Destinataria sconosciuta – Segni di sopravvivenza n.1

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«Vi auguro di rispettare le differenze degli altri,
Perché il merito e il valore di ciascuno sono spesso da scoprire.
Vi auguro di resistere all’insabbiamento, all’indifferenza
e alle virtù negative della nostra epoca…»
Jacques Brel

Nella mia mente incapace di reagire eppure affascinata dai misteri, si insinua ogni notte, ormai, la paura di dimenticare quello che ho appena capito nel bel mezzo del sogno: un sogno destinato peraltro a essere inesorabilmente cancellato.
Ci sarà sempre un interlocutore, un destinatario che condividerà le rivelazioni del mio viaggio nell’incoscienza e non dirà niente di quello che ha visto e capito standomi vicino.
Tuttavia, sapendo che lui conosce la spiegazione del mistero, gli affido il compito di aspettarmi là, vicino alla porta: quest’ombra travestita da essere umano mi aiuterà di certo nella penosa ricostruzione della mia splendida verità o allora della traballante trama dei miei sogni tenaci.
Stanotte agiva su di me il rimorso per aver subito passivamente la valanga dell’auto-rappresentazione reciproca, imposta, da Facebook e Whatsapp in particolare, ancora una volta in occasione della fine dell’anno: come fanno tutti, ormai, anch’io ho  inviato — prima a benevole persone di famiglia, poi ad interlocutori più sensibili e pronti a scattare, urtati magari dalla mia innocente vetrina di oggetti quotidiani — fotografie senza storia che per di più risentono, inevitabilmente, del peso dell’esistenza.
Per ogni ritratto, invece, bisognerebbe prepararsi in anticipo, oppure avere quella sicurezza innata e assoluta che permette, a chi ce l’ha, di “bucare lo schermo”: un talento che solo i grandi attori o i grandi impuniti sanno tenere in allenamento.
Dall’altra parte della macchina fotografica ci deve poi essere qualcuno che conosca a fondo l’arte di captare a nostra insaputa le nostre espressioni più fedeli. Se è per esempio Wim Wenders colui che ci spia ed “estrae” abilmente i tratti essenziali del nostro volto fuggitivo o assente, — assorto in pensieri definitivi oppure spaesato per l’assenza di vere riflessioni —, il nostro ritratto sarà efficace anche se l’immagine sarà sfuocata o mossa, o anche immersa in un chiaro-scuro portato alle estreme conseguenze dalla scelta di colori troppo accesi o brutali…

Care A* E* I* O* e U*,
Esattamente nove mesi dopo la mia ultima pubblicazione, comincio con voi un resoconto sotto forma di lettera, che sarà seguito da altri scritti similari, che saranno inviati di volta in volta ad ognuna di voi. Da voi mi aspetto la stessa indulgenza que in altre occasioni mi avete dimostrato, la stessa attenzione distratta che è stata sempre capace, anche da sola, di darmi la forza di portare avanti una simile avventura.
«Di che si tratta?» mi domandate. «Perché hai smesso così rudemente di darci del tu?»
Si tratta di rompere una spessa cappa di silenzio indurito, che ha assunto, col tempo, il carattere di altezzosa impenetrabilità di un Palazzo dei Papi dalle immense sale vuote, dove, da alcuni mesi — tranne i pochi addetti al controllo dei sistemi di sicurezza —, nessuno ha il diritto di avventurarsi.
Il mio racconto dei mesi appena trascorsi sarà inevitabilmente frammentario e incompleto. Innanzitutto perché non si può dire tutto e spiegare tutto. Io condivido poi, con tutti i mei corrispondenti, il silenzio di cristallo di questa interminabile battuta d’arresto, e ciò ha dato vita a une società sotterranea piuttosto orgogliosa dei suoi segreti. Infine, non è corretto lamentarsi, almeno fino a quando avremo la fortuna di sopravvivere: la cosa più importante in fin dei conti.
Ecco, mie care amiche, l’interstizio attraverso il quale osserverò d’ora in poi queste lunghe giornate di trepidazione e di solitudine passate e future: uno specchio di Alice che il mio isolamento personale e familiare non ha mai smesso di attraversare, generando abitudini, piccoli vizi, nostalgie e sogni.
Ed ecco una delle ragioni per cui mi rivolgo a voi cinque: tre di voi siete mie compatriote, voialtre due siete innamorate dell’Italia! Sta di fatto che al di là dei riquadri della mia finestra il viale parigino si lascia volentieri rimpiazzare dalle montagne e dalle acque che ci dividono gentilmente e senza scosse da quest’altro paese d’Europa colpito per primo dalla pandemia con una spaventosa concentrazione di lutti e di minacce che seminavano riguardarlo in modo esclusivo.
Grazie alla gratuità di “Free” e di “Wathsapp”, i miei rapporti con l’Italia sono molto cambiati rispetto agli anni precedenti: insieme alle telefonate, la corrispondenza affidata alle mail è da allora diventata la mia compagna quotidiana.
Se da una parte vivevo isolato in una Parigi trasfigurata, che mi diventava ancora più cara, i mille ponti virtuali, vocali o telepatici che mi raccordavano alle mie famiglie d’origine, mi obbligarono a mettere provvisoriamente da parte il mio francese d’elezione e riprendere con gran lena la mia lingua materna.
Con i miei corrispondenti — di Torino, Milano, Bologna, Genova, Perugia, Roma e Napoli — si parlava soprattutto della pandemia oppure dell’Europa durante e dopo la crisi sanitaria: «Chissà se l’Europa riuscirà a riavvicinare i paesi che la compongono; a valorizzare sul serio l’immenso patrimonio artistico prodotto nei secoli da ognuno di loro… Che ruolo avranno in essa le differenti lingue e culture letterarie?»
Per l’Italia, le tre circostanze combinate della pandemia, del Brexit e della caduta di Trump potrebbero cambiare le cose. D’altronde, l’ubriacatura mitologica e tecnologica del modello anglo-americano ha ormai toccato la vetta più alta: essa si relativizzerà davanti alla prospettiva, in Europa, d’un nuovo slancio socio-economico e culturale che non potrà trascurare la crescente domanda di uguaglianza e di giustizia sociale
Ma quanti anni o secoli dovremo aspettare prima che una solida cultura europea circoli veramente da un paese all’altro secondo il nobile principio dei vasi comunicanti?
Accanto all’ottimismo della volontà federativa bisogna riconoscere una qualche dignità al pessimismo della ragione quando si deve constatare che un tale travaso di risorse e patrimoni si verifica molto sporadicamente, anche meno che nel passato, tra Francia e Italia.
Uno dei simboli più rappresentativi degli scambi reciproci tra i nostri due paesi è il famoso Palatino, il treno di notte che ha avvicinato per decenni Roma a Parigi: protagonista tra l’altro di uno straordinario romanzo di Michel Butor —
“La modification” — questo fondamentale “link” è stato soppresso.
Nel criticare questa decisione — dovuta meno a un malinteso diplomatico che alle politiche ferroviarie dei due paesi che apparentemente decisero di abolire questa linea in funzione del progetto della rete internazionale  dell’Alta Velocità e del TGV francese, lungi dall’essere compiuta tra Torino e Lione come tra Genova e Nizza — ci si interroga anche sulle ragioni che fino ad oggi impediscono o comunque non favoriscono lo sviluppo, tra i miei due paesi, di scambi culturali effettivi, sistematici e non soltanto formali.
Storicamente, si può dire che la Francia ha vissuto fino in fondo sia il potere schiacciante dei Re sia quello sanguinario della Rivoluzione; mentre in Italia, dalla notte dei secoli, oltre alla costante presenza dei Papi, c’è stata sempre una vasta costellazione di Poteri in lotta tra di loro.
Questa differenza strutturale — geografica e storica — dà inevitabilmente luogo a due culture diversamente strutturate, per quanto riguarda la lingua, il patrimonio, i contenuti e le forme letterarie e artistiche che si sono via via imposte.
Se in Francia si assiste ad una certa rigidità e intransigenza nella difesa ad ogni costo della lingua nazionale, in Italia si è sempre riconosciuta l’importanza dei dialetti, considerati essi stessi come vere e proprie lingue. Basti ricordare il teatro veneziano di Carlo Goldoni (1707-1793), quello genovese di Gilberto Govi (1885-1966) e quello napoletano di Eduardo De Filippo (1900-1984): teatri e culture che nulla levano al prestigio dei poli culturali di Torino, Milano, Bologna, Roma come della Sicilia, dove i rispettivi dialetti sono anch’essi riconosciuti e valorizzati.
Questa ricchezza discende dall’estrema parcellizzazione geo-politica della nostra penisola fino all’unità nazionale, compiuta il 20 settembre 1870, cioè 150 anni fa, molto di recente, mentre l’unita della Francia può vantare almeno dieci secoli, se non vogliamo risalire a Carlo Magno… Bisogna poi considerare che in questo tempo così ridotto la nazione italiana ha subito, con le due guerre mondiali e il fascismo, un pesante rallentamento nella sua evoluzione economica, sociale e culturale che gli anni successivi alla Liberazione del 1945 non sono bastati a recuperare in modo soddisfacente.
In una delle prossime lettere, parlerò del ruolo della televisione nella profonda trasformazione culturale dell’Italia, caratterizzata tra l’altro da un fastidioso miscuglio di dialetti che rischiano di perdere la loro identità o se si vuole, da un gran calderone in cui la lingua italiana, contaminata dai dialetti e accresciuta dalla creatività dei popoli si alimenta sempre più di parole ed espressioni importate dalla lingua (soprattutto tecnologica) degli Stati Uniti.
In definitiva il diverso atteggiamento delle istituzioni culturali della Francia e dell’Italia riguardo alla lingua nazionale e ai dialetti è uno dei principali fattori di incomprensione tra francesi e italiani.

