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Destinataria sconosciuta – Segni di sopravvivenza n.1

06 mercredi Jan 2021

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Destinataria sconosciuta

«Vi auguro di rispettare le differenze degli altri,
Perché il merito e il valore di ciascuno sono spesso da scoprire.
Vi auguro di resistere all’insabbiamento, all’indifferenza
e alle virtù negative della nostra epoca…»
Jacques Brel

Nella mia mente incapace di reagire eppure affascinata dai misteri, si insinua ogni notte, ormai, la paura di dimenticare quello che ho appena capito nel bel mezzo del sogno: un sogno destinato peraltro a essere inesorabilmente cancellato.
Ci sarà sempre un interlocutore, un destinatario che condividerà le rivelazioni del mio viaggio nell’incoscienza e non dirà niente di quello che ha visto e capito standomi vicino.
Tuttavia, sapendo che lui conosce la spiegazione del mistero, gli affido il compito di aspettarmi là, vicino alla porta: quest’ombra travestita da essere umano mi aiuterà di certo nella penosa ricostruzione della mia splendida verità o allora della traballante trama dei miei sogni tenaci.
Stanotte agiva su di me il rimorso per aver subito passivamente la valanga dell’auto-rappresentazione reciproca, imposta, da Facebook e Whatsapp in particolare, ancora una volta in occasione della fine dell’anno: come fanno tutti, ormai, anch’io ho  inviato — prima a benevole persone di famiglia, poi ad interlocutori più sensibili e pronti a scattare, urtati magari dalla mia innocente vetrina di oggetti quotidiani — fotografie senza storia che per di più risentono, inevitabilmente, del peso dell’esistenza.
Per ogni ritratto, invece, bisognerebbe prepararsi in anticipo, oppure avere quella sicurezza innata e assoluta che permette, a chi ce l’ha, di “bucare lo schermo”: un talento che solo i grandi attori o i grandi impuniti sanno tenere in allenamento.
Dall’altra parte della macchina fotografica ci deve poi essere qualcuno che conosca a fondo l’arte di captare a nostra insaputa le nostre espressioni più fedeli. Se è per esempio Wim Wenders colui che ci spia ed “estrae” abilmente i tratti essenziali del nostro volto fuggitivo o assente, — assorto in pensieri definitivi oppure spaesato per l’assenza di vere riflessioni —, il nostro ritratto sarà efficace anche se l’immagine sarà sfuocata o mossa, o anche immersa in un chiaro-scuro portato alle estreme conseguenze dalla scelta di colori troppo accesi o brutali…

Care A* E* I* O* e U*,
Esattamente nove mesi dopo la mia ultima pubblicazione, comincio con voi un resoconto sotto forma di lettera, che sarà seguito da altri scritti similari, che saranno inviati di volta in volta ad ognuna di voi. Da voi mi aspetto la stessa indulgenza que in altre occasioni mi avete dimostrato, la stessa attenzione distratta che è stata sempre capace, anche da sola, di darmi la forza di portare avanti una simile avventura.
«Di che si tratta?» mi domandate. «Perché hai smesso così rudemente di darci del tu?»
Si tratta di rompere una spessa cappa di silenzio indurito, che ha assunto, col tempo, il carattere di altezzosa impenetrabilità di un Palazzo dei Papi dalle immense sale vuote, dove, da alcuni mesi — tranne i pochi addetti al controllo dei sistemi di sicurezza —, nessuno ha il diritto di avventurarsi.
Il mio racconto dei mesi appena trascorsi sarà inevitabilmente frammentario e incompleto. Innanzitutto perché non si può dire tutto e spiegare tutto. Io condivido poi, con tutti i mei corrispondenti, il silenzio di cristallo di questa interminabile battuta d’arresto, e ciò ha dato vita a une società sotterranea piuttosto orgogliosa dei suoi segreti. Infine, non è corretto lamentarsi, almeno fino a quando avremo la fortuna di sopravvivere: la cosa più importante in fin dei conti.
Ecco, mie care amiche, l’interstizio attraverso il quale osserverò d’ora in poi queste lunghe giornate di trepidazione e di solitudine passate e future: uno specchio di Alice che il mio isolamento personale e familiare non ha mai smesso di attraversare, generando abitudini, piccoli vizi, nostalgie e sogni.
Ed ecco una delle ragioni per cui mi rivolgo a voi cinque: tre di voi siete mie compatriote, voialtre due siete innamorate dell’Italia! Sta di fatto che al di là dei riquadri della mia finestra il viale parigino si lascia volentieri rimpiazzare dalle montagne e dalle acque che ci dividono gentilmente e senza scosse da quest’altro paese d’Europa colpito per primo dalla pandemia con una spaventosa concentrazione di lutti e di minacce che seminavano riguardarlo in modo esclusivo.
Grazie alla gratuità di “Free” e di “Wathsapp”, i miei rapporti con l’Italia sono molto cambiati rispetto agli anni precedenti: insieme alle telefonate, la corrispondenza affidata alle mail è da allora diventata la mia compagna quotidiana.
Se da una parte vivevo isolato in una Parigi trasfigurata, che mi diventava ancora più cara, i mille ponti virtuali, vocali o telepatici che mi raccordavano alle mie famiglie d’origine, mi obbligarono a mettere provvisoriamente da parte il mio francese d’elezione e riprendere con gran lena la mia lingua materna.
Con i miei corrispondenti — di Torino, Milano, Bologna, Genova, Perugia, Roma e Napoli — si parlava soprattutto della pandemia oppure dell’Europa durante e dopo la crisi sanitaria: «Chissà se l’Europa riuscirà a riavvicinare i paesi che la compongono; a valorizzare sul serio l’immenso patrimonio artistico prodotto nei secoli da ognuno di loro… Che ruolo avranno in essa le differenti lingue e culture letterarie?»
Per l’Italia, le tre circostanze combinate della pandemia, del Brexit e della caduta di Trump potrebbero cambiare le cose. D’altronde, l’ubriacatura mitologica e tecnologica del modello anglo-americano ha ormai toccato la vetta più alta: essa si relativizzerà davanti alla prospettiva, in Europa, d’un nuovo slancio socio-economico e culturale che non potrà trascurare la crescente domanda di uguaglianza e di giustizia sociale
Ma quanti anni o secoli dovremo aspettare prima che una solida cultura europea circoli veramente da un paese all’altro secondo il nobile principio dei vasi comunicanti?
Accanto all’ottimismo della volontà federativa bisogna riconoscere una qualche dignità al pessimismo della ragione quando si deve constatare che un tale travaso di risorse e patrimoni si verifica molto sporadicamente, anche meno che nel passato, tra Francia e Italia.
Uno dei simboli più rappresentativi degli scambi reciproci tra i nostri due paesi è il famoso Palatino, il treno di notte che ha avvicinato per decenni Roma a Parigi: protagonista tra l’altro di uno straordinario romanzo di Michel Butor —
“La modification” — questo fondamentale “link” è stato soppresso.
Nel criticare questa decisione — dovuta meno a un malinteso diplomatico che alle politiche ferroviarie dei due paesi che apparentemente decisero di abolire questa linea in funzione del progetto della rete internazionale  dell’Alta Velocità e del TGV francese, lungi dall’essere compiuta tra Torino e Lione come tra Genova e Nizza — ci si interroga anche sulle ragioni che fino ad oggi impediscono o comunque non favoriscono lo sviluppo, tra i miei due paesi, di scambi culturali effettivi, sistematici e non soltanto formali.
Storicamente, si può dire che la Francia ha vissuto fino in fondo sia il potere schiacciante dei Re sia quello sanguinario della Rivoluzione; mentre in Italia, dalla notte dei secoli, oltre alla costante presenza dei Papi, c’è stata sempre una vasta costellazione di Poteri in lotta tra di loro.
Questa differenza strutturale — geografica e storica — dà inevitabilmente luogo a due culture diversamente strutturate, per quanto riguarda la lingua, il patrimonio, i contenuti e le forme letterarie e artistiche che si sono via via imposte.
Se in Francia si assiste ad una certa rigidità e intransigenza nella difesa ad ogni costo della lingua nazionale, in Italia si è sempre riconosciuta l’importanza dei dialetti, considerati essi stessi come vere e proprie lingue. Basti ricordare il teatro veneziano di Carlo Goldoni (1707-1793), quello genovese di Gilberto Govi (1885-1966) e quello napoletano di Eduardo De Filippo (1900-1984): teatri e culture che nulla levano al prestigio dei poli culturali di Torino, Milano, Bologna, Roma come della Sicilia, dove i rispettivi dialetti sono anch’essi riconosciuti e valorizzati.
Questa ricchezza discende dall’estrema parcellizzazione geo-politica della nostra penisola fino all’unità nazionale, compiuta il 20 settembre 1870, cioè 150 anni fa, molto di recente, mentre l’unita della Francia può vantare almeno dieci secoli, se non vogliamo risalire a Carlo Magno… Bisogna poi considerare che in questo tempo così ridotto la nazione italiana ha subito, con le due guerre mondiali e il fascismo, un pesante rallentamento nella sua evoluzione economica, sociale e culturale che gli anni successivi alla Liberazione del 1945 non sono bastati a recuperare in modo soddisfacente.
In una delle prossime lettere, parlerò del ruolo della televisione nella profonda trasformazione culturale dell’Italia, caratterizzata tra l’altro da un fastidioso miscuglio di dialetti che rischiano di perdere la loro identità o se si vuole, da un gran calderone in cui la lingua italiana, contaminata dai dialetti e accresciuta dalla creatività dei popoli si alimenta sempre più di parole ed espressioni importate dalla lingua (soprattutto tecnologica) degli Stati Uniti.
In definitiva il diverso atteggiamento delle istituzioni culturali della Francia e dell’Italia riguardo alla lingua nazionale e ai dialetti è uno dei principali fattori di incomprensione tra francesi e italiani.

Una piccola traccia di una serie di malintesi “culturali” tra questi due “grandi popoli” la di può ritrovare nella diversa concezione della “comicità” nella scena teatrale e cinematografica in ciascuno dei due paesi.
Se si considera per esempio il mio entusiasmo e la mia ingenua disponibilità a stupirmi e ad ammirare senza limiti le cose “fatte a regola d’arte” à règle d’art”, in Italia sono considerato un sognatore che non ha capito niente della vita, mentre il Francia rischio di essere additato come un “tipo ridicolo” che ambisce a cose che non gli appartengono.
Recentemente, a breve distanza, ho avuto l’occasione di vedere due film in cui la figure del “borghese gentiluomo” era al centro della narrazione.
Questo personaggio mi ha fatto ricordare di un famoso film, precedente, in cui Yves Montand prendeva lezioni di teatro nella speranza di conquistare l’affascinante e inafferrabile Marilyn Monroe: in questa storia, risulta in po’ patetica la goffaggine dell’uomo ricco che prende inutilmente delle lezioni di naturalezza, anche se alla fine egli raggiunge il suo scopo.
Nelle interpretazioni del borghese gentiluomo, incarnato nel primo film da Michel Serrault e nel secondo da Fabrice Luchini, si arriva a capire, una volta per tutte, la nozione di “ridicolo” che il teatro e la vita di tutti i giorni, in Francia, ereditano dalla eterna “regola del gioco” che regnava alla corte del Re Sole e regna ancora oggi nelle piccole e grandi “nicchie” dove si esercita il potere, compreso quello culturale.
Nel borghese recitato da Michel Serrault (1968) il ridicolo risiede meno nella sua passione impossibile per la marchesa Dorimène che nella sua ambizione di essere considerato un gentiluomo. Nonostante le magnifiche invenzioni che Serrault aggiunge al personaggio di Molière con un’interpretazione surreale e auto-ironica —, il suo borghese gentiluomo cozza contro il muro del potere assoluto in un’epoca in cui la Rivoluzione è ancora molto lontana.
Nell’interpretazione di Luchini (2007), si assiste ad una situazione molto differente, che si potrebbe intitolar “la vera storia del borghese gentiluomo”. Salvato dalla prigione (dove languiva per i debiti accumulati) da un ricchissimo borghese, il giovane Molière è invitato a mettere in scena una commedia che costui aveva scritto senza averne l’ispirazione né le capacità. Sottraendosi all’obbligo della fedeltà assoluta al testo del grande drammaturgo del XVII secolo, la sceneggiatura di questo secondo film tiene conto del rovesciamento storico operato nella società francese dalla Rivoluzione francese (1789-1794). Dunque, se il borghese è ridicolo in tutto ciò che gli è fondamentalmente estraneo, la nobiltà spendacciona, anzi in rovina con cui egli cerca di imparentarsi è, anch’essa, scandalosa nella sua assoluta mancanza di spina dorsale.
Col tempo, la concezione italiana della comicità, molto complessa e diversificata, ha dato luogo, tra l’altro, ad un uso sempre meno sopportabile della derisione, pesante e spesso volgare, che spesso sottintende un’ammirazione servile e del tutto acritica dei vincenti, senza fare alcuna differenza tra le persone oneste e disoneste.
Sennò, in Italia come in Francia, pareti invalicabili separano i “popoli eletti” da coloro che restano fuori. E la commedia umana, di cui Molière è uno dei padri più illuminati, si traduce dappertutto in questo incredibile spreco di energie vitali che consiste nel far finta di credere o di non credere alle “regole del gioco” secondo le situazioni e le convenienze.

