movimento degli studenti pretendeva di bypassare le lunghe e faticose discussioni imposte dal centralismo democratico del PCI, per afferrare il potere, come voleva farlo la Vispa Teresa con le farfalle.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Veniamo dunque ai pochi ricordi che mi sento di far emergere dal cappello affumicato della memoria.
«Fuori la polizia dall’università!» gridavano tutti e gridavo anch’io, sommessamente e timidamente. Ma poi, quando fummo davanti ai poliziotti schierati, la mia indignazione — per la « serrata » decisa dalle autorità scolastiche, che ci impediva di entrare nella facoltà mentre alcuni « compagni » erano « chiusi dentro » — non riuscì a trasformarsi in rabbia, in aggressività o violenza. Del resto io non avevo mai « fatto a botte » in vita mia, e non ero il solo. Ma almeno, il nostro amico Maurizio Ascani, anche lui incapace di far del male a una mosca, era rimasto lì, impalato, spettatore di prima linea e, mentre noi scappavamo inseguiti dai poliziotti, lui si beccò una randellata in testa che lo mandò dritto all’ospedale. Mentre noi — io e mio fratello Francesco, tra molti altri — scavalcavamo la siepe che delimita il prato di via Gramsci, scoprendo che al di là di questo esile confine di foglie c’era già un dirupo… altri invece contrattaccavano, a mani nude oppure trasformando le panchine in rudimentali bastoni…
Non eravamo preparati a una simile evenienza. Né all’ipotesi di essere «caricati» dalla polizia né a quella di doverci difendere e addirittura contrattaccare.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Ricordo che allora si era unito al corteo di via dei Frentani — che era passato, in quell’occasione, mi pare, con tutto il suo rimbombo di voci nella galleria della stazione Termini —, Agostino, uno studente di scienze politiche, socialista « di sinistra » come lo erano allora i miei fratelli, che lavorava alla «sezione cultura» del suo partito, nella famosa sede di via del Corso. Con nostra grande sorpresa, Agostino, un tipo abbastanza pacifico, si lanciò senza esitazioni incontro ai poliziotti, come del resto un caro compagno del Mamiani prematuramente scomparso, Umberto Schettino, che ebbe il giorno dopo il prezioso riconoscimento di vedersi effigiato in prima pagina.
Io e Francesco, mio fratello, non passammo, come si suol dire, all’azione fisica, né allora né mai, sia perché nel fondo non eravamo d’accordo, sia perché nostro padre era morto da soli tre mesi, lasciando un vuoto incolmabile. Nostra madre, una donna coraggiosa, più sbilanciata, come me, verso il partito comunista che verso il socialismo moderato e lungimirante di mio padre, non ci aveva certo impedito di partecipare alla «lotta». Ma io trascinai mio fratello nella direzione opposta a quella degli scontri: — pensiamo a nostra madre! gli dissi. Per quanto mi riguardava, io sarei stato d’accordo per sedermi in terra e aspettare che i poliziotti mi portassero via. Credevo alla protesta dei «sit-in», alla resistenza passiva, alla forza delle idee nobili e giuste che finiranno sempre per trionfare, come l’amore.
Intanto persino le ragazze partivano all’attacco, brandendo la loro borsetta e cercando di colpire con quella. Tra loro c’era anche Lucia, una persona sempre sorridente e tranquilla… Quanto a Marina Natoli, la nostra amica carissima, sono sicuro di avere parlato a lungo con lei, perché lei mi aveva aggiornato su quello che stava succedendo… Ma non so dove collocare questo nostro scambio, in quale momento di quella lunga giornata. Nei mesi successivi, Marina ci parlava spesso del dissenso interno al PCI, del gruppo del Manifesto che si stava consolidando intorno alle figure carismatiche di Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Luciana Castellina… Che strano! In quel periodo, pur avendo già votato una volta comunista, non mi ero ancora iscritto al partito, salvo una prima esperienza della organizzazione giovanile, durata poco più di un anno nel 1963. Eppure, una voce interna mi raccomandava di essere «fedele» a questo partito un po’ monolitico ma calato nella realtà. All’epoca, il segretario era Luigi Longo e, insieme al grande Pietro Ingrao c’erano Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta… delle figure straordinarie, oneste, incredibilmente alla mano. Altro che «doppiopetto», come diceva Pasolini! E poi c’era il senatore Edoardo Perna, membro della direzione del partito. Non solo gioviale e allegro in famiglia, mio zio tirava fuori la sua verve «artistica» anche quando, durante le riunioni di partito, adattava motivetti conosciuti a canzoni politiche ferocemente scherzose.

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Renato Guttuso, I funerali di Togliatti,
immagine presa in prestito a Giorgio Muratore, da Archiwatch