Una piccola traccia di una serie di malintesi “culturali” tra questi due “grandi popoli” la di può ritrovare nella diversa concezione della “comicità” nella scena teatrale e cinematografica in ciascuno dei due paesi.
Se si considera per esempio il mio entusiasmo e la mia ingenua disponibilità a stupirmi e ad ammirare senza limiti le cose “fatte a regola d’arte” à règle d’art”, in Italia sono considerato un sognatore che non ha capito niente della vita, mentre il Francia rischio di essere additato come un “tipo ridicolo” che ambisce a cose che non gli appartengono.
Recentemente, a breve distanza, ho avuto l’occasione di vedere due film in cui la figure del “borghese gentiluomo” era al centro della narrazione.
Questo personaggio mi ha fatto ricordare di un famoso film, precedente, in cui Yves Montand prendeva lezioni di teatro nella speranza di conquistare l’affascinante e inafferrabile Marilyn Monroe: in questa storia, risulta in po’ patetica la goffaggine dell’uomo ricco che prende inutilmente delle lezioni di naturalezza, anche se alla fine egli raggiunge il suo scopo.
Nelle interpretazioni del borghese gentiluomo, incarnato nel primo film da Michel Serrault e nel secondo da Fabrice Luchini, si arriva a capire, una volta per tutte, la nozione di “ridicolo” che il teatro e la vita di tutti i giorni, in Francia, ereditano dalla eterna “regola del gioco” che regnava alla corte del Re Sole e regna ancora oggi nelle piccole e grandi “nicchie” dove si esercita il potere, compreso quello culturale.
Nel borghese recitato da Michel Serrault (1968) il ridicolo risiede meno nella sua passione impossibile per la marchesa Dorimène che nella sua ambizione di essere considerato un gentiluomo. Nonostante le magnifiche invenzioni che Serrault aggiunge al personaggio di Molière con un’interpretazione surreale e auto-ironica —, il suo borghese gentiluomo cozza contro il muro del potere assoluto in un’epoca in cui la Rivoluzione è ancora molto lontana.
Nell’interpretazione di Luchini (2007), si assiste ad una situazione molto differente, che si potrebbe intitolar “la vera storia del borghese gentiluomo”. Salvato dalla prigione (dove languiva per i debiti accumulati) da un ricchissimo borghese, il giovane Molière è invitato a mettere in scena una commedia che costui aveva scritto senza averne l’ispirazione né le capacità. Sottraendosi all’obbligo della fedeltà assoluta al testo del grande drammaturgo del XVII secolo, la sceneggiatura di questo secondo film tiene conto del rovesciamento storico operato nella società francese dalla Rivoluzione francese (1789-1794). Dunque, se il borghese è ridicolo in tutto ciò che gli è fondamentalmente estraneo, la nobiltà spendacciona, anzi in rovina con cui egli cerca di imparentarsi è, anch’essa, scandalosa nella sua assoluta mancanza di spina dorsale.
Col tempo, la concezione italiana della comicità, molto complessa e diversificata, ha dato luogo, tra l’altro, ad un uso sempre meno sopportabile della derisione, pesante e spesso volgare, che spesso sottintende un’ammirazione servile e del tutto acritica dei vincenti, senza fare alcuna differenza tra le persone oneste e disoneste.
Sennò, in Italia come in Francia, pareti invalicabili separano i “popoli eletti” da coloro che restano fuori. E la commedia umana, di cui Molière è uno dei padri più illuminati, si traduce dappertutto in questo incredibile spreco di energie vitali che consiste nel far finta di credere o di non credere alle “regole del gioco” secondo le situazioni e le convenienze.

