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Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

06 samedi Fév 2016

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti, ritratti

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Auguste Renoir, Carlo Goldoni, Carlo Levi, Casalvieri, Como, Dario Fo, Edward Hopper, Gabriella Merloni, Giorgio Strehler, I Giganti della Montagna, Isola Dovarese, Jean Genet, Ludwig van Beethoven, Luigi Pirandello, Massimo Summa, Michelangelo Antonioni, Mirella Summa, Omero, Patrizia Molteni, Pierangelo Summa, Radio Aligre, Sara Summa, Théâtre des Déchargeurs, Tiresia

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Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (regia di Giorgio Strehler)

Mi viene spesso da pensare che ogni persona di genio, alla fine della sua esistenza, viene punita con un male che lo colpisce, inesorabilmente, proprio nel punto più vivo e essenziale della sua espressione artistica.
A volte la natura si sbaglia, privando per esempio Edward Hopper dell’udito invece che della vista o dell’uso delle mani e dandogli, per così dire, in cambio la possibilità di raccontare ai posteri il suo speciale mondo ovattato, la sua visione «spaesata» dei rapporti umani al di qua e al di là del baratro.
Anche Omero, privato degli occhi, ha potuto sviluppare meglio la sua drammaturgia poetica imparando e restituendo a memoria le sue edificanti battaglie. E Tiresia, per veder meglio il futuro, poteva rinunciare senza troppe tragedie alla sua vista di uomo o di donna.
Ma non potrei mai sminuire la sofferenza di Ludwig van Beethoven, colpito nell’organo più importante per un musicista, l’udito, o per quel grande corridore dei cento metri che finì sulla sedia a rotelle, o per Auguste Renoir che cadendo dalla bicicletta compromise gravemente l’uso della spina dorsale perdendo progressivamente l’uso delle mani.
Certo Renoir dipinse fino alla morte e Beethoven riuscì à vedere nel buio della sua sordità le note della nona sinfonia senza perderne una battuta né la minima sfumatura.
Ma come doveva sentirsi Carlo Levi, un grande pittore (e scrittore) italiano del novecento, quando, diventato ormai cieco, cercava lo stesso di lasciare un’impronta del suo discorso interrotto, dipingendo all’interno di una speciale griglia sospesa sulla tela che lui chiamava «quaderno a cancelli»?
Altri grandi, come Michelangelo Antonioni, hanno dovuto passare gli ultimi anni della loro vita in uno stato di confusione o di assenza, privati dal solo clic di una malattia invisibile dell’acuta e inesauribile forza del loro ragionare, inventare, scandalizzare, rovesciare i parametri e finalmente trasmettere una nuova forma di arte e di cultura.

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Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

Pierangelo Summa fa parte di quei geni unici e straordinari che vengono interrotti lungo il loro generoso percorso artistico da un male subdolo che non si limita a colpire un organo o un senso, ma aggredisce progressivamente tutto il corpo. Guarda caso, Pierangelo Summa era appunto un artista che aveva il proprio fondamentale strumento di espressione nel corpo, in tutto il corpo: il corpo umano nella sua straordinaria elasticità e adattabilità alle più diverse azioni e emozioni; il corpo in maschera delle marionette o pupazzi più o meno elastici o smidollati che lui stesso creava o che lui faceva rivivere nel corpo di attori veri o improvvisati. Mettendo in moto la «seconda vita» di ognuno di noi, quella appunto del corpo, Pierangelo Summa ha inventato e fatto conoscere un teatro «al rovescio» o «all’improvvista» in cui l’antica tradizione della commedia dell’arte italiana si fonde «dialetticamente» e aggiungerei «ironicamente» con il teatro impegnato, dalla tragedia greca fino a Jean Genet.

