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La calma del calamo fa sparire i rumori del mondo

25 vendredi Sep 2015

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti, ritratti

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Ghani Alani, Parigi

001_alani 06 (1) 180La calma del calamo fa sparire i rumori del mondo

In occasione di una nuova visita a Ghani Alani, sono rimasto circa mezz’ora a osservarlo mentre lavorava. Come se assistessi, dall’alto di un promontorio, alla traversata di una barca che avanzasse lenta e calma nell’acqua ferma e tiepida del Mediterraneo al crepuscolo. Oppure ai gesti sicuri di Robin Hood (o di Guglielmo Tell) nell’atto di tirare la corda dell’arco contro il petto, prima di lasciar partire la freccia, dando già per scontato che questa colpirà proprio nel centro del bersaglio lontano, invisibile per le persone normali. Affascinato dall’alternanza del calamo e del pennello, io mi sono a lungo interrogato sul sesso dei nomi che diamo alle cose. Per esempio, calamo è maschile, mentre penna è femminile. Il calamo, che si fabbrica tagliando le canne, per assolvere alla sua missione ha bisogno della sua cavità naturale interna, creata dalla natura stessa per farvi colare l’inchiostro, anch’esso maschile. D’altra parte, avendo la punta tagliata sulla diagonale, il calamo somiglia a un flauto (mentre in francese il « roseau » (canna) è maschile e l' »encre » (inchiostro) è femminile…

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Mentre Ghani Alani lasciava scivolare l’inchiostro lungo i solchi invisibili che la sua anima creatrice aveva tracciato idealmente sotto la grande pagina, mi sono divertito a raggruppare da una parte i « maschi » e dall’altra le « femmine che entrano un gioco durante queste traversate minuziose o di punto in bianco brusche e vitali. Il calamo, il pennello, il flauto e l’inchiostro e il foglio di carta aerano uomini (o ragazzi) dell’atelier di calligrafia di Ghani Alani, mentre la pergamena e la pagina erano le « donne » (o le ragazze).
Mi sono allora ricordato du una vecchia disputa filosofica di circa quidici anni fa, a Roma, tra me il maestro Alvaro Vatri, all’epoca della preparazione di une mostra e du uno spettacolo per festeggiare i duemila e passa anni di ponte Milvio, un ponte romano vecchio quasi quanto la città di Roma, cosiddetta « eterna » : « Tra il ponte e il fiume, chi è l’uomo ? ci domandavamo. Chi è la donna ?
Qui, la pagina, cioè la pergamena potrebbe identificarsi col fiume, mentre il calamo-pennello, tutt’uno con la mano e il gesto creatore, sarebbe il ponte. L’inchiostro o il colore chi cola dal calamo alla pagina, senza mai sconfinare, potrebbe essere invece l’acqua del fiume che torna al fiume stesso, come se la ruota di un mulino le imponesse delle capriole continue…
D’altronde, è proprio Ghani Alani chi lo dice : “non ci sarebbe la notte se non ci fosse il giorno ; non ci sarebbe la vita se non ci fosse la morte e finalmente non ci sarebbe l’uomo se non ci fosse la donna”.
La calligrafia rappresenta, dunque, soprattutto un atto d’amore, un abbraccio più o meno prolungato, un incontro d’amore dove tutto si confonde in uno scambio carnale e sublime. La pagina diventa calamo, l’inchiostro diventa pennello. L’uomo diventa donna…

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Prima di salutarci, Ghani Alani mi ha dato da leggere una poesia, in francese, col permesso di pubblicarla qui sotto, dopo averla tradotta in italiano.

Giovanni Merloni

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La lettera scaturita dal mio calamo è un’innamorata

Il calamo con cui lei scrive è la sua stessa immagine
Dolce alla carezza, armoniosa allo sguardo
Il nero dei suoi occhi, piangendo, fa sorridere le pagine del destino.

Dalle sue labbra, cola la linfa o il veleno, lo spirito del suo innamorato.
Lei non ha altro maestro che quello che l’ha scolpita
Col suo soffio, lei a volte è il flauto e a volte la penna.
Conquistatrice dello spazio per volere dello scrittore,
Lei è nata sulla riva del fiume:
Così ha potuto afferrare la melodia dell’usignolo.
Stretta alla mano del suo signore
Di questo mondo può tutto possedere.

Lei ricama con la notte i vestiti del giorno.
Se comincia a parlare, lei non lascia alcuna chance a un parlatore;
Muta quando è in riposo, diventa l’eloquenza in persona quando entra in azione.
Lei non si prosterna mai, tranne che in fondo alla nicchia della pagina amorosa;
Lei non carezza che la pelle dolce della pergamena;
Lei può disperdere le armate, ma può anche riunire le truppe della pace;
Lei non si disseta che inebriandosi all’acquasantiera dell’inchiostro per calmare così la sete di intelligenza.
Il liquore della sua bocca è la rugiada delle praterie della pagina;
A volte, lei ne diventa il torrente furioso.
Io la sento canticchiare, descrivendo le sue gioie e le sue infelicità.

« Sono stata innaffiata e cantata
E oggi, io innaffio, io canto.
E scrivo anche in bella calligrafia;
Mi chiamano canna
Per alcuni io sono la felicità;
Ed è una mano che mi fa cantare. »

Le sue lacrime sconfinano riempiendo le pagine
I suoi occhi scoccano frecce che arrivano al cuore degli innamorati;
Sotto i suoi denti lo spirito degli uomini si curva.
Una volta, l’ho sentita paragonarsi alla spada e dire

« Mentre io uccido senza versare alcun sangue
Tu, invece, massacri seminando la desolazione. »

Ghani Alani
(traduzione in italiano : Giovanni Merloni)

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La lettre de mon calame est une amoureuse

Elle écrit avec un calame qui n’est autre que son image
Douce à la caresse, harmonieuse au regard
La noirceur de ses yeux, en pleurant, fait sourire les pages du destin.

De ses lèvres, coule la sève ou le poison, l’esprit de son amoureux.
Elle n’a d’autre maître que celui qui l’a sculptée
De son souffle, tantôt elle est le ney, tantôt elle est la plume.
Conquérante de l’espace par la pensée de l’écrivain,
Elle est née sur la rive du fleuve :
C’est ainsi qu’elle a capté la mélodie du rossignol.
Enlacée à la main de son seigneur
Elle peut tout posséder de ce monde.