Nelle lettere che riceverete, sarà sviluppata una riflessione su questi temi, allo scopo di aggiungere qualche testimonianza al quotidiano dibattito culturale tra le nazioni-sorelle d’Europa e, in particolare tra la Francia e l’Italia.
Nella consapevolezza di poter superare, almeno a livello personale, ogni sentimento di frustrazione per le possibili incomprensioni tra le mie due patrie, ho deciso di riprendere le mie pubblicazioni sul “ritratto incosciente” : il rapporto con la lingua e la cultura francese è, per me, un rapporto d’amore da cui nessuno potrà distogliermi.

Giovanni Merloni

Testo in FRANCESE

Tira a campare (Diario di sbordo n. 11)

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Tira a campare 

Per mettere un punto, certo provvisorio, alle suggestioni che produce il me, in questi giorni, il ricordo della città di Napoli e della sua stretta parentela con Parigi, conservo nel mio diario :
— l’immagine poetica di questa città che mi ha mandato un caro amico napoletano. Guido Calenda, professore di Ingegneria Idraulica alla Terza Università di Roma, anche se ha lasciato Napoli giovanissimo, ne conserva un ricordo affascinante e molto efficace ;
— un estratto del « Ventre di Napoli » di Matilde Serao (1856-1927), in cui la scrittrice fa appello agli « uomini di buona volontà », quelli che fanno sempre la storia dalla parte del popolo e di tutti i « deboli » che hanno sempre riscosso la mia ammirazione più incondizionata ;
— il testo di una famosa canzone di Edoardo Bennato : « Tira a campare ».
Giovanni Merloni

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« Mi ha colpito la tua richiesta di parlarti di Napoli. La mia Napoli è una Napoli dell’infanzia ed è quindi ancora piena di mistero, di tetti che si scaglionano in ogni direzione e che sembravano costituire un modo a parte, di vicoli che finivano nell’ignoto, una villa (1) dove ancora si vedevano degli omini raccattare i mozziconi di sigarette usando un bastone con in cima uno spillo, estrarre il tabacco e venderlo, preparando mucchietti differenti per i vari tipi di tabacco, italiano, americano, il virginia inglese… di scugnizzi che viaggiavano attaccati al retro dei tram con grande invidia mia, cui ovviamente non era consentito. E poi l’economia stratificata, con gli appartamenti borgesi in alto e i bassi sotto, in cui si vedevano negozietti con sacchi di granaglie, la pasta sfusa, il venditore che ti chiamava da sotto, e dopo la contrattazione tra strada a finestra gridava alla fine “cala o panaro!”, e giù andava il cestino con qualche moneta e tornava su con il pane o la frutta o le cipolle… e, con la nonna, impastare la farina sul tavolo di marmo di una cucina enorme – tutto era enorme, in una vecchia casa dagli infiniti recessi: gli spazi, le stanze, i mobili, i tavoli che mi ricordo con gli occhi quasi al livello del piano. E poi le terrazze – ce n’erano due – per me mondi dove potevo spaziare – una con l’affaccio sul vicolo dell’Egiziaca, l’altro su Santa Lucia e Castel dell’Ovo e il porto e un mare senza limiti, e i transatlantici che conoscevo uno per uno, sparivano per qualche settimana o un mese e poi di nuovo eccoli lì familiari, immutati, e la flotta americana… E poi infine i negozi di giocattoli, per i quali ho ancora un’infinita nostalgia e sono ciò a cui più mi piacerebbe tornare con gli occhi di allora. Questa è ancora la Napoli della mia fantasia, ma anche se ci torno spesso, a parte le infinite differenze, quello che non trovo più sguardo di allora. Tutto è noto, i contorni sono definiti, la disposizione logica (perfino a Napoli!), l’orizzonte privo di incognite. Non ti posso raccontare la Napoli di oggi perché anche se mi è familiare non mi appartiene più. »
Guido Calenda

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« Che chiedo io, infine, per i miei fratelli del popolo napoletano, che chiedo io come tutti quelli che hannocuore, e anima, salvo che finisca l’oblio e l’abbandono? Che chiedo io, in nome dell’eguaglianza umana e cristiana, salvo che il popolo di laggiù sia trattato come tutti gli altri cittadini, abbia una casa, abbia della luce, nella notte, dell’acqua, della nettezza, della sorveglianza, sia guardato e protetto contro sè stesso e gli altri? Che chiedo, io, se non l’applicazione della legge umana e sociale, trattar quelli come si trattano gli altri, dar loro quel che spetta loro, come esseri viventi, come cittadini di una grande città? Faccia il suo dovere chiunque, non altro che il suo dovere, verso il popolo napoletano dei quattro grandi quartieri, faccia il suo dovere come lo fa altrove, lo faccia con scrupolo, lo faccia con coscienza e, ogni giorno, lentamente, costantemente, si andrà verso la soluzione del grande problema, senza milioni, senza società, senza intraprese, ogni giorno si andrà migliorando,
fino a chè tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, sol perchè, chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuranza, dall’inerzia, dall’ignavia e ha fatto quel che doveva. »

Matilde Serao, « Il ventre di Napoli « , Napoli, primavera 1904

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Tira a campare

Si è bella, lo so che è bella
è la mia città…
Si è stanca ed ammalata
e forse non vivrà…

Si lo so che va di male in peggio (Oui, je sais ça va de mal en pis)
si lo so qui è tutto un arrembaggio
qui si dice: tira a campare
tanto niente cambierà… si dice:

Tira a campare, non cambierà
tutto passa bene o male
ma per noi non cambierà… si dice:
Tira a campare…

Io che sono nato, io che ho vissuto
in mezzo a questa gente
io a volte straniero in queste strade
dove non funziona niente…

Si lo so l’avevo detto io stesso
che è sbagliato e che non è giusto
che si deve fare qualcosa
ma adesso tu non capirai, se dico:

Tira a campare, non capirai
pure io che son dottore
che ho fatto l’università, si dico:

Tira a campare, è meglio qua
qua almeno, bene o mâle
c’è ancora un po’ d’umanità…

E allora dico anch’io: Tira a campare
è meglio qua, tu che vuoi
tu che ne sai, tu che non ci hai vissuto mai
io dico: Tira a campare…
Edoardo Bennato

(1) Parco pubblico al centro di Napoli.