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Creatore di maschere e animatore di spettacoli di strada per vocazione naturale, Pierangelo Summa è stato senza dubbio uno dei capofila del movimento teatrale italiano degli anni ’70, svolgendo gran parte della sua attività artistica in Lombardia, dove una ricchissima tradizione di canti e spettacoli popolari trovava un riscontro teatrale autorevole in figure carismatiche come Giorgio Strehler e Dario Fo, tra gli altri. Se la famosa messa in scena dell’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler non fu indifferente al giovane Summa per l’importanza conferita al ruolo della maschera, il «teatro della parola» di Dario Fo, con il suo straordinario recupero del mélange linguistico dei dialetti della valle Padana, divenne il secondo polo della formazione del Summa più adulto e aperto al nuovo. Ma bisogna attendere un evento assai importante e direi cruciale per lo sviluppo organico di una forma originale unica di espressione e di messa in scena teatrale da parte di Pierangelo Summa: il suo trasferimento a Parigi. Forse la piena consapevolezza dell’importanza dialettica e ironica del corpo rispetto alla maschera e alla parola non si sarebbe sviluppata così prodigiosamente in Pierangelo Summa se l’artista non si fosse profondamente calato anche nella cultura francese e nel suo vasto e stimolante mondo teatrale.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

Pierangelo Summa e il suo fratello gemello, Massimo, sono cresciuti, hanno studiato e lavorato a Como, ma fanno parte di una famiglia di Casalvieri, un piccolo paese della Ciociaria (provincia di Frosinone) a sud di Roma, situato in un paesaggio di montagna ancora oggi integro e selvaggio. Dunque, tutte le estati, la famiglia Summa si recava a Casalvieri per passarvi dei lunghi periodi di vacanza e di piena libertà. Rispetto alla «città» di Como, lambita da uno dei più bei laghi d’Italia, Casalvieri rappresentava la natura allo stato primitivo, ancestrale. Oltre all’affetto di una famiglia tradizionale molto calorosa, i fratelli Summa trovarono a Casalvieri le loro prime «fidanzate». Pierangelo vi conobbe Mirella, di tre anni più piccola, sin dalla più tenera adolescenza. Mirella, nata a Parigi, dove passava tutto l’anno con la sua famiglia che vi si era recentemente trasferita, parlava da sempre un perfetto francese senza accento, ma era perfettamente bilingue, la madre avendogli trasmesso l’italiano e, forse, anche qualche frase del dialetto ciociaro. Ma d’estate, il richiamo di Casalvieri valeva anche per la famiglia di Mirella che, tutti gli anni era presente.

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Pierangelo Summa incontra Patrizia Molteni di Focus In, Parigi, 2011

Da allora, Mirella è stata la compagna della vita di Pierangelo Summa. Per circa venti anni hanno vissuto a Como, dove ambedue lavoravano. Pierangelo, nelle ore libere dal suo impiego «alimentare», fabbricava le sue straordinarie maschere e allestiva spettacoli dove il teatro «improvvisato» e di strada si legava ad attività più tipicamente circensi, popolate di mangiatori di fuoco e di funamboli che avanzavano sui trampoli. Mirella, la «matematica» della famiglia, seguiva con entusiasmo suo marito in tutte le sue iniziative teatrali, partecipando attivamente, tra l’altro, ad un importante e approfondito lavoro di raccolta di canti tradizionali e storie popolari in molte realtà regionali del Nord Italia. In questo periodo Pierangelo Summa fu chiamato a sovrintendere la Festa di Isola Dovarese, dove per un’intera settimana si succedono ancor oggi spettacoli teatrali e musicali insieme ad attrazioni di vario tipo.

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Quando Mirella ottenne un incarico universitario a Parigi, Pierangelo la seguì con i due figli Sara e Robin, decidendo di dedicarsi a tempo pieno alla regia di spettacoli teatrali, con l’intenzione, tra l’altro, di introdurvi maschere e pupazzi del suo ricco universo fantastico.
Senza mai interrompere i legami con il mondo della sua ispirazione originaria, che egli fece conoscere ed apprezzare ai nuovi amici francesi, Pierangelo Summa trovò a Parigi e in Francia un contesto estremamente favorevole alle sue interpretazioni originali dei testi di autori già di per se stessi originali. È il caso delle «Bonnes» di Jean Gênet, un testo che Summa rende ancora più provocatorio e dirompente attraverso il paradosso della sostituzione del personaggio di Madame con un fantoccio a grandezza naturale, costruito dallo stesso regista.