Nelle lettere che riceverete, sarà sviluppata una riflessione su questi temi, allo scopo di aggiungere qualche testimonianza al quotidiano dibattito culturale tra le nazioni-sorelle d’Europa e, in particolare tra la Francia e l’Italia.
Nella consapevolezza di poter superare, almeno a livello personale, ogni sentimento di frustrazione per le possibili incomprensioni tra le mie due patrie, ho deciso di riprendere le mie pubblicazioni sul “ritratto incosciente” : il rapporto con la lingua e la cultura francese è, per me, un rapporto d’amore da cui nessuno potrà distogliermi.

Giovanni Merloni

Testo in FRANCESE

Tira a campare (Diario di sbordo n. 11)

26 samedi Nov 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Diario di sbordo

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Tira a campare 

Per mettere un punto, certo provvisorio, alle suggestioni che produce il me, in questi giorni, il ricordo della città di Napoli e della sua stretta parentela con Parigi, conservo nel mio diario :
— l’immagine poetica di questa città che mi ha mandato un caro amico napoletano. Guido Calenda, professore di Ingegneria Idraulica alla Terza Università di Roma, anche se ha lasciato Napoli giovanissimo, ne conserva un ricordo affascinante e molto efficace ;
— un estratto del « Ventre di Napoli » di Matilde Serao (1856-1927), in cui la scrittrice fa appello agli « uomini di buona volontà », quelli che fanno sempre la storia dalla parte del popolo e di tutti i « deboli » che hanno sempre riscosso la mia ammirazione più incondizionata ;
— il testo di una famosa canzone di Edoardo Bennato : « Tira a campare ».
Giovanni Merloni

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« Mi ha colpito la tua richiesta di parlarti di Napoli. La mia Napoli è una Napoli dell’infanzia ed è quindi ancora piena di mistero, di tetti che si scaglionano in ogni direzione e che sembravano costituire un modo a parte, di vicoli che finivano nell’ignoto, una villa (1) dove ancora si vedevano degli omini raccattare i mozziconi di sigarette usando un bastone con in cima uno spillo, estrarre il tabacco e venderlo, preparando mucchietti differenti per i vari tipi di tabacco, italiano, americano, il virginia inglese… di scugnizzi che viaggiavano attaccati al retro dei tram con grande invidia mia, cui ovviamente non era consentito. E poi l’economia stratificata, con gli appartamenti borgesi in alto e i bassi sotto, in cui si vedevano negozietti con sacchi di granaglie, la pasta sfusa, il venditore che ti chiamava da sotto, e dopo la contrattazione tra strada a finestra gridava alla fine “cala o panaro!”, e giù andava il cestino con qualche moneta e tornava su con il pane o la frutta o le cipolle… e, con la nonna, impastare la farina sul tavolo di marmo di una cucina enorme – tutto era enorme, in una vecchia casa dagli infiniti recessi: gli spazi, le stanze, i mobili, i tavoli che mi ricordo con gli occhi quasi al livello del piano. E poi le terrazze – ce n’erano due – per me mondi dove potevo spaziare – una con l’affaccio sul vicolo dell’Egiziaca, l’altro su Santa Lucia e Castel dell’Ovo e il porto e un mare senza limiti, e i transatlantici che conoscevo uno per uno, sparivano per qualche settimana o un mese e poi di nuovo eccoli lì familiari, immutati, e la flotta americana… E poi infine i negozi di giocattoli, per i quali ho ancora un’infinita nostalgia e sono ciò a cui più mi piacerebbe tornare con gli occhi di allora. Questa è ancora la Napoli della mia fantasia, ma anche se ci torno spesso, a parte le infinite differenze, quello che non trovo più sguardo di allora. Tutto è noto, i contorni sono definiti, la disposizione logica (perfino a Napoli!), l’orizzonte privo di incognite. Non ti posso raccontare la Napoli di oggi perché anche se mi è familiare non mi appartiene più. »
Guido Calenda

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« Che chiedo io, infine, per i miei fratelli del popolo napoletano, che chiedo io come tutti quelli che hannocuore, e anima, salvo che finisca l’oblio e l’abbandono? Che chiedo io, in nome dell’eguaglianza umana e cristiana, salvo che il popolo di laggiù sia trattato come tutti gli altri cittadini, abbia una casa, abbia della luce, nella notte, dell’acqua, della nettezza, della sorveglianza, sia guardato e protetto contro sè stesso e gli altri? Che chiedo, io, se non l’applicazione della legge umana e sociale, trattar quelli come si trattano gli altri, dar loro quel che spetta loro, come esseri viventi, come cittadini di una grande città? Faccia il suo dovere chiunque, non altro che il suo dovere, verso il popolo napoletano dei quattro grandi quartieri, faccia il suo dovere come lo fa altrove, lo faccia con scrupolo, lo faccia con coscienza e, ogni giorno, lentamente, costantemente, si andrà verso la soluzione del grande problema, senza milioni, senza società, senza intraprese, ogni giorno si andrà migliorando,
fino a chè tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, sol perchè, chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuranza, dall’inerzia, dall’ignavia e ha fatto quel che doveva. »

Matilde Serao, « Il ventre di Napoli « , Napoli, primavera 1904

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Tira a campare

Si è bella, lo so che è bella
è la mia città…
Si è stanca ed ammalata
e forse non vivrà…

Si lo so che va di male in peggio (Oui, je sais ça va de mal en pis)
si lo so qui è tutto un arrembaggio
qui si dice: tira a campare
tanto niente cambierà… si dice:

Tira a campare, non cambierà
tutto passa bene o male
ma per noi non cambierà… si dice:
Tira a campare…

Io che sono nato, io che ho vissuto
in mezzo a questa gente
io a volte straniero in queste strade
dove non funziona niente…

Si lo so l’avevo detto io stesso
che è sbagliato e che non è giusto
che si deve fare qualcosa
ma adesso tu non capirai, se dico:

Tira a campare, non capirai
pure io che son dottore
che ho fatto l’università, si dico:

Tira a campare, è meglio qua
qua almeno, bene o mâle
c’è ancora un po’ d’umanità…

E allora dico anch’io: Tira a campare
è meglio qua, tu che vuoi
tu che ne sai, tu che non ci hai vissuto mai
io dico: Tira a campare…
Edoardo Bennato

(1) Parco pubblico al centro di Napoli.

Un Napoletano a Parigi/2 (Diario di sbordo n. 10)

25 vendredi Nov 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Diario di sbordo, Napoli, Parigi

001_alla-finestra-lebelSally Storch, immagine presa da un tweet de Laurence (@f_lebel)

Un Napoletano a Parigi/2

Prima di andare avanti bisognerebbe aprire un capitolo sulla « scaramanzia ». Quante volte, tu ed io, ci siamo chiesti se era il caso di invitare questo o quello, col solo pretesto della sfortuna. Senza contare la paura di certi personaggi dall’aria « contagiosa » :
— Quello è una specie di « Pasquale passa guai », ci trascina tutti nel suo baratro !
Ma poi ci tiravamo un po’ su con quella tipica storiella napoletana in cui succedevano fatti clamorosi a cui seguiva un’altalena di giudizi contraddittori :
« E chi ti dice che sia sfortuna ? »
« E chi ti dice che sia fortuna ? »
Ecco perché, ogni tanto, pur essendo diventato più cartesiano e scettico alla scuola di Voltaire e Diderot, io mi aggiro per il salone di rue de la Lune canticchiando, in modo che Anna mi senta, un ritornello inventato da me :
Non son sicuro che le tue venute
che mi prometti con sol due battute
sian proprio il meglio per la mia salute !
Forse sarebbe meglio ricevere una come te venuta dalla Danimarca. Alta, bionda, schietta, fedele a valori e abitudini sociali molto confortevoli. O una venuta dal Perù. Chissà perché penso che in Perù tutto avvenga in un modo speciale, leggero come l’aria dell’alta montagna di lassù. Oppure una di qui. Potrei parlarle dei « Fiori del male » e delle « Mura » di Parigi. Mi ascolterebbe, magari soltanto per vedere se metto gli accenti al punto giusto.
Ma durante le nostre traversate noi riusciremo infine a dare ai nostri passi un solo ritmo armonico ! Tu stessa constaterai che la storia di questi anni passati nella mia lontananza incosciente e fedifraga saranno più efficaci dei ricordi lasciati laggiù. Ma soprattutto andremo in giro per Parigi, e vedrai anche tu che le « promenades » che si fanno qui non sono molto diverse dalle « passeggiate » di una vita intera a Napoli.

003_banc-public« Un petit tour tout doux »,
texte et image empruntés à un tweet de Laurence (@f_lebel)

Io e Anna abbiamo imparato a eliminare tutto ciò che è superfluo, salvo i ricordi dell’Italia. Quelli, anche se non ci « azzeccano », come si dice a Napoli, rivestono sempre una certa importanza, anzi ne sono rivestiti. Per lei, si tratta soprattutto dei film di Antonioni e Bertolucci, mentre io conservo come un oracolo quelle due bottiglie per l’acqua e il vino che hanno la forma del re Ferdinando e di sua moglie… Sono delle copie senza valore che comprai con te — ti ricordi ? — in una bancarella fuori San Domenico… Ci faceva tanto ridere, il rumore che facevano l’acqua e il vino quando la bottiglia del re o quella della regina si piegava sui calici per riempirli. Sistemate nello scaffale parigino, in mezzo ai miei libri in eterno disordine, hanno perso ormai la loro funzione, pur restando importanti per me. Grazie a loro, Napoli potrà risuscitare alla prima « cena di Babette »… Altrimenti, possono contarsi sulle dita di una mano gli istanti felici in cui la luce del sole penetra nella mia libreria risvegliando dal loro sonno polveroso il re e la regina e liberandoli per un po’ dalla loro prigione d’ombra. Nella coppia regale esplode allora un sussulto di orgoglio e di intima passione, che provoca in me una gioia indescrivibile e una sorta di stupore solenne, come se assistessi al miracolo di San Gennaro !