Il Partito comunista non poteva certo amare quell’Italia governata da un centro-sinistra debole e ricattata dai cosiddetti poteri forti che si annidavano non soltanto nella borghesia destrorsa ma anche nelle mafie crescenti della speculazione edilizia e dei cosiddetti «corpi separati dello Stato», come la Cassa del Mezzogiorno, l’IRI-Italstat, eccetera. Al tempo stesso il PCI si arroccava un po’, mostrandosi diffidente nei confronti degli intellettuali-borghesi-figli di papà, scoprendo il fianco sinistro.
Ripensandoci, caro Giorgio, nonostante la pubblicazione del memoriale di Yalta di Togliatti che indicava chiaramente la «via italiana al socialismo»; nonostante l’idea gramsciana del «comunismo dal volto umano», immanente nello spirito e nello stile del vecchio partito proletario, questi uomini nobili non seppero afferrare l’occasione che si offriva loro, con la rivolta studentesca prima e con le critiche del Manifesto poi.
Certo ci fu l’incontro di Luigi Longo con i giovani, e ci fu poi «l’autunno caldo» del 1969, che fecero maturare la nascita, nel 1970, delle Regioni volute dalla Costituzione del 1948 ed osteggiate con ogni mezzo dai difensori dello stato centralizzato imperniato sulla Democrazia Cristiana.
Tutto ciò si attuò frettolosamente, avanzando senza una strategia condivisa. Le Regioni dovettero lottare per avere il potere necessario per esercitare le loro funzioni, dovettero conquistarsi a fatica il diritto di legiferare pienamente nell’ambito delle loro nuove competenze. D’altronde non tutte le realtà regionali erano pronte ad assumere un tale impegno con la stessa efficacia e soprattutto con la stessa determinazione…
Ma furono anche anni di costruzione, di entusiasmo, di lavoro sodo e di scambio culturale. Del resto, fu proprio nel 1970 che la legge sul divorzio fu approvata. Una legge che metteva in luce un cambiamento epocale, soprattutto in un paese egemonizzato dalla chiesa cattolica come l’Italia. La prima vera legge Di sicuro, tutto questo non sarebbe avvenuto se non ci fosse stato il ’68, se non ci fosse stata quella «rottura» traumatica, se non ci fossero stati anche loro, quei gruppi e gruppuscoli che hanno dato voce a un malessere diffuso, infondendoci il coraggio di criticare.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Se chiudo gli occhi, riesco a vedere quella giornata di Valle Giulia come in un film. Allontanandomi, con mio fratello e altri paurosi come noi, assistemmo alla battaglia da vari punti di vista. In quei tempi, scattare delle foto e soprattutto dei film non era facile come oggi… Bisognava in ogni caso pensarci prima. Altrimenti, con la mia Canon, avrei di certo fissato quello che vedevamo, e anche il nostro sbalordimento pieno di angoscia su una ventina di immagini almeno. Il punto di vista più distante era il bordo di villa Borghese, quel punto in cima alla scalinata di via di valle Giulia dietro cui si cela l’ingresso al giardino del Lago. Vedemmo tram e macchine messe di traverso, per bloccare il traffico. Vedemmo delle nuvolette di fumo scaturire dal vialetto di accesso alla facoltà, assistemmo all’incendio di una jeep della Celere… Ci riavvicinavamo più volte. Una di queste volte, nella scalinata in discesa in prossimità dell’Accademia Britannica, incontrammo Renato Nicolini.
— Sono pazzi, dissi io.
— No, sono coraggiosi, disse Renato.
Anche lui provava, io credo, la stessa sensazione di smarrimento, anche se ad un livello più elevato e consapevole di me. Essendo dirigente dei Goliardi Autonomi e iscritto al partito comunista, conosceva a fondo il trauma di questo movimento che, in un certo senso, si arrampicava sugli specchi, inventando una rivoluzione per scuotere il padre, il padrone, il partito. Partito, padrone e padre che, lui lo sapeva bene, sarebbero stati sordi e diffidenti. Forse anche lui pensava, come me, che non ci potevano essere scorciatoie… ma quando un sentiero nuovo si apre, come si fa a non essere tentati di imboccarlo?

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Più tardi, incontrammo di nuovo Agostino. Con un sorriso smagliante disse che noi due, io e mio fratello, ci eravamo comportati come i generali delle «guerre pacioccone», che se ne stanno lì beati, a distanza, con il loro cannocchiale, a scrutare il campo di battaglia.
Sempre sorridendo, Agostino ci trascinò al suo ufficio di via del Corso. In ascensore, Agostino si rivolse a un funzionario del Partito socialista unificato, raccontandogli animatamente quello che era successo. La risposta fu più o meno la seguente: — per fortuna, in questo momento ci sono dei margini nelle casse dello Stato, daremo un po’ di lavoro e di borse di studio a tutti questi giovani… che problema c’è?
Poi, forse anche sollecitato dalla nostra apprensione, Agostino ebbe l’ardire di telefonare al segretario del partito.
— Segretario, oggi è successa una cosa gravissima, disse Agostino, la polizia ha caricato gli studenti! Ci sono stati dei feriti…
— Hanno fatto bene! rispose il segretario.

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Renato Guttuso, graffiti sur la façade de la Faculté d’Architecture de Rome,
photo de Giorgio Muratore, depuis Archiwatch

Giovanni Merloni

(1) Dovendo, per forza di cose, scrivere in una lingua — l’italiano o il francese — per poi tradurre nell’altra, agli inizi del mio «esilio parigino» scrivevo i miei brogliacci un po’ in italiano un po’ in francese, secondo l’ispirazione del momento. Ma la cosa non funzionava. Per me, infatti, era più facile tradurre dal francese in italiano piuttosto che il contrario e anche perché dovevo decidere ogni volta a chi rivolgere le mie riflessioni di viaggio. Sì, viaggio, perché per molto tempo mi sono sentito sospeso nella gradevole precarietà del «viaggiatore»… Ne risultavano dei testi informi, né carne né pesce. In questi giorni, mi sono accorto di un cambiamento. Se scrivo a te, immaginando che forse qualche altro architetto o amico di architetti leggerà il mio testo in Italia, mi viene ormai naturale scrivere in italiano. Poi, anche se più laboriosa, la traduzione francese verrà. Nell’articolo sulle «ceneri di Pasolini», invece, era agli amici francesi frequentatori del mio blog che dovevo rivolgermi, era a loro che dovevo spiegare, in prima battuta, la banale complessità di ciò che abbiamo traversato e che, in parte, Pasolini aveva «sgamato», come si dice a Roma. In francese riesco a scrivere abbastanza scorrevolmente, anche se il vocabolario è inevitabilmente più limitato, mancandomi spesso le frasi fatte, i modi di dire, i proverbi. Ma poi la traduzione in italiano scorre facile, come le ruote di una macchina in discesa.
G.M.