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È il caso di Dario Fo… Si inserisce qui, da parte mia, una testimonianza diretta risalente all’ultimo trimestre del 2011. Sotto la guida di Pierangelo Summa, mia figlia Gabriella ha interpretato la parte di Maria in «Una donna sola» di Dario Fo al teatro dei Déchargeurs a Parigi. Personalmente, con l’aiuto artistico e manuale di mio figlio Paolo, ho partecipato anch’io a questa esperienza, realizzando alla bell’e meglio, secondo le benevole ma chiare indicazioni di Pierangelo, i modestissimi decori da lui concepiti : due o tre cornici dipinte di rosso, una specie di «quadro svedese» da collocare sul fondo, uno sgabello, un telefono grigio e una pistola giocattolo. Tutto ciò è stato più che sufficiente…
Non potrò mai dimenticare la voce di Pierangelo né il suo intendo sguardo blu-celeste (Piero era forse un Angelo?), capace di ascoltare gli altri, il suo coraggio dissimulato da una continua ironia e autoironia.
Già allora Pierangelo Summa combatteva con il Parkinson, questo male che si serve di un nome quasi divertente e invece, purtroppo, è una delle più terribili torture che possano capitare a un essere umano.
Durante lo spettacolo di Gabriella, che fu coronato da un certo successo di pubblico e di critica, Pierangelo era sempre presente, attento, a volte severo, ma sempre sorridente. Avevamo fatto amicizia, lui disse anche una volta, forse in ragione della vicinanza d’età, che per lui ero un fratello. Ma lui si era molto affezionato soprattutto a Gabriella e a Paolo.
Dopo lo spettacolo, per i tanti stupidi doveri che ci sembrano importanti, e anche per l’insorgere di preoccupazioni e dolori familiari, ci perdemmo di vista.

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Andammo con tutta la famiglia a trovare Pierangelo e Mirella Summa verso la fine del 2014. Fummo tutti felici di incontrarci, commossi e contrariati vedendo sul volto sereno e indomito di quest’uomo generoso le tracce evidenti dell’aggravamento del suo stato. Nonostante la fatica e l’emozione, Pierangelo disse una parola affettuosa ad ognuno di noi. Riuscimmo perfino a brindare all’italiana e a «incontrare» via Skype sua figlia Sara, in quel momento a Berlino
Poi Mirella si prese il carico di parlare per tutti, raccontandoci tutto quello che era successo, trasmettendoci contemporaneamente, e fedelmente, quello che Pierangelo, ne sono sicuro, avrebbe voluto dire egli stesso. Mirella parlò del calvario che suo marito stava subendo, ma anche le straordinarie attività artistiche che egli aveva saputo portare a termine, con la complicità della figlia Sarà, che aveva del resto splendidamente recitato negli ultimi drammi da lui creati e/o diretti, aiutandolo anche in un altro progetto più importante, lanciato verso il futuro: Pierangelo Summa non rinunciava a trasmettere, fino all’ultimo, il suo sapere coraggioso.

Il 2015 è stato un anno spaventoso per tutti. Ma è stato particolarmente terribile per Pierangelo Summa, reso sempre più debole dalla malattia che gli rendeva sempre più difficile il mangiare e il bere.
Ho avuto perfino l’impressione che le istituzioni ospedaliere lo abbiano «lasciato morire». Fino all’ultimo, questo povero corpo così difficile da dirigere e governare, avrebbe voluto vivere in pace, mentre la sua povera anima sensibile non avrebbe desiderato che le cure normali che si adottano per combattere la febbre, la fame e la sete.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

In una delle sue ultime degenze in un ospedale parigino, il famoso «protocollo» che si stabilisce per «evitare cure eccessive o inutili» si era tradotto in una frase significativa che compariva sulla sua cartella clinica: «il paziente Pierangelo Summa non parla in francese». Un falso che serviva da pretesto per non dare al malato, tra l’altro, una qualsivoglia assistenza psicologica.
Un tale atteggiamento corrisponde forse a una delle tante prevenzioni ancestrali che non si possono discutere, come le tradizioni orali o i proverbi. Un luogo comune come quello di mettere insieme due italiani nella stessa stanza dando per scontato che saranno subito amici e si aiuteranno a vicenda. (Laddove la mia amicizia ricambiata con Pierangelo, per esempio, è senza dubbio un’eccezione alla regola che dice l’esatto contrario…)
Pierangelo Summa viveva a Parigi da più di trent’anni, una città che amava e conosceva bene già prima della definitiva installazione. Dunque, quando la recalcitrante psicologa, trascinata da Mirella, si recò al suo capezzale e gli disse:
— Di cosa ha bisogno, signor Summa?
Pierangelo aveva subito risposto, in perfetto francese:
— Vorrei che qualcuno mi aiuti a venire a patti con questo cervello che se ne va per conto suo…
Si può essere tutti d’accordo contro il cosiddetto «accanimento terapeutico», ma senza rinunciare a quel minimo di «umanità» che fa la differenza: a volte basterebbe molto poco.