002_promenade-lebel« Una breve camminata sotto la pioggia fina per schiarirsi le idee »,
testo e immagine presi da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Spiegherò ad Anna chi sei e capirà che non è il caso di mandarti a dormire in albergo. D’altra parte tra me e lei non c’è mai stato niente, ci comportiamo come uno zio e una nipote, adottando come unica confidenza la stretta di mano. Spero che approverai la mia iniziativa… La notte, se non riesci a dormire, ti farò vedere le foto delle nostre lontane gite a Procida… Oppure, ti meraviglierò con il resoconto delle mie giornate. Inevitabilmente tutto ciò mi porterà a chiederti che cosa dicono di me i miei amici, che sono anche i tuoi. Di sicuro, mi avranno sistemato, e in fretta, in uno scaffale mentale che chiamano Parigi, o la Francia, dove io non sono altro che un nome-e-cognome ammantato di vaghi ricordi. Non si interrogano mai su di me, ma di certo io qui faccio l’esatto contrario di quello che loro potranno mai immaginare. Vado molto poco a teatro, nonostante lo desideri con tutto il cuore ; non trovo il coraggio né la forza per andare all’opera, nemmeno per vedere e ascoltare coloro che amo più profondamente : Mozart, Rossini, Tchaïkovski… e non sono nemmeno un assiduo frequentatore di tante bellissime mostre che fanno al Luxembourg, al Grand Palais o al Beaubourg. Inutile dirti che non approfitto mai dei saldi di fine stagione o delle presentazioni dei libri. E, cosa ancor più grave, non riesco ad avere lo stesso entusiasmo cieco dei miei concittadini quando il sole, così raro, si istalla per intere mezze giornate… Cosa so fare, allora ? Bighellonare davanti ai banchi dei bouquinistes e camminare !
In passato, con le mie pulsioni di giovanotto o di uomo maturo, camminavo come un forsennato risalendo dai Quartieri Spagnoli alla Villa di Capodimonte, o di notte sul lungomare di via Caracciolo e di Chiaia, e mi sentivo un eroe se arrivavo all’alba nella brutta piazza della stazione, dove però c’era un chioschetto che vendeva le « sfogliatelle » calde.
Ora, a Parigi, benché invecchiato e indebolito nelle mie certezze fisiche, cammino come un ossesso dalla Bastiglia a place de la Concorde, dal bassin della Villette a place de Clichy… A Batignolles, mi sono affezionato a un alberghetto di rue des Dames, a quel giardinetto interno dove sognavo di sedermi con te, dove tante volte ho creduto di vederti negli sguardi di sconosciute o nei loro particolari modi di acconciarsi i capelli, di alzarsi e di afferrare la borsa, la borsetta o lo zainetto… Del resto, alla mia età, l’interesse improvviso per una giovane fanciulla che magari ti somiglia può di punto in bianco mutarsi nell’insospettata curiosità per una vetrina, per un gruppo di passanti o per un vecchio palazzo nobile…
Da un « villaggio » all’altro, prendendo una via disadorna o una via più attraente, non si riesce mai a scoprire da dove vengano, in questa straordinaria città, quel « suspense » da romanzo poliziesco o quell’aspro piacere che si insinua in noi come un reiterato racconto di amori proibiti. Di chi è il merito o la colpa di ciò ? Dei suoi abitanti, intrappolati contro loro stessi da una vitalità che sfiora la disperazione ? Della sua storia, così bella e terribile ? O forse è alla pioggia, a questa « sputazzella » che ci penetra nell’intimo, che daremmo volentieri il premio Goncourt e la maglia gialla con il giro d’onore al Parco dei Principi ? Proprio come Napoli, grande capitale del sud, questa immensa capitale del nord dell’Europa è sempre prodiga di sorprese. Tante variaIoni su pochissimi temi, come nell’aria di Carmen :
Parigi è un uccello ribelle
che non ha mai avuto legge…
Tanti colori, il rosso e il blu in testa, che si distinguono nettamente contro il grigio uniforme delle case e del cielo. I colori dei portoni, dei negozi e e delle botteghe, insieme alle sciarpe multicolori di certe graziose passanti, spezzano l’atavica monotonia delle strade e delle facciate. Del resto, lo dicevi anche tu : « solo le stranezze, le rotture e i gesti irriverenti possono rendere interessante e unica una città. È sempre l’eccezione che conferma la regola ! »

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Ci sono, certo, delle enormi differenze. Parigi è ancora una capitale mentre Napoli non lo è più. A Parigi devi bussare a molte porte prima di poter svolgere una discussione approfondita con qualcuno, prima di entrare in una comunità che poi si rivelerà accogliente, aperta, conviviale e ciarliera. Napoli non aspetta che tu la cerchi, ti viene subito incontro, ti precede anzi, con le sue storie, i suoi drammi, il suo happening quotidiano. Se a Parigi tu sei obbligato a cercare l’incontro, a Napoli ti devi ritrarre, riparandosi in un angolo silenzioso che forse non esiste più.
Ma, chissà perché, nessuno si è accorto di quanto Napoli abbia « preso » da Parigi e viceversa,. Le vetrine di legno dipinto un po’ lugubri delle vie del centro, per esempio. Nonostante la loro crescente rarità, esse esprimono lo stesso spirito spettacolare e intimo della vita. Lo stesso teatro, a Parigi come a Napoli. E quante parole francesi sono entrate nella lingua napoletana ! Potrei fartene una lunga lista : dalla « buatta » (boîte) alle « spingule francese » (épingles françaises) e, naturalmente, ai « supplì »  :
— Te ne supplico, comprami questa palla di riso che brucia dentro mentre dalla sua crosta profumata emana un calore appena percettibile !
A Napoli, abbiamo ancora l’usanza di dare del voi, come in Francia : « Ma voi casa ne tenete ? »
Ti ricordi ? Ridendo, a me e agli altri amici, quando traccheggiavamo a casa tua dopo la mezzanotte, tu ci dicevi :
— Mi sembra che non abbiate la minima intenzione di tornarvene a casa vostra !

004_automne-lebel« Ancora qualche beneficio dell’autunno »,
testo e immagine presi da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Mi vedo la tua reazione : avrei fatto tutto questo lungo discorso soltanto per dirti che qui non sei gradita ! Ma no, assolutamente ! Anche se al posto di « gradita », preferisco dire a me stesso che tu sei « bene accetta », che sarai accolta a braccia aperte e a occhi chiusi. Non dimentichiamo però che, a tua volta, sei stata piuttosto recalcitrante prima di accettarmi fino in fondo, prima di prendermi « in braccio » come un trovatello abbandonato in una valigia in fondo alle scale.
Questa mia digressione su « Parigi napoletana » è venuta fuori da sola, del tutto spontaneamente. Del resto, è tale l’agitazione che ha preceduto e accompagna questa lettera, che ho dovuto lasciarli uscire dal loro covo segreto, come perle di un rosario, i ricordi di questa Napoli che « c’è l’ha con me » per le mie rumorose avventure di  « scugnizzo » espatriato di nascosto, senza salutare nessuno, come un ladro ! Cerco di tranquillizzarmi prendendo le distanze dalla mia casa natale all’ultimo piano di via Caracciolo, a due passi dalla stazione di Mergellina. Mi ricordo allora del mio nonno materno, sempre in pigiama, che si divertiva a creare delle diaboliche correnti d’aria aprendo di qua una delle finestre che guardano il mare e, di là, l’oblò di uno stanzino affacciato sulla chiostrina. Un tale accorgimento rendeva più sopportabile il calore provocato dalla grande terrazza che ci faceva da tetto. Poi corro, col cuore smarrito, ai volti sfuocati di mia madre, di mio padre e dei miei fratelli. Tutto è sparito, seppellito o frullato, disperdendosi come ceneri parlanti in altri luoghi perduti di questa Italia dal volto sfuocato anch’essa.
I miei ricordi più dolorosi si collocano alla metà degli anni ’80, che furono terribili, nel nostro paese. Ad una velocità spaventosa, la televisione aveva inghiottito tutto, sostituendosi alle nostre innumerevoli vie e piazze e ai tradizionali luoghi di incontro tra gli umani. Tutto avveniva dentro o dietro questo schermo sempre acceso e mai silenzioso, dove la nostra lingua napoletana si mescolava agli astrusi dialetti della val padana, al siciliano, al genovese, al veneziano, al toscano, mentre, diffondendosi ovunque, la cadenza tipica degli abitanti della capitale — questa lingua della Roma di oggi caratterizzata da un accento sempre più marcato e violento — diventava un collante vischioso e tenace. È là dentro che noi tutti siamo diventati ogni giorno più ignoranti, se non dei veri e propri analfabeti. Nel frattempo, sono sparite la maggior parte delle librerie, le vecchie gloriose librerie di Napoli. Ora, dovrei vergognarmi di vivere in una città, Parigi, dove i libri circolano e la lingua nazionale è accanitamente difesa contro le contaminazioni dei dialetti ? Dovrei considerarmi un traditore e un presuntuoso per aver fatto questa scelta egoista di andare incontro alla civiltà e alla libertà di espressione ?
Non è per la mancanza di libertà o per una libertà ridotta a metà che ho lasciato Napoli. Ci sarei rimasto fino alla fine dei miei giorni se avessi avuto la benché minima possibilità di svolger un’azione positiva, con la speranza che cambiasse qualcosa. Ho cercato, per tutta la vita, a prezzo di ogni sacrificio, di adoperarmi per il meglio, per contribuire con il mio lavoro al piccolo progresso che era lecito sperare per una società in difficoltà, ma indubbiamente piena di qualità e risorse. Ma tu sai bene che in fondo al mio cammino avevo esaurito tutte le mie carte. Era diventato ormai impossibile ottenere qualcosa dall’interno di quell’organismo malato. Non c’era quasi più nessuno che non si trovasse prima o poi costretto a fare il patto col diavolo, a subire la prepotenza di gente disonesta… 
Oppure no ! Si può sopravvivere, dopo una vita di lavoro incessante, con una piccola pensione che ti salva dalla fame. Ma si deve tacere, starmene in un angolo, morire in anticipo… Oppure… si può beneficiare degli ultimi fuochi, gettarsi a corpo morto nel grande amore della vita, in una passione splendida e straziante. E allora Napoli si rivelerà il luogo più adatto. Quale palcoscenico può superare quello di Napoli in bellezza ? Chi può sfoderare meglio i suoi sapori intensi e misteriosi ? Non esiste nessuna città al mondo, nemmeno Venezia, che sia propizia quanto Napoli alle rovine dell’amore ! Ma tu l’hai visto, tu lo sai : ne sei tu stessa la protagonista fatale e l’autrice. Anche l’amore ha vincoli che non si possono eludere né aggirare. L’amore è la gioia e forse anche la morte, ma non è la libertà ! E noi — dopo tutto quello che è successo, dopo aver dovuto inghiottire questa « impossibilità » di essere felici e di sottrarci, attraverso l’amore, alla quotidiana consapevolezza di un destino infelice —, che possiamo fare, noi due ?

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Scusami per tutte queste parole, per queste riflessioni che si ripetono senza produrre apprezzabili novità. Ma potrò ben concedermi qualche illusione ! Accendere qualche luce per festeggiare il tuo arrivo ! Lo sai che sono un ateo impenitente e considero le religioni come maschere tanto necessarie quanto pericolose, a dir poco. A parte il povero Budda in bronzo che mia sorella mi scagliò in testa, provocando in me il bernoccolo della ribellione, questa anomalia che mi ha poi dato tante soddisfazioni.
Ma, se gli uomini di tutti gli angoli del mondo si danno impunemente ognuno un dio differente, non vedo perché non posso anch’io dirti serenamente che tu sei il mio dio quando sono a Napoli, ma non potresti mai esserlo a Parigi…
Su questo punto, noi discuteremo a lungo, la notte, mentre Anna dormirà, ignara. Per fortuna, esiste ancora la possibilità, per gli esseri umani, di vedersi, di toccarsi, di stringersi la mano, di guardarsi negli occhi, di studiarsi l’un l’altro, ognuno a suo modo. Così possiamo indovinare, dopo averci un po’ riflettuto, i sentimenti dell’altro, le sue idee, cosa sta ognuno facendo della sua esistenza. Ora, per esempio, scrivendoti, invoco la tua presenza qui come una cosa ambita, desiderata da tempo, mentre, in verità, non faccio altro che accettare il mio destino. Cerco allora di ammansirti, mostrandomi migliore di quello che sono, ben sapendo che tu mi conosci molto meglio di quanto mi conosca io stesso. Fortunatamente, quando sarai qui in carne e ossa, con tutte le tue curve e i tuoi profumi rari, basterà uno sguardo, o un piccolo incidente quando ti accenderò una sigaretta, perché tutto questo preambolo sparisca in un lampo !
Del resto è sempre stato così. Tocca a tutti, prima o poi, di dover portare una croce, anche se non si hanno sentimenti religiosi né superstizioni nella testa. E allora anch’io, ubbidendo a questa legge, sono pronto : ti aspetto a piè fermo !