TESTO IN FRANCESE

Le ceneri di Pasolini

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001_paso 1 180 Le ceneri di Pasolini

Se scavo tra i miei ricordi degli anni ’60, ci trovo, molto prima della data del primo marzo 1968, molti episodi e circostanze che hanno contribuito all’avvio, nel mio paese, dei fenomeni politici e sociali del tutto inediti del biennio ’68-’69, i cosiddetti anni «caldi».
Si tratta talvolta di fatti a cui ho assistito in prima persona, come l’occupazione della Sapienza a Roma in aprile-maggio 1966, a seguito dell’omicidio, davanti alla facoltà di lettere, dello studente Paolo Rossi. Già quella fu una prova, e non la prima, di una tensione crescente, che durava da molto tempo, tra le istituzioni universitarie, sorde e ostili ad ogni richiesta di modernizzazione, e gli studenti, sempre più preoccupati per il loro inserimento lavorativo. Quel l’occupazione fu, per noi studenti, la svolta della piena e definitiva presa di coscienza: d’ora in poi, dovevamo tutti impegnarci, farci carico di un confronto politico che andava al di là delle nostre piccole beghe universitarie.
In ogni caso, per il cambiamento tanto atteso, bisognava che scattasse qualcosa di nuovo e di diverso. Questo scatto avvenne con la giornata del primo marzo 1968, segnata dagli scontri tra poliziotti e studenti proprio davanti alla facoltà di architettura a Valle Giulia a Roma. Una vera e propria «battaglia» che diede luogo a sua volta all’esplosione di un fenomeno che andava ben oltre ciò che si era immaginato alla vigilia. Un fenomeno, chiamato sinteticamente «il ’68», che ha toccato le nostre esistenze nel vivo, mettendo una forte ipoteca sui successivi sviluppi della vita politica in Italia.

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Nella mia recente lettera a Giorgio Muratore, avevo ricordato un episodio occorsomi durante un’assemblea degli studenti, nell’aula magna della Facoltà, qualche giorno dopo la battaglia, allo scopo di svolgere, nei successivi articoli, una riflessione sulla nostra esperienza comune — in libro-progetto intitolato «Diritto alla città» che condividemmo con altri compagni — alla luce degli impegni che ognuno di noi ha poi assunto, come il mio lavoro di urbanista presso la regione Emilia-Romagna a Bologna.
Une fase della mia vita bruscamente interrotta, in un contesto, quello di Bologna, che per forza di cose si è modificato nel tempo e comunque rappresenta, per me, la prova che certe realizzazioni molto positive sono esistite e hanno resistito a lungo. Nello stesso tempo, non posso ignorare che c’è stato un momento in cui il nostro paese ha smesso di progredire, un’ora «x» dopo la quale si assiste allo spreco delle energie e del patrimonio culturale e professionale della nostra generazione (e delle successive) fino a ridursi ad un impressionante «analfabetismo di ritorno», una vera e propria rottura nel circolo virtuoso del progresso civile e culturale. Fatto inatteso è incredibile per un paese come l’Italia, che fu per tanto tempo additata come un esempio di equilibrio e di progresso.
Tutto ciò mi addolora enormemente, tanto più che in questa regressione vedo il riflesso di una serie infinita di passi indietro con cui si deve avere a che fare da quando la corruzione ha preso il sopravvento in Italia. Una corruzione, o decadenza o degenerazione che attraversa ormai tutto il paese ed ha senza dubbio delle ragioni profonde e lontane, che meriterebbero di essere studiate a fondo. Un impegno che, per motivi di spazio e di tempo, non posso assumere in questo momento, anche se alcuni elementi per una simile analisi potrebbero facilmente scaturire da quello che ho visto e vissuto direttamente nel corso degli anni.
Del resto nel mio blog ho deciso di limitarmi soprattutto agli aspetti estetici o specifici dell’attività degli artisti, degli architetti o degli urbanisti che sono inevitabilmente sfiorati da tali trasformazioni e regressioni.
Comunque, prima di «saltare» al tema specifico dell’urbanistica e parlare del libro collettivo sul «diritto alla città», in una delle prossime pubblicazioni del «ritratto incosciente» mi soffermerò sulla famosa «battaglia di Valle Giulia».