Un Napoletano a Parigi/2 (Diario di sbordo n. 10)

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001_alla-finestra-lebelSally Storch, immagine presa da un tweet de Laurence (@f_lebel)

Un Napoletano a Parigi/2

Prima di andare avanti bisognerebbe aprire un capitolo sulla « scaramanzia ». Quante volte, tu ed io, ci siamo chiesti se era il caso di invitare questo o quello, col solo pretesto della sfortuna. Senza contare la paura di certi personaggi dall’aria « contagiosa » :
— Quello è una specie di « Pasquale passa guai », ci trascina tutti nel suo baratro !
Ma poi ci tiravamo un po’ su con quella tipica storiella napoletana in cui succedevano fatti clamorosi a cui seguiva un’altalena di giudizi contraddittori :
« E chi ti dice che sia sfortuna ? »
« E chi ti dice che sia fortuna ? »
Ecco perché, ogni tanto, pur essendo diventato più cartesiano e scettico alla scuola di Voltaire e Diderot, io mi aggiro per il salone di rue de la Lune canticchiando, in modo che Anna mi senta, un ritornello inventato da me :
Non son sicuro che le tue venute
che mi prometti con sol due battute
sian proprio il meglio per la mia salute !
Forse sarebbe meglio ricevere una come te venuta dalla Danimarca. Alta, bionda, schietta, fedele a valori e abitudini sociali molto confortevoli. O una venuta dal Perù. Chissà perché penso che in Perù tutto avvenga in un modo speciale, leggero come l’aria dell’alta montagna di lassù. Oppure una di qui. Potrei parlarle dei « Fiori del male » e delle « Mura » di Parigi. Mi ascolterebbe, magari soltanto per vedere se metto gli accenti al punto giusto.
Ma durante le nostre traversate noi riusciremo infine a dare ai nostri passi un solo ritmo armonico ! Tu stessa constaterai che la storia di questi anni passati nella mia lontananza incosciente e fedifraga saranno più efficaci dei ricordi lasciati laggiù. Ma soprattutto andremo in giro per Parigi, e vedrai anche tu che le « promenades » che si fanno qui non sono molto diverse dalle « passeggiate » di una vita intera a Napoli.

003_banc-public« Un petit tour tout doux »,
texte et image empruntés à un tweet de Laurence (@f_lebel)

Io e Anna abbiamo imparato a eliminare tutto ciò che è superfluo, salvo i ricordi dell’Italia. Quelli, anche se non ci « azzeccano », come si dice a Napoli, rivestono sempre una certa importanza, anzi ne sono rivestiti. Per lei, si tratta soprattutto dei film di Antonioni e Bertolucci, mentre io conservo come un oracolo quelle due bottiglie per l’acqua e il vino che hanno la forma del re Ferdinando e di sua moglie… Sono delle copie senza valore che comprai con te — ti ricordi ? — in una bancarella fuori San Domenico… Ci faceva tanto ridere, il rumore che facevano l’acqua e il vino quando la bottiglia del re o quella della regina si piegava sui calici per riempirli. Sistemate nello scaffale parigino, in mezzo ai miei libri in eterno disordine, hanno perso ormai la loro funzione, pur restando importanti per me. Grazie a loro, Napoli potrà risuscitare alla prima « cena di Babette »… Altrimenti, possono contarsi sulle dita di una mano gli istanti felici in cui la luce del sole penetra nella mia libreria risvegliando dal loro sonno polveroso il re e la regina e liberandoli per un po’ dalla loro prigione d’ombra. Nella coppia regale esplode allora un sussulto di orgoglio e di intima passione, che provoca in me una gioia indescrivibile e una sorta di stupore solenne, come se assistessi al miracolo di San Gennaro !

002_promenade-lebel« Una breve camminata sotto la pioggia fina per schiarirsi le idee »,
testo e immagine presi da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Spiegherò ad Anna chi sei e capirà che non è il caso di mandarti a dormire in albergo. D’altra parte tra me e lei non c’è mai stato niente, ci comportiamo come uno zio e una nipote, adottando come unica confidenza la stretta di mano. Spero che approverai la mia iniziativa… La notte, se non riesci a dormire, ti farò vedere le foto delle nostre lontane gite a Procida… Oppure, ti meraviglierò con il resoconto delle mie giornate. Inevitabilmente tutto ciò mi porterà a chiederti che cosa dicono di me i miei amici, che sono anche i tuoi. Di sicuro, mi avranno sistemato, e in fretta, in uno scaffale mentale che chiamano Parigi, o la Francia, dove io non sono altro che un nome-e-cognome ammantato di vaghi ricordi. Non si interrogano mai su di me, ma di certo io qui faccio l’esatto contrario di quello che loro potranno mai immaginare. Vado molto poco a teatro, nonostante lo desideri con tutto il cuore ; non trovo il coraggio né la forza per andare all’opera, nemmeno per vedere e ascoltare coloro che amo più profondamente : Mozart, Rossini, Tchaïkovski… e non sono nemmeno un assiduo frequentatore di tante bellissime mostre che fanno al Luxembourg, al Grand Palais o al Beaubourg. Inutile dirti che non approfitto mai dei saldi di fine stagione o delle presentazioni dei libri. E, cosa ancor più grave, non riesco ad avere lo stesso entusiasmo cieco dei miei concittadini quando il sole, così raro, si istalla per intere mezze giornate… Cosa so fare, allora ? Bighellonare davanti ai banchi dei bouquinistes e camminare !
In passato, con le mie pulsioni di giovanotto o di uomo maturo, camminavo come un forsennato risalendo dai Quartieri Spagnoli alla Villa di Capodimonte, o di notte sul lungomare di via Caracciolo e di Chiaia, e mi sentivo un eroe se arrivavo all’alba nella brutta piazza della stazione, dove però c’era un chioschetto che vendeva le « sfogliatelle » calde.
Ora, a Parigi, benché invecchiato e indebolito nelle mie certezze fisiche, cammino come un ossesso dalla Bastiglia a place de la Concorde, dal bassin della Villette a place de Clichy… A Batignolles, mi sono affezionato a un alberghetto di rue des Dames, a quel giardinetto interno dove sognavo di sedermi con te, dove tante volte ho creduto di vederti negli sguardi di sconosciute o nei loro particolari modi di acconciarsi i capelli, di alzarsi e di afferrare la borsa, la borsetta o lo zainetto… Del resto, alla mia età, l’interesse improvviso per una giovane fanciulla che magari ti somiglia può di punto in bianco mutarsi nell’insospettata curiosità per una vetrina, per un gruppo di passanti o per un vecchio palazzo nobile…
Da un « villaggio » all’altro, prendendo una via disadorna o una via più attraente, non si riesce mai a scoprire da dove vengano, in questa straordinaria città, quel « suspense » da romanzo poliziesco o quell’aspro piacere che si insinua in noi come un reiterato racconto di amori proibiti. Di chi è il merito o la colpa di ciò ? Dei suoi abitanti, intrappolati contro loro stessi da una vitalità che sfiora la disperazione ? Della sua storia, così bella e terribile ? O forse è alla pioggia, a questa « sputazzella » che ci penetra nell’intimo, che daremmo volentieri il premio Goncourt e la maglia gialla con il giro d’onore al Parco dei Principi ? Proprio come Napoli, grande capitale del sud, questa immensa capitale del nord dell’Europa è sempre prodiga di sorprese. Tante variaIoni su pochissimi temi, come nell’aria di Carmen :
Parigi è un uccello ribelle
che non ha mai avuto legge
Tanti colori, il rosso e il blu in testa, che si distinguono nettamente contro il grigio uniforme delle case e del cielo. I colori dei portoni, dei negozi e e delle botteghe, insieme alle sciarpe multicolori di certe graziose passanti, spezzano l’atavica monotonia delle strade e delle facciate. Del resto, lo dicevi anche tu : « solo le stranezze, le rotture e i gesti irriverenti possono rendere interessante e unica una città. È sempre l’eccezione che conferma la regola ! »

