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Venezia III/VII (capitolo VI,14, Carrozza n. 1, Testamento immorale, pagg.82-91 Manni Edizioni, Lecce 2006)
Un lontano ferragosto
nella confusione
della stazione
cercavamo posto
(io Mappata-d’ossa tu Pulce )
su due pachidermi freddi
allineati sulla stessa banchina
(tu andavi a sud:
c’era scritto NAPOLI;
io puntavo a nord:
c’era scritto WIEN )
(tu eri attesa a Procida
io a Venezia sconosciuto).
Sì, un ferragosto
carezzato dal vento
con un groppo in gola:
«E se la ruota
del Grandotèltermini
si mettesse a girare
vorticosamente
e così, dolcemente
mescolasse la gente
che-viene-e-che-va?
Magari al tuo posto
sul treno opposto
(almeno in agosto)
si potesse infilare
una sagoma similare
lunghi capelli da carezzare
e una mimica facciale
a te uguale!
Potrebbe il destino
una volta sbagliare
mettendo sul treno
con me l’originale?»
Parlavo, forse
(la voce spariva)
il mio treno parte
per primo. Alla deriva
nel vero mare
il tuo vagone
fende la schiuma
silenziosamente.
Mi sembrano piuma
i tuoi capelli nel sole
dolce la tua voce aguzza
che grida due parole:
«Venezia puzza!»
Il mio treno menomato
di futuro e di passato
scodinzola guardingo
di binario in binario
di scambio in scambio
e abbandona Roma.
Meno male, meno male
il no insopportabile
del treno che parte
è meno disperato
del mai più inesorabile
(senz’arte né parte)
di una telefonata
crudamente spezzata.
Sgarbato e assente
il treno mi sballotta
finché non trovo
(ostinato, spigoloso)
la posizione rara
nell’ingranaggio:
semimorto m’adaggio
nella culla-a-uovo
assaporando un viaggio
sorridente e pietoso
come un vestito nuovo.
«Ma chi mi consolerà?»
(ormai non posso più
saltar giù dal treno
tornare alla stazione
rabbiosamente strapparti
dal tuo ingaggio)
(ormai non farei
più in tempo. Tu
mi guarderesti sbigottita
dalla carrozza partita
anzi da un’altra vita).
Malamente dondolato
(ormai nei pressi
di Saxa Rubra)
mi sono ricordato
del tuo rosario d’ambra
trafugato la notte
che ti coprii di botte.
Incredulo e snervato
occhi e orecchie ho sgranato
scoprendoti in bocca
un’odiosa filastrocca:
«L’Italia è lunga
(un’elettrica prolunga
in mezzo al mare)
io imparo a navigare
senza di te, Alfredo
e senza il tuo corredo
di parole rare.
Tu ti ostini a viaggiare
(che mai si raggiunga
la meta del tuo andare
non ti sai capacitare).
Non saper aspettare
è la regola principale
per un essere animale
sgraziato e brutale
(come te, Alfredo
per questo ti cedo
ma non mi concedo).
Imprevista eccezione
è il tuo essere pensoso
impulsivo e spiritoso
il tuo treno fantasioso
(raramente)
fermo alla stazione.
Ti potevo aspettare
nel chiarore lunare
ma, scordata l’eccezione
e abbracciata la regola
hai avuto troppa fregola
di volermi abbracciare
in quella cabinuzza
in mezzo alle zanzare.
Dicevi: Voglio te
Ambra Ambrina Ambruzza
(nel giardino del re).
Non c’hai saputo fare
m’hai fatta spaventare
ma ho avuto l’ideuzza
di urlar senza esitare:
Ve-ne-zia puz-za!
Ve-ne-zia puz-za!
Ve-ne-zia puz-za!»
Ambrogetta
dispettosetta
tagliente come lametta
vaga come sigaretta
dal mio invito interdetta
(t’aspettavo stretta stretta
nell’ambulante cameretta).
Non sei venuta
(che disdetta).
Perché non t’ho costretta?
Perché non sei qui con me
invece di tanto parlare?
Avevi così fretta
di smascherare
il mio incerto andare
tra nord e sud familiare?
tra il mio essere
e il mio sembrare?
Mi convinco, Ambrezia
che amerò Venezia
per la puzza di fogna
nei canali d’estate
e ancor più Bologna
per le vie porticate.
La patria romagnola
(partita ahimé in orario)
si scopre fortunata
d’esser divaricata
dall’assai complicata
famiglia napoletana.
Ma in viaggio
prendo alla fin coraggio
non sono più l’ostaggio
della tua regola
né dell’eccezione.
Non provo io
ripulsa veruna
per l’odor di laguna
(un pretesto stantio
se avessi voluto
gettarmi nel rio
col mio amore fatale)
(capisco ora che eri
gelosa, più del normale
dei miei desideri).
Ambra-film
Ambra-aradam
Ambra-ra-ba-ci-ci-co-cò
testardo e bambino
solo e disperato
camminavo per Venezia
dal capriccio animato
di trascinarti aggrappata
docile e triste
come una cravatta
sgualcita dal vento.
Dedicavo a te sola
tutt’i giorni di tutt’un mese
i campi e le chiese
e quei ponti di pietra
e la voglia di bivaccare
di sdraiarmi con la cetra
e per finta suonare.
C’era sempre
un posto per te
tra le ombre ed il sole
sulla terra e sull’acqua
(torbido e stagnante
specchio gigante).
C’era un soffio
di vero mare
(uguale al tuo)
nelle notti solitarie
tra beati innamorati
(nell’ultima corsa)
verso il Lido.
Mi scrivesti: «Rido
leccando gelati;
dopo le luminarie
è uscita la luna:
giù alla Corricella
sotto la fissa-stella
‘o mare è ‘na laguna».
Ambriscola
t’ho giocato anche a dadi
a scacchi e tresette
quarant’anni lunghi e radi
senza più le tue mossette.
Preferisco guardar fuori
far scemare l‘emozione
ma si aggiungono bollori
e presagi di dolori:
«Sei tu che canti ‘sta canzone?»
«Maestro, se adesso
facciamo l’amore
e quarant’anni dopo
mi innamoro di te
come potrò colmare
questo tempo
inutilmente passato
sul binario dimenticato?»
Ambra sei un’ombra
felice o infelice non so.
Svegliato e accecato
dal primo sole non so
indovinare il mio stato
infelice o felice
(sparisce all’incontrario
saltando invisibile
sulle pietre bianche
lo strazio solitario
e davvero indicibile
d’esser stato gregario
credendoti imprendibile).
«Quando mi crogiolavo
nel dolore di perderti
non conoscevo altr’altalena
che il ronzìo cigolante
del ferro sulla scorza
grigiazzurra del mare».
Giovanni Merloni
écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 6 juin 2013
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