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Giovanni Merloni

Un Napoletano a Parigi/1 (Diario di sbordo n. 9)

25 vendredi Nov 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Diario di sbordo

001_tete-bien-coiffee-180Giovanni Merloni, novembre 2016

Un Napoletano a Parigi/1

Mi farebbe davvero piacere vederti arrivare, anche all’improvviso. Incontrarti a una qualsiasi stazione del métro. Sedermi con te a un bar all’angolo e fare colazione insieme. Dedicarti un po’ del mio tempo. Abbiamo molte cose da raccontarci, ma mi piacerebbe, per una volta, soprassedere, aspettare, osservarti in silenzio mentre ritrovi beatamente i rumori, gli odori e i sapori dimenticati di Parigi, questa città di cui fosti tu la prima a parlarmi, facendomela amare ancor prima di conoscerla !
Ora si sono invertite le parti perché tante cose sono successe e tu, ne sono certo, mi parleresti di Napoli, delle persone ancora vive che cercano di fare del loro meglio, di quelle che non fanno altro che danni, di quelle che non possono più fare niente perché sono sparite, puf ! da un giorno all’altro… Ma questi discorsi, io lo so già dove andrebbero a finire : « Ma perché te ne sei andato ? Ti trovi davvero bene a Parigi ? Dimmi la verità !… » Mentre io, guarda un po’ ! vorrei proprio evitare di parlare di quello che « ho lasciato » e di quello che « mi sono perso ». Non ne posso più della « strada vecchia » che sarebbe più sicura e fedele di quella nuova…
Ma non voglio mettere il carro davanti ai buoi, si vedrà, anzi vedremo ! Cercherò di liberarmi dai miei impegni e, se proprio sarò costretto ad andare da qualche parte, ti porterò in giro con me, senza però asfissiarti con l’obbligo della mia presenza : se vorrai girare da sola per Parigi, sentiti libera. Ci daremo via via degli appuntamenti, a cui, certo, io correrò sempre con il fiato in gola.
Mi piacerebbe essere io a decidere che cosa fare, dove andare, almeno il primo giorno. Ma non voglio prevedere troppo, né anticiparti troppo quello che penso, quello che faccio, chi sono diventato. Soprattutto, non voglio sapere nei minimi dettagli le tue prodezze o i tuoi fallimenti. Me ne hai parlato nelle tue lettere, che non mi hanno lasciato indifferente. Anzi, ti ho sempre detto che sono solidale con te. Ma adesso, se vieni qui a Parigi, se vieni per vedere me, non ti portare dietro tutta la tua casa, il tuo ufficio e la città di Napoli. Del resto, lo sai come la penso : per me, quando le cose vanno male, trovo sempre il modo di rassegnarmi e di ricominciare… Quando ormai tutto è stato detto, fatto, bruciato, perduto… quando non c’è più niente da fare, prima di tutto mi dò una bella lavata di faccia, poi, di slancio, mi avventuro subito per una strada nuova, anche straniera, dove posso affidarmi al mistero di facce nuove, di nuovi malintesi forse, ma almeno intravvedo un appiglio, una speranza. Invece tu sei sempre sicura di avere ragione, e secondo te gli altri hanno sempre torto. Non sei veramente disposta a scavare a fondo, per vedere se per caso anche tu hai qualche responsabilità, magari involontaria, in quello che ti succede… Anche con me, ti inalberi subito… E va magari a finire che è colpa mia di tutto, anche se io proprio non c’entro. No, mia cara, parlare di certi argomenti non servirebbe a niente. Anzi, peggiorerebbe la situazione.
Dunque spero proprio che Parigi ci offra qualche distrazione, qualche cosa di bello da vedere o da fare. Finora non ci ha mai tradito.
Già, perché ho scritto « ci » ? Tu non sei mai tornata, per quel che so, da quando sono qui.

002_kees-van-dongen-1923Kees Van Dongen (1923), immagine presa da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Ti ho sognato tante volte. Ti ficcavi nel letto e appoggiavi la tua testa castana alla mia spalla, facendomi male. Oppure cantavi, come Marylin :
I wanna be loved by you…
Ero affascinato e, allo stesso tempo, interdetto. Quando mi svegliavo cercavo di capire chi eri. Non potevi certo essere Marylin. Indossavi la sua morbida silhouette per uno scopo che non capivo. La cosa sicura è che eri tu. Dopo ogni risveglio una tremenda nostalgia si incastrava nelle mie lunghe giornate.
Ho scritto che mi farebbe piacere vederti arrivare, ma non sono stato sincero, non ti ho detto fino in fondo quello che penso. Tu mi porterai l’Italia, e questo è un lasciapassare formidabile. Chi va là ? Italiani. Entrate, presto, ma senza fare rumore. Riflettendo credo che chiunque arrivi dall’Italia sia benvenuto nel mio cuore, anche quando non ho tempo. E’ come se rivedessi i primi giorni passati qui, i primi mesi in cui tutto era nuovo e il francese, che credevo di conoscere un po’, si rivelava uno scoglio difficile, se non insormontabile.
Ma non è solo questo. Anzi, per essere sincero, non è affatto questo. Tu verrai dall’Italia, un giorno o l’altro, a portarmi tutto quello che ho lasciato per sempre laggiù con tanta leggerezza. Ma, lo sappiamo benissimo, io e te, la ragione del tuo viaggio sarà un’altra. Tu non sei mai stata il tipo della turista. Dunque dovrei avere i brividi all’idea di vederti comparire davanti a me.
Avrei potuto scriverti, più seccamente : non mi fa piacere vederti arrivare. Soprattutto se avrai l’aria minacciosa di un giudice all’inizio di un processo. Quante volte, la sera tardi, accingendomi a dormire, girandomi sul fianco, trascinando la coperta con la spalla verso il muro, mi viene da pensare : di là che c’è ? E di qua ? Speriamo che non sia lei, che non sia ancora arrivata !

003_arsenique-sansMiles Hyman Lettera d’amore e arsenico (Le Monde, 2010), immagine presa
da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Vedi, ormai sono installato qui. Nella mia nuova lingua, pur così penalizzata dall’accento di uomo del sud, mi ci trovo bene. E le nuove letture mi aiutano molto a capire, a ricostruire la storia e la geografia di questo paese, a capire meglio l’Europa e anche la nostra povera Italia. Se i « Miserabili » e i « Fiori del male » mi hanno accompagnato in un corpo a corpo con questa città di tutti, la « Libertà che guida il popolo » e le « Grandi Bagnanti » mi hanno aiutato a sentirmi meno straniero e meno solo.
E poi, che vuol dire « essere stranieri » ? In fondo tutti sono stranieri quando hanno un progetto, un sogno, un talento da assecondare. Anche laggiù dove sei tu, quelli che si ritengono profeti in patria rinunciano ogni giorno a un pezzo importante di loro stessi, in cambio del successo, tanto più tracotante quanto più effimero. E gli altri ? Gli altri sublimano la loro rabbia in sogni di isole inesistenti, raggiungibili con ponti di barche che l’invidia dei potenti si incarica regolarmente di affondare. Evviva, affiora l’isola. Abbasso, crolla il ponte. Qui invece ci sono scrittori, poeti, pittori e musicisti di tutto il mondo a cui non si impedisce di lasciare la loro impronta, piccola o grande. Li sento respirare, di notte, nei vari villaggi di questa sterminata città.
Insomma, proprio ora dovevi venire ? Ora che, dopo dieci anni, cominciavo a farmi una ragione di questo cambiamento, di questa operazione di pulizia che ho finalmente potuto svolgere su me stesso, buttando via tanti oggetti, ricordi e pensieri angosciosi, per lasciare un po’ di posto all’essenziale ? D’altronde, te l’ho detto, credo, le case qui sono piccolissime !
Tu arrivi in un momento in cui mi sto proiettando nel presente, se non nel futuro… eliminando la zavorra e chiudendo le porte ai dubbi… Invece, lo so già, tu vorrai darmi e chiedermi delle spiegazioni, riportando qui il « nostro passato », come tu lo chiami. Credi di portare una valigetta mezza vuota, ma poi che farai, quando ti accorgerai di essere schiava di un baule pieno di sassi ? Io non posso impedirtelo, capisco le tue ragioni, ma lo sai che non amo rivangare i ricordi dolorosi. E lasciami dire sinceramente che non ho mai creduto nel giorno del giudizio.
A meno che tu non sia d’accordo con me nel dire che il giorno del giudizio è tutti i giorni.

004_menilmontantHenri Cartier-Bresson Ménilmontant, Parigi immagine presa
da un tweet di Anna Urli-Vernenghi (@urlivernenghi)

Sai, vivendo, mese dopo mese, anno dopo anno in una realtà estranea, si cessa d’un tratto di essere l’italiano buffo e gentile, il personaggio sorridente che non rinuncia a gesticolare con spreco di energie. Si comincia a possedere delle cose, a ricevere delle lettere, dei pacchi, insieme al giornale e alla pubblicità, come dappertutto. Le nostre case microscopiche si riempiono come uova e anche noi, come gli altri, finiamo per abbandonare per strada le nostre poltrone sfondate e i nostri forni a microonde arrugginiti. Qualcuno li porta via, e la vita va avanti, alleggerita dallo sgorgare periodico di guizzanti ruscelli d’acqua lungo i marciapiedi e, qualche rara volta, dal sole.
Parigi è una città piena di vita, malgrado la miseria e la morte sempre incombenti, come a Napoli. Anche qui si avverte la fragilità di infiniti fili che si possono spezzare da un momento all’altro. Senza processo. A meno che colui che è diventato clochard perché non può pagare l’affitto, non debba sentirsi in dovere di farsi il processo perché mangia e beve quello che trova o perché deve dormire tutte le notti al gelo.
Certo sono sconvolto da questa brutale verità da insignificanti formiche. Ma se le cose vanno tanto spesso male, possono anche andare bene ! Vedere la gente che lavora per fare girare il métro, per esempio. Questa sorta di moto perpetuo che rende viva la città e fa sì che i bar, i ristoranti, gli alberghi, i negozi e le botteghe artigiane sopravvivano guadagnando ogni giorno qualcosa, è il risultato dell’immenso lavoro di milioni di formiche. Certo, la vita di ognuna di queste insignificanti formiche è un mistero.
Ma il solo fatto di vivere in mezzo a loro, di potermi considerare anch’io una insignificante formica, mi allarga il cuore.

005_napoliNapoli panorama

Tu arriverai, un giorno, portandomi il panorama di Napoli con il pino, o la madonna vestita di Procida, o l’odore dei supplì. Ma forse non sarò affatto contento di ricevere tutte queste belle cose così presto, dopo averti tanto aspettato.
Del resto, te lo potevi immaginare : non abito da solo qui, adesso, e tu mi vieni a trovare come se niente fosse, magari vestita in modo anacronistico, sconvolgendo i miei programmi e le mie nuove abitudini.
Ma farò lo stesso gli onori di casa. Ti offrirò la colazione sotto i portici di place des Vosges. Ti porterò a passeggio per il Marais. Entrerò con te in un negozio che voglio farti conoscere, dove vendono cappelli di tutte le fogge e di tutte le epoche, e, in nome del piccolo principe di Saint-Exupéry, ti regalerò un casco da aviatore e una stella…
Poi, potremo girare per ore dentro il Louvre, dove sicuramente incontreremo qualche italiano, magari un napoletano, con cui potrai parlare.. Ma non sarò così maleducato da lasciarti sola con lui davanti alle toilettes dell’Orangerie o nella libreria della Gare d’Orsay. Berrò il tuo calice, come un buon amico, al café all’angolo tra rue du Bac e rue de Varennes, a due passi dal Centro Culturale Italiano. Oppure, se mi darai il tempo e non vorrai subito ripartire, ti inviterò a mangiare una pizza a Montparnasse. Lo so che la pizza che fanno qui non è quella di Napoli ! Ma se sarò con te, mi sembrerà di stare a Napoli. Quanto mi piacerebbe poterti parlare a lungo, facendo finta che ci porteranno anche i « supplì », la « pastiera » e la « granita di caffè con panna » !
Poi, finita la prima schermaglia, raggiungeremo, mi auguro, una specie di intesa. Tu mi dirai francamente quanto tempo pensi di restare. Solo tre giorni ? Un mese ? Sarai tu a dirlo. Ne sono certo, durante il nostro primo incontro tu parlerai pochissimo. Ti preoccuperai soltanto di concedermi un po’ di tempo per prendere una « decisione ». È il tuo tipico modo di fare, e lo rispetto. Ma che cosa dovrei decidere esattamente ? Ritornare a Napoli ?