Elle brode avec la nuit les habits du jour.
Qu’elle commence à parler, elle ne laisse aucune chance à un parleur ;
Muette quand elle est au repos, elle est l’éloquence même lorsqu’elle est en action.
Elle ne s’est jamais prosternée qu’au sein du mihrab de la page amoureuse ;
Elle ne caresse que la peau douce du parchemin ;
Elle peut disperser les armées, comme elle peut réunir les troupes de la paix ;
Elle ne se désaltère qu’en s’enivrant au bénitier de l’encre pour apaiser ainsi la soif d’entendement.
La liqueur de sa bouche est la rosée des prairies de la page ;
Parfois, elle en est le torrent furieux.
Je l’entends chantonner, décrivant ses joies et ses malheurs.

« J’ai été arrosée et chantée
Et aujourd’hui, j’arrose, je chante.
Et même je calligraphie ;
On m’appelle roseau
Je suis le bonheur pour certains ;
On me fait chanter de la main. »

Ses larmes débordent pour remplir les pages
Ses yeux décochent des flèches qui atteignent le cœur des amoureux ;
Elle courbe l’esprit des hommes sous ses dents.
Une fois, je l’ai entendue se comparer à l’épée en disant

« Moi, je tue sans verser le sang
Et toi, tu massacres en semant la désolation. »

Ghani Alani006_alani 09 (1) 180Questo blog è protetto dal ©Copyright

TESTO IN FRANCESE

Il mio primo «libro» in francese

10 jeudi Sep 2015

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti

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Proprio ieri, 9 settembre, il giorno del compleanno di mia figlia, la posta mi ha consegnato un grazioso pacco contenente alcune copie del mio primo libro in lingua francese : « Poèmes d’avant l’amour », pubblicato dalle «Éditions des Poètes français». Sono perfettamente consapevole di quello che ciò significa. Ma sono tranquillo, fiducioso, contento di poter «trasmettere» qualche briciola di un discorso fin troppo lungo.

Giovanni Merloni

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“Rapsodia su un solo tema” di Claudio Morandini, Manni Editori 2010

15 vendredi Mai 2015

Posted by giovannimerloni in recensioni e dibattiti

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Claudio Morandini

001_2010_cover_rapsodiasuunsolotema “Rapsodia su un solo tema” di Claudio Morandini, Manni Editori 2010

Una prima osservazione, giunti a circa metà lettura di “Rapsodia su un solo tema”- che si fa via via più avvincente – è che questo libro non sembra scritto da un italiano, e nemmeno dallo statunitense Ethan Prescott o dal suo compagno Carl Thalberg. E nemmeno da un russo, come il musicista Rafail Dvoidikov o da una russa, come la sua segretaria e assistente Polina. Una sorta di “spersonalizzazione” – che coinvolge il lettore, passando per la sua pelle, i suoi gesti e comportamenti -, insieme all’accettazione, forse, della mutazione babelica che ci conduce tutti verso una nuova e sconosciuta identità globale, sembra essere la scelta fondamentale dello scrittore Claudio Morandini, autore di questo romanzo di grande interesse, che merita un vasto pubblico di lettori, soprattutto al di fuori del solo, spesso disattento, contesto italiano. Questa scelta corrisponde, io credo, alla seconda necessità evidente di questo libro : dire la verità, raccontare la storia di un artista puro e geniale che sopravvive al sistema di potere sovietico, dire tutto in modo mai scontato o obbligato. Dire, inoltre, la verità sulla libertà presunta nella quale un musicista più giovane, mentre analizza l’oscuro dossier del mitico compositore russo, rivela al lettore e a se stesso quanto sia diventata difficile la sopravvivenza nel cosiddetto occidente libero, sregolato e postmoderno, che attraversa negli Stati Uniti una fase particolarmente problematica e disperata. Dire tutto ciò non è facile, ma Claudio Morandini ci riesce, grazie e soprattutto all’understatement con il quale l’io narrante parla e agisce. D’altra parte il libro contiene una terza sfida, quella di far ruotare ogni riflessione e ogni avvenimento intorno al tema musicale o per meglio dire alla musica tout court, questa idra a mille teste che offre allo scrittore la possibilità di raccontare anzi di ricostruire la verità – la verità di noi tutti e la verità dei nostri tempi – secondo molteplici registri e attraverso numerosi quadri. Egli scrive un libro che si suppone parli della rapsodia su un tema di Rafail Dvoinikov, un tema insistito, esclusivo e perfino ossessivo – che potrebbe essere inteso come la forza e la disgrazia di questo compositore. In realtà è l’autore stesso che struttura il suo libro nella forma di una rapsodia. La musica è dunque il vero protagonista del libro ed è anche il pilastro centrale che ne sostiene l’architettura, dalla prima parola all’ultima. Ma in questo libro c’è anche molto altro.

L’io narrante, il musicista statunitense Ethan Prescott, è un musicista assai creativo, allo stesso tempo  perfettamente integrato in un contesto, che lui stesso chiama “di nicchia”, dove è ormai autorizzato ad interessarsi di un autore russo molto anziano, pochissimo conosciuto in occidente, che ha conosciuto una giovanile riconosciuta grandezza ma non è stato poi capace di aderire supinamente alle richieste di un sistema di potere ottuso e sospettoso come quello sovietico dagli anni 20 in poi: “Dvoidikov, audace sul pentagramma, ha dovuto imparare l’arte di dissimulare il suo carattere, e fingere di essere un prudente esecutore di direttive altrui – senza riuscirvi mai, e in questo fallimento sta la grandezza della sua musica, che oggi possiamo leggere come uno dei massimi esempi di un’arte tanto prepotente da sfuggire allo stesso artefice” La storia di Rafail Dvoinikov, ricostruita gradualmente e attraverso una singolare molteplicità di piani narrativi – da quello minimalista e a volte concettoso dei diari di Ethan Prescott a quello emozionato e emozionante degli incontri a casa del musicista russo, in presenza della inquietante segretaria e interprete Polina; da quello delle proiezioni sul presente di possibili contaminazioni e tresche artistiche con la musica techno a quello dei resoconti di viaggio di un contemporaneo di Mozart e Gluck che ha l’ardire di frequentare auditorium e sale di incisione del ventesimo secolo – cessa ben presto di essere soltanto o soprattutto la storia dell’autore dell’”Antisinfonia”, o “Sinfonia numero zero” e di altre opere innovative. Non è solo Dvoidikov, con la sua vicenda terribile ma ostinatamente vitale, a battere su un solo tasto, o se si vuole su un solo tema. E’ lo stesso Ethan, catturato dal viaggio intercontinentale che lo catapulta su uno scomodo treno pendolare della Russia post-sovietica aprendo la strada di una dolorosa ricerca del senso della propria esistenza e di se stesso, è lui, insieme a Claudio Morandini, l’autore di una rapsodia su un solo tema, cioè di un canto complesso la cui fondamentale esigenza è quella di non perdere mai di vista l’importanza “centrale” della vita. Inevitabilmente, e per fortuna, l’artista stanco per questa incorreggibile “incomunicabilità” tra le proprie aspirazioni espressive e comunicative e il pubblico disattento e ostile – stanco altresì per la difficoltà di trovare degli interlocutori che non siano muri o voci sepolte in vecchi libri o antichi spartiti -, cerca e trova negli incontri importanti o occasionali che la vita gli procura una ragione per continuare, per insistere, per sperare. L’elemento nascosto di questo bel romanzo, è dunque nella natura tragica dell’io narrante, Ethan Prescott, la cui omosessualità, vissuta quietamente fino agli ultimi capitoli, diventa essa stessa la causa di una ancor più grave incomunicabilità, quella di non poter aderire a un sentimento contraccambiato. Ed è questo un risvolto costante nella vita di tutti noi, un anello fragile che ci fa immediatamente cogliere, da lettori, la drammaticità di un malinteso quando sono in gioco passioni profonde e sincere.

