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“Sì, mi ricordo!”

09 lundi Juin 2025

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Lella Amaroli, Regione Emilia-Romagna, Urbanistica

Lella Amaroli (1947-2025) (ritratto eseguito da Saveria Bologna)

Carissima Lella, forse non ti ho mai detto che il mio nonno omonimo, romagnolo di Cesena, chiamò la sua seconda figlia Gabriella, che poi fu detta Lellina, mentre il terzogenito Merloni, mio padre Raffaele, era da tutti chiamato Lello. Dunque il tuo nome, Lella, mi è particolarmente caro. Del resto, quando a mia volta ho chiamato mia figlia Gabriella, in nome della zia Lellina e di una ragazza dagli occhi verdi che lavorava al bar del Bagno Ferrara a Cesenatico, Giancarlo Ferniani, il nostro comune grande amico, si mostrò contento per la scelta di quel nome “romagnolo”. Ma di Lella ce n’è una sola, e tu sei “la Lella” a cui tutti noi vogliamo bene, l’amica comune di cui parliamo sempre con la Saveria, la Patrizia Mantovani e la Paola Stanzani: tu sei proprio una “romagnola di Bologna”, dall’indole pacifica ma non necessariamente docile, portatrice di un’allegria festosa e di un contagioso entusiasmo, attraverso cui tu hai sempre filtrato, se non nascosto, le contrarietà della vita. La vita, ahimè, è difficile per tutti, ed è spesso vero che “mal comune mezzo gaudio”, ma poi non è così vero che tutti soffrono o godono allo stesso modo. E tu, come me, invece di prendertela troppo e di recriminare all’infinito, hai sempre considerato molto più dignitoso e luminoso dare a tutte le persone che lo meritano la tua amicizia e il tuo amore. Anch’io ti voglio bene, e mi ricordo benissimo di te, spesso accomunata alla magnifica Rossella e alla rimpianta dolcissima Anna Agnetti, e in numerose altre occasioni – tra cui la vacanza insieme in Ungheria nella « carovana di Ferniani » dell’agosto 1975 -, nonostante le varie lontananze che si sono succedute da quando, a metà degli anni ‘90, si è fatto sempre più sporadico il mio rapporto pendolare con Bologna (ci incontrammo, se ben ti ricordi, in occasione del Congresso dell’INU del 1995). Anzi, la distanza – in linea d’aria o ripercorrendo il tortuoso tracciato di una carta stradale immaginaria che scavalca le Alpi e piomba su Torino, poi su Piacenza e infine sulla via Emilia – mi aiuta a concentrarmi di più sul peso della mancanza di tante persone di Bologna che difficilmente mi capiterà di incontrare per caso, come avveniva quando si viveva tutti in quella stessa città. Ora che sono a Parigi, questo esercizio della memoria si è fatto ancora più intenso e, di anno in anno, frustrante e doloroso; ma credo appartenga a ogni essere umano, accanto al bisogno di ricordare, il desiderio di essere ricordati; tutti gli esseri umani sperano che alla domanda “Ti ricordi?” segua la risposta “Sì, mi ricordo!”

Già l’immagine qui sopra (che fa parte di un vasto dossier, curato da Saveria Bologna, intitolato « Noi di via Alessandrini »), pur ritraendoti di profilo dietro alla collega Graziella Musolesi, sarebbe già sufficiente per ricreare in me il sapore e l’atmosfera di questo nostro straordinario passato comune. Ricordo di un’epoca certo imperfetta, ma sostenuta da una guida (nella fattispecie un « Guido » Fanti, a sinistra nella foto) e dal comune ideale « di fare », di « fare il meglio possibile » e, soprattutto, di agire « dalla parte giusta ». E i nostri « capi » ci coinvolgevano anche nelle iniziative politiche importanti. In questa foto, per esempio, l’allora semplice geometra Lella Amaroli, da poco « imbarcata all’urbanistica regionale » (insieme ad altri 39, grazie ad una famosa delibera in cui erano assunti architetti, ingegneri, geologi, geometri e disegnatori, tra cui c’ero anch’io), stringe la mano ad una rappresentante del ministero degli esteri del Vietnam a cui l’Emilia-Romagna dava un appassionato sostegno, non solo morale. Ricordo di persone che ebbero la « chance » di essere messe in valore, di potersi esprimere al meglio.

In questa seconda immagine (facente sempre parte del citato dossier e scattata lo stesso giorno della precedente) ti vedo circondata da alcuni dei « pionieri » dell’urbanistica regionale di cui facevo parte anch’io. Riconosco da sinistra verso destra Patrizia Canella, Gianni Ravaglia, Magda Zuccheri, l’assessore Fausto Bocchi, Paola Elmi, Graziella Musolesi, Lella Amaroli ed Ermanno Colafranceschi. Nell’assumersi nuove, gigantesche responsabilità la neonata Regione (siamo nel 1972) non aveva paura di sbagliare perché era pronta a correggere il tiro, ad avanzare fiduciosamente verso l’avvenire come può verificarsi ancora oggi nelle famiglie unite e responsabili purché, attenzione, si sforzino sempre di non essere gelose della loro felicità. Lo stesso dialogo aperto e costruttivo (ma veramente aperto e costruttivo) che si svolgeva tra tecnici e politici all’interno degli uffici regionali, si svolgeva poi con i comuni, con le provincie e con i comprensori, che erano i nostri principali interlocutori. Forse, nel tempo, la patina burocratica ministeriale – che avevamo trovato arrivando e spazzato via grazie al cosiddetto « appoggio responsabilizzante » di Fausto Bocchi (il nostro instancabile assessore all’urbanistica, che, « coprendoci le spalle », ci mandava avanti nella nostra azione di svecchiamento e di rottura) si è incrostata di nuovo su quel mondo e su quelle difficili « pratiche ». Ma io credo che il nostro lavoro di allora abbia lasciato una traccia profonda e difficile da cancellare: io sono convinto che in quella Regione lo sforzo di ragionevolezza e di onestà culturale regni ancora, incontrastato, da tutt’e due le parti del tavolo, mentre gli interessi locali, anche se, spesso, condizionati fortemente da quelli privati, vengano ancora oggi inquadrati in una visione equilibrata e corretta delle necessità (dei cittadini e delle imprese), nonché dell’estrema limitatezza e fragilità delle risorse (tra cui c’è anche il suolo).

Scusami, Lella, per essermi addentrato in un discorso un po’ noioso, che magari interessa a te e molto meno a chi ora ci legge, ma questa fotografia mi ha fatto ritornare indietro nel tempo e, poi, ripercorrendolo per tornare al presente, ti ho vista nella tua stanza, in quei corridoi, con quelle carte in mano, con quel sorriso spavaldo e ho avuto la netta sensazione che, almeno per quel che riguarda la tua lunga e dura vita lavorativa tu hai dato un contributo essenziale, lavorando nella giusta direzione. Mio zio Edoardo Perna, uomo politico e giurista di primo piano, che sgobbò tutta la vita senza mai cercare il microfono e i riflettori, prima di morire mi disse: «Si viene al mondo, si cerca di fare qualcosa, e si muore…» Una frase un po’ amara e dolorosa, che contiene però in sé l’orgoglio e la viva consapevolezza di aver fatto qualcosa di grande e soprattutto di necessario. E tu, anche tu Lella, hai fatto una cosa bella e necessaria che resta. Di cui puoi essere pienamente orgogliosa.  

Ricordo benissimo, cara Lella, quel mitico viaggio notturno verso l’Est, capitato in un momento particolarmente “scomodo” della mia vita difficile. Mi ero separato da soli venti giorni, avevo accompagnato a Piombino la mia ex famiglia (con la Volkswagen nera di Patrizia Mantovani), l’avevo vista salire, non senza angoscia, sul traghetto dell’isola d’Elba, ma dopo tutto questo trambusto ero solo per le vie di Bologna, la mia nuova “fidanzata” essendo partita per un bel viaggio, lasciandomi per consolazione una manciata di libri da leggere nei giardini e sulle panchine di Bologna. Con la sua trascinante allegria Ferniani mi aveva tirato fuori da quella patetica condizione “invitandomi” nel suo Balaton e, in quattro e quattr’otto, con l’aiuto prezioso di Colafranceschi Ermanno detto Cola, mi procurai il visto, indispensabile per entrare in Ungheria. Dovetti anche rinnovare in fretta il passaporto e ciò fece ridere il suddetto Cola, quando si sentì dire che, così abbronzato e arruffato nella foto della macchinetta, mi avevano preso per il terrorista Mario Tuti, ricercato… 

Partimmo di sera, con due macchine. All’andata, ero io a guidare quella di Giancarlo, mentre Giancarlo guidava quella di Luigi, il tuo compagno di viaggio, un uomo di qualche anno più grande di noi, dal comportamento gentile e riservato. Dopo il confine con la Jugoslavia, all’altezza di Lubiana, un temporale si abbatté sul nostro percorso e dovetti arrangiarmi nonostante il tergicristallo spezzato, viaggiando con il braccio fuori dal finestrino per combattere con un fazzoletto zuppo il “combinato disposto” dell’appannamento e della pioggia, a rischio di perdere il contatto con la macchina davanti. Accanto a me c’era Marisa, la “fidanzata” di Giancarlo che poi diventò sua moglie, che faceva il possibile per aiutarmi. Dietro c’era il quarantenne Gattini, che non ricordo più cosa facesse nella vita e il più giovane Cavina, provetto piastrellista. Ricordo benissimo che, ad ogni casello autostradale, Giancarlo aveva sempre pronte le monete precise per ognuna delle due macchine. Quando ormai era l’alba, entrammo in Ungheria. Era la prima volta (su due) che mi recavo in un paese dell’Europa dell’Est. La Jugoslavia, dove avevo fatto una vacanza nove anni prima, per me non contava. Una certa emozione cominciò a serpeggiare nella mia testa ronzante. Ma non mancarono, in quella eroica traversata della notte, le ondate di malinconia, anzi il mio più che pesantissimo magone esistenziale. Raccontai alla mia compagna di viaggio gli eventi traumatici che, nell’arco del precedente “luglio di fuoco”, avevano sconvolto irreversibilmente la mia vita. 