Ma forse mi sbaglio. Tu mi dirai che non sono poi così importante, che sei venuta soprattutto per cambiare aria e desideri che ti accompagni a vedere qualche mostra o qualche negozio alla moda come facevano le nostre bisnonne viaggiatrici. Non mi resta che mettere in ordine e fare sì che la tua permanenza qui sia tranquilla e confortevole. Starai con me, nell’appartamento molto bohémien di rue de la Lune. Dormirai su un canapè nel saloncino. Anna, la mia giovane coinquilina bolognese, non dirà niente. Di giorno non potremo starci, perché lei lavora in casa. Ma non ti preoccupare, se sarai stanca, ti farò riposare sul mio letto e io andrò a farmi un giro.

Giovanni Merloni

(Continua)

Istante blu (Lettrici n. 2)

19 vendredi Fév 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Lettrici

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Photo empruntée à un tweet de Laurence @f_lebel

Istante blu

« Mi sono sdraiata sul letto, tutta vestita, a volte senza nemmeno levarmi le scarpe. » Questa frase, giusto con le varianti linguistiche o dialettali determinate dal tempo, avrebbero potuto dirla tre donne importanti della mia famiglia : la mia irraggiungibile nonna Mimì, che si «buttava» sul letto credo per disperazione ; mia madre Pia, che vedevo assopirsi col gomito sul cuscino e la testa inclinata sui gialli di Agata Christie o sulla Settimana Enigmistica per allentare la tensione dei suoi fervidi d altruistici pensieri ; mia moglie Claudia, lettrice indefessa in segreto, anche lei, forse, per rimuovere qualche pensiero angoscioso…
Questa circostanza era ormai un’abitudine, la ricerca fiduciosa di un porto sicuro di fronte ai tormenti, ai fantasmi minacciosi e alle voci agitate che accompagnano, ahimé, ogni vita, sia essa esageratamente impegnata, sia essa invece semplice e discreta. Nella mia famiglia, questo «bisogno di stendersi »», del resto diffuso a macchia di leopardo dappertutto nelle case di tutto il mondo — e, avvalorata da inconfutabili testimonianze —, mi fa pensare che forse questi tre mariti — un figlio, un padre, un nonno — avevano qualcosa in comune. Qualcosa che costringeva queste mogli «travolte» a rifugiarsi sul letto come su un prato fiorito, almeno il tempo di un istante blu.

Giovanni Merloni

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TESTO IN FRANCESE

Il mio libro più bello lo hai scritto tu (Zazie n. 60)

13 samedi Fév 2016

Posted by biscarrosse2012 in poesie, racconti

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Immagine presa al volo da qualche parte su Twitter…

Il mio libro più bello lo hai scritto tu

Da qualche parte
brucia una candela
mentre grida
o soffia
o si rotola
dal ridere
dal piangere
qualcuno che crede
di sentire la mia voce.

Forse
il mio libro
più bello
lo hai scritto tu
credendo davvero
che fosse il mio.

Altrove, forse
più vicino, più lontano
la mia mano ti cerca
uscendo dal foglio
afferrando una nuvola
confusa docilmente
a quell’ombra straniera
che balla follemente
tra una fila di candele
o di veri lampioni
sul muretto di un ponte.
O invece, si tratta
di una sagoma nera
che correndo si dispera,
stanca di leggere, ogni sera
tante storie di cera.

Tra i fili del cielo
camminando in equilibrio
sta ripetendo a memoria
le parole di un libro
scolpito nel cuore
quella bella protettrice
svagata, impulsiva
che potresti essere tu,
mia devota lettrice,
ma quel volto pensoso
che volteggia lassù
non puoi essere tu.

Qui dentro
il mio libro imbrigliato
esita a uscire
le mie parole sghembe
gridano a vuoto
la mia penna
senza inchiostro
scricchiola.

La mia mano
stecchita dal gelo
ha paura
di tornare sul foglio
i miei occhi
accecati dal buio
hanno paura
di trovare
sorridente
il tuo nome.

Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta da ©Copyright

«Per un punto Martin perse la cappa» (Caramella n. 5)

17 dimanche Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Caramella

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«Per un punto Martin perse la cappa»

«Per un punto Martin perse la cappa»… Dovrei essere ormai abituato a certi «incidenti di percorso» che in me nascono, quasi sempre, dall’entusiasmo e dalla fretta, pessimi consiglieri tutti e due. Dopo simili incidenti farei meglio ad avanzare con un sorriso ebete e spavaldo, scrollando le spalle in segno di indifferenza. Non ne sono capace… Ma è necessario che almeno io cerchi di fare ordine, come il povero abate Martino, che rimetta al più presto al suo posto quel benedetto punto…
La storia di Martino e della cappa mi perseguita sin da bambino. Mio padre, che era molto intonato e sapeva suonare il violoncello, me la canticchiava spesso, seguendo il ritmo di danza dolorosa di Sheherazade o, a volte, il ritmo solenne e sognatore dell’incompiuta di Schubert… Non posso dilungarmi su questo punto del punto di Martino nella storia di famiglia, ma è certo che mio nonno materno perse quasi tutti i suoi risparmi per essersi ostinato, con sacrifici inenarrabili, ad accumulare e conservare titoli di stato che, si scoprì un giorno, valevano meno che francobolli scaduti. Le sue alte conoscenze di matematica infinitesimale gli avevano forse fatto sottovalutare l’importanza dei coefficienti, dei punti e delle virgole… mentre mio nonno paterno, per aver voluto tenere il punto dell’antifascismo, perse la vita.
Quanti punti e quante virgole si dovrebbero poter rimettere al loro posto per fare giustizia, magari postuma, ai tanti Martini che si aggirano per il pianeta, vivi, morti o moribondi, ignari tutti del loro comune destino! Ma nessuna riparazione potrebbe restituire quello che hanno ormai perduto: né la borsa né la vita!
Resta la cappa, su cui mio padre amava appoggiare, musicalmente, un piccolo tocco di enfasi finale. Nella leggenda, la cappa è appunto il mantello perduto o mai ottenuto dall’abate Martino per avere scritto una frase ambigua. O per meglio dire, per aver commesso l’errore — nell’entusiasmo della sua sincera bontà e nella fretta di ricevere un premio — di mettere un punto e forse anche una virgola là dove dovevano essere messi. Col tempo, man mano che la voce perentoria e cantante di mio padre si allontanava da me, a volte senza darmi il tempo di salutare, la cappa è diventata per me un qualcosa che inevitabilmente si perde, perché è quasi impossibile ottenerla e soprattutto mantenerla. In più, se la cappa può confondersi idealmente con la gloria o con una bellissima donna che decide di punto in bianco di ricambiare il nostro amore… la cappa rappresenta anche, di per se stessa, la paura di perderla. Il flessuoso mantello di lana che potrebbe coprirci e offrirci un indimenticabile calore provvisorio si trasforma inevitabilmente in una cappa… di piombo. E, di colpo, all’illusione subentra la beffa, alla casa magnifica e confortevole subentra una prigione gelida e impenetrabile.
Ah, quanto mi piacerebbe passare inosservato tra i banchi di scuola per andare a parlare un momento con il professor Steno Vazzana, di italiano… Sono certo che mi aiuterebbe a sbrogliarmela. Lui che ha trovato delle affinità tra Dante e Lucrezio e che tanto ha apprezzato l’apertura mentale di Italo Svevo, che egli amava definire «il primo scrittore italiano di portata europea»… Basterebbe pensare a Zeno Cosini e alla sua meravigliosa indecisione : due sorelle certamente diverse l’una dall’altra, ma con tantissimi punti in comune. Come fare a distinguere se si è distratti e obnubilati dalla paura di perdere la cappa? Perché scegliere? Così direbbe Steno Vazzana. Potrei raggiungerlo al suo ultimo liceo, il Vivona, nel quartiere dell’EUR dove si era trasferito… E, certo, avrei potuto chiedergli un appuntamento, l’ultima volta che lo vidi, nel 2000. Chissà se lui sapeva che presto, di lì a un anno… Il nostro professore di Italiano era una figura schiva e perfino trasparente, che vedo avanzare a passi corti e leggeri, sgusciando in mezzo a colossi come Punzi e Pagani o Manacorda senza curarsi di quello che poteva succedere alla sua povera ombra… L’ultima volta che gli parlai, non ebbi la presenza di spirito di chiedergli il perché della mia vocazione a farmi del male da solo, come direbbe Nanni Moretti. Una sua risposta mi sarebbe servita moltissimo, peccato. Ma posso forse trovare qualche spunto nel ricordo delle sue lezioni su Dante e in quello che mi disse un giorno a proposito della poesia.
Sull’onda di quelle lezioni, mi sono domandato con insistenza quello che deve aver passato Dante con Beatrice. Povero Dante! Un uomo venuto dritto per dritto dal dolce stil nuovo, uno dei fondatori di quella lingua «volgare» che finalmente si liberava dal latino raccogliendo tutte le virtù e le sfumature della «loquela», cioè della lingua parlata, un creatore così «concreto» e profondamente umano non avrebbe mai potuto «idealizzare» una donna inesistente. Colui che disse «amor che nullo amato amar perdona» non poteva elevarsi verso il divino senza portare con sé non solo la propria corporea e appassionata umanità, ma soprattutto quella dell’amata. Se per traversare l’Inferno e il Purgatorio Dante può contentarsi di un suo «pari» — il più grande dei suoi pari, Virgilio —, per ascendere nei cieli del Paradiso ha bisogno dell’aiuto di un essere «altro», di una figura diversa e complementare che faccia da tramite tra l’umano e il divino. Ed ecco che Beatrice, quella che Dante chiamava «la donna mia» diventa «l’avvocata nostra», un essere a metà umano a metà divino come la Madonna secondo tutti i Vangeli cristiani.
Certo noi due, Caramella, navighiamo, anche retrospettivamente, nella sacralità del ricordo di un passato comune, in una dimensione molto più pagana e disincantata di quella in cui viveva Dante. Siamo cresciuti in un Paese dove attraverso successive conquiste la donna ha potuto ottenere, sia pure ancora in modo insoddisfacente, una sorta di parità con l’uomo. Un paese è una società, anche qui in Francia, in cui si dà per scontata la cosiddetta «privacy», una parola divenuta secondo me orribile ma che fotografa abbastanza bene un problema…
Tornando a Dante e Beatrice, io mi domando quanto deve essere costata al nostro poeta sommo la scelta di fare della sua donna amata un personaggio e per di più l’ago della bilancia della sua gigantesca scommessa umana e letteraria. E mi domando se, allora, la cosiddetta «vox populi», invece di «seguir vertute e conoscenza» e di elevarsi, attraverso le parole di Dante, verso più ambiziosi traguardi, non abbia cercato «terra terra» di far risaltare, nella Divina Commedia la questione dell’amore sacro o profano tra Dante e Beatrice come se fosse quello e solo quello il suo motore… Mi sono visto davanti un gruppetto di sedicenti «parenti di Beatrice» assediare la Casa di Dante, a Trastevere, proprio mentre il professor Vazzana stava spiegando il canto… del Paradiso… Un gruppo armato di forconi innocui e antidiluviani, naturalmente. Ma «il modo ancor m’offende» avrà detto Dante, sentendosi mortificato da queste ingiuste e soprattutto squallide accuse.
Rileggendo la storia di Dante e Beatrice insieme a Steno Vazzana e Italo Svevo, verrebbe da dire: ma forse Beatrice aveva una sorella!
Purtroppo, Caramella, il mondo di oggi, quello che abbiamo creduto e sperato migliore per i nostri figli, sembra andare all’indietro. Non solo si impone l’intolleranza guerresca di popoli che vorrebbero inculcare ad altri popoli la loro ignoranza in cui sembrano inscindibili la violenza e il disprezzo della vita umana, in particolare delle donne. Ma anche i popoli cosiddetti evoluti sembrano scivolare e addirittura compiacersi in un colossale analfabetismo di ritorno.
Niente è scontato se ben ci ricordiamo quanto hanno sofferto D.H. Lawrence per il suo «amante di Lady Chatterley» o Vladimir Nabokov per «Lolita».
Il tempo ha dato loro ragione o, per meglio dire, qualcuno, in qualche parte del mondo civilizzato, ha dato loro una mano. E a nessuno importa se Dante fosse stato o no amante di Beatrice o della sua splendida sorella che, se fosse realmente esistita, avrebbe potuto perfettamente svolgere la parte della «donna schermo».
Ma il tempo è sempre galantuomo, con tutti? Quanti Martini, miseramente degradati e ingiustamente accusati riavranno mai la cappa?
Tutto questo giro di parole per dire che anch’io, Caramella, potrei imbattermi, per via della mia imprudenza, in qualche cupo malinteso. Come successe a Beatrice… Perché certo, se Dante avrà pianto Beatrice non avrà certo riso…
A volte le parole, o le immagini, sono ancor più gravi che i fatti reali… Purché si riesca a farli passare sotto silenzio, una vita di vera violenza e di vera e spesso grave prevaricazione può essere dimenticata o, per così dire, «condonata». Mentre le parole portano con grande facilità ai processi sommari, con il rischio sempre presente di perdere la cappa o la vita.