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Ritengo che Claudio Morandini, con questa dolorosa conclusione, che finisce per collocare la tanto glorificata musica-ragion-di-vita in una prospettiva di ridimensionamento. abbia voluto dire : Forse la gloria non arriva mai, la vera gloria non è di questo mondo, è una cosa che capita sempre agli altri, come la morte precoce. Lo dimostrano le eterne competizioni, le gelosie e invidie che da sempre hanno spesso offuscato grandi geni lasciando, almeno nella contemporaneità, il posto ai mediocri, ai venduti, eccetera. Ma, attenzione, se poi la gloria viene a cercare proprio noi, decide un giorno di corrispondere al nostro amore inesausto, alla nostra corte interminabile e irta di capolavori… bisogna essere pronti ! Poco importa se la gloria ci arride perché siamo bravi o siamo belli e affascinanti o per tutte queste cose insieme. Possiamo suscitare l’amore di qualcuno a cui abbiamo dedicato delle attenzioni. E la gloria, che nel libro si chiama Polina, si può innamorare, convincersi, essere pronta, desiderare di essere rapita, portata via, se non ancora, immediatamente, cavalcata. Ethan Prescott non può amare Polina perché è omosessuale. Ma la passione che ha scatenato in questa donna non può renderlo tranquillo. Si ripropone la distanza tra l’artista desideroso di comunicare e il mondo indifferente e ostile. Si spezza la più grande e incoercibile illusione della nostra formazione letteraria, forse non è più vero che « amor ch’a nullo amato amar perdona ». E si apre una ultima riflessione, totalmente ribaltata, dopo la lettura dell’ultima pagina prima della post-fazione. Forse siamo noi stessi la gloria, perché la gloria l’abbiamo sempre avuta. E se non siamo in grado di darla a chi ci ama non possiamo pretendere di averla da chi non ci ama.

Giovanni Merloni

TEXTE EN FRANÇAIS

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première publication 1-4 septembre 2010 Dernière modification 15 mai 2015

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« La distribuzione della luce » di Stéphanie Hochet

30 jeudi Avr 2015

Posted by giovannimerloni in recensioni e dibattiti

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Stéphanie Hochet

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« La distribuzione della luce » di Stéphanie Hochet

«La distribuzione della luce», questo potrebbe essere il titolo italiano de «La distribution des lumières» di Stéphanie Hochet (Flammarion, 2010), un bellissimo e importante romanzo polifonico, che ruota intorno alle chimere, alle ossessioni, o, se vogliamo, alle fissazioni di quattro personaggi, tre dei quali hanno la parola e si esprimono in prima persona – Pasquale, «l’italiano deluso» ; Auréle, «la ragazzina di periferia» (una periferia che a Lione si chiama «banlieue»); Jerôme, «il fratellastro idiota» — e il quarto — Anna Lussing, «la bella musicista» e perno di questa terribile storia — non si esprime in prima persona ed è solo «illuminata», di volta in volta, dagli altri tre.
In un singolare crescendo – che non lascia al lettore il tempo di respirare – la giustapposizione, apparentemente tranquilla, del diario «contraddittorio» di Pasquale, di quello «razionale e diabolico» di Aurèle e di quello «visionario» di Jerôme, si trasforma presto in dramma, in tragedia senza via d’uscita.
Con questo ultimo libro Stéphanie Hochet sembra voler aprire una nuova pista nella sua maniera di scrivere e di rappresentare la realtà. La scrittrice ripropone lo stesso spirito di verità e di chiarezza dei suoi libri precedenti, come ad esempio «Combat de l’amour et de la faim» («Lotta dell’amore e della fame»). Ma si spinge più avanti, a cominciare da questa «distribuzione della luce», fonte di una costante incertezza riguardo alla distribuzione delle parti tra i personaggi : ognuno lotta per il ruolo di protagonista, perché ognuno di loro – più o meno coscientemente – ha bisogno di comunicare la sua storia (e il suo problema), vorrebbe che qualcuno se ne facesse carico, aiutandolo a salvarsi.
A questo scopo Stéphanie Hochet dà al romanzo una struttura complessa, basata su parole e frasi «strategiche», una struttura che le serve a contrastare, a bilanciare e talvolta a sconvolgere ogni ordine logico a cui il lettore potrebbe affezionarsi. Si tratta di una struttura verticale, molto rassomigliante alla torre Eiffel (d’altronde citata a pag.183). In tale concezione, la prima parte del libro è dedicata alla salita, alla presa di coscienza di sé (della scrittrice stessa e del libro attraverso i suoi personaggi). In questa fase i personaggi restano abbastanza lontani l’uno dall’altro, tanto che il lettore non è in grado di immaginare quali saranno i rapporti tra di loro. Ma, prima di arrivare alla cima della torre, avviene un incidente, apparentemente esterno ai quattro personaggi, qualcosa che non ha niente a che vedere con loro. Questa intrusione provoca un certo fastidio. Ma poi si comincia a capire. Arrivati in cima, alla terrazza panoramica, si sanno ormai molte cose, e si vorrebbe già assaporare, di lì a poco tempo, un possibile epilogo della vicenda, basato sulla «luce», cioè sulla preferenza che sembra essere stata assegnata all’italiano trasferito a Lione, al suo amore per l’affascinante e un po’ misteriosa musicista. Ci si concentra sulla necessità di rimuovere gli ostacoli — primo fra tutto il citato incidente — che si frappongono alla sua felicità. Ma le cose non stanno così. Si deve ancora scendere. E la discesa sarà «vertiginosa», inaspettata e fatale (concetto del resto anticipato a pagina 11 e ripetuto alle pagine 142-143).
A questo punto ci troviamo, ormai, al di là di una semplice conoscenza dei personaggi e della loro presa di coscienza. Ci confrontiamo con testimonianze, sospetti e con tutti gli elementi necessari per dare alla fatalità e alla tragedia lo spazio e l’occasione di realizzarsi senza briglie e controlli.
Ci accorgiamo, sia pure in modo contraddittorio, che la luce si è ora spostata sui due personaggi più giovani, perché il malessere, che deriva soprattutto dall’abbandono operato dalla generazione dei padri e delle madri, si è più stabilmente e dolorosamente installato negli adolescenti. Così il fascio del riflettore teatrale si sposta continuamente da Aurèle a Jerôme, da lui a lei. Apparentemente è lei, Aurèle, la responsabile principale del dramma a cui si sta assistendo. Ma Jerôme non è esattamente il ragazzo ritardato e incosciente delle prime battute e pagine del libro.
E attenzione: questo spostamento della luce sui personaggi non è la sola novità di questo libro né la sola sua forza. Il lettore deve aspettarsi continui colpi di scena ed abituarsi alla particolare struttura del romanzo: una struttura trasgressiva, basata su frasi e parole che hanno la funzione di vere e proprie bombe a orologeria; una struttura che ha senza dubbio il potere di giustificare come del tutto reale una vicenda implicitamente ideologica e a tratti paradossale.
Non approfondirò qui la tematica dell’impatto della banlieue di Lione su Pasquale, l’italiano che ha forse scavalcato le Alpi per respirare un’aria migliore e che, per le vicende del tutto particolari che gli occorrono, potrebbe alla fine essere tentato, come la Dorothy del «Mago di Oz», a riconsiderare la propria scelta, si tratti di una fuga provvisoria o di un autoesilio definitivo.
Cercherò invece di dare una possibile interpretazione dell’epilogo paradossale. Tutti i personaggi – l’italiano scontento, la ragazzina nevrotica, il fratellastro disturbato, ed anche la musicista piena di buona volontà – non hanno una famiglia.
Per i due giovani, come si è detto, questa assenza di famiglia è la conseguenza di un abbandono che si ripete ogni giorno.
Per Pasquale è un rifiuto che egli non spiega e forse non spiega nemmeno a se stesso, un malessere che l’opprime assai.
Per Anna la famiglia d’origine, la sola che  abbia avuta, consisteva in una serie di doveri e obblighi che l’hanno spezzata in due. Anna vorrebbe una famiglia sua, per aprire finalmente la gabbia dove la sua vitalità è rimasta imprigionata.
Tutti e quattro sono dunque dei « senza famiglia ».