Quando arrivammo nella nostra dimora ungherese, eravamo tutti distrutti. Lo deduco ora dal fatto che, dopo tutto quel buio, mi ricordo solo di essermi svegliato in un lindo lettino ai piedi di una scala piena di luce, e di aver visto scendere con aria solenne e quasi militare una distintissima famiglia ungherese, costituita da padre, madre e figlia di tredici-quattordici anni, vestiti a festa, in procinto di fare la solita “bella passeggiata” lungo il lago. «Che or’è?» domandai alla bionda romagnola che sgusciava da una porta del pianterreno. «Ti ho portato un panino, non ti ricordi? hai mangiato dormendo», mi disse affettuosamente. Poco dopo, tutti coloro di cui avevo intravisto la testa e le spalle nell’oscurità del viaggio uscirono come topi dalle tane, come se la partenza dei padroni di casa fosse un segnale convenuto. Cominciò così quella stramba vacanza, in cui ci aggiravamo un po’ a caso, come dei forsennati, in piedi o in macchina, sempre al seguito della nostra guida esperta e carismatica, ansiosa di raggiungere ora l’uno ora l’altro dei paesi dal nome esotico e favoloso che costeggiavano quel lungo lago orizzontale il cui fascino non sta in una travolgente bellezza ma piuttosto nella sua misteriosa e ipocrita capacità di nascondere, di giorno, le qualità umane dei tanti e  tante che vi si recano, per poi rivelarle… di notte. Insomma, la lunga distesa d’acqua piatta del Balaton ha qualcosa di molto affine se non identico alla lunga riviera adriatica romagnola, da Gabicce a Lido di Savio. Allora, perché andare tanto lontano? Tra i tanti ricordi di quella breve vacanza mi sono rimaste impresse le “terrazze” dei bar, da cui non si vedeva quasi mai il lago. (Quello, il lago, si vedeva solo quando ci entravi dentro, con l’inquietante sensazione della sabbia melmosa sotto i piedi, mentre l’acqua, densa come nebbia e impregnata di alghe, si strusciava subdolamente tra le nostre gambe incerte). In quelle terrazze si oziava animatamente, sotto gli ombrelloni con su scritto OUZO o MARTINI, sempre preoccupati di fare corpo intorno a colui che riuniva tutto e tutti con la sua sorridente bontà, ma anche, fatto non trascurabile, con la conoscenza di quella incomprensibile lingua magiara che non offriva nessun appiglio di somiglianza con nessuna delle nostre parlate, ufficiali o dialettali che fossero. Un osservatore esterno — vedendo il nostro gruppo stravaccato alzarsi di scatto per seguire il “capo” dall’espressione arguta, che sembrava voler andar via, ma poi ci ripensava, andando a risedersi in un altro angolo della terrazza — sarebbe restato forse interdetto vedendo i nostri continui spostamenti di bicchieri e tazzine. Ma forse non facevamo che adeguarci ad un’abitudine del posto, forse lì facevano tutti così. Certo non ci annoiavamo del tutto: non mancavano le battute più o meno spinte, con cui Giancarlo intratteneva le diverse sensibilità del suo pubblico; oppure venivamo trascinati in balli surreali e grotteschi dove potevano verificarsi in modo del tutto naturale delle stranezze. Come quella volta che un ungherese male in arnese mi invitò, con gesti un po’ grossolani, a ballare. E Giancarlo disse, facendo una vocina divertita: «Vuole ballare con te!» Credo che quelle imbarazzanti situazioni fossero la naturale  conseguenza del gemellaggio ideale tra la Romagna e il Balaton, di cui Ferniani era promotore e artefice nello stesso tempo. Credo che siano perlomeno un centinaio, ormai, le persone che sono andate in Ungheria con lui, ed è probabile che qualcuno dei suoi “discepoli” abbia finito per installarsi laggiù, attirato dalla semplicità della vita, meno stressante e costosa  laggiù rispetto a quella che si svolge qui da noi. Ma perché strapparsi dalla Romagna, la patria della “tolleranza amorosa” per eccellenza? Le nostre giornate di terrazza in terrazza erano in realtà ipotecate  dalla nullafacenza e dall’attesa dell’uscita serale. Ora, ripensandoci bene, potrei scommettere che tu, Lella, non c’eri o sparivi discretamente con il tuo Luigi per ricomparire magari il giorno dopo. Oppure andavi a fare il bagno con la Marisa, o, insieme, andavate in giro da sole. Noi uomini partivamo in macchina con Giancarlo il cui grido preferito era «Avanti Siófok!», perché Balatonsiófok era il principale centro di attrazione di tutto il bacino lacustre. Lì, una sera, tra il lusco e il brusco di una improvvisa solitudine, fui provvisoriamente attratto dalla silhouette e dagli occhi romantici di una ragazza bionda che, mentre cercavo di parlarle in un inglese molto elementare, si girava continuamente verso il palco. E dovetti subito arrendermi all’evidenza: a nulla potevano le mie poesie improvvisate o i miei scarni ritratti a penna, di fronte al potere di una chitarra e di una voce dotata di microfono. Del resto, ero tutto fuorché un uomo libero, né ero minimamente capace di approfittare di quella passerella di corpi slanciati o cicciottelli dentro cui albergavano tante anime dallo sguardo comprensivo. Dunque mentre i più “motivati” se ne stavano ficcati in un letto con la sola interruzione del mangiare e di qualche ora di sonno; mentre Giancarlo correva di qua e di là con la sua fidanzata per andare a trovare i suoi amici del Balaton, io leggevo “La realtà separata” di Carlos Castaneda.

Le uniche persone che cercavano di trarre il miglior profitto da quella stramba pausa ungherese eravate voi due, Lella, tu e il tuo compagno Luigi. Fu così che, del tutto spontaneamente, si creò una piccola succursale della grande comitiva ed io, tu e Luigi, con la scusa che io non ci ero mai stato, partimmo ad un certo punto per Budapest e per una regione ad est della capitale che tu non avevi ancora visitato. Avevate una grande tenda bianca familiare, ora ricordo, e ci dormimmo una o due notti. Quella piacevole e liberatoria parentesi “culturale” fu resa possibile dal cambio favorevole e dal fatto che là tu, ormai “veterana”, cominciavi a destreggiarti con quella lingua impossibile e te la cavavi perfettamente con i conti e i menù dei ristoranti. Ti lasciammo volentieri l’iniziativa e, sempre dietro di te, girammo a lungo per la capitale ungherese. Ricordo con precisione la bella terrazza panoramica di Buda, dove troneggiava la statua di un terribile tiranno. Questo imponente personaggio offrì a Luigi l’occasione per manifestare la sua sperticata ammirazione: «Mattia Corvino! Quello lì non scherzava mica. Quando arrivava lui, tutti rigavano dritto!» Dall’alto, si godeva una visione straordinaria del Danubio, del suo magnifico ponte “Erzsébet” e dell’altra metà della capitale ungherese. Scendemmo poi a Pest, dove sostammo, un po’ perplessi, nella piazza degli Eroi, delimitata da una grande esedra su cui spiccavano almeno sei statue equestri lanciate in una corsa sfrenata. Al centro, in groppa al cavallo più robusto e spasmodico, c’era Attila, quello che da noi è chiamato “flagello di Dio” mentre lì è egli stesso Dio. Più tardi, mentre passeggiavamo per quei quartieri dai larghi marciapiedi, calò la sera, che ci sorprese per la sua animazione “parigina”, con i suoi parrucchieri aperti alle undici di sera e i giovani che pattinavano sulle strade larghe e lisce. Tu chiedesti a una signora molto alta se conosceva un ristorante un po’ tipico. Seguendo i gesti e le poche parole di quella austera abitante di Pest, tornammo a girare per le viuzze di Buda, di notte, prima e dopo aver piacevolmente soggiornato in un ristorante dove un gruppo di zingari cantava e ballava al ritmo della “czarda”.