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Ci sono, certo, delle enormi differenze. Parigi è ancora una capitale mentre Napoli non lo è più. A Parigi devi bussare a molte porte prima di poter svolgere una discussione approfondita con qualcuno, prima di entrare in una comunità che poi si rivelerà accogliente, aperta, conviviale e ciarliera. Napoli non aspetta che tu la cerchi, ti viene subito incontro, ti precede anzi, con le sue storie, i suoi drammi, il suo happening quotidiano. Se a Parigi tu sei obbligato a cercare l’incontro, a Napoli ti devi ritrarre, riparandosi in un angolo silenzioso che forse non esiste più.
Ma, chissà perché, nessuno si è accorto di quanto Napoli abbia « preso » da Parigi e viceversa,. Le vetrine di legno dipinto un po’ lugubri delle vie del centro, per esempio. Nonostante la loro crescente rarità, esse esprimono lo stesso spirito spettacolare e intimo della vita. Lo stesso teatro, a Parigi come a Napoli. E quante parole francesi sono entrate nella lingua napoletana ! Potrei fartene una lunga lista : dalla « buatta » (boîte) alle « spingule francese » (épingles françaises) e, naturalmente, ai « supplì »  :
— Te ne supplico, comprami questa palla di riso che brucia dentro mentre dalla sua crosta profumata emana un calore appena percettibile !
A Napoli, abbiamo ancora l’usanza di dare del voi, come in Francia : « Ma voi casa ne tenete ? »
Ti ricordi ? Ridendo, a me e agli altri amici, quando traccheggiavamo a casa tua dopo la mezzanotte, tu ci dicevi :
— Mi sembra che non abbiate la minima intenzione di tornarvene a casa vostra !

004_automne-lebel« Ancora qualche beneficio dell’autunno »,
testo e immagine presi da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Mi vedo la tua reazione : avrei fatto tutto questo lungo discorso soltanto per dirti che qui non sei gradita ! Ma no, assolutamente ! Anche se al posto di « gradita », preferisco dire a me stesso che tu sei « bene accetta », che sarai accolta a braccia aperte e a occhi chiusi. Non dimentichiamo però che, a tua volta, sei stata piuttosto recalcitrante prima di accettarmi fino in fondo, prima di prendermi « in braccio » come un trovatello abbandonato in una valigia in fondo alle scale.
Questa mia digressione su « Parigi napoletana » è venuta fuori da sola, del tutto spontaneamente. Del resto, è tale l’agitazione che ha preceduto e accompagna questa lettera, che ho dovuto lasciarli uscire dal loro covo segreto, come perle di un rosario, i ricordi di questa Napoli che « c’è l’ha con me » per le mie rumorose avventure di  « scugnizzo » espatriato di nascosto, senza salutare nessuno, come un ladro ! Cerco di tranquillizzarmi prendendo le distanze dalla mia casa natale all’ultimo piano di via Caracciolo, a due passi dalla stazione di Mergellina. Mi ricordo allora del mio nonno materno, sempre in pigiama, che si divertiva a creare delle diaboliche correnti d’aria aprendo di qua una delle finestre che guardano il mare e, di là, l’oblò di uno stanzino affacciato sulla chiostrina. Un tale accorgimento rendeva più sopportabile il calore provocato dalla grande terrazza che ci faceva da tetto. Poi corro, col cuore smarrito, ai volti sfuocati di mia madre, di mio padre e dei miei fratelli. Tutto è sparito, seppellito o frullato, disperdendosi come ceneri parlanti in altri luoghi perduti di questa Italia dal volto sfuocato anch’essa.
I miei ricordi più dolorosi si collocano alla metà degli anni ’80, che furono terribili, nel nostro paese. Ad una velocità spaventosa, la televisione aveva inghiottito tutto, sostituendosi alle nostre innumerevoli vie e piazze e ai tradizionali luoghi di incontro tra gli umani. Tutto avveniva dentro o dietro questo schermo sempre acceso e mai silenzioso, dove la nostra lingua napoletana si mescolava agli astrusi dialetti della val padana, al siciliano, al genovese, al veneziano, al toscano, mentre, diffondendosi ovunque, la cadenza tipica degli abitanti della capitale — questa lingua della Roma di oggi caratterizzata da un accento sempre più marcato e violento — diventava un collante vischioso e tenace. È là dentro che noi tutti siamo diventati ogni giorno più ignoranti, se non dei veri e propri analfabeti. Nel frattempo, sono sparite la maggior parte delle librerie, le vecchie gloriose librerie di Napoli. Ora, dovrei vergognarmi di vivere in una città, Parigi, dove i libri circolano e la lingua nazionale è accanitamente difesa contro le contaminazioni dei dialetti ? Dovrei considerarmi un traditore e un presuntuoso per aver fatto questa scelta egoista di andare incontro alla civiltà e alla libertà di espressione ?
Non è per la mancanza di libertà o per una libertà ridotta a metà che ho lasciato Napoli. Ci sarei rimasto fino alla fine dei miei giorni se avessi avuto la benché minima possibilità di svolger un’azione positiva, con la speranza che cambiasse qualcosa. Ho cercato, per tutta la vita, a prezzo di ogni sacrificio, di adoperarmi per il meglio, per contribuire con il mio lavoro al piccolo progresso che era lecito sperare per una società in difficoltà, ma indubbiamente piena di qualità e risorse. Ma tu sai bene che in fondo al mio cammino avevo esaurito tutte le mie carte. Era diventato ormai impossibile ottenere qualcosa dall’interno di quell’organismo malato. Non c’era quasi più nessuno che non si trovasse prima o poi costretto a fare il patto col diavolo, a subire la prepotenza di gente disonesta… 
Oppure no ! Si può sopravvivere, dopo una vita di lavoro incessante, con una piccola pensione che ti salva dalla fame. Ma si deve tacere, starmene in un angolo, morire in anticipo… Oppure… si può beneficiare degli ultimi fuochi, gettarsi a corpo morto nel grande amore della vita, in una passione splendida e straziante. E allora Napoli si rivelerà il luogo più adatto. Quale palcoscenico può superare quello di Napoli in bellezza ? Chi può sfoderare meglio i suoi sapori intensi e misteriosi ? Non esiste nessuna città al mondo, nemmeno Venezia, che sia propizia quanto Napoli alle rovine dell’amore ! Ma tu l’hai visto, tu lo sai : ne sei tu stessa la protagonista fatale e l’autrice. Anche l’amore ha vincoli che non si possono eludere né aggirare. L’amore è la gioia e forse anche la morte, ma non è la libertà ! E noi — dopo tutto quello che è successo, dopo aver dovuto inghiottire questa « impossibilità » di essere felici e di sottrarci, attraverso l’amore, alla quotidiana consapevolezza di un destino infelice —, che possiamo fare, noi due ?