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Partendo da questa evidenza, Stéphanie Hochet lavora sui suoi personaggi come in un laboratorio. L’italiano deluso e incerto è sempre più coinvolto, con Anna, in un secondo rapporto coniugale. Aurèle, d’altra parte, cerca in Anna qualcuno che le apra la strada della vita, magari una seconda madre. Ma Pasquale riversa su Anna le sue contraddizioni esistenziali e amorose, mentre Aurèle vorrebbe far pagare alla nuova madre tutto il male che i suoi genitori effettivi le hanno provocato. In mezzo a questi due personaggi che chiamerei principali, un ruolo strategico è assegnato dalla Hochet a Jerôme, il deviato, il disadattato, l’idiota. Jerôme non è affatto idiota, anzi, vede chiaramente il confine tra ciò che è bene e ciò che è male (pagina 108). E’ dunque all’equilibrio emotivo di Jerôme che tutto è affidato. Lo si sente e lo si vede. Se la distribuzione della luce — e, in definitiva, delle attenzioni da parte di persone responsabili —, fosse stata più equilibrata, dando a Jerôme quanto gli era dovuto, forse gli avvenimenti avrebbero avuto un diverso corso.
Stéphanie Hochet ha bisogno di questi «figli diabolici» e del mondo cieco e sordo della periferia-banlieue per realizzare una vera e propria «tragedia greca», realizzata peraltro nello stile letterario di André Gide e con la classe indiscussa di un Hitckock o di uno Spielberg. La tragedia di Elettra (che guarda caso è chiamata in causa in una «lotta per la luce») si gioca in famiglia. Alla fine ogni personaggio del libro converge verso una stessa famiglia. Una tale spiegazione può allora giustificare il comportamento di Pasquale, il suo sacrificio o, perlomeno — dal momento che non si può sapere quello che il processo deciderà —, il suo slancio verso questi minori già condannati dalla loro stessa vita. Il comportamento di un padre.

Giovanni Merloni

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écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Dernière modification 30 avril 2015

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« Bonjour, Anne » un libro di Pierrette Fleutiaux dedicato ad Anne Philipe

19 dimanche Avr 2015

Posted by giovannimerloni in recensioni e dibattiti

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Anne Philipe, Bonjour Anne, Dante, Gérard Philipe, La Boétie, Montaigne, Pierrette Fleutiaux, Virgilio

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« Bonjour, Anne » un libro di Pierrette Fleutiaux dedicato ad Anne Philipe
Actes Sud 2010