In una bancarella dove il folklore si riproduceva in più esemplari, comprai una camicetta bianca con un ricamo rosso per la “donna assente” che, da quella distanza, era diventata, ormai, una piccola matrioska, anzi la più piccola di quelle che Luigi aveva comprato per il suo scaffale di Bologna. Se ben mi ricordo, cara Lella, in quella vacanza, fosti contenta di scoprire con me vie, piazze, monumenti e locali caratteristici, ma alla fine eri preoccupata, più per me che vivevo tra l’incudine e il martello che per il nostro comune amico, che in fondo era libero come un uccel di bosco.

Giovanni Merloni

Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento (Nel frattempo n. 3)

15 jeudi Sep 2016

Posted by biscarrosse2012 in ritratti

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Bologna, Emilia-Romagna, Romano Reggiani

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento

Nel frattempo, questo fiore solitario mi ha fatto pensare alla bellezza della vita e della morte…
Spero che mi perdonerete di avere osato giustapporre queste due bellezze, così diverse tra loro. Ma è molto raro che la bellezza rispecchi la felicità. Se una cosa simile accade, si tratterà il più delle volte di una felicità passeggera.
Dunque oggi questo fiore, simbolo insostituibile del carattere effimero della bellezza, non è lì per caso…

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

All’inizio, questo fiore evoca in me una camicia di seta bianca con una spilla d’oro al posto del cuore. Una bella ragazza, modella devota di un celeberrimo pittore, deve averla lasciata libera di volteggiare nel prato secondo il vento, dovendo al più presto comparire nella famosa «colazione sull’erba».
Poi mi viene da pensare a due pittori.
Uno si fa prendere dalla descrizione della scena inquietante, dove la gioia della dissacrazione si mescola alla rabbia — faticosamente tenuta a bada — della gelosia e dell’invidia di ognuno.
L’altro osserva a lungo la camicia che ondeggia su una canna, finché si decide a « rimetterla », con mani sperdute e di colpo imprecise, sul busto indimenticabile di questa « fuggitiva » ch’egli non cesserà mai di amare e rimpiangere furiosamente…
Oppure abbiamo a che fare con un solo pittore, che preferirebbe abbandonare i pennelli e distogliere lo sguardo dalla sua composizione rischiosa e blasfema per fissare, steso sull’erba, quei petali lisci e lucenti.
Istigato da questo fiore solitario, questo pittore vorrebbe saper tradurre la bellezza effimera della natura trasferendola nella realtà eterna (o quasi) del quadro. Mentre traduce, il pittore tradisce, inevitabilmente, perché deve assolutamente trovare un linguaggio adatto a fissare una volta per tutte una bellezza che non potrebbe essere più sfuggente…
Obbligando la sua donna a partecipare, nuda, alla «colazione sull’erba», egli ha tradito se stesso, anche se l’ha fatto in nome di una bellezza universale, destinata a galleggiare al di fuori dello spazio e del tempo…

003_img_9196Romano Reggiani (1942-2016)

Ma questo fiore solitario evoca anche, in me, un pietoso lenzuolo bianco steso, come un’ultima camicia, sul corpo senza vita di uno dei miei più cari amici.
Egli era al mare, in Toscana, l’8 agosto scorso, intento a nuotare tra onde appena increspate, non lontano dalla riva, a pochi metri da sua moglie e dai suoi due figli ormai grandi. All’improvviso, senza che si potesse percepire alcun segnale di malessere o di difficoltà, coloro che erano presenti hanno visto arrivare sulla battigia un corpo galleggiante, steso sul pelo dell’acqua come un «morto a galla».
« Sorrideva ! Non ha sofferto ! Non si è accorto di nulla ! » Si dice sempre così e  questa
 scena sconvolgente acquista addirittura, paradossalmente, una sua sconvolgente bellezza.
Romano Reggiani, che i suoi più vecchi amici chiamavano « Yuma« , era un uomo alto, robusto, che attingeva senza risparmio alle sue mani di « scultore di idee » per dare tanto di sé agli altri. Anche lui non era stato risparmiato dalle invisibili piaghe che il tempo scava con indifferenza sul suo cammino. Ma con tutto il suo entusiasmo e quella voglia instancabile di fare sembrava non accorgersi di nulla. Ecco quello che mi hanno raccontato, per aiutarmi a accettare questa morte violenta e inattesa. Chissà se questa ipotesi di serenità mi aiuterà anche a ricomporre le fisionomia di quest’uomo che, nel frattempo, non era cambiato rispetto ai tempi oramai lontani in cui si colloca il mio pur vivo ricordo di lui.
Mi sembra un po’ strano, sinceramente, di parlare di Romano dopo tanti anni, in cui ci eravamo per così dire « persi di vista ». Ma ho deciso lo stesso di farlo, seguendo una mia idea di cui sono un convinto assertore : nel corso della vita e anche dopo la morte, certi legami diventano dei fari indispensabili nella nostra mente. Quante volte mi sono ricordato di Romano, delle sue conversazioni con Francesco Curtarello a cui assistevo ? Ritorno anche, molto spesso, a certe parole o frasi, scambiate direttamente tra di noi, che costituiscono ormai delle vere e proprie pietre miliari lungo le vie difficili o fortunate delle nostre vite parallele. Se mi sono periodicamente fermato a ricordare la sua grande casa nel bel mezzo della campagna a San Giorgio di Piano, a ascoltare la sua voce di fumatore accanito, a ricostruire a mente il suo volto arrossato dal sole e dalle sue stesse energie vitali, se non posso dimenticare le sue certezze assolute, la sua benevolenza piena di calore nei miei confronti, è possibile, credo, che di tanto in tanto si sia ricordato anche lui di me.

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Tutto sparisce, e questo mio contributo per restituire ai vivi l’immagine di quest’uomo « sparito » sarà inevitabilmente inadeguato, molto meno efficace di una sola foto. Resterà la mia lacunosa descrizione che aprirà la strada, come nel caso del pittore di cui sopra, a un nuovo tradimento. Un doppio tradimento. Perché rivolgendomi a dei lettori francesi io tradisco, inevitabilmente, la lingua dei nostri incontri, risalenti all’epoca in cui vivevo e lavoravo a Bologna ed ora, lanciando dalla Francia questo mio ricordo confuso, finisco forse per tradire anche l’immagine che i miei amici di Bologna si sono fatta di me.
«Partire è un po’ morire», dice la canzone. Dunque, andando via, all’estero, «perdendomi» nei meandri di questa Parigi «super gettonata», nella mia condizione di «profugo di lusso», sono oramai scomparso in una specie di cortina fumogena che nessuno ha voglia di attraversare. «Che vuole da noi, questo «parigino»? si domanderebbero senza dubbio, ironicamente, i miei amici se sapessero che parlo di Romano…
Ma io lo faccio lo stesso.
Romano Reggiani era giustamente orgoglioso di essere un rampollo della grande e gloriosa famiglia del partito comunista in Emilia-Romagna, mentre le mie origini romane facevano di me un « parvenu » di questo stesso mondo e «scuola di vita». Ciò non impediva che io fossi ammesso a partecipare alla stessa esperienza di buona amministrazione delle città e del territorio a cui Romano dava il suo contributo. Abbiamo condiviso gli stessi ideali e le stesse illusioni, ma anche la gioia incancellabile di vedere realizzati molti progetti che altrove sono invece rimasti lettera morta.
Noi abbiamo avuto due vite «parallele», condividendo le stesse preoccupazioni legate a una professione obbligata a confrontarsi con un mondo che cambia, dove i margini per una valida e incisiva azione politico-amministrativa si riducono o sono diventati ormai del tutto inesistenti.
L’ultima volta che ho visto Romano è stata nel 2003, in occasione di un viaggio a Bologna, conclusosi con una gita in quella stessa spiaggia toscana… Poco tempo dopo, il primo maggio del 2006, ho interrotto tutte le mie attività, mentre Romano ha continuato tenacemente, fino al giorno di questa morte così folgorante e inattesa.
«È morto senza rinunciare ai suoi progetti ! » mi ha detto il mio amico Francesco.
Ecco perché la morte di Reggiani può essere ricordata come una bella morte.

Per una coincidenza che non può essere casuale, egli è morto proprio l’8 agosto. Una giornata, quella dell’8 agosto 1848 illustrata dallo straordinario eroismo dei bolognesi, che furono capaci di sconfiggere l’esercito austriaco invasore. Se Romano lo sapesse, se ne consolerebbe. Tra le rare persone di cui ho potuto ammirare lo spirito combattivo e la coerenza ideale, Romano Reggiani è stato senza dubbio uno dei rappresentanti più sinceri e coraggiosi di un popolo che non cede mai al conformismo e all’indifferenza. E gli si deve anche riconoscere una grande ironia, che affiora con prepotenza, tra l’altro, nel suo recente libro « Et fiat porcus« , un omaggio raffinato e intelligente alla cultura del maiale, al centro della tradizione alimentare specifica dell’Emilia-Romagna.

«Quando i compagni della giovinezza e della vita ci vengono sottratti ci accorgiamo che tutto il tempo che abbiamo a disposizione lo consumiamo nell’abitudine, giorno dopo giorno a svolgere tutte le incombenze del quotidiano, a mettere a posto, a far fronte agli impegni e alle richieste della burocrazia, del fisco, dei fornitori di servizi», mi ha scritto una carissima amica di Bologna. «Una noia e un fastidio mortale.»