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Non posso sapere se noi continueremo o no, Caramella, questa nostra traversata. Ma sono contento che alcune cose essenziali si siano chiarite tra noi. Per esempio, avrei preferito lasciar credere che tu fossi la sola che potesse interessarmi tra le tante compagne e ombre vaganti della nostra strana classe… Ma cosa cambierebbe, in fondo, se d’ora in poi tu le rappresentassi tutte? D’altra parte, ora so bene con quale entusiasmo tu mi aiuteresti, con il tuo sguardo fulmineo e spiritoso, a portare a compimento la mia «Gerusalemme Liberata», proteggendomi da coloro che potrebbero cercare di convincermi a riscriverla all’infinito, e magari a rovinarla…

Giovanni Merloni

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«Chi segue segue; chi non segue seguirà in seguito!» (Caramella n. 4)

14 jeudi Jan 2016

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Caramella

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«Chi segue segue; chi non segue seguirà in seguito!»

Caramella,
prima del nostro incontro di Ostia mi sembrava che tutto fosse attaccato a un filo, come nei film di Indiana Jones. Ma tu sei stata indulgente: all’altro capo della corda lì lì per spezzarsi, affacciata sull’orlo del pozzo scuro e gelato, mi hai tirato su. Quante volte ti sarai domandata «chi me lo fa fare?», ma poi il braccio l’hai allungato, preoccupandoti di far arrivare il filo fino alle mie mani. Energicamente, forse con l’aiuto di qualcuno, hai fatto passare la corda sulla carrucola e… mi hai salvato.
Ma poi, invece di correre subito ad abbracciarti, mi sono lasciato attrarre dalle sirene di Scilla e Cariddi come Ulisse. Tu eri una Penelope assediata che aspettava il suo vecchio amico. Non avrei dovuto tergiversare: questo incontro così raro, così unico, era più importante delle parole, più importante delle ansie che ingombrano la mia testa come droghe vere e proprie. Insomma, ti ho deluso.
Come Ulisse, sono arrivato sotto falso nome, rivestito di stracci e di cicatrici a te sconosciute. Non ti ho dato la possibilità di scoprirmi a modo tuo, seguendo il tuo infallibile istinto. Forse, se avessi saputo liberarmi della mia corazza di cartapesta, sarei riuscito a espugnare la tua isola!
Ora… mi ritrovo tra le mani un foglietto spiegazzato, su cui tu hai scarabocchiato una domanda: «che c’entra Punzi con Paparozzi?»
Ma tu lasci ancora sospeso tra me e te un esile filo… Un lunghissimo capello castano che, visto dall’aereo, sembra una tortuosa strada bianca che sparisce e ricompare al passaggio delle nuvole e al sottopassaggio delle montagne, per poi impaludarsi tra i riflessi accecanti dell’immenso delta del Rodano e… risalire, risalire, arrivando chissà come fino al mio portone. Già, davvero, che c’entra Punzi con Paparozzi?
Forse, qualcuno che non esiste, se fosse stato alunno dell’uno e dell’altro avrebbe potuto aiutarmi a spiegare oggettivamente e una volta per tutte una tale questione basilare o, più probabilmente, avrebbe suggerito di lasciar perdere: Punzi è Punzi e Paparozzi è Paparozzi.
Sta di fatto che per cinque anni di seguito io sono stato compagno di scuola e di classe di Paparozzi, cumulando di anno in anno la sublime esperienza di avere a che fare con un inguaribile primo della classe che era anche, cosa rara, un fuoriclasse. Nella maggior parte delle «galere chic», come io chiamo le scuole, come io le chiamo e considero, il primo o la prima della classe non è necessariamente un genio che ha la scienza infusa. Al contrario, si tratta di persone soprattutto volenterose e metodiche, spinte da un desiderio quasi religioso di primeggiare e che, se non primeggiassero, non saprebbero cosa fare.
Nella nostra classe, Caramella, se ben mi ricordo, non c’erano primi della classe né geni. Eravamo lo specchio dell’Italia pre-risorgimentale, costellata di staterelli decaduti e incapaci di primeggiare. In altre classi, come quella di mia sorella o quella di mio fratello, la regola più diffusa era rispettata, con dei «Pierini» che non perdevano un colpo e degli «elementi» capaci talvolta di exploit sorprendenti in questa o quella materia.
Nella classe da cui venivo, facevo parte dell’agguerrito gruppetto di coloro che perennemente inseguivano il fuoriclasse in fuga. Paparozzi eccelleva nelle materie letterarie e in disegno, ma se la cavava anche in matematica e in geometria. Per questa sua supremazia, perché nessuno lo copiasse, veniva relegato all’ultimo banco durante i compiti in classe. Più tardi, tra le leggende che serpeggiavamo nei corridoi fumosi all’ora delle pizzette — che i bidelli scaldavano per qualche minuto sui grandi termosifoni di ghisa —. si diceva che Musmarra, il professore di latino e greco della sezione D, faceva per lui un’ eccezione, sfidandolo a tradurre dal greco al latino e viceversa, essendo la versione in italiano troppo facile e scontata. Più tardi, quando Paparozzi era ormai una leggenda tra i professori della sua scuola, il liceo Pasteur, si raccontò che Paparozzi, non contento di decifrare testi greci e latini scoloriti e difficilissimi, aveva intrapreso una fitta corrispondenza con un professore dell’Università di Oxford che si divertiva a mandargli, dopo averli bruciacchiati qua e là, certi poemi sconosciuti. E Paparozzi rispondeva: certo si trattava di un’interpretazione… ma la soluzione era talmente brillante che ci si poteva giurare.
Ai tempi miei, Paparozzi era buono, calmo, riflessivo, silenzioso. Devoto della penna stilografica Pelikan, se ne serviva in classe per fare a tempo perso degli esercizi di calligrafia in gotico. Eravamo amici, in qualche modo, come lo si può essere quando la superiorità dell’uno sull’altro è fissata una volta per tutte. Abitava a Monte Mario, in un piccolo appartamento dietro al cinema Edelweiss. Figlio unico molto devoto, è stato sempre vicino ai suoi genitori che avranno passato la vita, io credo, a domandarsi come mai avevano potuto generare un figlio così speciale.
Dalla seconda media fino al quinto ginnasio avevo condiviso con Paparozzi la passione per il francese e la Francia. Per lui forse, questa cultura, sempre all’avanguardia dal punto di vista letterario, filosofico e scientifico, era una porta, un veicolo per introdursi e avanzare più speditamente nel suo gigantesco bisogno di sapere. Per me il francese era la chiave per entrare in un mondo che non poteva cambiare e dove, soprattutto, si respirava una particolare aria di libertà. Sia alle medie che al ginnasio avemmo la fortuna di due bravissime professoresse di francese. Ma Ortensia Lami, quella signora piccola e freddolosa con i capelli bianchi e vestito di lana nero alla Strehler, che forse avrai visto circolare per i corridoi del Mamiani seguita da un codazzo di fedelissimi «portatori» delle sue indispensabili stufe, fu un vero e proprio mito. Come non amarla, come non assimilare ogni angolo delle sue precise e indimenticabili parole francesi. Venendo a Parigi, ho poi immaginato che la Lami, se fosse rimasta in Francia con la sua famiglia, si sarebbe chiamata Hortense Lamy… ma la mia intraprendenza si ferma lì. A differenza di Paparozzi, che andava regolarmente a trovare la vecchia e arzilla professoressa, io non ci sono mai andato, se non una volta. Eppure, davanti a tante materie che amavo o odiavo in modo alterno, il francese, insieme alla geografia, erano le materie in cui ottenevo i migliori risultati. Al punto che capitò, qualche volta, in occasione di un compito in classe di francese, la Lami mi facesse sedere in fondo, vicino a Paparozzi…
Ti risparmio, Caramella, il ricordo di quegli strani e straordinari dibattiti che la Lami sapeva suscitare parlando della « religiosità » di Rousseau o della « vita reale » scritta-dipinta da Prévert, che furono tutti e due i miei primi maestri… Fatto sta che questa interminabile stagione di classi maschili, in cui si affacciava prepotentemente ma senza grosse speranze la questione amorosa, si interruppe bruscamente quando, invece di continuare a frequentare la sezione D, insieme a Paparozzi e al gruppetto dei pochi amici che pure mi ero creato, i miei genitori decisero per me, trasferendomi nella C.
Tra i nostri nuovi professori c’era Giuliano Manacorda, una persona nobilissima e carismatica che, si sapeva, era un intellettuale di sinistra… Ma non credo ci potesse essere solo questa motivazione. Perché « levarmi » da una classe dove in fin dei conti me l’ero sempre cavata? Mistero. E perché io non dissi niente? Forse perché tutto mi era indifferente? Ero diventato così, secondo loro, a forza di stare nell’ombra, e quest’ombra rischiava di diventare un alibi per non sforzarmi di primeggiare e, al limite, per non studiare.
Certo la classe con il fuoriclasse Paparazzi sembrava ipotecata da un destino implacabile. Per di più, tra la quarta e la quinta ginnasio, io avevo definitivamente perduto la cosiddetta « pace dei sensi » e non riuscivo più a studiare con la testa leggera, come prima. E Paparozzi, che mi sembrava ancora indenne da queste turbe disastrose, non poteva più essere per me lo stesso interlocutore. Ma, Caramella, i primi giorni che mi trovai catapultato nella classe dove c’eri anche tu… una classe finalmente mista, devo confessarti che, pur non avendo la consapevolezza di aver perduto, tra i vecchi compagni, qualche vero amico, mi trovavo ancora molto spaesato e confuso.