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Oggi, dopo aver letto e riletto molte volte «Il PCI ai giovani», poema che Pier Paolo Pasolini indirizzò ai capi del movimento studentesco all’indomani degli scontri, ho deciso di tradurlo in francese, proponendolo per una lettura che si rivelerà, credo, tanto interessante quanto indispensabile.
Questo poema di Pasolini contiene molte premonizioni. La polemica sui poliziotti — nei quali egli vede soprattutto dei figli di famiglie povere e emarginate — è ben nota. Questa polemica corrisponde peraltro alla sua peculiare tematica filosofica e poetica. Totalmente in controtendenza rispetto al mondo della politica come a quello della cultura, Pasolini si rivendica «antiborghese», alimentando i suoi capolavori di una visione, sempre originale e efficace, in cui il realismo si sposa a una ideologia della catarsi e della vittoria morale del bene sul male e del bello sul brutto, anche nelle situazioni più difficili e dolorose.
Pier Paolo Pasolini ha perfettamente ragione quando dice che è sbagliato confondere i poliziotti con la polizia. Ha ragione anche quando afferma che la polizia che interviene in una università non è la stessa polizia che fa irruzione in una fabbrica occupata.
E, di sicuro, il grande poeta e regista cinematografico ha ragione quando rileva nel movimento studentesco del ’68 un fondo di anticomunismo, di delusione o di diffidenza nei confronti di questo Partito fino ad allora indiscusso e carismatico.
Si trattava in ogni caso di un anticomunismo all’italiana, dove «il nemico PCI» era, come evidenzia Pasolini, un partito «di opposizione» che rispettava scrupolosamente le regole del sistema parlamentare di cui era, tra l’altro, il principale pilastro. Un partito che aveva sempre cercato, anche nei momenti più drammatici, di «non accettare le provocazioni», evitando con cura di affrontare la polizia durante le sue manifestazioni…
Dunque, al di là dello choc emotivo che provocano le parole aspre e sincere di Pasolini, non si può che aderire al fondo di quello che l’autore delle «ceneri di Gramsci» coraggiosamente dichiara o, per meglio dire, proclama.
Eppure, rileggendo questo testo quarant’anni dopo la scomparsa violenta del suo Autore, devo confessare di avere provato una profonda angoscia. Perché Pasolini, dopo aver consigliato a questi giovani «disorientati» di integrarsi attivamente nel più grande partito della sinistra — che poteva vantarsi di una lunga tradizione di lotte e di conquiste sociali e culturali — ha poi, da un momento all’altro, rivelato la sua tentazione personale di abbandonare la propria fede irriducibile nella rivoluzione, per aderire d’allora in poi a questa «moda» della guerra civile?
Tutti sanno che Pasolini è stato sempre al di fuori di tali logiche, pur avendo maturato nel tempo, interiormente e nelle sue opere straordinarie, una visione via via più pessimista delle derive probabili che il nostro paese stava per traversare. La sua visione, vicina a quella di Gandhi o di Anna Arendht, molto più che a quella di Herbert Marcuse, il filosofo amato dagli studenti del ’68, si collega d’altra parte all’idea di Gramsci di una interpretazione del verbo di Carlo Marx il più possibile coerente alla realtà italiana e alle sue molteplici anime e culture. Inoltre, grazie alla sua sensibilità a fior di pelle, Pasolini intuiva il «gioco pericoloso» che poteva scaturire dallo spirito guerriero degli studenti che avevano partecipato ai fatti di Valle Giulia.
E aveva anche colto la debolezza del pachiderma: questo partito comunista che non aveva saputo né probabilmente voluto aprire ai giovani, rinnovandosi come i tempi esigevano.
Tragicamente, nel finale disperato del messaggio pubblicato di seguito, la sfiducia di Pasolini nei confronti della capacità del PCI di assumere fino in fondo le sue responsabilità è perfino più forte del suo odio per i borghesi, suoi eterni nemici.
All’indomani della battaglia di Valle Giulia e delle manifestazioni che seguirono, l’estrema destra delle bombe e dei colpi di Stato non fu più sola a minacciare dall’esterno la nostra repubblica parlamentare e il suo precario equilibrio. Dopo una fase di euforia imprudente, caratterizzata da una gigantesca mescolanza di generi, si presentarono sulla scena nuovi soggetti «a sinistra della sinistra». Avevano forse l’illusione di «risolvere tutto» e «tutto capire» come «I Giusti» di Albert Camus ? O invece, come dice Pasolini, volevano accedere al potere tout court, attraverso qualche scorciatoia?

Giovanni Merloni

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Il PCI ai giovani!
La poesia dell’autore delle “ceneri di Gramsci”. I versi di Pier Paolo Pasolini sugli scontri di Valle Giulia che hanno scatenato dure repliche fra gli studenti, La Repubblica, 16 giugno 1968

Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.

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Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da sub-utopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.

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E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.

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A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
si tratta di una lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.

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Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino,
a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il movimento studentesco (?)
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
il teppismo conformista del fratello maggiore
(naturalmente avviato per la strada del padre),
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine anche se già lontane.
Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione
al potere.

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Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti,
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.

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E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi
un giovane operaio di occupare una fabbrica
senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli,
ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi
a dei giovani operai perché possano occupare,
insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.
È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza
(che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati)
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.

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Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama
vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud):
quindi, i Maestri
– che sapranno sempre di essere Maestri –
non saranno mai Maestri: né Gui né voi
riuscirete mai a fare dei Maestri.
I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti)
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, cari! Ecco,
gli Americani, vostri odorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione
del Times e del Tempo).
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale,
“più a sinistra”. Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante ereticale
ma sulla base del più basso idioma referenziale
dei sociologi senza ideologia.

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Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto (da bravi figli borghesi):
una serie di improrogabili riforme
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
e il rinnovamento di un organismo statale. I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica
borghese (con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco)
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.
Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
la noia di un’azione rivoluzionaria vera.

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Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci
del Comitato Centrale: Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…
Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!

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Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità…
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.
Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?

Pier Paolo Pasolini

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TESTO IN FRANCESE

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore (1)

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ASCANI Maurizio, BARBERA Luigi Maria (Mario), FIORE (Francesco Paolo), GERBINO Renato, MARCHITELLI Antonio, MERLONI Giovanni, MURATORE Giorgio, NATOLI Marina, SARACENO Andrea, QUADERNO N. UNO

Il « personale » è davvero politico? Lettera a Giorgio Muratore

Caro Giorgio,
ognuno di noi, ognuno di quelli «che hanno cercato di fare qualcosa » dovrebbe spiegare le radici e le cause profonde della sua «indignazione».
Forse, nonostante le molteplici affinità elettive che ci rendono fratelli o cugini, non abbiamo esattamente le stesse idiosincrasie, le stesse rabbie per le stesse offese all’occhio e allo stomaco, all’estetica e alla morale, voglio dire.
Forse, nel tempo, le nostre rispettive battaglie sono diventate più specialistiche o si sono trovate per forza di cose imprigionate in contesti più circoscritti o comunque diversi e lontani uno dall’altro.
Certo, dopo un percorso comune, le nostre vite si sono separate. Non solo per il fatto che a due anni dalla laurea, inaugurando una nuova ondata di architetti romani emigranti a Bologna (di cui hanno fatto parte, tra gli altri, Giuseppe Manacorda, Pier Camillo Beccaria, Marco Peticca, Edoardo Pregher, Maurizio Ascani e Gian Piero Rossi) io avevo deciso di varcare gli Appennini per spezzare il cordone ombelicale con l’odiata-amata Roma, mentre tu hai fatto la scelta di restarvi, lottando, a Roma, dentro quella stessa facoltà di architettura, dando alle nuove generazioni un luminoso esempio di trasmissione democratica delle esperienze e del sapere.