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Giovanni Merloni

TESTO DELL’ARTICOLO IN FRANCESE

Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

06 samedi Fév 2016

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Auguste Renoir, Carlo Goldoni, Carlo Levi, Casalvieri, Como, Dario Fo, Edward Hopper, Gabriella Merloni, Giorgio Strehler, I Giganti della Montagna, Isola Dovarese, Jean Genet, Ludwig van Beethoven, Luigi Pirandello, Massimo Summa, Michelangelo Antonioni, Mirella Summa, Omero, Patrizia Molteni, Pierangelo Summa, Radio Aligre, Sara Summa, Théâtre des Déchargeurs, Tiresia

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Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (regia di Giorgio Strehler)

Mi viene spesso da pensare che ogni persona di genio, alla fine della sua esistenza, viene punita con un male che lo colpisce, inesorabilmente, proprio nel punto più vivo e essenziale della sua espressione artistica.
A volte la natura si sbaglia, privando per esempio Edward Hopper dell’udito invece che della vista o dell’uso delle mani e dandogli, per così dire, in cambio la possibilità di raccontare ai posteri il suo speciale mondo ovattato, la sua visione «spaesata» dei rapporti umani al di qua e al di là del baratro.
Anche Omero, privato degli occhi, ha potuto sviluppare meglio la sua drammaturgia poetica imparando e restituendo a memoria le sue edificanti battaglie. E Tiresia, per veder meglio il futuro, poteva rinunciare senza troppe tragedie alla sua vista di uomo o di donna.
Ma non potrei mai sminuire la sofferenza di Ludwig van Beethoven, colpito nell’organo più importante per un musicista, l’udito, o per quel grande corridore dei cento metri che finì sulla sedia a rotelle, o per Auguste Renoir che cadendo dalla bicicletta compromise gravemente l’uso della spina dorsale perdendo progressivamente l’uso delle mani.
Certo Renoir dipinse fino alla morte e Beethoven riuscì à vedere nel buio della sua sordità le note della nona sinfonia senza perderne una battuta né la minima sfumatura.
Ma come doveva sentirsi Carlo Levi, un grande pittore (e scrittore) italiano del novecento, quando, diventato ormai cieco, cercava lo stesso di lasciare un’impronta del suo discorso interrotto, dipingendo all’interno di una speciale griglia sospesa sulla tela che lui chiamava «quaderno a cancelli»?
Altri grandi, come Michelangelo Antonioni, hanno dovuto passare gli ultimi anni della loro vita in uno stato di confusione o di assenza, privati dal solo clic di una malattia invisibile dell’acuta e inesauribile forza del loro ragionare, inventare, scandalizzare, rovesciare i parametri e finalmente trasmettere una nuova forma di arte e di cultura.

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Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

Pierangelo Summa fa parte di quei geni unici e straordinari che vengono interrotti lungo il loro generoso percorso artistico da un male subdolo che non si limita a colpire un organo o un senso, ma aggredisce progressivamente tutto il corpo. Guarda caso, Pierangelo Summa era appunto un artista che aveva il proprio fondamentale strumento di espressione nel corpo, in tutto il corpo: il corpo umano nella sua straordinaria elasticità e adattabilità alle più diverse azioni e emozioni; il corpo in maschera delle marionette o pupazzi più o meno elastici o smidollati che lui stesso creava o che lui faceva rivivere nel corpo di attori veri o improvvisati. Mettendo in moto la «seconda vita» di ognuno di noi, quella appunto del corpo, Pierangelo Summa ha inventato e fatto conoscere un teatro «al rovescio» o «all’improvvista» in cui l’antica tradizione della commedia dell’arte italiana si fonde «dialetticamente» e aggiungerei «ironicamente» con il teatro impegnato, dalla tragedia greca fino a Jean Genet.

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Creatore di maschere e animatore di spettacoli di strada per vocazione naturale, Pierangelo Summa è stato senza dubbio uno dei capofila del movimento teatrale italiano degli anni ’70, svolgendo gran parte della sua attività artistica in Lombardia, dove una ricchissima tradizione di canti e spettacoli popolari trovava un riscontro teatrale autorevole in figure carismatiche come Giorgio Strehler e Dario Fo, tra gli altri. Se la famosa messa in scena dell’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler non fu indifferente al giovane Summa per l’importanza conferita al ruolo della maschera, il «teatro della parola» di Dario Fo, con il suo straordinario recupero del mélange linguistico dei dialetti della valle Padana, divenne il secondo polo della formazione del Summa più adulto e aperto al nuovo. Ma bisogna attendere un evento assai importante e direi cruciale per lo sviluppo organico di una forma originale unica di espressione e di messa in scena teatrale da parte di Pierangelo Summa: il suo trasferimento a Parigi. Forse la piena consapevolezza dell’importanza dialettica e ironica del corpo rispetto alla maschera e alla parola non si sarebbe sviluppata così prodigiosamente in Pierangelo Summa se l’artista non si fosse profondamente calato anche nella cultura francese e nel suo vasto e stimolante mondo teatrale.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

Pierangelo Summa e il suo fratello gemello, Massimo, sono cresciuti, hanno studiato e lavorato a Como, ma fanno parte di una famiglia di Casalvieri, un piccolo paese della Ciociaria (provincia di Frosinone) a sud di Roma, situato in un paesaggio di montagna ancora oggi integro e selvaggio. Dunque, tutte le estati, la famiglia Summa si recava a Casalvieri per passarvi dei lunghi periodi di vacanza e di piena libertà. Rispetto alla «città» di Como, lambita da uno dei più bei laghi d’Italia, Casalvieri rappresentava la natura allo stato primitivo, ancestrale. Oltre all’affetto di una famiglia tradizionale molto calorosa, i fratelli Summa trovarono a Casalvieri le loro prime «fidanzate». Pierangelo vi conobbe Mirella, di tre anni più piccola, sin dalla più tenera adolescenza. Mirella, nata a Parigi, dove passava tutto l’anno con la sua famiglia che vi si era recentemente trasferita, parlava da sempre un perfetto francese senza accento, ma era perfettamente bilingue, la madre avendogli trasmesso l’italiano e, forse, anche qualche frase del dialetto ciociaro. Ma d’estate, il richiamo di Casalvieri valeva anche per la famiglia di Mirella che, tutti gli anni era presente.

Version 2

Pierangelo Summa incontra Patrizia Molteni di Focus In, Parigi, 2011

Da allora, Mirella è stata la compagna della vita di Pierangelo Summa. Per circa venti anni hanno vissuto a Como, dove ambedue lavoravano. Pierangelo, nelle ore libere dal suo impiego «alimentare», fabbricava le sue straordinarie maschere e allestiva spettacoli dove il teatro «improvvisato» e di strada si legava ad attività più tipicamente circensi, popolate di mangiatori di fuoco e di funamboli che avanzavano sui trampoli. Mirella, la «matematica» della famiglia, seguiva con entusiasmo suo marito in tutte le sue iniziative teatrali, partecipando attivamente, tra l’altro, ad un importante e approfondito lavoro di raccolta di canti tradizionali e storie popolari in molte realtà regionali del Nord Italia. In questo periodo Pierangelo Summa fu chiamato a sovrintendere la Festa di Isola Dovarese, dove per un’intera settimana si succedono ancor oggi spettacoli teatrali e musicali insieme ad attrazioni di vario tipo.

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Quando Mirella ottenne un incarico universitario a Parigi, Pierangelo la seguì con i due figli Sara e Robin, decidendo di dedicarsi a tempo pieno alla regia di spettacoli teatrali, con l’intenzione, tra l’altro, di introdurvi maschere e pupazzi del suo ricco universo fantastico.
Senza mai interrompere i legami con il mondo della sua ispirazione originaria, che egli fece conoscere ed apprezzare ai nuovi amici francesi, Pierangelo Summa trovò a Parigi e in Francia un contesto estremamente favorevole alle sue interpretazioni originali dei testi di autori già di per se stessi originali. È il caso delle «Bonnes» di Jean Gênet, un testo che Summa rende ancora più provocatorio e dirompente attraverso il paradosso della sostituzione del personaggio di Madame con un fantoccio a grandezza naturale, costruito dallo stesso regista.