Si dice « buongiorno » tutti i giorni. Ma c’è un « buongiorno » speciale, che ogni innamorato è felice di dire alla persona amata al momento del risveglio. Costui (o costei) è in realtà contento (o contenta) di condividere questo risveglio, di potersi rivolgere a qualcuno che « vive ancora ». Dicendo « Bonjour, Anne » Pierrette Fleutiaux immagina di parlare alla « sua » Anne, come si parla a qualcuno che esiste nello stesso presente.
Il titolo « Bonjour, Anne » ci fa pensare anche al capolavoro di Françoise Sagan, « Bonjour tristesse », pubblicato nel 1954 da Juillard, la casa editrice dove Anne lavorava. A noi italiani ricorda poi il terribile « Buongiorno, notte » di Marco Bellocchio.
Riuscirà allora questo libro – cronaca esatta e romanzesca, anzi romanzo tout court – nel suo percorso complesso e rischioso, a ridare la vita a Anne Philipe, prolungandola nel presente ?
Questa vita è oggi occultata dagli strati fangosi delle attualità successive ed emarginata dai cambiamenti storici e dalle mutazioni strutturali che la globalizzazione mediatica ha generato. Peccato, perché Anne Philipe è stata un personaggio di primo piano in Francia fino alla sua morte, nel 1990. Etnologa, scrittrice e editrice, Anne fu anche la moglie di Gérard Philipe, il più grande e famoso attore francese negli anni ‘50 — chi non ricorda « Fanfan La Tulipe » ?
Anne Philipe ha avuto la forza e la costanza di seguire il suo percorso  autonomo e originale — prima, durante e dopo il suo felice e doloroso matrimonio con l’attore prematuramente scomparso. D’altronde, come ci testimonia Pierrette Fleutiaux, Anne Philipe diceva spesso, citando Spinoza, che per l’uomo « la tristezza è il passaggio da una grande a una piccola perfezione » e che bisogna dunque « sforzarsi di vivere con eleganza », sempre, perché l’essenziale è « essere se stessi, il più possibile ».
Ma in cosa consisteva, nel fondo, questo « essere se stessa » di Anne Philipe ? Sin dalle prime parole di questo libro coraggioso, Pierrette Fleutiaux dichiara la sua amicizia senza riserve per questa donna che non ha avuto soltanto il merito di aver approvato il suo primo manoscritto  (« Histoire de la chauve-souris », 1975) — scrivendole semplicemente « Mi piace » —lanciandola nel mondo dei libri. Anne Philipe non si limitò, del resto, al ruolo di guida benevola e di maestra attenta. Fu una figura esemplare, unica.
Una figura esemplare per Marguerite, la giovane scrittrice che incarna « la prima età » di Pierrette Fleutiaux, dal suo soggiorno negli Stati Uniti fino alla fine degli anni ottanta, un personaggio da cui la Pierrette Fleutiaux di oggi si sente evidentemente distaccata.
Esemplare anche per un vasto universo di lettori — in via di disparizione —, che ai suoi tempi apprezzavano senza riserve lo stile di Anne Philipe, la sua discrezione e onestà intellettuale, che sono forse anche le ragioni profonde, oggi,  del suo oblio.
A partire dalla sua formazione di etnologa e di ardita viaggiatrice (« Caravanes d’Asie », 1955 ; « Promenade à Xian », 1980) e della sua rara disponibilità verso « l’altro », Anne è stata una scrittrice libera, che ha saputo difendere il suo equilibrio e, allo stesso tempo, vivere e esprimere i propri sentimenti e passioni, trovando sempre le parole giuste per parlare dell’amore e della morte (non soltanto in « Le temps d’un soupir », 1963, il romanzo del lutto per la morte del marito, ma anche nei romanzi successivi : « Les Rendez-vous de la colline », 1966 ; « Ici, là-bas, ailleurs », 1974 e « Roman interrompu », 1991).
Anne Philipe non fu soltanto una donna dal talento multiforme. E’ stata anche un personaggio discreto, in fondo solitario, pressocché indifferente al successo personale, che ha dato molto, impegnandosi in prima persona per sostenere tutti quelli che riscuotevano la sua stima. Anche in queste cose aveva un grande talento.
Vent’anni dopo la morte di Anne, Pierrette Fleutiaux è finalmente pronta a parlare di questa donna esemplare, eccezionale. Vuole rendergli un omaggio che possa servire alle generazioni future.
Nelle pagine spesso assai commoventi di questo libro — da leggere in un soffio, da rileggere attentamente e da consultare di tanto in tanto, per tutte le notizie, meno interessanti riguardo ai fatti che ai personaggi e all’atmosfera che si respirava a Parigi e nel sud della Francia in quei tempi perduti —, Pierrette Fleutiaux cade a volte nel pessimismo : tutto finisce, muore, si volatilizza, a cominciare da ciò che era attualità negli anni 50, 60, 70…
E dice molte volte che Anne Philipe è scomparsa per sempre in questo nulla.
Ma poi la Fleutiaux — scrittrice amata e molto stimata in Francia — fa lo sforzo straordinario di renderle omaggio, ricordandola ai lettori e a se stessa, ricostruendone l’immagine, facendo un ritratto « compiuto » della sua voce, della sua figura, del suo modo d’essere e della sua anima.
Dunque è possibile questo sforzo che ci coinvolge e ci trascina. Ed è necessario, perché la voce di Anne Philipe, parlandoci ancora, ci può comunicare emozioni di valore universale.
Un tale scopo è assai ambizioso e Pierrette Fleutiaux lo sa bene. Ha, certo, ormai, la somma padronanza di tutti i mezzi per una scrittura appropriata, ed ha anche l’autorità per proporre il recupero del « bene culturale Anne Philipe », che rischia veramente di essere definitivamente perduto.
Ma… non basta dare alla scrittrice morta un buon indirizzo per una nuova pubblicazione dei suoi libri. Bisogna accompagnarla. E accompagnarla non basta neppure. Bisogna occuparsi di lei, darle dei consigli, e non tirarsi indietro per tutto ciò che può succedere dopo.
E’ esattamente quello che Anne Philipe aveva fatto per Marguerite-Pierrette a metà degli anni settanta.
Dunque, Pierrette Fleutiaux si rende ben conto che si dovrà mettere personalmente in gioco, dando vita ad una vera e propria « invenzione » narrativa.
Tre personaggi sono invitati a raccontarsi o a lasciarsi raccontare : Anne Philipe, per prima. Ma con lei dovrà agire Marguerite (la Pierrette di quando Anne era viva). E per terza, obbligata a rivivere tutto quel passato e a sostenerne il peso in una corretta prospettiva, la Pierrette di oggi che, pur riscuotendo successo con la pubblicazione di nuovi libri sempre più belli, deve sempre muoversi con equilibrio e circospezione in questo mondo letterario di cui conosce bene i lati  vani e illusori.
E’ interessante a questo proposito notare che il passaggio del testimone da Marguerite a Pierrette avviene proprio con la morte di Anne Philipe, avvenuta nel 1989 (anno che rappresenta, tra l’altro, la fine di un’epoca per l’intero pianeta). In quel periodo Marguerite è alle prese con il suo lavoro più impegnativo, un « libro lungo », difficile. Lontana da Parigi aspetta con ansia il giudizio di Anne, che non arriverà mai. L’anno successivo Pierrette Fleutiaux, entrata con questa dolorosa perdita nella seconda fase della sua vita di scrittrice, otterrà il Prix Femina proprio con quel libro (« Nous sommes éternels », 1990).
Non si deve troppo credere al successo e bisogna, anzi, ricordarsi sempre di coloro che ci hanno aperto una porta. E io credo che la profonda riconoscenza di Pierrette verso Anne si può sintetizzare nello stile di vita che, come un testimone in una corsa, Anne ha regalato a Pierrette : uno stile basato sull’umiltà e la generosità, due qualità assai rare, che devono basarsi a loro volta su una vera capacità di amare. Del resto è solo attraverso un atto d’amore che la letteratura, il teatro e il cinema possono fare il miracolo di far rivivere e di rendere a volte eterno un personaggio o un mondo scomparso.
L’autrice di « Bonjour, Anne » ha vissuto parecchi anni in stretto contatto con Anne Philipe, può quindi aiutarci a « vederla » e a comprenderne fino in fondo il valore. Ma Pierrette Fleutiaux vuole arrivare al « vero » ritratto di questa donna « perfettamente compiuta ». Lei stessa vuole ora conoscere meglio colei che, anche per la differenza d’età, non le aveva aperto del tutto il suo cuore.
Ed è questo il punto nodale di questa « recherche », come infatti la Fleutiaux confida alla sua ideale interlocutrice, alla fine di questo bel libro :
« Quello che desidero, è incontrarvi oggi… per essere alla pari, ora che le nostre età si assomigliano, e parlarvi come non ho mai potuto veramente fare ».
Una intensa e ricorrente reciprocità è dunque alla base di questo libro : se non fosse esistita Anne Philipe, Marguerite (Pierrette giovane) forse non sarebbe stata una scrittrice riconosciuta in Francia e in altri paesi del mondo. Ora sono passati vent’anni dalla morte di Anne. Pierrette, che ha oggi circa la stessa età che Anne aveva il giorno del loro primo incontro, ha saputo incamminarsi nell’impresa di ridarle la vita e, con la vita, la gloria che merita.
Questa « ricostruzione » soggiace poi allo stesso meccanismo che legò Dante a Virgilio, o Montaigne a La Boétie.
Virgilio conduce Dante nell’Inferno e nel Purgatorio, è la sua guida nel viaggio nel passato, dove Dante ritroverà il senso della sua vita, dei suoi ideali e della fede. Il viaggio di Pierrette — nel suo passato e nei momenti che ha potuto ricostruire della vita di Anne – è anch’esso una ricerca di sé, una presa di coscienza e, allo stesso tempo, il miracolo di ricreare il passato. E, come per gli esempi del passato, questo miracolo nasce del tutto naturalmente dalla dialettica, dal « dialogo tra due ».
Montaigne, d’altra parte, esaltando il valore dell’amicizia con La Boétie prepara se stesso e i suoi contemporanei alla prima autobiografia della storia letteraria : « In verità, ciò che noi chiamiamo ordinariamente amici e amicizie, non sono che vicinanze e familiarità che scaturiscono da qualche occasione o comodità, attraverso cui le nostre anime si frequentano. Nell’amicizia di cui parlo, le nostre anime si confondono l’una dentro l’altra, in un miscuglio così universale da cancellare e rendere quasi invisibile la cucitura che le ha unite. Se mi chiedessero insistentemente di dire perché gli ero amico, sento di non poter esprimere un simile sentimento che rispondendo : perché era lui ; perché ero io. »
Molto spesso, in questo bel libro si leggono frasi che si potrebbero ricondurre   a Montaigne : « perché era lei ; perché ero io. »