« Pierangelo Summa, scultore di maschere e di marionette e regista teatrale, ha chiuso gli occhi mercoledì 15 luglio 2015 — scrive Sara Summa, la figli primogenita, attrice e regista teatrale —. Quelli che l’hanno conosciuto sanno che, leggero ormai come l’aria, egli resta con noi per sempre, per tutto quello che ci ha trasmesso e perché siamo tutti impregnati da quella forza creatrice che lo ha sempre animato. »

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Pierangelo Summa con Gabriella Merloni, Parigi, 2011

Pensando ora a questo amico che ha tanto sofferto, resto esterrefatto al ricordo delle marionette a dimensione umana di Pierangelo Summa che ho visto nelle «Bonnes» di Jean Gênet e poi nell’«Edipo Re» di Sofocle del 2012. Quelle maschere «molli» o smidollate, che non erano fatte per stare in piedi come delle statue, ma per essere trascinate, abbracciate, malmenate, aggrappate a un chiodo o addossate a una spalliera… quelle maschere nate per contestare, rivoltare il senso scontato delle cose, erano, senza che lui lo sapesse fino in fondo, un presagio di quello che sarebbe, alla fine, capitato al suo corpo. Il suo corpo un dì sano e scattante sarebbe diventato sempre più dispettoso e incontrollabile col progredire della malattia.
Metaforicamente, egli stesso si sarebbe trasformato, suo malgrado, in uno dei suoi «pupazzi umani». Mentre la sua mente, fortunatamente per lui e tutti quelli che lo amavano, sarebbe restata sempre lucida, serena, attenta fino all’ultimo a cogliere ogni attimo di questa meravigliosa cosa che si chiama Vita.
Se dunque questo «vero artista» è stato colpito in quello che aveva più caro è necessario per il suo lavoro di artigiano e di maestro — il suo corpo, che gli era servito per tutta la vita a «insegnare» agli attori e alle stesse marionette come interpretare, «al rovescio», il mistero della rappresentazione teatrale — non si può non constatare che la sua intelligenza, intatta fino alla fine, ha saputo in un certo senso «prendersi gioco» del corpo stesso, invertendo per una volta la procedura da lui stesso creata per il suo straordinario «anti-teatro dal volto umano».

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Mirella Summa, Théâtre des Déchargeurs, 2011

Nel mese di novembre 2015, Mirella Summa ha «riportato» Pierangelo, simbolicamente, prima sulle rive del lago di Como — dove sono accorsi tutti i parenti e gli amici della Lombardia, compresi gli attori e le comparse di Isola Dovarese, per salutare in un clima festoso il sorriso di quest’uomo straordinario con una carovana in maschera — poi sulle montagne di Casalvieri, dove tutti gli amici italiani e francesi hanno ricordato la sua voce indimenticabile con la recita di un estratto dei «Giganti della montagna» di Luigi Pirandello, rielaborato in modo originale da Mirella Summa.

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Ora noi, commossi e smarriti per la perdita di un amico e di un maestro — che aveva il sorriso noncurante e lo sguardo penetrante di una guida ispirata, come il Gesù che rideva dei propri miracoli del «Vangelo secondo Gesù» di José Saramago —, ci sentiamo particolarmente tristi per la consapevolezza che avremmo seguito Pierangelo anche in capo al mondo, con fiducia e innocente complicità, mentre questo «cammino affascinante» è stato, invece, bruscamente interrotto.
Che fare, allora? Non ci resta che adoperarci perché l’immenso e delicato lavoro di creazione e di riflessione di Pierangelo Summa sia raccolto, protetto, studiato, riprodotto e divulgato a tutti i giovani che vorranno seguirne il cammino.