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È il caso di Dario Fo… Si inserisce qui, da parte mia, una testimonianza diretta risalente all’ultimo trimestre del 2011. Sotto la guida di Pierangelo Summa, mia figlia Gabriella ha interpretato la parte di Maria in «Una donna sola» di Dario Fo al teatro dei Déchargeurs a Parigi. Personalmente, con l’aiuto artistico e manuale di mio figlio Paolo, ho partecipato anch’io a questa esperienza, realizzando alla bell’e meglio, secondo le benevole ma chiare indicazioni di Pierangelo, i modestissimi decori da lui concepiti : due o tre cornici dipinte di rosso, una specie di «quadro svedese» da collocare sul fondo, uno sgabello, un telefono grigio e una pistola giocattolo. Tutto ciò è stato più che sufficiente…
Non potrò mai dimenticare la voce di Pierangelo né il suo intendo sguardo blu-celeste (Piero era forse un Angelo?), capace di ascoltare gli altri, il suo coraggio dissimulato da una continua ironia e autoironia.
Già allora Pierangelo Summa combatteva con il Parkinson, questo male che si serve di un nome quasi divertente e invece, purtroppo, è una delle più terribili torture che possano capitare a un essere umano.
Durante lo spettacolo di Gabriella, che fu coronato da un certo successo di pubblico e di critica, Pierangelo era sempre presente, attento, a volte severo, ma sempre sorridente. Avevamo fatto amicizia, lui disse anche una volta, forse in ragione della vicinanza d’età, che per lui ero un fratello. Ma lui si era molto affezionato soprattutto a Gabriella e a Paolo.
Dopo lo spettacolo, per i tanti stupidi doveri che ci sembrano importanti, e anche per l’insorgere di preoccupazioni e dolori familiari, ci perdemmo di vista.

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Andammo con tutta la famiglia a trovare Pierangelo e Mirella Summa verso la fine del 2014. Fummo tutti felici di incontrarci, commossi e contrariati vedendo sul volto sereno e indomito di quest’uomo generoso le tracce evidenti dell’aggravamento del suo stato. Nonostante la fatica e l’emozione, Pierangelo disse una parola affettuosa ad ognuno di noi. Riuscimmo perfino a brindare all’italiana e a «incontrare» via Skype sua figlia Sara, in quel momento a Berlino
Poi Mirella si prese il carico di parlare per tutti, raccontandoci tutto quello che era successo, trasmettendoci contemporaneamente, e fedelmente, quello che Pierangelo, ne sono sicuro, avrebbe voluto dire egli stesso. Mirella parlò del calvario che suo marito stava subendo, ma anche le straordinarie attività artistiche che egli aveva saputo portare a termine, con la complicità della figlia Sarà, che aveva del resto splendidamente recitato negli ultimi drammi da lui creati e/o diretti, aiutandolo anche in un altro progetto più importante, lanciato verso il futuro: Pierangelo Summa non rinunciava a trasmettere, fino all’ultimo, il suo sapere coraggioso.

Il 2015 è stato un anno spaventoso per tutti. Ma è stato particolarmente terribile per Pierangelo Summa, reso sempre più debole dalla malattia che gli rendeva sempre più difficile il mangiare e il bere.
Ho avuto perfino l’impressione che le istituzioni ospedaliere lo abbiano «lasciato morire». Fino all’ultimo, questo povero corpo così difficile da dirigere e governare, avrebbe voluto vivere in pace, mentre la sua povera anima sensibile non avrebbe desiderato che le cure normali che si adottano per combattere la febbre, la fame e la sete.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

In una delle sue ultime degenze in un ospedale parigino, il famoso «protocollo» che si stabilisce per «evitare cure eccessive o inutili» si era tradotto in una frase significativa che compariva sulla sua cartella clinica: «il paziente Pierangelo Summa non parla in francese». Un falso che serviva da pretesto per non dare al malato, tra l’altro, una qualsivoglia assistenza psicologica.
Un tale atteggiamento corrisponde forse a una delle tante prevenzioni ancestrali che non si possono discutere, come le tradizioni orali o i proverbi. Un luogo comune come quello di mettere insieme due italiani nella stessa stanza dando per scontato che saranno subito amici e si aiuteranno a vicenda. (Laddove la mia amicizia ricambiata con Pierangelo, per esempio, è senza dubbio un’eccezione alla regola che dice l’esatto contrario…)
Pierangelo Summa viveva a Parigi da più di trent’anni, una città che amava e conosceva bene già prima della definitiva installazione. Dunque, quando la recalcitrante psicologa, trascinata da Mirella, si recò al suo capezzale e gli disse:
— Di cosa ha bisogno, signor Summa?
Pierangelo aveva subito risposto, in perfetto francese:
— Vorrei che qualcuno mi aiuti a venire a patti con questo cervello che se ne va per conto suo…
Si può essere tutti d’accordo contro il cosiddetto «accanimento terapeutico», ma senza rinunciare a quel minimo di «umanità» che fa la differenza: a volte basterebbe molto poco.

« Pierangelo Summa, scultore di maschere e di marionette e regista teatrale, ha chiuso gli occhi mercoledì 15 luglio 2015 — scrive Sara Summa, la figli primogenita, attrice e regista teatrale —. Quelli che l’hanno conosciuto sanno che, leggero ormai come l’aria, egli resta con noi per sempre, per tutto quello che ci ha trasmesso e perché siamo tutti impregnati da quella forza creatrice che lo ha sempre animato. »

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Pierangelo Summa con Gabriella Merloni, Parigi, 2011

Pensando ora a questo amico che ha tanto sofferto, resto esterrefatto al ricordo delle marionette a dimensione umana di Pierangelo Summa che ho visto nelle «Bonnes» di Jean Gênet e poi nell’«Edipo Re» di Sofocle del 2012. Quelle maschere «molli» o smidollate, che non erano fatte per stare in piedi come delle statue, ma per essere trascinate, abbracciate, malmenate, aggrappate a un chiodo o addossate a una spalliera… quelle maschere nate per contestare, rivoltare il senso scontato delle cose, erano, senza che lui lo sapesse fino in fondo, un presagio di quello che sarebbe, alla fine, capitato al suo corpo. Il suo corpo un dì sano e scattante sarebbe diventato sempre più dispettoso e incontrollabile col progredire della malattia.
Metaforicamente, egli stesso si sarebbe trasformato, suo malgrado, in uno dei suoi «pupazzi umani». Mentre la sua mente, fortunatamente per lui e tutti quelli che lo amavano, sarebbe restata sempre lucida, serena, attenta fino all’ultimo a cogliere ogni attimo di questa meravigliosa cosa che si chiama Vita.
Se dunque questo «vero artista» è stato colpito in quello che aveva più caro è necessario per il suo lavoro di artigiano e di maestro — il suo corpo, che gli era servito per tutta la vita a «insegnare» agli attori e alle stesse marionette come interpretare, «al rovescio», il mistero della rappresentazione teatrale — non si può non constatare che la sua intelligenza, intatta fino alla fine, ha saputo in un certo senso «prendersi gioco» del corpo stesso, invertendo per una volta la procedura da lui stesso creata per il suo straordinario «anti-teatro dal volto umano».

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Mirella Summa, Théâtre des Déchargeurs, 2011

Nel mese di novembre 2015, Mirella Summa ha «riportato» Pierangelo, simbolicamente, prima sulle rive del lago di Como — dove sono accorsi tutti i parenti e gli amici della Lombardia, compresi gli attori e le comparse di Isola Dovarese, per salutare in un clima festoso il sorriso di quest’uomo straordinario con una carovana in maschera — poi sulle montagne di Casalvieri, dove tutti gli amici italiani e francesi hanno ricordato la sua voce indimenticabile con la recita di un estratto dei «Giganti della montagna» di Luigi Pirandello, rielaborato in modo originale da Mirella Summa.

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Ora noi, commossi e smarriti per la perdita di un amico e di un maestro — che aveva il sorriso noncurante e lo sguardo penetrante di una guida ispirata, come il Gesù che rideva dei propri miracoli del «Vangelo secondo Gesù» di José Saramago —, ci sentiamo particolarmente tristi per la consapevolezza che avremmo seguito Pierangelo anche in capo al mondo, con fiducia e innocente complicità, mentre questo «cammino affascinante» è stato, invece, bruscamente interrotto.
Che fare, allora? Non ci resta che adoperarci perché l’immenso e delicato lavoro di creazione e di riflessione di Pierangelo Summa sia raccolto, protetto, studiato, riprodotto e divulgato a tutti i giovani che vorranno seguirne il cammino.