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Scusami per tutte queste parole, per queste riflessioni che si ripetono senza produrre apprezzabili novità. Ma potrò ben concedermi qualche illusione ! Accendere qualche luce per festeggiare il tuo arrivo ! Lo sai che sono un ateo impenitente e considero le religioni come maschere tanto necessarie quanto pericolose, a dir poco. A parte il povero Budda in bronzo che mia sorella mi scagliò in testa, provocando in me il bernoccolo della ribellione, questa anomalia che mi ha poi dato tante soddisfazioni.
Ma, se gli uomini di tutti gli angoli del mondo si danno impunemente ognuno un dio differente, non vedo perché non posso anch’io dirti serenamente che tu sei il mio dio quando sono a Napoli, ma non potresti mai esserlo a Parigi…
Su questo punto, noi discuteremo a lungo, la notte, mentre Anna dormirà, ignara. Per fortuna, esiste ancora la possibilità, per gli esseri umani, di vedersi, di toccarsi, di stringersi la mano, di guardarsi negli occhi, di studiarsi l’un l’altro, ognuno a suo modo. Così possiamo indovinare, dopo averci un po’ riflettuto, i sentimenti dell’altro, le sue idee, cosa sta ognuno facendo della sua esistenza. Ora, per esempio, scrivendoti, invoco la tua presenza qui come una cosa ambita, desiderata da tempo, mentre, in verità, non faccio altro che accettare il mio destino. Cerco allora di ammansirti, mostrandomi migliore di quello che sono, ben sapendo che tu mi conosci molto meglio di quanto mi conosca io stesso. Fortunatamente, quando sarai qui in carne e ossa, con tutte le tue curve e i tuoi profumi rari, basterà uno sguardo, o un piccolo incidente quando ti accenderò una sigaretta, perché tutto questo preambolo sparisca in un lampo !
Del resto è sempre stato così. Tocca a tutti, prima o poi, di dover portare una croce, anche se non si hanno sentimenti religiosi né superstizioni nella testa. E allora anch’io, ubbidendo a questa legge, sono pronto : ti aspetto a piè fermo !

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Giovanni Merloni

Un Napoletano a Parigi/1 (Diario di sbordo n. 9)

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001_tete-bien-coiffee-180Giovanni Merloni, novembre 2016

Un Napoletano a Parigi/1

Mi farebbe davvero piacere vederti arrivare, anche all’improvviso. Incontrarti a una qualsiasi stazione del métro. Sedermi con te a un bar all’angolo e fare colazione insieme. Dedicarti un po’ del mio tempo. Abbiamo molte cose da raccontarci, ma mi piacerebbe, per una volta, soprassedere, aspettare, osservarti in silenzio mentre ritrovi beatamente i rumori, gli odori e i sapori dimenticati di Parigi, questa città di cui fosti tu la prima a parlarmi, facendomela amare ancor prima di conoscerla !
Ora si sono invertite le parti perché tante cose sono successe e tu, ne sono certo, mi parleresti di Napoli, delle persone ancora vive che cercano di fare del loro meglio, di quelle che non fanno altro che danni, di quelle che non possono più fare niente perché sono sparite, puf ! da un giorno all’altro… Ma questi discorsi, io lo so già dove andrebbero a finire : « Ma perché te ne sei andato ? Ti trovi davvero bene a Parigi ? Dimmi la verità !… » Mentre io, guarda un po’ ! vorrei proprio evitare di parlare di quello che « ho lasciato » e di quello che « mi sono perso ». Non ne posso più della « strada vecchia » che sarebbe più sicura e fedele di quella nuova…
Ma non voglio mettere il carro davanti ai buoi, si vedrà, anzi vedremo ! Cercherò di liberarmi dai miei impegni e, se proprio sarò costretto ad andare da qualche parte, ti porterò in giro con me, senza però asfissiarti con l’obbligo della mia presenza : se vorrai girare da sola per Parigi, sentiti libera. Ci daremo via via degli appuntamenti, a cui, certo, io correrò sempre con il fiato in gola.
Mi piacerebbe essere io a decidere che cosa fare, dove andare, almeno il primo giorno. Ma non voglio prevedere troppo, né anticiparti troppo quello che penso, quello che faccio, chi sono diventato. Soprattutto, non voglio sapere nei minimi dettagli le tue prodezze o i tuoi fallimenti. Me ne hai parlato nelle tue lettere, che non mi hanno lasciato indifferente. Anzi, ti ho sempre detto che sono solidale con te. Ma adesso, se vieni qui a Parigi, se vieni per vedere me, non ti portare dietro tutta la tua casa, il tuo ufficio e la città di Napoli. Del resto, lo sai come la penso : per me, quando le cose vanno male, trovo sempre il modo di rassegnarmi e di ricominciare… Quando ormai tutto è stato detto, fatto, bruciato, perduto… quando non c’è più niente da fare, prima di tutto mi dò una bella lavata di faccia, poi, di slancio, mi avventuro subito per una strada nuova, anche straniera, dove posso affidarmi al mistero di facce nuove, di nuovi malintesi forse, ma almeno intravvedo un appiglio, una speranza. Invece tu sei sempre sicura di avere ragione, e secondo te gli altri hanno sempre torto. Non sei veramente disposta a scavare a fondo, per vedere se per caso anche tu hai qualche responsabilità, magari involontaria, in quello che ti succede… Anche con me, ti inalberi subito… E va magari a finire che è colpa mia di tutto, anche se io proprio non c’entro. No, mia cara, parlare di certi argomenti non servirebbe a niente. Anzi, peggiorerebbe la situazione.
Dunque spero proprio che Parigi ci offra qualche distrazione, qualche cosa di bello da vedere o da fare. Finora non ci ha mai tradito.
Già, perché ho scritto « ci » ? Tu non sei mai tornata, per quel che so, da quando sono qui.