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Ma io feci anche la scelta dell’urbanistica. Di quella «cosa» che da studenti avevamo guardato con sospetto, e criticato ferocemente come la principale responsabile della «non forma» delle nostre città.
Se apro, con circospezione — e paura di trovarvi chissà che — quel «libro», che volevamo intitolare «Diritto alla città», in cui riversammo le nostre speranze ma anche le nostre frustrazioni, mi rendo conto che forse, se dovessimo fare una sincera e utile autocritica, dovremmo partire proprio da lì.
Retrospettivamente, e in maniera sintetica, io vedo la nostra esperienza universitaria ipotecata da due fattori principali.
Il primo, certo il più importante nel cosiddetto «lungo periodo», è stato quello della grande svogliatezza della maggior parte dei nostri docenti e assistenti, a parte alcune luminose eccezioni, come giustamente fu l’esempio Maurizio Sacripanti, o la tenacia di Antonio Quistelli, o la serietà di Paolo Marconi e Vieri Quilici, per esempio. Alla base di tutto, con la dubbia giustificazione del numero (la nostra generazione, chiamata non a caso la generazione del baby boom, comportò, per la prima volta, l’iscrizione di 500 studenti al primo anno di Architettura) si è imposta, a danno dei futuri architettI dell’epoca, una irriducibile gelosia professionale, eccezion fatta per coloro che potevano rientrare, attraverso forme di cooptazione del tutto discrezionali, negli «atelier dei maestri».

Quindi, non si è «voluto» insegnare i segreti del mestiere di architetto alla stragrande maggioranza degli studenti e laureandi. Nel contempo, furono indicati loro degli obiettivi troppo vasti e difficili.

Non posso non ricordare Ludovico Quaroni con affetto e stima grandissima. Un uomo straordinario e carismatico che sapeva trasmettere grandi suggestioni. Sulla sua bocca e nei suoi gesti il «town design» prendeva corpo, sembrava una cosa abbordabile, a portata di mano. Ma come si fa a concepire il «town design», cioè il disegno preventivo e unitario di interi pezzi di città, ignorando o dimenticando l’urbanistica, ignorando o dimenticando che non possono essere le singole persone da sole a «risolvere tutto» con la loro bacchetta magica, se ce l’hanno?

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Il secondo fattore di disturbo, caduto circa a metà della nostra laboriosa e tormentata «auto-formazione» è stata l’esplosione, con il movimento del 1968, di una dimensione politica trascinante ma radicalizzante, che ci obbligò a riconsiderare, alla velocità del fulmine, tutte le nostre modeste certezze.
Il fenomeno dell’università «di massa», come si diceva allora, trovò nella cosiddetta «contestazione» una specie di falso alleato. Se l’università doveva far fronte a un cambiamento quantitativo nel rapporto professori/studenti e forse anche nei sistemi formativi, educativi e di avvio professionale, il movimento di allora predicava una rottura verticale e definitiva con il «sistema», andando molto al di là della giusta ipotesi dello svecchiamento e della lotta all’autoritarismo dietro cui si celava, senza dubbio, un’idea oscurantista, elitaria e antidemocratica della scuola e delle istituzioni culturali, come Pasolini stesso l’aveva sottolineato, all’indomani della « battaglia » di Valle Giulia nel suo poema « Il PCI ai giovani« . Invece di « uccidere il padre » per assumersi fino in fondo delle vere responsabilità, gli è stata tolta l’autorità formale, salvo approfittare delle risorse reali del padre stesso per sfruttare al massimo tutti i privilegi e vantaggi possibili e immaginabili.

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Insomma Giorgio, forse tu non ricordi che nel lontano 1968 presi una volta la parola, nell’aula magna gremita, per dire, sotto lo sguardo beffardo di Sergio Petruccioli, che avremmo potuto e dovuto approfittare di un’occasione. Ricordo che i nostri compagni di università mi ascoltavano molto attentamente, anche se io ero timidissimo e parlavo a scatti. Bisognava utilizzare quel provvisorio «potere», che il ’68 ci regalava, per dire la nostra, per «metterci intorno a un tavolo» con professori e assistenti e cercare di capire, insieme, cosa non andava nella nostra sgangherata facoltà, per cercare di impostare una didattica e una ricerca più coerenti con le nuove esigenze e soprattutto con l’esigenza di una vera democrazia. Non si usava, allora, la parola «trasparenza». Per quella abbiamo dovuto aspettare l’avvento del povero grand’uomo che è stato Michail Gorbaciov, ma, ne sono sicuro, nel mio timido intervento pensavo soprattutto alla trasparenza.
Se c’eri, forse ti ricorderai che questo mio invito alla concretezza e all’onestà fu interpretato come una «azione di disturbo». Petruccioli mi attaccò, dicendo in sostanza che non avevo diritto di parlare, perché non avendo partecipato attivamente a tutte le azioni e riunioni del movimento studentesco, non sapevo di cosa stessi parlando. In verità, il leader indiscusso del movimento nella nostra facoltà era molto preoccupato, perché subito dopo accese un registratore, a tutto volume, obbligando l’uditorio ad ascoltare la voce sofferente di Oreste Scalzone. Quest’ultimo aveva rischiato la morte durante una recentissima manifestazione davanti alla facoltà di legge, essendo stato colpito sulla schiena dal lancio di un banco di scuola, che uno studente di estrema destra aveva fatto cadere da una finestra. Un episodio dolorosissimo che mi riporta alla memoria il clima spettrale di quella giornata veramente tragica.

Resta il fatto che la mia buona volontà fu zittita e ridicolizzata. Continuai a seguire me stesso e mi accorsi tra l’altro di non essere il solo a pensarla così. Renato Nicolini, per esempio, non era certo un facinoroso e fu anzi sempre lucido su questo punto, realizzando poi in prima persona, dieci anni più tardi, il rovesciamento che molti si aspettavano. Pur nell’ipotesi «effimera» dell’Estate Romana, la sua idea di cultura popolare — ma elevata, intelligente, ambiziosa, inserita nel contesto europeo — era una delle strade giuste da seguire.