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Giovanni Merloni

TESTO IN FRANCESE

Zvanì (pit n.2)

24 vendredi Mai 2013

Posted by giovannimerloni in racconti

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Bologna, Cesena, Dario Fo, Giovanni Pascoli

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

« Dalle parti di Schwann»… Quando si voleva vezzeggiare Zvàn, mio nonno,  lo si chiamava  « Zvanìn » o « Zvanì »…

Con la musica  accattivante di questo nome nel cuore, ho la sensazione che la Romagna si sposti come la zattera di pietra di Saramago e che vaghi a lungo  prima di fermarsi, in un luogo molto remoto, nella geografia dei miei sogni. Potrebbe chiamarsi altrettanto bene Samarcanda o Damasco o, anche San Pietroburgo. Io non  sentirei il peso della distanza, dato che questo luogo sarebbe sempre presente nella mia mente come i lunghi singhiozzi di Verlaine e i parapetti d’Europa di Rimbaud, vicini come questa tavola allegramente sparecchiata dove questo signore dall’aria intelligente è privilegiato dalla distribuzione, fin troppo complice, della luce.

D’altronde Zvànin è tutt’uno con gli altri partecipanti alla vigilia, a cui si rivolge  — mi sembra di sentirlo –  con una voce calma, convincente, nella loro stessa lingua cifrata, del tutto incomprensible per me. Zvànin è lo stesso di Jean, o Jan o John. È un modo di abbreviare la parola, di rendere più vicino e intimo un nome solenne come Giovanni o noioso come Johannes. Une specie di frenesia dell’abbreviazione e della variazione.

Quanto al suo linguaggio, è difficile tracciare dei confini. Certo, tutti dobbiamo, d’ora in poi,  condividere l’idea di Dario Fo di una grande, antica e originaria mescolanza delle lingue — la francese, l’italiana e anche la tedesca — che ha generato ciò che egli chiama « grammelot », un  miscuglio linguistico che concerne tutte le popolazioni della valle dal Po, da Milano al mare Adriatico. Tuttavia, si potrebbe tagliare verticalmente questa grande regione — la Val Padana —  che costeggia la riva destra del Po, il più grande fiume italiano, tracciando un’invisibile frontiera tra Piacenza e Parma. Infatti, in un certo qual modo, la Lombardia comincia a Piacenza, mentre Mantova, al di là del Po e sotto il dominio milanese, è una città senza dubbio « romagnola ». C’è qualche cosa di eccezionale in questa regione a sud del fiume. Basterebbero forse tre nomi per evocare un po’ lo spirito della sua prodigiosa cultura : Ariosto, Verdi e Fellini. Ma non si può sicuramente dimenticare Giovanni Pascoli — Zvànin, anche lui—, questo grande poeta a sua volta classico e intimamente impregnato di questa lingua musicale, di questo canto orgoglioso e « naïf », la cui eco si propaga, mescolata,  nei suoi versi.

Non bisogna neanche dimenticare l’inimmaginabile Rossini, colui che ha apportato a Parigi  la sagacia derisoria dello spirito romagnolo.

Questa lingua profondamente amata è stata la forza primordiale, il legame intimo che ha dato forza all’unicità e diversità dell’Emilia-Romagna. Una regione dove si è sempre difeso e al tempo stesso esaltato il rispetto per la cultura, la scienza, il diritto.

[Io amerei parlare in questa sede di Bologna, la più antica università d’Europa, e di ciò che sembra accadere oggi, in questo momento di riflusso  e di gravi difficoltà che turbano il mio paese…]

[In ogni caso, ancora oggi la lingua di Zvànin sembra salvarsi sotto i ciottoli degli affluenti del Po, dentro piccole grotte che la proteggono ancora per un po’di tempo  dai terremoti della terra e dalle ondate di cambiamenti e di oblio.]

