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I.
Ciao, Venezia,
addio alla stanca retorica
dell’uomo e della donna
ostaggi docili beati
di ogni luogo comune.
Ciao, ti lascio
un corpo ingombrante
una pazienza inutile
(perché niente può essere davvero facile),
ti lascio la mia animalità in gabbia
e la mia ombra.
Dieci volte ho ripetuto
il rituale della partenza,
avvolto nell’idea
di finire di botto
in un tunnel nero.
Dieci volte ho pianto,
straziato dalla promessa
di un viaggio di sola andata
in luoghi brutti e lontani
dove nessuno saprebbe
chi sei tu, chi è Venezia.
II.
Ciao, vecchio pudore,
addio, presunzione inutile
di poterti avere facilmente,
a modo mio, in un baleno.
Ciao, buffa insistenza
che rimette in pista
il giocatore sconfitto. Vieni qui,
giochiamo a nascondino
tra i boccaporti dell’autobus marino,
giochiamo, carezzandoci
nei fiorami delle tappezzerie,
rotoliamo sott’acqua
come due pesci imbarazzati,
incerti se partire o divorarsi
l’un l’altro, senza pudore.
III.
Ciao, sciocchezze
inventate da un irresoluto
colto di sorpresa.
Ciao, amica nemica.
Dovrei fingere di ribellarmi
alla tua magnanimità,
provocarti a lungo,
sfuggirti, dimenticarti.
Non attenderesti
nemmeno il tempo di un soffio
prima di chiedere l’armistizio
o francamente la resa.
Una felice riconciliazione
ci aspetta, basterà lasciare
Venezia. Ma intanto
quasi quasi
salgo sul campanile
e sventolo il fazzoletto a fiori,
giusto per vedere Venezia
attraverso la trasparenza
blu viola delle tue parole.
Quasi quasi, da lassù
mi metto a volare
dispiegando le braccia
come ali di gabbiano,
per fare la corte al mare.
Planando tra i tuoi gesti,
prima veloci poi lenti,
raggiungerei il tuo scoglio
di molluschi e coralli,
la tua pelle levigata
dall’acqua trasparente.
Tra le mie braccia, le tue narici rosa
si aprirebbero in un respiro
doloroso e sottile.
Tra le tue braccia io morirei
quasi quasi.
IV
Ciao, goffo eroismo
di rifiutare silenziosamente
la fatica nell’amore.
Addio, testarda illusione
di poterci sottrarre
ai rapporti di forza
nati dall’amore.
Addio, scacciapensieri idioti
che non servono a zittire
le voci disperate
di una canzone d’amore.
I piccioni strofinano ali inamidate
sui cornicioni bianchi e neri.
Le architetture affiorano
da un’alba senza fuochi.
Io veglio rattrappito
tra la raucedine e il sonno
di un nuovo giorno.
San Marco all’alba
è un grande cortile
per i gatti e gli uccelli
per i tavoli stesi e deserti
per i primi rumori
i primi spruzzi
i primi barattoli
i primi innamorati
che non hanno avuto
un letto per loro.
Buongiorno, fata.
Giovanni Merloni
TEXTE EN FRANÇAIS
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