002_buongiorno anne002 180

Su tale base, fondandosi su una struttura della memoria che alterna i ricordi recenti ai fatti più lontani, Pierrette Fleutiaux, trasformata a sua volta in Virgilio o Montaigne, ci porta con sé in una storia sempre più affascinante e emozionante che si sviluppa secondo un flusso unitario della narrazione. A metà del libro, per esempio, si parla delle vacanze estive di Anne Philipe a Ramatuelle, vicino Saint-Tropez : una pausa tra tanti eventi che ci toccano, ci angosciano o ci fanno ben comprendere come si svolgevano i fatti in certi angoli del passato, o nel mondo della letteratura e delle case editrici.
« Bonjour, Anne » è un libro che non si può raccontare troppo facilmente — ed è anche questo uno dei suoi meriti principali —, un libro che va largamente al di là di un mero ritratto letterario. Conosco molti scrittori che nella loro vita hanno conosciuto persone di talento e di genio, personalità straordinarie che la vita o la storia hanno abbandonato all’oblio. Se avessero fatto, anche in piccola parte, ciò che Pierrette Fleutiaux ha fatto per la memoria di Anne Philipe, il nostro piccolo mondo avrebbe fatto un grande passo avanti ; la letteratura cesserebbe di essere una pura e semplice consolazione davanti alla solitudine e alla morte.
Si sente sempre più il bisogno di uscire dal « virtuale » dalle « fictions » o dalle fotografie – violente e minimaliste – di tragedie, intorno a noi, che finiamo per considerare inevitabili, accettandole. Certo non bisogna dimenticare, ma ricordare deve servire a capire, a evitare di sbagliare, a trovare la forza per reagire. Perciò, accanto alle memorie più dolorose, in qualche modo necessarie, anche nella loro negatività ––, abbiamo bisogno di memorie positive, edificanti : uomini e donne che — grazie alla loro intelligenza e talento, grazie ad una condotta saggia, equilibrata, generosa — sono riuscite a far prevalere sui mali del mondo una visione positiva della vita. Essi si sono sforzati, come ci dice Anne Philipe, con disarmante semplicità, « di vivere con eleganza, sempre, perché l’essenziale è essere se stessi il più possibile ».
Ogni ricostruzione « creatrice » di questa umanità rivolta al bene vale molto di più di una memoria presa dai libri di storia e dai giornali. Questo ha saputo fare per noi oggi Pierrette Fleutiaux, con la sua forza tranquilla.

Giovanni Merloni

TEXTE ORIGINAL EN FRANÇAIS

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première publication 5 décemre 2012 Dernière modification 18 avril 2015

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Una cronaca per Gramsci, la poesia di Mario Quattrucci

27 dimanche Avr 2014

Posted by giovannimerloni in recensioni e dibattiti, ritratti

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Antonio Gramsci, Mario Quattrucci, Pier Paolo Pasolini, Roma