La Romagna è un triangolo di campi e di pietra  dove numerose civiltà e poteri – gli imperatori, i papi, i comuni, le signorie –  si sono affrontati, senza rispetto né concessioni. Tuttavia, i vortici della Storia non hanno lasciato che delle tracce gentili in questa terra fertile, nutrita di genti naturalmente portate al lavoro e alla felicità. La strada che perfora più facilmente gli Apennini, unendo Roma a Venezia, incrocia proprio qui, poco lontano da questa riunione notturna, l’Emilia,  un asse stradale  tanto importante quanto il Reno per le popolazioni della Ruhr, che  discende perfettamente rettilineo da Piacenza, luogo molto ricco e  promettente, fino a Rimini… Non si finirebbe mai di decantare le meraviglie di questo triangolo che si disegna tra Imola, già romagnola, e Rimini e Ravenna, capitale quest’ultima dell’antico Impero bizantino… Questo triangolo esiste ancora.  Sulle sue coste  brillano a lungo, durante la notte, le voci di città dai nomi suggestivi come Imola, Faenza, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Rimini, Cesenatico, Cervia, Ravenna, Lugo, Bagnacavallo…

 A monte di questo triangolo  — che la nebbia avvolge in autunno e dove il calore s’installa senza muoversi per un’intera e interminabile estate  —, gli Appennini hanno un aspetto scosceso, talvolta minaccioso con quella alternanza di colline spoglie e di campagne simili a onde blu picchiettate di cipressi. Quando vi si sale – in auto o in moto, mentre  in passato vi si affanava un corriere titato da quattro cavalli — si è spesso  invitati a fermarsi, ad affacciarsi sui muretti per tentare di scorgere San Marino, o San Leo o Gradara, città fortificate collocate proprio in cima delle colline più aguzze e lontane. Tutto ciò fa paura e io credo che l’unicità della Romagna, il suo fascino sempre più avvincente, nasce dal contrasto tra questi mostri isolati e ben visibili e la popolazione invisibile, votata a questa terra… Da un lato, un potere minaccioso  — di uomini cattivi o di una natura talvolta temibile — , dall’altro lato un temperamento spontaneamente portato verso la vita.

Ma che differenza tra la Romagna e la Toscana ! In questa terra dove i confini non sono mai stati delle frontiere, la lingua è stata continuamente storpiata al passaggio dei numerosi invasori – provenienti da nord e da sud, ma anche dal mare, che non è mai stato un vero ostacolo – mentre l’accesso alla Toscana, circondata dalle montagne, era difeso a ovest da un mare sempre scosso dal vento, e,  a sud, dal Monte Amiata e dalle paludi malariche della Maremma.

Sia maledetta Ma-remma, Ma-remma/ Sia maledetta Maramma e chi l’ama./ L’uccello che ci va perde la penna/ Io ci ho perduto una persona cara…

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Ma, perché ho parlato della Toscana e alla fine della Maremma ? Che cosa ha a che vedere con mio nonno Zvànin e quella cena ? C’è un legame, perché io situerei questo raduno nel novembre 1913. Questa tavola non unisce due sposi e i loro invitati. Non ci troviamo alla vigilia del matrimonio di Zvànin con Mimì, che ha avuto luogo proprio all’inizio del secolo. Infatti nel 1913 la sua primogenita ha già unidici anni, la secondogenita  ne ha otto e il più piccolo, quello che porta il nome di suo padre garibaldino, ne ha sei.

Basta guardare con un pò più di attenzione questa foto per accorgersi che in questa riunione, oltre i parenti stretti di Zvànin— sua madre Cleta, al suo fianco già sofferente (sarebbe morta tre anni dopo) ; sua cugina Luisa, di cui si percepisce appena il viso affiorante dall’ombra ; Maria, la sua cugina più giovane, seduta alla destra del marito, il notaio di Sogliano e tre altri abitanti della casa, in piedi davanti alla credenza —, ci sono altri due personaggi. Si tratta probabilmente del sindaco e del parroco che non nascondono la loro estraneità alla scena.

Che cosa succede, allora? Questa sera, sul far della notte, Zvànin è il figliol prodigo che rientra all’ovile. Dopo anni di battaglie accanite e di sforzi mentali non indifferenti, non potendo i socialisti in Romagna ottenere abbastanza voti, essendo molto forti i repubblicani, egli è stato  appena eletto  nel collegio di Siena-Arezzo-Grosseto, in Toscana…

Giovanni Merloni

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 24 mai 2013

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