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Dunque, folgorati sulla via di Damasco da questo «bel momento» del ’68, abbiamo tutti concluso i nostri studi universitari nella condizione meno serena e tranquilla possibile. Avevamo infatti davanti a noi, in questa Roma incapace di diventare capitale d’Italia, un mondo esterno sempre più latitante, dove l’autoritarismo stupido era sostituito da una burocrazia dispettosa. Dentro di noi una vocina, una strana ostinazione e quasi una volontà ci obbligavano a resistere, a cercare a tutti i costi una strada, per noi, per gli altri e forse anche per il mondo.
Ma, ripensandoci alla luce di quello che viviamo oggi, già allora c’erano tutti i germi della degenerazione futura.

Giovanni Merloni

(Continua)

TESTO IN FRANCESE

La migliore scuola, 1975 (Ossidiana n. 62)

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« Il personale è politico »

Sono il primo a restare sorpreso scoprendo, nelle pieghe delle mie lontane poesie d’amore, tracce chiare o contraddittorie di un discorso politico.
Sono anche stupito per un tale malessere, che mi portava a fare delle analisi lucide, nella realtà in cui vivevo, intorno ai segnali latenti di involuzione, di mancanza di coerenza e di tenacia anche in coloro che avevano così tanto voluto il cambiamento e la piena realizzazione della democrazia in Italia.
Com’era possibile un tale stato d’animo, nel 1975-1976, a Bologna? Proprio nel momento glorioso in cui il partito comunista italiano raggiungeva formidabili risultati alle elezioni regionali e politiche? Vedere il nero nel rosso di tante speranze che si ridestavano?
Era l’amore, coi suoi alti e bassi, che mi rendeva così pessimista? Di quali «strani maestri» parlavo?
Non certo di coloro che stimavo e frequentavo come padri e fratelli. Ma avvertivo, anche nella nostra isola felice, l’eco di un mondo che prendeva una brutta piega, di una democrazia imperfetta che era sempre più minacciata…
D’altronde, fu proprio nel 1975 che noi dovemmo subire la morte violenta di Pier Paolo Pasolini, un uomo che aveva avuto il coraggio di dire, in assoluta contro-tendenza, delle cose assai scomode, che nel tempo si sono rivelate terribilmente vere…
Avevo già, mi sembra, il presentimento di quello che stava lì lì per accadere. A cominciare dall’omicidio di Aldo Moro, la bomba alla stazione di Bologna, la grave corruzione che avrebbe segnato l’epilogo di una fase politica che aveva sempre ruotato intorno Democrazia cristiana o al partito socialista, fino all’arrivo di Silvio Berlusconi e dei suoi alleati della Lega Nord…
«Il personale è politico…» si diceva in quest’epoca ormai dimenticata. Per dire che la vita del singolo non può restare chiusa in una camera stagna e viceversa. Del resto, ognuno di noi avrà sempre a che fare con la vita degli altri, la collettività, la politica.
Forse ci avevano autorizzati ad amare più liberamente che nel passato, ma ci hanno poi levato, giorno dopo giorno, il diritto di parlare, di dialogare, di partecipare a una discussione costruttiva. Nel momento preciso in cui l’Italia era pronta a diventare un paese libero, ne è stata bruscamente distolta, in cambio di una falsa libertà, basata sul denaro e sull’egoismo istituzionalizzato. Un paese «disturbato», il mio.
G.M.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

La migliore scuola

I
Ci hanno fanno credere migliore
questa scuola senza inutili scorie
tra le liane e i serpenti
di una buia giungla carnivora.

Ci hanno insegnato
a impostare la voce
su pungenti note selvagge.
Ci hanno inculcato
una lingua senza aggettivi
un dialetto senza accenti,
perché non ci sentissimo esclusi
dalla lussureggiante kermesse
popolata da sorridenti fanciulle
inanellate.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

Ben presto
questi strani maestri
si sono appartati
ben bene bardati
di specchietti e collane
intorno a un fuoco
o un gorgo improvvisato.

Ben presto
hanno rispolverato
i loro strumenti di tortura
le loro informazioni di seconda mano.

Ora lo sanno come fare a disfarsi
di coloro che preferiscono
l’anti-retorica
guappa e spensierata
delle parole storpiate
delle storie inventate
delle voci incontrollate
dei silenzi eloquenti
dei gesti irriverenti.

003_terme-di-cotilia
Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

II
Dopo la battaglia
la collina scoscesa
fu invasa da boy scouts
da colonnelli in pensione
da una pioggia di biglietti
di illusorie cacce al tesoro.

Dopo la sconfitta
le donne che avevamo amato
finsero di essere alberi
incollati ai muri
di disadorni appartamenti di periferia.

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Foto di Giorgio Muratore, da Archiwatch

III
In questa società priva di senso
sarà futile qualsiasi speranza
di eventi propizi.
Il parcheggio della giovinezza
non si aprirà nuove strade
da assoggettare alle ruote dei passi.

Ma almeno, malgrado tutto
voglio avere vissuto, voglio avere lottato.

Ma almeno, nonostante
quest’anima derisa
e questo corpo ferito
voglio avere amato.

Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta da ©Copyright

TESTO IN FRANCESE

La calma del calamo fa sparire i rumori del mondo

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001_alani 06 (1) 180La calma del calamo fa sparire i rumori del mondo

In occasione di una nuova visita a Ghani Alani, sono rimasto circa mezz’ora a osservarlo mentre lavorava. Come se assistessi, dall’alto di un promontorio, alla traversata di una barca che avanzasse lenta e calma nell’acqua ferma e tiepida del Mediterraneo al crepuscolo. Oppure ai gesti sicuri di Robin Hood (o di Guglielmo Tell) nell’atto di tirare la corda dell’arco contro il petto, prima di lasciar partire la freccia, dando già per scontato che questa colpirà proprio nel centro del bersaglio lontano, invisibile per le persone normali. Affascinato dall’alternanza del calamo e del pennello, io mi sono a lungo interrogato sul sesso dei nomi che diamo alle cose. Per esempio, calamo è maschile, mentre penna è femminile. Il calamo, che si fabbrica tagliando le canne, per assolvere alla sua missione ha bisogno della sua cavità naturale interna, creata dalla natura stessa per farvi colare l’inchiostro, anch’esso maschile. D’altra parte, avendo la punta tagliata sulla diagonale, il calamo somiglia a un flauto (mentre in francese il « roseau » (canna) è maschile e l' »encre » (inchiostro) è femminile…

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Mentre Ghani Alani lasciava scivolare l’inchiostro lungo i solchi invisibili che la sua anima creatrice aveva tracciato idealmente sotto la grande pagina, mi sono divertito a raggruppare da una parte i « maschi » e dall’altra le « femmine che entrano un gioco durante queste traversate minuziose o di punto in bianco brusche e vitali. Il calamo, il pennello, il flauto e l’inchiostro e il foglio di carta aerano uomini (o ragazzi) dell’atelier di calligrafia di Ghani Alani, mentre la pergamena e la pagina erano le « donne » (o le ragazze).
Mi sono allora ricordato du una vecchia disputa filosofica di circa quidici anni fa, a Roma, tra me il maestro Alvaro Vatri, all’epoca della preparazione di une mostra e du uno spettacolo per festeggiare i duemila e passa anni di ponte Milvio, un ponte romano vecchio quasi quanto la città di Roma, cosiddetta « eterna » : « Tra il ponte e il fiume, chi è l’uomo ? ci domandavamo. Chi è la donna ?
Qui, la pagina, cioè la pergamena potrebbe identificarsi col fiume, mentre il calamo-pennello, tutt’uno con la mano e il gesto creatore, sarebbe il ponte. L’inchiostro o il colore chi cola dal calamo alla pagina, senza mai sconfinare, potrebbe essere invece l’acqua del fiume che torna al fiume stesso, come se la ruota di un mulino le imponesse delle capriole continue…
D’altronde, è proprio Ghani Alani chi lo dice : “non ci sarebbe la notte se non ci fosse il giorno ; non ci sarebbe la vita se non ci fosse la morte e finalmente non ci sarebbe l’uomo se non ci fosse la donna”.
La calligrafia rappresenta, dunque, soprattutto un atto d’amore, un abbraccio più o meno prolungato, un incontro d’amore dove tutto si confonde in uno scambio carnale e sublime. La pagina diventa calamo, l’inchiostro diventa pennello. L’uomo diventa donna…

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Prima di salutarci, Ghani Alani mi ha dato da leggere una poesia, in francese, col permesso di pubblicarla qui sotto, dopo averla tradotta in italiano.

Giovanni Merloni

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La lettera scaturita dal mio calamo è un’innamorata

Il calamo con cui lei scrive è la sua stessa immagine
Dolce alla carezza, armoniosa allo sguardo
Il nero dei suoi occhi, piangendo, fa sorridere le pagine del destino.

Dalle sue labbra, cola la linfa o il veleno, lo spirito del suo innamorato.
Lei non ha altro maestro che quello che l’ha scolpita
Col suo soffio, lei a volte è il flauto e a volte la penna.
Conquistatrice dello spazio per volere dello scrittore,
Lei è nata sulla riva del fiume:
Così ha potuto afferrare la melodia dell’usignolo.
Stretta alla mano del suo signore
Di questo mondo può tutto possedere.

Lei ricama con la notte i vestiti del giorno.
Se comincia a parlare, lei non lascia alcuna chance a un parlatore;
Muta quando è in riposo, diventa l’eloquenza in persona quando entra in azione.
Lei non si prosterna mai, tranne che in fondo alla nicchia della pagina amorosa;
Lei non carezza che la pelle dolce della pergamena;
Lei può disperdere le armate, ma può anche riunire le truppe della pace;
Lei non si disseta che inebriandosi all’acquasantiera dell’inchiostro per calmare così la sete di intelligenza.
Il liquore della sua bocca è la rugiada delle praterie della pagina;
A volte, lei ne diventa il torrente furioso.
Io la sento canticchiare, descrivendo le sue gioie e le sue infelicità.

« Sono stata innaffiata e cantata
E oggi, io innaffio, io canto.
E scrivo anche in bella calligrafia;
Mi chiamano canna
Per alcuni io sono la felicità;
Ed è una mano che mi fa cantare. »

Le sue lacrime sconfinano riempiendo le pagine
I suoi occhi scoccano frecce che arrivano al cuore degli innamorati;
Sotto i suoi denti lo spirito degli uomini si curva.
Una volta, l’ho sentita paragonarsi alla spada e dire

« Mentre io uccido senza versare alcun sangue
Tu, invece, massacri seminando la desolazione. »

Ghani Alani
(traduzione in italiano : Giovanni Merloni)

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La lettre de mon calame est une amoureuse

Elle écrit avec un calame qui n’est autre que son image
Douce à la caresse, harmonieuse au regard
La noirceur de ses yeux, en pleurant, fait sourire les pages du destin.

De ses lèvres, coule la sève ou le poison, l’esprit de son amoureux.
Elle n’a d’autre maître que celui qui l’a sculptée
De son souffle, tantôt elle est le ney, tantôt elle est la plume.
Conquérante de l’espace par la pensée de l’écrivain,
Elle est née sur la rive du fleuve :
C’est ainsi qu’elle a capté la mélodie du rossignol.
Enlacée à la main de son seigneur
Elle peut tout posséder de ce monde.