Introduco oggi, per la prima volta nel mio « panorama poetico », un poeta italiano, Mario Quattrucci.
Un personnaggio che « viene da lontano », sia come artista (egli è anche pittore) e poeta-scrittore, sia come uomo politico che ha ricoperto incarichi importanti nella pubblica amministrazione e nell’ex partito comunista a Roma e nel Lazio.
Da molti anni lontano dalla politica attiva, soprattutto dopo il suo trasferimento a Fiano Romano, Quattrucci si è dedicato interamente alla scrittura e alla vita letteraria, dando vita a una vasta serie di iniziative, tra cui il Premio letterario Feronia — con Stefano Paladini e il compianto Filippo Bettini —, diventato col tempo una importante occasione di incontro e diffusione della poesia e della letteratura italiana, con una significativa apertura per gli autori stranieri.
Devo la conoscenza e l’amicizia di Mario Quattrucci a un amico comune, Angelo Zaccardini, recentemente scomparso, che frequentavo all’epoca della libera professione per questioni urbanistiche nel comune di Capena, vicinissimo a quello di Fiano. Zaccardini mi propose un giorno di incontrare « il poeta ». Nel suo modo di dire « il poeta » c’era certamente una stima grande e sincera per l’amico Mario. Ma c’era anche una sfumatura di ironia piena d’affetto.
Mario Quattrucci ama la Francia. Questo amore appare evidente se si considera il nome e le abitudini del suo personaggio più illustre, il commissario Maré, che anima una serie di romanzi polizieschi molto seguita.
Per fare conoscere ai lettori francesi il poeta, ma anche l’uomo in tutte le sue molteplici sfaccettature, ho scelto, tra le numerose opere in versi di Mario Quattrucci, lette in diverse epoche, un testo molto originale e in qualche modo unico nell’ambito del suo lavoro.
« Una cronaca’ per Antonio Gramsci non è soltanto un bellissimo poema-epopea. È anche la testimonianza di chi ha vissuto drammaticamente, e dall’interno, l’alterna inflenza del pensiero di Gramsci sulla vita politica italiana. Come Pasolini — che si rivolgeva a Gramsci per reinterpretare la società italiana negli anni sessanta-inizio settanta —, Quattrucci si interroga sul destino dell’immenso patrimonio rappresentato dalla sinistra italiana, ora in via di dissoluzione, di cui Gramsci era il simbolo e il principale « fondatore » (oltreché il più rispettato). Un patrimonio che riguarda almeno tre generazioni di uomini e donne che hanno creduto nel socialismo sempre lottando per difendere la giovane democrazia e le istituzioni repubblicane nel nostro paese.

001_la descente_bis 480

Mario Quattrucci

UNA CRONACA, per A. G.

(Un poemetto in forma di prosa, lo ha definito il suo autore. Poggiato su un ritmo da dolente meditazione, eppure celato, spezzato, perfino negato, da ricorrenti inversioni, soprassalti, cesure, dissonanze sintattiche e armoniche. Come era richiesto, o così fu inteso, dalla dolorosa e faticosa riflessione sulle tragiche nostre aporie: nostre individuali, nostre della nostra storia comune.)

Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età,
perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini,
quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo
in quanto si uniscono tra loro in società
e lavorano e lottano e migliorano se stessi
non può non piacerti più di ogni cosa.
Ma è così?

Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, CCXIII, (a Delio)

002_gramsci_fond nenni 480 I
[ancòra]
solo ciò che perdura. (e qui il crepuscolo che invioletta
i vetri? il cielo che si ripiega a stingere
il rosso delle mura?). ma non risuona (più ─ ancora)
la frattura il battito. tornano dopo un’era i nomi
i rumori dei passi tutto è fuori
della definizione cieco alla teoria perso nel bollore
della vita. e sia (se poi la vita è un ardere). ma nulla
s’infutura se la scure al ceppo alla radice
e multipla non si pone la distesa mano
se non misuri il meno il senza il divenuto
inutile lo sguardo perso nello specchio
o il pianto riversato: assilla la domanda inquieta.
inutile il sussurro rapido di labbra
nei consessi né i gridi né torna il verso
del concetto nudo stilo dell’intelletto pratico
prodotto dell’uno analizzante e del plurale moto.

solo ciò che perdura. opporre al dato nuova negazione
e norma che sa la negazione forma
che è necessità ma non bastante
(l’essenza è nell’insieme dei rapporti eccetera…)
ed invariante in tempi di rovesci. mercificati.

solo ciò che perdura. ed un pensare acuto
che torni a interpretarlo questo astuto mondo
e con pazienza ancora grado a grado
il movimento in re che gli ordini trasmuta.

003_Gramsci giustizia e libertà 480 II
[il prigioniero]
ma lui
che poteva sapere adesso immaginare (il tempo
fermato il tempo precipitato) oltre la bocca di lupo
nei riquadri stretti della luce barrata
che poteva udire (il tempo senza futuro senza passato)
del brusio delle sere che poteva di là
da quel bianco dei muri? solo
tetti assiepati stretti riverbero screziato o forse
anche un fiotto di mare anche un verde
di memoria ─ olivi (il tempo solo memoria) pascoli
carrubi ─ o forse solo
uno squincio muro perenne anch’esso bianco
di calcinata luce meridionale.

spazio di metri due per tre una branda una
panchetta di legno e il male gli sgretolava le ossa
i denti perforava i polmoni il gelo tenebroso
di quegli anni di quel mondo così terribile e grande
il gelo (il tempo rovesciato) di sapersi escluso eppure:
io penso che la storia ti piace come piaceva a me

004_gramsci orgosolo iPhoto 480Murales di Orgosolo, foto Catherine Develotte

III
[falsa progressione]
la nostra storia. dicono di città
che attraversammo il sapido del secolo le notti
laboriose i giorni così abbaglianti attese
della grand soirée dell’unico
fiato liberatorio scarlatti pomeriggi a quel sicuro
vento forti i muscoli rifiorenti le guance
smemorati del sangue dell’inganno persi
anche noi nel bosco (d’iniquità di sogni) ma come
dove tenevamo le sue parole la sua vista
spinta così per tempo oltre l’insania
di una pietosa religiosa norma?
perché non in tutto e solo dall’aperto lato solo
per necessità dell’agire condizione intuito?
e fu un bene per noi salute
per noi per tutti anni fecondati ma anche
quanti mai decenni quante innecessarie cadute
perdite e ora nel rovello (religio depopulata)
lo ritrovammo? lo ritroviamo? quasi un occulto
tempio un drappo lacerato.

005_lettere dal carcere 480 IV
[l’incontro]
da poco nato quando lui nel giorno
fangoso lui disfatto senza nessuno a un’ombra
fredda di muraglioni umida celato quando
quando l’avrei incontrato? e come? ed era
in qualche luogo scritto?
non lui persona il suo figliolo musicista un giorno
il suo fratello sopravvissuto quale colpo
volti così evocanti così simili l’uno
a quell’immagine vanescente di lontana
persa consorte l’altro a lui come appare
in quella foto di Formia quale
insostenibile stretta attorno ai polsi alle tempie.

ma lui per altra via per uso di parole per quelle
lettere quei quaderni ardenti brulicanti
a segnare la vita a volgerla in un solo
verso questa mia insignificante esistenza eppure
un po’ significante anche lei a ragione di quelle
sue così forti ragioni così immensi pensieri.