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«Siete quaranta!» urlò Punzi, con quell’inflessione dialettale avellinese che fu poi l’occasione di tante e tante imitazioni. Già all’inizio del liceo, nell’ottobre 1961, eravamo in soprannumero. Tre anni dopo, al primo anno di architettura, dove si iscrissero con me altri cinque nostri compagni, eravamo cinquecento! Si parla oggi della nostra generazione, quella dei nati alla fine della guerra, come della generazione dei « baby boomers », credo più « maschi » che « femmine », se vogliamo usare il gergo scolastico. La prima generazione che ha dovuto da un giorno all’altro fare i conti con quel cambiamento radicale della società occidentale di cui vediamo oggi una fase ancora più inquietante e minacciosa. Ma Punzi non era cattivo. Era terrigno, autentico, burbero ma benefico come il personaggio di Goldoni. Legato ancora ad un’idea, arcaica ma solidale, di una società che desiderava sinceramente sana e giusta, dove si doveva continuare a «dare a Cesare quel che è di Cesare»…
Lui non mi avrebbe sgridato, come invece faceva Manacorda, per tutti i fastidiosi avverbi — energicamente, metaforicamente, oggettivamente, probabilmente, necessariamente, perennemente, talmente, speditamente, regolarmente, prepotentemente, bruscamente, definitivamente. finalmente — con cui ho condito fin qui il ricordo del mio « faticoso passaggio » alla vigilia del nostro primo incontro. Punzi non si sarebbe nemmeno scandalizzato se, nell’imbarazzo della mia ignoranza di fronte a una domanda difficile, avessi detto, durante i miei incubi ricorrenti di esami che non finiscono mai, quel fallimentare «praticamente», una vera e propria gruccia secondo il professore di storia. Punzi era un tipo essenziale, consapevole dei suoi limiti. Severo ma non troppo. Un Bignami ambulante e in definitiva un ottimo professore, se si considera che tutta la classe arrivò in modo indolore alla maturità, credendo di sapere poco o niente e invece…
«Anacreonte viaggiò molto, oriente… occidente…» questa fu una delle sue frasi più celebri, insieme a quel «Non accetto più, non accetto più!» che rimbombava nel fondo della classe mentre la sua voce diventava gracchiante al momento topico del ritiro dei nostri compiti appena scodellati. Qualche giorno dopo, quest’uomo spelacchiato con gli occhiali spessi, piccolo e cicciottello nel suo abito grigio, entrava in classe sbattendo la cartella con i compiti, urlando: «Non ci avete capito un cazzo!»
Nel ricordo, questo suo comportamento era alla fine liberatorio, se si pensa che nell’interregno tra il compito e il voto le sue dichiarazioni erano spesso minacciose: «sto correggendo i vostri compiti col bilancino», oppure «la stretta di viti sarà ancora più sanguinolenta», oppure ancora «chi segue segue, chi non segue seguirà in seguito»…
Il ricordo di Punzi, che condividiamo con tantissimi ex alunni del Mamiani e si è tradotto in numerose «punzeidi» e, insieme agli amori segreti e forse inventati tra Pagani e la Rizzo — cioè tra il carismatico e tossicchiante professore di matematica e la vispa è un po’ algida professoressa di scienze — una delle poche cose vive e forti del nostro tempo trascorso su quei banchi senz’anima.
Per fortuna, oltre alla paura di dire «praticamente» o altri avverbi e parole di cui avremmo dovuto diffidare come di altrettante grucce verbali e alla certezza di essere di punto in bianco stigmatizzati per la nostra mancanza di… tutto, la cosiddetta « pace dei sensi » era da tutti, di comune tacito accordo, identificata con la polvere dei libri. Nella nostra «prima C», a parte la «signorina» Di Giulio e pochissimi altri, nessuno studiava. O per meglio dire nessuno strafaceva. Da questo punto di vista, andando a ritroso con la macchina del tempo, devo correggere il giudizio che mi sono portato dietro per tanto tempo. Quella classe apatica, amorfa, divisa in tanti staterelli come l’Italia all’indomani del congresso di Vienna del 1815, quella classe che Metternich avrebbe chiamato « mera espressione geografica »; questa classe formatasi nel 1961, che poteva assimilarsi all’Italia che si era formata proprio cento anni prima, in cui si dovevano ancora fare gli italiani… era in realtà quanto di meglio avrei potuto desiderare. Lo specchio delle mie e delle nostre brame.
Perché allora, in un epoca in cui già aleggiava la contestazione e l’insofferenza verso questo mondo adulto « imbalsamato », nessuno di noi avrebbe voluto uno specchio che gli dicesse «tu sei il più bravo e il più bello», perché tutti, invece, desideravamo, sotto sotto, che lo specchio ci dicesse, come ci diceva : «vedi? tutto scorre senza cambiamenti e tu, ancora una volta, sei passato inosservato!»
Vedi, Caramella, che cosa può produrre la solitudine e lo strano rimorso per delle colpe che sono certo di non avere commesso ? Finché tu non ti rifarai viva, io non farò altro che entrare e uscire da quello specchio.

Giovanni Merloni

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Di che parlava, il film della tua vita ? (Caramella n. 3)

09 samedi Jan 2016

Posted by biscarrosse2012 in racconti

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Caramella

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Di che parlava, il film della tua vita ?

Caramella,
le lettere sono andate perdute. Scusami questa espressione « napoletana » per dire che il nostro epistolario è sparito. Come se non fosse mai esistito. Perché, se è vero che il disco rigido del tuo computer non dà più segni di vita, nel mio caso è successa una cosa ancora più grave e definitiva. Mi ero illuso che i nostri messaggi sarebbero stati eternamente conservati in quella specie di biblioteca virtuale dove andavo a cercarli. Ma avevo sottovalutato l’infernale meccanicità della macchina : sono bastati sei mesi di inattività… perché « quelli » mi cancellassero tutto! Mi sembra la tragica storia di mia sorella, a cui mancavano solo tre esami per laurearsi in giurisprudenza. Aveva passato tanti guai, si era ammalata… finché un giorno ricevette una lettera in cui le dissero piuttosto seccamente che ormai tutti gli esami che aveva fatto non valevano più un fico secco. Era come se non li avesse mai fatti… Ma anche noi, Caramella, nello scrigno spezzato della nostra corrispondenza avevamo riversato tante lacrime insanguinate…

Potrei decidermi a prendere l’aereo. Si tratta solo di due ore di volo, in fondo. Per di più, a Fiumicino, posso affittare una macchina… Mi darebbero, se gliela chiedessi, quella Nuova Fiat 500 che finora ho visto solo da fuori. Poi, dall’aeroporto, se ben mi ricordo, c’è la scorciatoia… di via della Scala! Una via lunga, abbastanza trafficata ma confortevole che costeggia lo specchio d’acqua esagonale dell’antico porto di Traiano, poi l’abitato di Isola Sacra, per attraversare alla fine il Tevere sull’ultimo ponte prima della foce…
Caramella, quante emozioni mi evoca la sola idea di questo viaggio da un aeroporto a un bivio! Ma ti devo confessare, se non fosse per la macchina a nolo e il timore di strusciarla contro qualche paracarro, che non resisterei all’imperioso richiamo della gita al Faro più squallido che si possa immaginare, o alle quattro casette sbilenche della via del passo della Sentinella… Questi soli nomi, pur attirandomi come una specie di calamita, mi fanno rabbrividire, riportandomi dei ricordi in cui la piccola gioia di essermi sentito vivo si fonde a un’angosciosa sensazione di pericolo. Genio e sregolatezza, terrore e attrazione, sotterranea paura e coraggio insensato… Passato il ponte, la strada diventa più anonima, fino all’Ostiense ovvero la « via del Mare ». Sarei ormai quasi arrivato a casa tua.

«Ho avuto molti problemi fisici e sono stata molto triste. Non mi sentivo all’altezza di raccontare niente che ti potesse interessare. Non avevo neppure più il mio habitat.: la bella scrivania di cristallo e bambù… la mia poltrona, dalla quale vedevo fuori la campagna. Avevo lasciato la mia villetta e mi ero trasferita nell’appartamento dove vivo tuttora. È carino, dentro, anche se piccolissimo, ma situato in un palazzo squallido…»

Arrivo, arrivo… Ma prima, permettimi di fare una piccola deviazione, devo correre a via dell’Idroscalo per fare una breve visita a Pasolini… Qui in Francia si parla tanto del suo genio straordinario… Se non colgo la palla al balzo, rischio di by-passare per sempre questo luogo così angosciosamente « pasoliniano », dove il grande regista-filosofo è morto quarant’anni fa. Eh sì, Caramella, è passato già tanto tempo da quella notte di cupi presagi che passò come un’ombra gelida in mezzo ai nostri entusiasmi. Nessuno aveva voluto credere al Tiresia contemporaneo che aveva capito tutto in anticipo, sulla sua pelle, mentre noi, nella nostra giovanile incoscienza, non sapevamo di essere così presuntuosi e astratti. Abbiamo voluto continuare a illuderci sulla capacità del nostro paese di uscire da solo dalle innumerevoli imboscate che lo facevano vivere in una eterna agonia. Niente mi sembra cambiato, in questa località che ho già visitato una volta : un luogo senza personalità dove si è consumato un efferato delitto, impunito, contro l’umanità. Ma vorrei lo stesso andarci, scendere un attimo dalla macchina nuova di zecca e… chiudere gli occhi per ascoltare le grida dei gabbiani in transito su questa via derelitta e risentire la voce stridente del poeta mentre scandisce una delle sue disperate ribellioni…

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Forse, in quel momento irripetibile, mi piomberebbero addosso, come in un film di Pasolini, le frammentarie visioni dell’acciottolato romano di Ostia antica, il silenzio dei pini contro il cielo spensierato… insieme a un’altra voce inascoltata, quella del mio amico Ascani. Chino ore e ore sul suo incredibile pachwork di foto aeree in fotocopia, Ascani aveva ricostruito pezzo per pezzo le tracce dell’antica città di Portus, che sorgeva lì vicino, oltre il vecchio Idroscalo, in un territorio che non esiste più, enormemente cambiato anche per il sensibile arretramento della linea costiera. Duemila anni fa, tra l’Isola Sacra e il mare, esisteva un’immensa Rotterdam donde partivano le temibili flotte dell’antica Roma… Ma nessuno ha mai voluto dare retta ad Ascani né esaminare qualcuna delle sue scoperte…
Caramella, tu forse sei gelosa di questa mia tendenza a rifugiarmi in digressioni e in giri viziosi da cui tornerò annichilito e stanco. Ma questi pensieri hanno dato uno scopo alla solitudine delle mie corvée su e giù per l’Italia, generando dentro di me questo mio tipico bisogno di raccogliere le sfide, anche quelle più difficili. Col tempo questa mia seconda natura è diventata una compagna di viaggio fin troppo esigente, ma sempre pronta a perdonare le mie fughe… Spero che mi perdonerai anche tu, quando busserò, un giorno, alla tua porta…

«I primi mesi, ogni volta che percorrevo il lungo corridoio che portava alla mia porta e finiva in fondo con una portafinestra con una tendina, piangevo. Sia nella vendita della vecchia che nell’acquisto della nuova casa, avevo avuto tanti problemi. C’è molta gente disonesta e quando si fanno dei cambiamenti si rischia di imbattersi in qualcuno che non si vorrebbe mai aver conosciuto, compresi i professionisti che ti assistono. E poi sono sola. Il cambiamento di zona mi aveva allontanato dai miei amici. La mia famiglia era ormai andata in pezzi. Nel 2011, anche la mia dolce cagnolina era morta.»

