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Il va-e-vieni del signor Treno II/III
(Giovanni Merloni, Testamento immorale IV/II, Manni 2006)
6.
Quand’ero in fasce
quando avevo le prime ambasce
quando guardando le scritte
sui muri imparavo a parlare
quando Amore
era gran confusione
di madri vicemadri zie cugine
il treno già correva freddo
nel buio ostile
pauroso, sconosciuto.
Ragazzetto, costretto
da impulsi ribelli
camminavo da solo
in mezzo ai binari
aspettando felice
l’arrivo del treno.
Poi, trovato il pretesto
di un dovere severo
(m’illudevo, così presto
di saltare, leggero
la battuta d’arresto)
all’alba, fuggitivo
(privo di colazione)
assaporavo ozioso
il risveglio della stazione
la struggente abiezione
dell’emarginazione:
(«Venduta l’argenteria
mi caccerà la polizia
col foglio di via»).
Poi, di pensilina in pensilina
di orario in orario
di controllore in controllore
imparai ad affezionarmi
al signor treno, a seguirne
con apprensione
il declino, a registrare
l’odore di gomma bruciata
il velluto con gli aloni neri
il rumore sgangherato
del ventilatore.
7.
Eh già, un tempo
(per molto tempo)
trafitto e ammaccato
dai vagoni di latta
in piedi, seduto
ho a lungo viaggiato
aggrappato a una maniglia
ridotto in poltiglia
(chissà quanto aiutato
dai continui sbandamenti
dai fischi tra le rotaie
a capire la vita
a ingannare la partita
a finire ingannato
e beato).
Di certo ho imparato
a lasciare sul treno
come vecchi giornali
le mie provvisorie certezze
a dimenticare
(aprendo lo sportello)
il ricordo più bello
a sognare
(sospingendo la valigia)
una nuvola grigia
di caldo o di freddo
a cui regalare il dolore
che lacera il cuore.
Impacciato, affacciato
al finestrino impolverato
il mio sé separato
stordito, impallidito
davanti all’infinito
è anche lui naufragato
si è dissolto nel filmato
di città brune e bionde
di campagne spettinate e rosse
di lunghe spiagge castane.
8.
A Bologna
partendo di notte
si arrivava alle tre di mattina.
Io bambino
di otto o dieci anni
guardavo il buio alitavo
sul vetro, annusavo
l’odore di fumo
incantato ascoltavo
il soffio dei freni
la tromba della locomotiva
il fischio del capostazione.
«Laasagne calde!»
gridava un uomo
con la visiera grigia.
Il treno proseguiva
arrivava lontano
la mattina seguente
nel bel sito montano
aspro e struggente.
9.
Dal baule spalancato
fuoriusciva pungente
il golfino attillato
il calzone crescente.
«Riportami sul treno
voglio tornare indietro!»
imploravo gemente
sbirciando la foggia
del buio incombente
minaccioso e tetro.
«Non vedi la pioggia?
Perché, caro amore
vuoi andare alla stazione?
Di freddo si muore».
Mia madre, sapiente
(toccandosi il cuore)
(guardando oltre il vetro)
prometteva il sereno:
«Domani a colazione
c’è panna e zabaione!»
Fu padrona assoluta
dei ricordi più incantati
quella casa sconosciuta
sola sola in mezzo ai prati
sconvolta a sua insaputa
nei momenti più impensati
dalla folgorante morsa
di quel treno in corsa
(un assaggio di fumo
dal dolce profumo;
un passaggio di rumori
che strapazza i fiori;
un raggio di luce
che lontano conduce).
10.
Per la mia famiglia stracittadina
priva di terra e di cantina
unico lusso fu villeggiare
(a Canazei e Cortina)
in prati freschi da respirare
e poi andare a visitare
sempre Venezia
(e non fu un’inezia).
Il treno
(tutt’uno nell’acqua)
appena arrivato
sul Canal Grande
già salutava Venezia
(ossequioso damerino)
con un bell’inchino;
cavalcavo la valigia
sul mai-fermo zatterino
ed ancor con ingordigia
m’affacciavo al finestrino.
E c’era quell’effetto
ancor sul vaporetto
vibrante tra le pietre
annerite e tetre.
Finito il su-e-giù
del frenetico treno
(zitta e ferma la ruota
del cercare alieno)
noi figli guardavamo
dall’albergo dell’Angolo
il remo sciacquettare
tra le alghe all’angolo
del rio lagunare.
«Òhe, Òhe!»
gridava da eroe
(piegato sul fianco)
il gondoliere bianco.
11.
A piedi per Venezia
(indecisa fila indiana
di vagoncini umani)
il crescendo di bellezza
culminava nella piazza
pullulante di piccioni
bandiere e suoni.
Impeccabile mio padre
sbrigativo e preciso
fotografava lo struscio
dei sortenti-entranti
dal botolante uscio
dell’Escelsior-Danieli
mortalando, tra i veli
di quei lucidi cieli
le attrici in carne-e-ossa
i magnati alla riscossa
le persone strambe
le migliaia di gambe
le facce bronzate
ahimé rassicurate
dal grottesco successo
in fatto di sesso.
Anche noi piccini
grazie ai mangimi
da dare ai piccioni
grazie ai gelati
leccati e colati
(e ai pantaloni macchiati)
giungevamo eccitati
da mille emozioni
a riva degli Schiavoni
dove, come spezia
si dissolveva Venezia
e nasceva ventoso
ma privo di aroma
il cielo minaccioso
del ritorno a Roma.
Giovanni Merloni
écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 11 février 2014
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