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Giovanni Merloni

TESTO IN FRANCESE

La calma del calamo fa sparire i rumori del mondo

25 vendredi Sep 2015

Posted by biscarrosse2012 in recensioni e dibattiti, ritratti

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Ghani Alani, Parigi

001_alani 06 (1) 180La calma del calamo fa sparire i rumori del mondo

In occasione di una nuova visita a Ghani Alani, sono rimasto circa mezz’ora a osservarlo mentre lavorava. Come se assistessi, dall’alto di un promontorio, alla traversata di una barca che avanzasse lenta e calma nell’acqua ferma e tiepida del Mediterraneo al crepuscolo. Oppure ai gesti sicuri di Robin Hood (o di Guglielmo Tell) nell’atto di tirare la corda dell’arco contro il petto, prima di lasciar partire la freccia, dando già per scontato che questa colpirà proprio nel centro del bersaglio lontano, invisibile per le persone normali. Affascinato dall’alternanza del calamo e del pennello, io mi sono a lungo interrogato sul sesso dei nomi che diamo alle cose. Per esempio, calamo è maschile, mentre penna è femminile. Il calamo, che si fabbrica tagliando le canne, per assolvere alla sua missione ha bisogno della sua cavità naturale interna, creata dalla natura stessa per farvi colare l’inchiostro, anch’esso maschile. D’altra parte, avendo la punta tagliata sulla diagonale, il calamo somiglia a un flauto (mentre in francese il « roseau » (canna) è maschile e l' »encre » (inchiostro) è femminile…

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Mentre Ghani Alani lasciava scivolare l’inchiostro lungo i solchi invisibili che la sua anima creatrice aveva tracciato idealmente sotto la grande pagina, mi sono divertito a raggruppare da una parte i « maschi » e dall’altra le « femmine che entrano un gioco durante queste traversate minuziose o di punto in bianco brusche e vitali. Il calamo, il pennello, il flauto e l’inchiostro e il foglio di carta aerano uomini (o ragazzi) dell’atelier di calligrafia di Ghani Alani, mentre la pergamena e la pagina erano le « donne » (o le ragazze).
Mi sono allora ricordato du una vecchia disputa filosofica di circa quidici anni fa, a Roma, tra me il maestro Alvaro Vatri, all’epoca della preparazione di une mostra e du uno spettacolo per festeggiare i duemila e passa anni di ponte Milvio, un ponte romano vecchio quasi quanto la città di Roma, cosiddetta « eterna » : « Tra il ponte e il fiume, chi è l’uomo ? ci domandavamo. Chi è la donna ?
Qui, la pagina, cioè la pergamena potrebbe identificarsi col fiume, mentre il calamo-pennello, tutt’uno con la mano e il gesto creatore, sarebbe il ponte. L’inchiostro o il colore chi cola dal calamo alla pagina, senza mai sconfinare, potrebbe essere invece l’acqua del fiume che torna al fiume stesso, come se la ruota di un mulino le imponesse delle capriole continue…
D’altronde, è proprio Ghani Alani chi lo dice : “non ci sarebbe la notte se non ci fosse il giorno ; non ci sarebbe la vita se non ci fosse la morte e finalmente non ci sarebbe l’uomo se non ci fosse la donna”.
La calligrafia rappresenta, dunque, soprattutto un atto d’amore, un abbraccio più o meno prolungato, un incontro d’amore dove tutto si confonde in uno scambio carnale e sublime. La pagina diventa calamo, l’inchiostro diventa pennello. L’uomo diventa donna…

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Prima di salutarci, Ghani Alani mi ha dato da leggere una poesia, in francese, col permesso di pubblicarla qui sotto, dopo averla tradotta in italiano.

Giovanni Merloni

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La lettera scaturita dal mio calamo è un’innamorata

Il calamo con cui lei scrive è la sua stessa immagine
Dolce alla carezza, armoniosa allo sguardo
Il nero dei suoi occhi, piangendo, fa sorridere le pagine del destino.

Dalle sue labbra, cola la linfa o il veleno, lo spirito del suo innamorato.
Lei non ha altro maestro che quello che l’ha scolpita
Col suo soffio, lei a volte è il flauto e a volte la penna.
Conquistatrice dello spazio per volere dello scrittore,
Lei è nata sulla riva del fiume:
Così ha potuto afferrare la melodia dell’usignolo.
Stretta alla mano del suo signore
Di questo mondo può tutto possedere.

Lei ricama con la notte i vestiti del giorno.
Se comincia a parlare, lei non lascia alcuna chance a un parlatore;
Muta quando è in riposo, diventa l’eloquenza in persona quando entra in azione.
Lei non si prosterna mai, tranne che in fondo alla nicchia della pagina amorosa;
Lei non carezza che la pelle dolce della pergamena;
Lei può disperdere le armate, ma può anche riunire le truppe della pace;
Lei non si disseta che inebriandosi all’acquasantiera dell’inchiostro per calmare così la sete di intelligenza.
Il liquore della sua bocca è la rugiada delle praterie della pagina;
A volte, lei ne diventa il torrente furioso.
Io la sento canticchiare, descrivendo le sue gioie e le sue infelicità.

« Sono stata innaffiata e cantata
E oggi, io innaffio, io canto.
E scrivo anche in bella calligrafia;
Mi chiamano canna
Per alcuni io sono la felicità;
Ed è una mano che mi fa cantare. »

Le sue lacrime sconfinano riempiendo le pagine
I suoi occhi scoccano frecce che arrivano al cuore degli innamorati;
Sotto i suoi denti lo spirito degli uomini si curva.
Una volta, l’ho sentita paragonarsi alla spada e dire

« Mentre io uccido senza versare alcun sangue
Tu, invece, massacri seminando la desolazione. »

Ghani Alani
(traduzione in italiano : Giovanni Merloni)

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La lettre de mon calame est une amoureuse

Elle écrit avec un calame qui n’est autre que son image
Douce à la caresse, harmonieuse au regard
La noirceur de ses yeux, en pleurant, fait sourire les pages du destin.

De ses lèvres, coule la sève ou le poison, l’esprit de son amoureux.
Elle n’a d’autre maître que celui qui l’a sculptée
De son souffle, tantôt elle est le ney, tantôt elle est la plume.
Conquérante de l’espace par la pensée de l’écrivain,
Elle est née sur la rive du fleuve :
C’est ainsi qu’elle a capté la mélodie du rossignol.
Enlacée à la main de son seigneur
Elle peut tout posséder de ce monde.

Elle brode avec la nuit les habits du jour.
Qu’elle commence à parler, elle ne laisse aucune chance à un parleur ;
Muette quand elle est au repos, elle est l’éloquence même lorsqu’elle est en action.
Elle ne s’est jamais prosternée qu’au sein du mihrab de la page amoureuse ;
Elle ne caresse que la peau douce du parchemin ;
Elle peut disperser les armées, comme elle peut réunir les troupes de la paix ;
Elle ne se désaltère qu’en s’enivrant au bénitier de l’encre pour apaiser ainsi la soif d’entendement.
La liqueur de sa bouche est la rosée des prairies de la page ;
Parfois, elle en est le torrent furieux.
Je l’entends chantonner, décrivant ses joies et ses malheurs.

« J’ai été arrosée et chantée
Et aujourd’hui, j’arrose, je chante.
Et même je calligraphie ;
On m’appelle roseau
Je suis le bonheur pour certains ;
On me fait chanter de la main. »

Ses larmes débordent pour remplir les pages
Ses yeux décochent des flèches qui atteignent le cœur des amoureux ;
Elle courbe l’esprit des hommes sous ses dents.
Une fois, je l’ai entendue se comparer à l’épée en disant

« Moi, je tue sans verser le sang
Et toi, tu massacres en semant la désolation. »

Ghani Alani006_alani 09 (1) 180Questo blog è protetto dal ©Copyright

TESTO IN FRANCESE

Una cronaca per Gramsci, la poesia di Mario Quattrucci

27 dimanche Avr 2014

Posted by giovannimerloni in recensioni e dibattiti, ritratti

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Antonio Gramsci, Mario Quattrucci, Pier Paolo Pasolini, Roma

Introduco oggi, per la prima volta nel mio « panorama poetico », un poeta italiano, Mario Quattrucci.
Un personnaggio che « viene da lontano », sia come artista (egli è anche pittore) e poeta-scrittore, sia come uomo politico che ha ricoperto incarichi importanti nella pubblica amministrazione e nell’ex partito comunista a Roma e nel Lazio.
Da molti anni lontano dalla politica attiva, soprattutto dopo il suo trasferimento a Fiano Romano, Quattrucci si è dedicato interamente alla scrittura e alla vita letteraria, dando vita a una vasta serie di iniziative, tra cui il Premio letterario Feronia — con Stefano Paladini e il compianto Filippo Bettini —, diventato col tempo una importante occasione di incontro e diffusione della poesia e della letteratura italiana, con una significativa apertura per gli autori stranieri.
Devo la conoscenza e l’amicizia di Mario Quattrucci a un amico comune, Angelo Zaccardini, recentemente scomparso, che frequentavo all’epoca della libera professione per questioni urbanistiche nel comune di Capena, vicinissimo a quello di Fiano. Zaccardini mi propose un giorno di incontrare « il poeta ». Nel suo modo di dire « il poeta » c’era certamente una stima grande e sincera per l’amico Mario. Ma c’era anche una sfumatura di ironia piena d’affetto.
Mario Quattrucci ama la Francia. Questo amore appare evidente se si considera il nome e le abitudini del suo personaggio più illustre, il commissario Maré, che anima una serie di romanzi polizieschi molto seguita.
Per fare conoscere ai lettori francesi il poeta, ma anche l’uomo in tutte le sue molteplici sfaccettature, ho scelto, tra le numerose opere in versi di Mario Quattrucci, lette in diverse epoche, un testo molto originale e in qualche modo unico nell’ambito del suo lavoro.
« Una cronaca’ per Antonio Gramsci non è soltanto un bellissimo poema-epopea. È anche la testimonianza di chi ha vissuto drammaticamente, e dall’interno, l’alterna inflenza del pensiero di Gramsci sulla vita politica italiana. Come Pasolini — che si rivolgeva a Gramsci per reinterpretare la società italiana negli anni sessanta-inizio settanta —, Quattrucci si interroga sul destino dell’immenso patrimonio rappresentato dalla sinistra italiana, ora in via di dissoluzione, di cui Gramsci era il simbolo e il principale « fondatore » (oltreché il più rispettato). Un patrimonio che riguarda almeno tre generazioni di uomini e donne che hanno creduto nel socialismo sempre lottando per difendere la giovane democrazia e le istituzioni repubblicane nel nostro paese.