Elle brode avec la nuit les habits du jour.
Qu’elle commence à parler, elle ne laisse aucune chance à un parleur ;
Muette quand elle est au repos, elle est l’éloquence même lorsqu’elle est en action.
Elle ne s’est jamais prosternée qu’au sein du mihrab de la page amoureuse ;
Elle ne caresse que la peau douce du parchemin ;
Elle peut disperser les armées, comme elle peut réunir les troupes de la paix ;
Elle ne se désaltère qu’en s’enivrant au bénitier de l’encre pour apaiser ainsi la soif d’entendement.
La liqueur de sa bouche est la rosée des prairies de la page ;
Parfois, elle en est le torrent furieux.
Je l’entends chantonner, décrivant ses joies et ses malheurs.

« J’ai été arrosée et chantée
Et aujourd’hui, j’arrose, je chante.
Et même je calligraphie ;
On m’appelle roseau
Je suis le bonheur pour certains ;
On me fait chanter de la main. »

Ses larmes débordent pour remplir les pages
Ses yeux décochent des flèches qui atteignent le cœur des amoureux ;
Elle courbe l’esprit des hommes sous ses dents.
Une fois, je l’ai entendue se comparer à l’épée en disant

« Moi, je tue sans verser le sang
Et toi, tu massacres en semant la désolation. »

Ghani Alani006_alani 09 (1) 180Questo blog è protetto dal ©Copyright

TESTO IN FRANCESE

Per tutta la vita, 1975 (Ossidiana n. 61)

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Bar estivo all’aria aperta nel recinto dei Recollets (Paris Xe)
sede dell’Ordine degli Architetti francesi

Per tutta la vita

I
Desidero un bagno
in una cascata
che scrosti le scorie
di questa guerra
il fango delle paludi
della confusione
degli escrementi
dei piccioni morti
delle tue parole
il vomito di sangue
della mia paura di soffrire.

Desidero riappropriarmi
del mio corpo
senza peso
della mia pelle senza colore
della mia testa
senza ossessioni.

Desidero il tuo abbraccio
tra foglie di leggenda
in uno statico quadro
di Leonardo.

Desidero quel clima di gioco
con cui è stato rischioso
scherzare.

Desidero il tuo sguardo
la solida roccia
del tuo sospiro
delle tue braccia.

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Bar estivo all’aria aperta nel recinto dei Recollets (Paris Xe)
sede dell’Ordine degli Architetti francesi

Desidero per tutta la vita
questo distacco
con cui sorrido
comprensivo e complice
agli imprevedibili eventi
di una vita diversa
inconsueta.

Desidero un ordine di cristallo
e una casa liquida
trafitta dal sole verde.

Desidero che tu mi accetti
che tu mi scelga
che tu mi riconosca
quello che tu hai tolto
quello che tu hai messo.

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Bar estivo all’aria aperta nel recinto dei Recollets (Paris Xe)
sede dell’Ordine degli Architetti francesi

II
Bisognerebbe stare alla larga
da coloro che teorizzano
il proprio contingente equilibrio
da coloro che rigettano l’angoscia
da coloro che amano la vita
da coloro che si difendono
con ogni arma
da coloro che
inevitabilmente
ci trascinano.

Bisognerebbe stare alla larga
da persone come me
e come te.

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Bar estivo all’aria aperta nel recinto dei Recollets (Paris Xe)
sede dell’Ordine degli Architetti francesi

Giovanni Merloni

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TESTO IN FRANCESE

Ex abrupto, 1975 (Ossidiana n. 60)

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Anch’io

Anch’io posso avere un senso
un rapido profilo
un capo e una coda.

Amarezza non è malinconia

Amarezza non è malinconia.

Amarezza è lo scherzo insensato
che ci piomba addosso
quando la passione, ottusa,
rotola a terra.

Amarezza è la forza
di guardarsi allo specchio
e restare ben saldi
scrutando
l’inutilità ritrovata,
e il vaso mai colmo
del nostro bisogno d’amore.

002_danzatori scoloriti

Ogni giorno è il primo e l’ultimo

Cos’è la bellezza
cos’è il dolore
ogni giorno è il più bello
ma anche il più triste.

Cos’è la giovinezza
cos’è la vecchiaia
ogni giorno è il primo e l’ultimo.

Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta dal ©Copyright

TESTO IN FRANCESE

La nostra casa è un albergo, 1975 (Ossidiana n. 59)

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001_photo cèze più gérard 180La nostra casa è un albergo

La nostra casa è un albergo.

La nostra terrazza
è la terra levigata
di un deserto che scotta.

Il nostro giardino senza recinti
è l’erba calpestata
di un privato proprietario
che ci ospiterà
fino all’alba.

I nostri vestiti scuciti
scivolano sull’asfalto
mentre corriamo,
a braccetto,
come due strani clown,
sempre salutando
quello scombinato casolare.

002_ossi_nuova 180

Forse un giorno

Forse un giorno
un cavaliere inesistente
del tutto indifferente
ti rapirà
con disinvolto galoppo
e fumi di polvere
intorno alle tue porte di pietra.
In mezzo alla cenere rossa
la sua piuma pervinca
trascinerà a terra la statua di calce
del nostro straziante monologo.

Aspettandolo,
il tuo corpo nudo,
spezzando il nodo che ci legava
sconvolgerà la duna
rivelando tra noi
uno strano deserto
di solitudine
dove si nasconde la forza
dimenticata
degli slanci d’amore.

Se ci penso, solo Ieri
le tue parole assediate
correvano intorno ai miei occhi
nella stanza assolata
di un ring sotto i riflettori.
In quel recinto inespugnato
nudi, ci carezzavamo,
senza mai pensare
senza mai montare sulla torre su in cima.

Nonostante
questa prova avvilente,
quel galante cavaliere inesistente,
con un gesto elegante,
mi ha ridato il suo vestito
il suo elmo insanguinato
i suoi guanti polverosi. Tra poco
lo spiraglio del tuo sguardo
traverserà il recinto d’ombra
del mio cuore guerriero
risuscitato
pronto a gridare.

Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta dal ©Copyright.

TESTO IN FRANCESE