002_kees-van-dongen-1923Kees Van Dongen (1923), immagine presa da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Ti ho sognato tante volte. Ti ficcavi nel letto e appoggiavi la tua testa castana alla mia spalla, facendomi male. Oppure cantavi, come Marylin :
I wanna be loved by you…
Ero affascinato e, allo stesso tempo, interdetto. Quando mi svegliavo cercavo di capire chi eri. Non potevi certo essere Marylin. Indossavi la sua morbida silhouette per uno scopo che non capivo. La cosa sicura è che eri tu. Dopo ogni risveglio una tremenda nostalgia si incastrava nelle mie lunghe giornate.
Ho scritto che mi farebbe piacere vederti arrivare, ma non sono stato sincero, non ti ho detto fino in fondo quello che penso. Tu mi porterai l’Italia, e questo è un lasciapassare formidabile. Chi va là ? Italiani. Entrate, presto, ma senza fare rumore. Riflettendo credo che chiunque arrivi dall’Italia sia benvenuto nel mio cuore, anche quando non ho tempo. E’ come se rivedessi i primi giorni passati qui, i primi mesi in cui tutto era nuovo e il francese, che credevo di conoscere un po’, si rivelava uno scoglio difficile, se non insormontabile.
Ma non è solo questo. Anzi, per essere sincero, non è affatto questo. Tu verrai dall’Italia, un giorno o l’altro, a portarmi tutto quello che ho lasciato per sempre laggiù con tanta leggerezza. Ma, lo sappiamo benissimo, io e te, la ragione del tuo viaggio sarà un’altra. Tu non sei mai stata il tipo della turista. Dunque dovrei avere i brividi all’idea di vederti comparire davanti a me.
Avrei potuto scriverti, più seccamente : non mi fa piacere vederti arrivare. Soprattutto se avrai l’aria minacciosa di un giudice all’inizio di un processo. Quante volte, la sera tardi, accingendomi a dormire, girandomi sul fianco, trascinando la coperta con la spalla verso il muro, mi viene da pensare : di là che c’è ? E di qua ? Speriamo che non sia lei, che non sia ancora arrivata !

003_arsenique-sansMiles Hyman Lettera d’amore e arsenico (Le Monde, 2010), immagine presa
da un tweet di Laurence (@f_lebel)

Vedi, ormai sono installato qui. Nella mia nuova lingua, pur così penalizzata dall’accento di uomo del sud, mi ci trovo bene. E le nuove letture mi aiutano molto a capire, a ricostruire la storia e la geografia di questo paese, a capire meglio l’Europa e anche la nostra povera Italia. Se i « Miserabili » e i « Fiori del male » mi hanno accompagnato in un corpo a corpo con questa città di tutti, la « Libertà che guida il popolo » e le « Grandi Bagnanti » mi hanno aiutato a sentirmi meno straniero e meno solo.
E poi, che vuol dire « essere stranieri » ? In fondo tutti sono stranieri quando hanno un progetto, un sogno, un talento da assecondare. Anche laggiù dove sei tu, quelli che si ritengono profeti in patria rinunciano ogni giorno a un pezzo importante di loro stessi, in cambio del successo, tanto più tracotante quanto più effimero. E gli altri ? Gli altri sublimano la loro rabbia in sogni di isole inesistenti, raggiungibili con ponti di barche che l’invidia dei potenti si incarica regolarmente di affondare. Evviva, affiora l’isola. Abbasso, crolla il ponte. Qui invece ci sono scrittori, poeti, pittori e musicisti di tutto il mondo a cui non si impedisce di lasciare la loro impronta, piccola o grande. Li sento respirare, di notte, nei vari villaggi di questa sterminata città.
Insomma, proprio ora dovevi venire ? Ora che, dopo dieci anni, cominciavo a farmi una ragione di questo cambiamento, di questa operazione di pulizia che ho finalmente potuto svolgere su me stesso, buttando via tanti oggetti, ricordi e pensieri angosciosi, per lasciare un po’ di posto all’essenziale ? D’altronde, te l’ho detto, credo, le case qui sono piccolissime !
Tu arrivi in un momento in cui mi sto proiettando nel presente, se non nel futuro… eliminando la zavorra e chiudendo le porte ai dubbi… Invece, lo so già, tu vorrai darmi e chiedermi delle spiegazioni, riportando qui il « nostro passato », come tu lo chiami. Credi di portare una valigetta mezza vuota, ma poi che farai, quando ti accorgerai di essere schiava di un baule pieno di sassi ? Io non posso impedirtelo, capisco le tue ragioni, ma lo sai che non amo rivangare i ricordi dolorosi. E lasciami dire sinceramente che non ho mai creduto nel giorno del giudizio.
A meno che tu non sia d’accordo con me nel dire che il giorno del giudizio è tutti i giorni.

004_menilmontantHenri Cartier-Bresson Ménilmontant, Parigi immagine presa
da un tweet di Anna Urli-Vernenghi (@urlivernenghi)

Sai, vivendo, mese dopo mese, anno dopo anno in una realtà estranea, si cessa d’un tratto di essere l’italiano buffo e gentile, il personaggio sorridente che non rinuncia a gesticolare con spreco di energie. Si comincia a possedere delle cose, a ricevere delle lettere, dei pacchi, insieme al giornale e alla pubblicità, come dappertutto. Le nostre case microscopiche si riempiono come uova e anche noi, come gli altri, finiamo per abbandonare per strada le nostre poltrone sfondate e i nostri forni a microonde arrugginiti. Qualcuno li porta via, e la vita va avanti, alleggerita dallo sgorgare periodico di guizzanti ruscelli d’acqua lungo i marciapiedi e, qualche rara volta, dal sole.
Parigi è una città piena di vita, malgrado la miseria e la morte sempre incombenti, come a Napoli. Anche qui si avverte la fragilità di infiniti fili che si possono spezzare da un momento all’altro. Senza processo. A meno che colui che è diventato clochard perché non può pagare l’affitto, non debba sentirsi in dovere di farsi il processo perché mangia e beve quello che trova o perché deve dormire tutte le notti al gelo.
Certo sono sconvolto da questa brutale verità da insignificanti formiche. Ma se le cose vanno tanto spesso male, possono anche andare bene ! Vedere la gente che lavora per fare girare il métro, per esempio. Questa sorta di moto perpetuo che rende viva la città e fa sì che i bar, i ristoranti, gli alberghi, i negozi e le botteghe artigiane sopravvivano guadagnando ogni giorno qualcosa, è il risultato dell’immenso lavoro di milioni di formiche. Certo, la vita di ognuna di queste insignificanti formiche è un mistero.
Ma il solo fatto di vivere in mezzo a loro, di potermi considerare anch’io una insignificante formica, mi allarga il cuore.