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Mario Quattrucci

UNA CRONACA, per A. G.

(Un poemetto in forma di prosa, lo ha definito il suo autore. Poggiato su un ritmo da dolente meditazione, eppure celato, spezzato, perfino negato, da ricorrenti inversioni, soprassalti, cesure, dissonanze sintattiche e armoniche. Come era richiesto, o così fu inteso, dalla dolorosa e faticosa riflessione sulle tragiche nostre aporie: nostre individuali, nostre della nostra storia comune.)

Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età,
perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini,
quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo
in quanto si uniscono tra loro in società
e lavorano e lottano e migliorano se stessi
non può non piacerti più di ogni cosa.
Ma è così?

Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, CCXIII, (a Delio)

002_gramsci_fond nenni 480 I
[ancòra]
solo ciò che perdura. (e qui il crepuscolo che invioletta
i vetri? il cielo che si ripiega a stingere
il rosso delle mura?). ma non risuona (più ─ ancora)
la frattura il battito. tornano dopo un’era i nomi
i rumori dei passi tutto è fuori
della definizione cieco alla teoria perso nel bollore
della vita. e sia (se poi la vita è un ardere). ma nulla
s’infutura se la scure al ceppo alla radice
e multipla non si pone la distesa mano
se non misuri il meno il senza il divenuto
inutile lo sguardo perso nello specchio
o il pianto riversato: assilla la domanda inquieta.
inutile il sussurro rapido di labbra
nei consessi né i gridi né torna il verso
del concetto nudo stilo dell’intelletto pratico
prodotto dell’uno analizzante e del plurale moto.

solo ciò che perdura. opporre al dato nuova negazione
e norma che sa la negazione forma
che è necessità ma non bastante
(l’essenza è nell’insieme dei rapporti eccetera…)
ed invariante in tempi di rovesci. mercificati.

solo ciò che perdura. ed un pensare acuto
che torni a interpretarlo questo astuto mondo
e con pazienza ancora grado a grado
il movimento in re che gli ordini trasmuta.

003_Gramsci giustizia e libertà 480 II
[il prigioniero]
ma lui
che poteva sapere adesso immaginare (il tempo
fermato il tempo precipitato) oltre la bocca di lupo
nei riquadri stretti della luce barrata
che poteva udire (il tempo senza futuro senza passato)
del brusio delle sere che poteva di là
da quel bianco dei muri? solo
tetti assiepati stretti riverbero screziato o forse
anche un fiotto di mare anche un verde
di memoria ─ olivi (il tempo solo memoria) pascoli
carrubi ─ o forse solo
uno squincio muro perenne anch’esso bianco
di calcinata luce meridionale.

spazio di metri due per tre una branda una
panchetta di legno e il male gli sgretolava le ossa
i denti perforava i polmoni il gelo tenebroso
di quegli anni di quel mondo così terribile e grande
il gelo (il tempo rovesciato) di sapersi escluso eppure:
io penso che la storia ti piace come piaceva a me

004_gramsci orgosolo iPhoto 480Murales di Orgosolo, foto Catherine Develotte

III
[falsa progressione]
la nostra storia. dicono di città
che attraversammo il sapido del secolo le notti
laboriose i giorni così abbaglianti attese
della grand soirée dell’unico
fiato liberatorio scarlatti pomeriggi a quel sicuro
vento forti i muscoli rifiorenti le guance
smemorati del sangue dell’inganno persi
anche noi nel bosco (d’iniquità di sogni) ma come
dove tenevamo le sue parole la sua vista
spinta così per tempo oltre l’insania
di una pietosa religiosa norma?
perché non in tutto e solo dall’aperto lato solo
per necessità dell’agire condizione intuito?
e fu un bene per noi salute
per noi per tutti anni fecondati ma anche
quanti mai decenni quante innecessarie cadute
perdite e ora nel rovello (religio depopulata)
lo ritrovammo? lo ritroviamo? quasi un occulto
tempio un drappo lacerato.

005_lettere dal carcere 480 IV
[l’incontro]
da poco nato quando lui nel giorno
fangoso lui disfatto senza nessuno a un’ombra
fredda di muraglioni umida celato quando
quando l’avrei incontrato? e come? ed era
in qualche luogo scritto?
non lui persona il suo figliolo musicista un giorno
il suo fratello sopravvissuto quale colpo
volti così evocanti così simili l’uno
a quell’immagine vanescente di lontana
persa consorte l’altro a lui come appare
in quella foto di Formia quale
insostenibile stretta attorno ai polsi alle tempie.

ma lui per altra via per uso di parole per quelle
lettere quei quaderni ardenti brulicanti
a segnare la vita a volgerla in un solo
verso questa mia insignificante esistenza eppure
un po’ significante anche lei a ragione di quelle
sue così forti ragioni così immensi pensieri.

006_Gramsci_Pasolini 480 V
[frantumi]
come furono gli anni? ora so che è un’altra
l’aspra contraddizione altra
dove scendemmo per misurare immagini
o salimmo dove ci conobbero i giorni. ora
so la frattura e sebbene con lui con lui nel cuore
in luce ed anche (come fu) con lui nelle buie viscere
so. ma anche il non sapere è esistere
qui dove ascende (sordo) il tramestio dei vivi
persi feroci (o spenti) nell’ascesa e dove lei
la classe meno apprende e si scompone e solo
a sé offesa smemorata attende. sola
nella spietata grascia di città che montano
s’intorbida con l’aria l’occhio si frantuma
la sua secolare coscienza.

è il mondo che in frantumi in vortice ci sfugge
quanto più cercammo delle cose un senso
unico quanto più credemmo a un fine volto
al regno (spento alla fine il regno
della necessità) nuovo dell’uomo volto
per storia ineluttabile il mondo. né sento
che l’attesa potrà mai più rendermi (e rendere)
una vigilia il fioco apprendersi d’un barlume.
e non per una loro finis historiae o per la quiete
candida del mondo: ma perché ferrigno
con spigoli di pena passa il mille
novecento novantuno e vanno
precipitano insieme col millennio
gli anni.

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VI
[la flagellazione] (1)
convenerunt in unum.   e da lì discosto
─ serrato in bianche architetture in ferree
prospettive vincoli solenni multipli
della ragione architettante al centro
del palazzo innanzi al trono indifferente
complice al mandante ignoto (ma
ne conosci le vesti il portamento) sotto
al braccio dell’idolo (proteso
l’ideologico braccio il globo nella mano)
da luce d’altra fonte illuminato ─ l’uomo:
il povero Cristo il flagellato irriso l’ecce
homo guardato sorvegliato a vista in spine
incoronato e sempre in ogni tempo figlio
del suo sociale umano ed istorico stato.

ma chi è qui in primo piano sul piano cioè
che primamente coglie il nostro
occhio contemporaneo il giovane sbiancato
di imminente morte chi è se un’immanente
morte lo tiene vanamente angelico e dotto
non sensibilmente veduto non presente
corporalmente e quasi ignudo
nella sua rozza tunica amaranto
scalzo come si addice a un’anima a una nuda
memoria a un richiamo d’affetti chi questo giovane in cui
malgrado le nostre rughe e gli anni così evidenti
del nostro corpo della nostra caduca mente
ci sentiamo ritratti tu io che guardiamo e tutti
noi che nascemmo in quel vicino mille
e ottocento quaranta o meglio quarantotto o forse
più verosimilmente nel mille novecento e ventuno
e dunque ancora sul limitar già tratti
a una storica morte tu io uno
qualunque di costoro che nascenza o scelta
ai flutti di ferro di passione nei marosi
e secche del secolo ventesimo gettarono?

non parla né sente non può intendere (se anche
ascolta seppure attende
che scenda ancora da parole un chiaro
un fiotto di futuro) è solo è bianco nel suo puro
esserci non essente (un mito) al centro
dei gravi convenuti.
l’altro a sinistra il saggio in abiti solenni
invita: dirumpamus vincula ma guarda
grave fisso anche lui nel punto che oltre il tempo
fuori da quel suo spazio (e nostro) si raggruma

000_Piero,_flagellazione_recadrée 480

VII
[da ciò che in noi]
ma siamo in questo luogo, in questo tempo, qui
la nostra vita ha un senso: qui dunque l’animo
di nuovo ad ascoltare, a intendere, a quella
fatica che ogni pianta richiede.   e ancora
─ e anche se lo grava il tormento di sotto ─
ancora, qui, da ciò che in noi perdura,
ricominciare.