006_Gramsci_Pasolini 480 V
[frantumi]
come furono gli anni? ora so che è un’altra
l’aspra contraddizione altra
dove scendemmo per misurare immagini
o salimmo dove ci conobbero i giorni. ora
so la frattura e sebbene con lui con lui nel cuore
in luce ed anche (come fu) con lui nelle buie viscere
so. ma anche il non sapere è esistere
qui dove ascende (sordo) il tramestio dei vivi
persi feroci (o spenti) nell’ascesa e dove lei
la classe meno apprende e si scompone e solo
a sé offesa smemorata attende. sola
nella spietata grascia di città che montano
s’intorbida con l’aria l’occhio si frantuma
la sua secolare coscienza.

è il mondo che in frantumi in vortice ci sfugge
quanto più cercammo delle cose un senso
unico quanto più credemmo a un fine volto
al regno (spento alla fine il regno
della necessità) nuovo dell’uomo volto
per storia ineluttabile il mondo. né sento
che l’attesa potrà mai più rendermi (e rendere)
una vigilia il fioco apprendersi d’un barlume.
e non per una loro finis historiae o per la quiete
candida del mondo: ma perché ferrigno
con spigoli di pena passa il mille
novecento novantuno e vanno
precipitano insieme col millennio
gli anni.

000a_Piero,_flagellazione_part 1 480

VI
[la flagellazione] (1)
convenerunt in unum.   e da lì discosto
─ serrato in bianche architetture in ferree
prospettive vincoli solenni multipli
della ragione architettante al centro
del palazzo innanzi al trono indifferente
complice al mandante ignoto (ma
ne conosci le vesti il portamento) sotto
al braccio dell’idolo (proteso
l’ideologico braccio il globo nella mano)
da luce d’altra fonte illuminato ─ l’uomo:
il povero Cristo il flagellato irriso l’ecce
homo guardato sorvegliato a vista in spine
incoronato e sempre in ogni tempo figlio
del suo sociale umano ed istorico stato.

ma chi è qui in primo piano sul piano cioè
che primamente coglie il nostro
occhio contemporaneo il giovane sbiancato
di imminente morte chi è se un’immanente
morte lo tiene vanamente angelico e dotto
non sensibilmente veduto non presente
corporalmente e quasi ignudo
nella sua rozza tunica amaranto
scalzo come si addice a un’anima a una nuda
memoria a un richiamo d’affetti chi questo giovane in cui
malgrado le nostre rughe e gli anni così evidenti
del nostro corpo della nostra caduca mente
ci sentiamo ritratti tu io che guardiamo e tutti
noi che nascemmo in quel vicino mille
e ottocento quaranta o meglio quarantotto o forse
più verosimilmente nel mille novecento e ventuno
e dunque ancora sul limitar già tratti
a una storica morte tu io uno
qualunque di costoro che nascenza o scelta
ai flutti di ferro di passione nei marosi
e secche del secolo ventesimo gettarono?

non parla né sente non può intendere (se anche
ascolta seppure attende
che scenda ancora da parole un chiaro
un fiotto di futuro) è solo è bianco nel suo puro
esserci non essente (un mito) al centro
dei gravi convenuti.
l’altro a sinistra il saggio in abiti solenni
invita: dirumpamus vincula ma guarda
grave fisso anche lui nel punto che oltre il tempo
fuori da quel suo spazio (e nostro) si raggruma

000_Piero,_flagellazione_recadrée 480

VII
[da ciò che in noi]
ma siamo in questo luogo, in questo tempo, qui
la nostra vita ha un senso: qui dunque l’animo
di nuovo ad ascoltare, a intendere, a quella
fatica che ogni pianta richiede.   e ancora
─ e anche se lo grava il tormento di sotto ─
ancora, qui, da ciò che in noi perdura,
ricominciare.

Mario Quattrucci

009_quattrucci 02 rect 480
Il Secolo Breve moriva. Nel 1991, precisamente. Quando l’alternativa storica cedeva e anzi ignominiosamente crollava. Dopo la caduta del Muro il dissolvimento dell’URSS. E lì, e in tutto l’Est, la restaurazione feroce del più selvaggio capitalismo finanziario.
Chi, dal 1956 in poi, rimanendo nell’alveo della Rivoluzione d’Ottobre, e in Italia nel Partito Comunista, aveva sperato in, e lottato per, una nuova rivoluzione democratica e socialista la quale, abbattuto lo stalinismo, ne superasse in un tempo non secolare, un tempo di decenni, le conseguenze storiche sociali e politiche; chi aveva sperato in, e lottato per, la ripresa del cammino verso quella nuova organizzazione della società e quel nuovo mondo di libertà e di giustizia di cui erano le premesse nel grande evento del ’17; chi aveva sperato in, e lottato perché la storia potesse ricevere una nuova spinta propulsiva; quegli ostinati marxisti gramsciani (benché sempre animati brechtianamente dal dubbio) che noi eravamo stati e ancora eravamo, apprendevano (senza più dubbi) non essere il loro che un sogno. O, se si preferisce, un’eroica disperata speranza.
Complice il tempo, l’umano tempo della vita personale che scorre e volge al suo compimento, alla generazione che aveva retto con tenaci certezze ai tragici marosi e alle feroci ragioni di fedi feroci del secolo grande e terribile, non restava che prendere atto della catastrofe e darsi ragione, una qualche lancinante ragione, di come sparisse nel vortice aperto dalla sconfitta il sogno e l’attesa di una vigilia… e perfino l’apprendersi di un pur fioco barlume.
Ripensare Gramsci, o meglio riandare all’incontro con Gramsci, diveniva allora il modo per rivelare a se stessi l’errore, il vizio assurdo, le ragioni della sconfitta storica che si stava compiendo. E, allo stesso tempo, rivalutare e rivendicare a ragione la propria non insignificante esistenza fatta di lotta ideale e sociale, e di prassi politica, nel segno di Marx e di Gramsci. E, forse, mutato ciò che andava mutato, il perdurante valore di quella filosofia della prassi.
Per giungere alla necessità ─ posta l’insuperata, anzi smisuratamente maggiore, iniquità del mondo sotto il globale dominio del capitalismo finanziario ─ di riprendere l’analisi e, da ciò che perdura, ricominciare la lotta, ridare vita al movimento. Per abolire lo stato di cose presente? Ma non è questa, fuori da ogni abiura di debole pensiero, secondo il suo fondatore, la sostanza del socialismo e la sua necessità?
Speranza contro ogni speranza? Può darsi. Ma noi per speranza non abbiamo che il fare: né la pur umana paura può indurci a gridare Elì, Elì, lemà sabactàni.

Mario Quattrucci

(1) La flagellazione, si rifà al capolavoro di Piero della Francesca che è nel Palazzo di Urbino, allegoricamente letto alla luce delle scoperte e interpretazioni che ne dà Carlo Ginzburg in Indagini su Piero.

Traduzione di questo articolo in FRANCESE

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première publication et Dernière modification 27 avril 2014

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