Ho bussato alla porta. Nel silenzio prolungato dell’attesa, vedevo Pasolini come un padre,  ucciso a tradimento da una masnada di figli ingrati, proprio come Cesare… quando la tua porta si è aperta da sola e ha preso a ruotare verso sinistra, rivelando un pavimento luminoso, un grande divano e, in fondo, una portafinestra dietro cui si indovinava un balcone. Schiacciata dietro la porta spalancata, trattenendo il respiro, aspettavi che entrassi e mi avvicinassi alla luce naturale.
— Siediti.
— Caramella…
— Lo vedi, è molto piccolo. Ma mi sto abituando.
Ricordo che abbiamo parlato delle lettere. Tu ne avevi conservata una, scritta da me nel febbraio 2011. La lettera parlava di Manacorda, il nostro amato professore di storia e filosofia… quello che ci sorprese mentre stavo abbottonandoti il grembiule.
— Ma quanti bottoni, Caramella!
— Un vero e proprio strazio, se si pensa che a quei tempi Catherine Spaak andava in giro in minigonna!
— Caramella, sono passati più di cinquant’anni… e tu continui a vagare nella mia testa…
— Solo nella testa?
— No, dappertutto… Ma la sabbia di Ostia è ancora nera?
— Sì, è nera, c’è il ferro!
— Trovo inquietante questa « cosa » che si incolla ai piedi, alle mani e finisce per cambiare il nostro aspetto!
— Invece… avevi replicato, questo lato selvaggio ci rende più umili e concreti. Nei film di Pasolini che tu ami tanto, non troverai mai la sabbiolina invisibile dei serial televisivi, ma la sabbia nera che abbiamo qui.
— Durante la mia lontana parentesi a Ostia, la sabbia nera, pesante e pungente, mi sembrava quasi scandalosa… Era la fine dell’estate del 1962, cominciata con la nostra famosa passeggiata nei prati di Villa Borghese… Tornando da Cesenatico, non ero andato subito a casa, ma avevo raggiunto qui mia madre e mia sorella.
— Ostia fu una delusione, vero?
— A Cesenatico avevo finalmente baciato una ragazza e, per mantenere il ricordo, avevo smesso di farmi la barba e di cambiare maglietta… Alla stazione di Cesena, mio padre mi aveva preso in giro, mentre mia madre, appena arrivato a Ostia, mi aveva portato dal barbiere.
— Ma tu ci sei venuto anche qualche altra volta, birichino che non sei altro! Sempre con tua madre e tua sorella… o con qualche altra donna ?
— Pochissime volte. Di corsa, in macchina, per allontanarmi un po’ da Roma, per assaporare l’ebbrezza dello sradicamento…
Avrei voluto parlarti della lentezza incredibile dei miei progressi, della mia graduale emancipazione attraverso i piccoli gesti della vita quotidiana, quando ero ancora molto lontano dai grandi gesti dell’amore. Quanto tempo ci avevo messo prima di trovare il coraggio di spezzare i cordoni che mi legavano come liane robuste o serpenti! Avrei voluto raccontarti che, durante l’ora di ginnastica, facendo comunella con due dei nostri compagni, Bodo e Cassetti, mi nascondevo negli spogliatoi in mezzo ai cappotti. Cassetti si puliva le scarpe con la sciarpa di qualche compagno distratto dalla palla a volo, Bodo leggeva un libro di Faulkner o di Steinbeck mentre io sgattaiolavo fuori dalla porta posteriore e, come un cospiratore — il cancello era sempre aperto —, uscivo dalla scuola. Ma non osavo andare oltre il nostro bar-chioschetto e l’annessa fontanella presso il glorioso platano dove si formavano sempre gruppi e capannelli. Solo una volta, tutti e tre, osammo spingerci, durante l’ora di ginnastica, fino al muretto che si affaccia sul Tevere in piazza delle Cinque Giornate!
Ironia della sorte… esattamente in quel punto là ti avevo incontrata, qualche anno dopo l’uscita dal liceo. Quel giorno tu eri con delle amiche, presa da un’animata discussione. Nonostante ciò, prima di lanciarti sul ponte in direzione del Ministero della Marina, tu mi regalasti uno smagliante sorriso che mi fece venire la pelle d’oca. Vedi, avevo dimenticato questo saluto fuggitivo e la benevolenza del tuo ultimo sguardo. Ma questo sorriso nella luce complice di Roma si perde, ormai, nella notte dei tempi. Ora…
A questo punto, levandomi la parola, tu hai detto, bruscamente: — stavamo parlando di Ostia, una piccola « colonia sprovvista di volontà propria » come tu dici… Ma davvero conosci questa « colonia » soltanto dal di fuori, superficialmente, come una pura e semplice cartolina? Devo crederti?
— Be’, se ci penso meglio… un ricordo affiora. Ed è piuttosto intenso. Alla fine di una passeggiata sul lungomare di Ostia con una persona che ti somigliava, insistevo per andare in un alberghetto che avevo adocchiato. Un posto anonimo, senza altro che una scritta sbilenca fatta con in neon blu. Seduti in macchina, lei mi rimproverò a lungo, dicendomi che con il mio amore assoluto, sconfinato e premuroso, non le lasciavo il tempo di prendere lei stessa un’iniziativa qualsiasi…
— Perché me ne parli ? dicesti.
— Perché anche poco fa, quando sono arrivato, avrei voluto abbracciarti come se fossi tornato dalla guerra. Ma mi sono imposto, come in quell’episodio che ti stavo raccontando, di calmarmi, di aspettare che tu ti abituassi a questa… sorpresa.
— Non mi sono abituata e non sono affatto tranquilla !
— Allora stiamo ancora un po’ qui, seduti in poltrona, senza dire una parola, aspettando che la tensione si calmi prima di stringerci affettuosamente la mano!
— Ma quella tua fuga, come è andata a finire ?
— Lei mi sgridò. Più insisti, mi disse, più mi chiudo nel mio guscio! Rassegnato, allargai le braccia, mi accasciai sul sedile e dissi: Va bene, hai vinto tu, andiamo via!
— Ma, subito dopo questa rinuncia clamorosa e definitiva, tu scendesti dalla macchina e ti avviasti verso il neon blu della scritta, vero?
— Come fai a saperlo?
— Io so tutto.

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Ora, da quest’altissima poltrona solitaria che mi riporta alla mia realtà, mentre osservo il mare dietro l’ala argentata del Boeing 707, cerco invano di ripercorrere i fili e i suoni di quel colloquio lunghissimo in cui, la mano nella mano, io e te eravamo riusciti a sconfiggere la banalità del tempo…
Guardando fuori dalla finestra come si fa quando ci si parla in macchina, come due vecchi-adolescenti, avevamo lasciato finalmente scorrere delle vere parole, insieme a vere lacrime di gioia, scoprendo che quelle lettere erano rimaste indelebili su una pellicola invisibile che scorreva davanti ai nostri occhi, alle nostre bocche, alle nostre mani.
— Di che parlava, il film della tua vita?

Giovanni Merloni

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Vieni, c’è un pacco in cima alle scale ! (Caramella n. 2)

06 mercredi Jan 2016

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Caramella

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Vieni, c’è un pacco in cima alle scale !

Caramella,
Sto facendo un po’ di confusione. Tu mi hai detto: — Vieni, c’è un pacco da scartare in cima alle scale ! Ma senza altre spiegazioni questo invito vaga nella mia testa agitata come quegli aeroplanini di carta che si facevano in classe durante l’ora di religione e vedo ora volteggiare sul mare di Ostia.
Di quali scale intendevi parlare ? Forse dei cento ventiquattro gradini che portano all’Aracœli ? Là dove ci mandò una volta la professoressa Cellini con quel suo perentorio « da riconoscere » ? C’eri anche tu in quella specie di orda di vandali? Tanti gradini tutti d’un fiato non sono uno scherzo, ma ne valeva la pena. Lassù, chi pensava al panorama di Roma? Nessuno di noi aveva il tempo o la voglia di scalfire la solida scorza della nostra beata ignoranza per accorgersi di quella mostruosità. Quella povera chiesa, quasi nascosta dietro una modesta facciata di mattoni, sembrava una bella paesanotta presa in trappola, così brutalmente incastrata tra i marmi del palazzo michelangiolesco e quelli, di un bianco ancora più falso, dell’immenso monumento al Milite Ignoto. Anche tu chiamavi questa assurdità urbanistica e architettonica  « la macchina da scrivere », e ridevi, illuminandoti tutta. Ma, in quella giornata che fu a lungo indecisa tra il sole e la pioggia, tu ti trinceravi dietro un impermeabile, come del resto le altre due o tre compagne che erano con te. Questo vostro riso complice formava un cerchio invalicabile. E io, per spezzarlo, non avevo nemmeno la scusa delle sigarette. Allora, nel marzo del 1962, in piedi nell’esiguo sagrato della chiesa di Santa Maria in Aracoeli, voi quattro non fumavate di certo. Ma vi ricordo benissimo, infagottate nei vostri grembiuli neri, entrare e uscire fumando dai gabinetti delle donne…
Ma forse quella mattina tu non c’eri, forse sono io che voglio a tutti i costi imprigionarti in questo ricordo così nitido. Può anche darsi che quell’antico altare romano issato sul bordo del cielo fosse invece un tuo luogo segreto e che ora, idealmente, vorresti tornarci con me.
Forse sono su una falsa pista. Ma mi ricordo che la tua scrittrice preferita era Elsa Morante e tu hai letto di sicuro «Aracœli», pubblicato vent’anni dopo la nostra visita. E mi ricordo che durante un’interrogazione raccontasti a Vazzana quanto ti era piaciuta «L’isola di Arturo», che si svolgeva nell’isola di Procida, l’isola degli amori proibiti…
Ti vedo scuotere la testa e dire «no». Impossibile aspettarsi di trovare questo pacco misterioso sul sagrato di una qualsiasi chiesa in cima a una scalinata.
Ma sono irresistibilmente attirato dalla tua natura di lettrice accanita. Tutto ciò mi condurrà in un labirinto parallelo, in un cul de sac… ma non posso farci niente. Sono qui, e ti osservo dal mio quarto banco… Io e te abbiamo in comune il corridoio tra i banchi e tu sei là, seduta al terzo banco della fila, tutta femminile, che costeggia il muro dove si apre la porta della classe…
Leggevi sempre, o forse, come me, studiavi forsennatamente da un’ora all’altra. Oppure ti guardavi intorno, interrogativa, roteando lentamente il tuo lungo collo di giraffa castana come se fosse il periscopio del sottomarino dipinto di rosa di « Operazione sottoveste » con Cary Grant e Tony Curtis… Mi piaceva la tua aria distratta, la leggera patina di polvere scolastica che proteggeva i tuoi eventuali colori. In quell’epoca avevo sempre sottomano due libretti che mia madre aveva portato da Parigi con alci i capolavori di Renoir e Degas. Per me, Caramella, tu eri una delle bagnanti di Renoir, quella con i capelli tirati su.

002_aracoeli muratoreFoto di copertina dell’articolo « 2.000 anni… circa… » pubblicato sul blog di Giorgio Muratore, Archiwatch

A volte, ridendo, esprimevi una tua particolare saggezza…
— Santa Sabina, da riconoscere ! aveva detto la Cellini con gentile autorevolezza, e noi, con l’idea di fare una scampagnata, ci eravamo intrufolati nel giardino degli aranci, quel rettangolo di pace su cui incombe il fianco solenne di una delle più belle chiese del mondo: — Santa Sabina, sull’Aventino! ci cantava la Cellini, mostrandoci la foto sul librone. Quest’usanza, di mettere la mano sulla didascalia e pretendere di avere spiattellato il nome del palazzo o della chiesa la ritrovai poi in Zevi e Portoghesi, convinti torturatori entrambi, agli esami di storia dell’architettura.
Ma se ben mi ricordo ci siamo andati da soli a Santa Sabina, su un tappeto volante. La scalinata blanda e verdeggiante l’ho fatta dopo, da solo, dopo averti tristemente salutato. Tu eri attesa da una zia che abitava all’EUR…
Eh sì, ci fu negato quel tempo minimo che mi sarebbe bastato per inchiodarti contro un albero o prenderti soltanto la mano su una panchina in forma di triclinio. Le mie agguerrite speranze dovettero frantumarsi subito dopo, quando «dovesti» fuggire via. Ma prima, come dimenticare quei passi invisibili nel portico semibuio, quell’attimo lunghissimo in cui tu ti sedesti vicino a me su una di quelle seggioline di paglia così pratiche per i nostri paganissimi matrimoni all’italiana… Forse, nel silenzio luminoso di quella incantevole navata tu sentisti il battito del mio cuore. Perché ti voltasti di scatto e mi guardasti negli occhi.
Che strano, forse tutto ciò deriva dall’aver avuto un padre schivo e gentile e una madre affabulatrice e di conseguenza ammaliatrice… Forse tutto, in me, dipende dal fascino di quella voce che doveva arrivare senza preavviso, affacciandosi sul mio letto come una fata turchina.
Sta di fatto che già allora, in quel minuto e mezzo che tu mi regalasti in mezzo ai fiori di un matrimonio celebrato da poco, io mi ero già assuefatto a vivere il presente con fatalismo e rassegnazione. Pronto a cogliere l’attimo di distrazione di un marito o di un padre, per godere il «bel momento». Del resto, in quel meriggio digiunante sospeso tra la campanella scolastica e il ritorno a casa, fosti tu a dire : — peccato, io sono negata per la fotografia… ma questo sarebbe proprio un momento da fermare!
Avrei dovuto risponderti qualcosa di intelligente, ma, in quel momento, la mia testa galleggiava nel vuoto come quella di un merlo spaurito. Ti feci cascare letteralmente le braccia quando dissi: — così avremmo fatto vedere alla professoressa di storia dell’arte che ci siamo venuti davvero, a Santa Sabina!
Ma, intanto, io vivevo una parentesi di gioia intensa, incommensurabile. Se fossimo rimasti chiusi lì dentro fino al giorno dopo non avremmo avuto paura di niente.

003_jour et nuit 2 180

Ecco, che stupido! Ora capisco quello che mi volevi dire in mezzo al sogno di stazioni parigine e di elicotteri piombanti sulla rotonda di Ostia: tu parli di un vero e proprio pacco che, a quanto pare, è ancora lassù, in cima alle scale del Mamiani!
Volevi farmi una sorpresa? Oppure cercavi soltanto di rimandare « sine die » l’amaro disinganno? È inutile, Caramella, continuare a illudersi che là dentro ci siano  le nostre lettere che, invece, ahimè, sono andate perdute!

Giovanni Merloni

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