Mario Quattrucci

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Il Secolo Breve moriva. Nel 1991, precisamente. Quando l’alternativa storica cedeva e anzi ignominiosamente crollava. Dopo la caduta del Muro il dissolvimento dell’URSS. E lì, e in tutto l’Est, la restaurazione feroce del più selvaggio capitalismo finanziario.
Chi, dal 1956 in poi, rimanendo nell’alveo della Rivoluzione d’Ottobre, e in Italia nel Partito Comunista, aveva sperato in, e lottato per, una nuova rivoluzione democratica e socialista la quale, abbattuto lo stalinismo, ne superasse in un tempo non secolare, un tempo di decenni, le conseguenze storiche sociali e politiche; chi aveva sperato in, e lottato per, la ripresa del cammino verso quella nuova organizzazione della società e quel nuovo mondo di libertà e di giustizia di cui erano le premesse nel grande evento del ’17; chi aveva sperato in, e lottato perché la storia potesse ricevere una nuova spinta propulsiva; quegli ostinati marxisti gramsciani (benché sempre animati brechtianamente dal dubbio) che noi eravamo stati e ancora eravamo, apprendevano (senza più dubbi) non essere il loro che un sogno. O, se si preferisce, un’eroica disperata speranza.
Complice il tempo, l’umano tempo della vita personale che scorre e volge al suo compimento, alla generazione che aveva retto con tenaci certezze ai tragici marosi e alle feroci ragioni di fedi feroci del secolo grande e terribile, non restava che prendere atto della catastrofe e darsi ragione, una qualche lancinante ragione, di come sparisse nel vortice aperto dalla sconfitta il sogno e l’attesa di una vigilia… e perfino l’apprendersi di un pur fioco barlume.
Ripensare Gramsci, o meglio riandare all’incontro con Gramsci, diveniva allora il modo per rivelare a se stessi l’errore, il vizio assurdo, le ragioni della sconfitta storica che si stava compiendo. E, allo stesso tempo, rivalutare e rivendicare a ragione la propria non insignificante esistenza fatta di lotta ideale e sociale, e di prassi politica, nel segno di Marx e di Gramsci. E, forse, mutato ciò che andava mutato, il perdurante valore di quella filosofia della prassi.
Per giungere alla necessità ─ posta l’insuperata, anzi smisuratamente maggiore, iniquità del mondo sotto il globale dominio del capitalismo finanziario ─ di riprendere l’analisi e, da ciò che perdura, ricominciare la lotta, ridare vita al movimento. Per abolire lo stato di cose presente? Ma non è questa, fuori da ogni abiura di debole pensiero, secondo il suo fondatore, la sostanza del socialismo e la sua necessità?
Speranza contro ogni speranza? Può darsi. Ma noi per speranza non abbiamo che il fare: né la pur umana paura può indurci a gridare Elì, Elì, lemà sabactàni.

Mario Quattrucci

(1) La flagellazione, si rifà al capolavoro di Piero della Francesca che è nel Palazzo di Urbino, allegoricamente letto alla luce delle scoperte e interpretazioni che ne dà Carlo Ginzburg in Indagini su Piero.

Traduzione di questo articolo in FRANCESE

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première publication et Dernière modification 27 avril 2014

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Ritratti incoscienti

15 mardi Jan 2013

Posted by giovannimerloni in ritratti

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Foto : Collezione Fratelli Merloni. Riproduzione vietata

Ritratti incoscienti

Ho da poco tempo avviato un nuovo ciclo di scrittura e lettura libera, che ancora non so bene come definire.
Ho tuttavia delle buone ragioni per dedicarmi a questa nuova esperienza, per quanto essa possa profilarsi vaga e terribile. Tra le queste ragioni c’è soprattutto la necessità, che non posso più rinviare, in qualità di scrittore e lettore allo stesso tempo, di prendere posizione nei confronti dei differenti partiti che si stanno formando sul tema della letteratura su supporto informatico.
A questa sfida senza precedenti si lega la constatazione che questa rivoluzione, per lo più positiva, rimette in discusssione il modo stesso di produrre la pagina scritta, virtuale o fisica che sia.
E sono ben consapevole che la questione non riguarda, se non marginalmente, l’abbandono di ogni sorta di matita, penna biro o di Olivetti lettera 22. Scrivo al computer dal 1985, ma vedo che questa rottura, che aveva già modificato, in profondità, ogni tipo di trasmissione di testi, documenti e immagini, coinvolge ora prepotentemente il mondo dei libri, producendo dei traumatismi tanto inevitabili quanto irreversibili in contesti particolarmente sensibili come la poesia e il romanzo.
Nell’immediato futuro ciò arrecherà una vera e propria mutazione nel modo di intendere la letteratura e i libri. Lo scrittore deve raccogliere dunque una sfida al suo stesso modo di esprimersi e di comunicare, che inevitabilmente investe la sua responsabilità estetica, morale e politica di fronte a tutto ciò che questo cambiamento porta con sé.
Appartengo alla generazione di quelli che avevano circa vent’anni nel 1968. Questo anno, in Italia come in Francia, non ha soltanto rappresentato una svolta nella visione dei costumi e della politica. Fu allora che si compì il primo passo verso la cosidetta globalizzazione.
Quell’anno là, soggettivamente, ognuno di quelli che, come me, erano a metà percorso universitario, si è trovato di punto in bianco costretto a rimettere tutto in discussione. Si trattava, certo, di fughe in avanti, di illusioni ed anche di megalomanie per cui si sono poi pagati dei prezzi enormi. Ma non c’è alcun dubbio che i nostri cervelli dovevano « farsi carico » di ripensare la vita a una velocità vertiginosa. A posteriori, abbiamo tutto il diritto di ricordare questa « epoca » come un momento di grande speranza e di diffusa e palpabile gioia di vivere.
Tuttavia, non si può dimenticare la sotterranea angoscia di fronte al vecchio mondo che crollava (seriamente e/o per finta). Al suo posto, un nuovo mondo di parole, di comportamenti e di regole sembrava prendesse il sopravvento. Una specie di « tabula rasa » si metteva in moto, condita di nuove parole d’ordine e nuove gerarchie di valori. Una vera e propria onda rivoluzionaria, ineluttabile e alla fine dei conti positiva, che però, al suo passaggio, ha travolto ogni cosa.
D’altronde non posso eviitare di raccontare che allora, nel maggio 1968, nella facoltà di Architettura occupata, osai prendere la parola per proporre quella che io chiamavo allora, certo ingenuamente, una «battaglia di retroguardia». Avevamo allora, forse, la possibilità reale di imporre alcune riforme, avevamo certamente la chance di migliorare i nostri piani di studio e il nostro inserimento successivo nel mondo del lavoro. Non potei nemmeno concludere il mio intervento : bisognava «avanzare nella lotta», transformare il «movimento studentesco» in «movimento politico».
Bisognerebbe inquadrare e analizzare meglio questa esperienza e l’episodio lontano che ho appena citato, in funzione di quello che è successo poi in Europa e nel mondo. Basterebbe ricordarsi : di Praga; del papa polacco; della caduta del muro di Berlino e del crollo del sistema sovietico; della vera o presunta crisi delle ideologie; del contrasto tra la globalizzazione e i nuovi separatismi; dell’indebolimento del principio di laicità in un numero crescente di nazioni; della crisi finanziaria, espressione evidente di una nuova forma di capitalismo senza fabbriche e senza uffici, eccetera.
Non è questo il fine di questo nuovo blog né, evidentemente, del suo titolo, «Il ritratto incosciente». Ma non voglio nascondermi «dietro un dito», come si diceva all’epoca di Marcuse e della «idéologie della felicità». Tutto è politica, e io non potrò sottrarmi, se necessario, a qualche giudizio politico e/o morale, magari implicito.
Mi sono avventurato in questo  «flash back», che spero mi si perdonerà, perché trovo ci sia una impressionnante somiglianza tra la «piccola» rivoluzione del 1968 e la grande mutazione cerebrale e fisica che le nuove tecnologie informatiche ci impongono oggi.
Ciò richiede a tutti coloro che si applicano alla scrittura e alla sua diffisione un’attenzione straordinaria, una disponibilità particolare per i diversi livelli, tempi, forme e formati dello sviluppo, produzione e riproduzione della scrittura stessa.
Fortunatamente, si possono incontrare dappertutto nel web — non solo in Francia, dove si riscontra una notevole attenzione ai cambiamenti prodotti dalla rivoluzione informatica — persone che se ne occupano da molto tempo e che sono piuttosto disponibili a trasferire a quelli che entrano in contatto con questa problematica, non solo ciò che hanno imparato, ma anche le loro preoccupazioni.
Considerando tutto ciò, non cederò alla tentazione di acquisire un’esperienza qualsivoglia in campi specialistici così vasti e complessi.
In questo blog in lingua italiana (http://ilritrattoincosciente.com), gemello dell’altro blog in lingua francese (http://leportraitinconscient.com), mi impegnerò in una « ricerca della misura », certo non facile. La ricerca, cioè, di un equilibrio esteticamente accettabile tra quello che  «può/potrà» lo scrittore e ciò che «vuole/vorrà» il lettore di oggi e di domani.
Mi esprimerò quindi, come preannuncia il titolo del blog, attraverso dei «ritratti». «Ritratti» che realizzerò all’insaputa dei personaggi coinvolti, che guarderò sempre al di là di uno specchio segreto. Là dietro, vi aspetto.

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première publication et Dernière modification 16 janvier 2013

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