005_napoliNapoli panorama

Tu arriverai, un giorno, portandomi il panorama di Napoli con il pino, o la madonna vestita di Procida, o l’odore dei supplì. Ma forse non sarò affatto contento di ricevere tutte queste belle cose così presto, dopo averti tanto aspettato.
Del resto, te lo potevi immaginare : non abito da solo qui, adesso, e tu mi vieni a trovare come se niente fosse, magari vestita in modo anacronistico, sconvolgendo i miei programmi e le mie nuove abitudini.
Ma farò lo stesso gli onori di casa. Ti offrirò la colazione sotto i portici di place des Vosges. Ti porterò a passeggio per il Marais. Entrerò con te in un negozio che voglio farti conoscere, dove vendono cappelli di tutte le fogge e di tutte le epoche, e, in nome del piccolo principe di Saint-Exupéry, ti regalerò un casco da aviatore e una stella…
Poi, potremo girare per ore dentro il Louvre, dove sicuramente incontreremo qualche italiano, magari un napoletano, con cui potrai parlare.. Ma non sarò così maleducato da lasciarti sola con lui davanti alle toilettes dell’Orangerie o nella libreria della Gare d’Orsay. Berrò il tuo calice, come un buon amico, al café all’angolo tra rue du Bac e rue de Varennes, a due passi dal Centro Culturale Italiano. Oppure, se mi darai il tempo e non vorrai subito ripartire, ti inviterò a mangiare una pizza a Montparnasse. Lo so che la pizza che fanno qui non è quella di Napoli ! Ma se sarò con te, mi sembrerà di stare a Napoli. Quanto mi piacerebbe poterti parlare a lungo, facendo finta che ci porteranno anche i « supplì », la « pastiera » e la « granita di caffè con panna » !
Poi, finita la prima schermaglia, raggiungeremo, mi auguro, una specie di intesa. Tu mi dirai francamente quanto tempo pensi di restare. Solo tre giorni ? Un mese ? Sarai tu a dirlo. Ne sono certo, durante il nostro primo incontro tu parlerai pochissimo. Ti preoccuperai soltanto di concedermi un po’ di tempo per prendere una « decisione ». È il tuo tipico modo di fare, e lo rispetto. Ma che cosa dovrei decidere esattamente ? Ritornare a Napoli ?

Ma forse mi sbaglio. Tu mi dirai che non sono poi così importante, che sei venuta soprattutto per cambiare aria e desideri che ti accompagni a vedere qualche mostra o qualche negozio alla moda come facevano le nostre bisnonne viaggiatrici. Non mi resta che mettere in ordine e fare sì che la tua permanenza qui sia tranquilla e confortevole. Starai con me, nell’appartamento molto bohémien di rue de la Lune. Dormirai su un canapè nel saloncino. Anna, la mia giovane coinquilina bolognese, non dirà niente. Di giorno non potremo starci, perché lei lavora in casa. Ma non ti preoccupare, se sarai stanca, ti farò riposare sul mio letto e io andrò a farmi un giro.

Giovanni Merloni

(Continua)

A vederti volare (Zazie n. 48)

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A vederti volare

Sono stanco di troppa gloria.
Volentieri vomiterei questi regali
questi riconoscimenti, queste statuine :
tutto ciò mi imprigiona
in nuvole di ferro
in orizzonti fangosi
in alberghi dagli odori stucchevoli.

Vorrei scavalcare il tetto
e scivolare in un torrente gelato
aggrapparmi al tuo piede
scivolare tra le tue gambe
stendermi su di te
come un mantello piumato.

Sono stanco di rilasciare interviste
non mi fotografate più
buttate i miei sorrisi stereotipati
cancellate le mie insulse parole
bruciate i miei libri.

Vorrei andare incontro ai miei aguzzini
dirgli cosa penso di loro
farmi fotografare mentre li insulto
e poi entrare con te
in una grotta
aggrottando le ciglia
storcendo il naso
prima di stendermi a terra
inerte, in prima fila
a vederti volare.

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Giovanni Merloni

Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento (Nel frattempo n. 3)

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

Una camicia bianca che ondeggia libera nel vento

Nel frattempo, questo fiore solitario mi ha fatto pensare alla bellezza della vita e della morte…
Spero che mi perdonerete di avere osato giustapporre queste due bellezze, così diverse tra loro. Ma è molto raro che la bellezza rispecchi la felicità. Se una cosa simile accade, si tratterà il più delle volte di una felicità passeggera.
Dunque oggi questo fiore, simbolo insostituibile del carattere effimero della bellezza, non è lì per caso…

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Immagine rubata a un Tweet di Laurence L (@f_lebel)

All’inizio, questo fiore evoca in me una camicia di seta bianca con una spilla d’oro al posto del cuore. Una bella ragazza, modella devota di un celeberrimo pittore, deve averla lasciata libera di volteggiare nel prato secondo il vento, dovendo al più presto comparire nella famosa «colazione sull’erba».
Poi mi viene da pensare a due pittori.
Uno si fa prendere dalla descrizione della scena inquietante, dove la gioia della dissacrazione si mescola alla rabbia — faticosamente tenuta a bada — della gelosia e dell’invidia di ognuno.
L’altro osserva a lungo la camicia che ondeggia su una canna, finché si decide a « rimetterla », con mani sperdute e di colpo imprecise, sul busto indimenticabile di questa « fuggitiva » ch’egli non cesserà mai di amare e rimpiangere furiosamente…
Oppure abbiamo a che fare con un solo pittore, che preferirebbe abbandonare i pennelli e distogliere lo sguardo dalla sua composizione rischiosa e blasfema per fissare, steso sull’erba, quei petali lisci e lucenti.
Istigato da questo fiore solitario, questo pittore vorrebbe saper tradurre la bellezza effimera della natura trasferendola nella realtà eterna (o quasi) del quadro. Mentre traduce, il pittore tradisce, inevitabilmente, perché deve assolutamente trovare un linguaggio adatto a fissare una volta per tutte una bellezza che non potrebbe essere più sfuggente…
Obbligando la sua donna a partecipare, nuda, alla «colazione sull’erba», egli ha tradito se stesso, anche se l’ha fatto in nome di una bellezza universale, destinata a galleggiare al di fuori dello spazio e del tempo…

003_img_9196Romano Reggiani (1942-2016)

Ma questo fiore solitario evoca anche, in me, un pietoso lenzuolo bianco steso, come un’ultima camicia, sul corpo senza vita di uno dei miei più cari amici.
Egli era al mare, in Toscana, l’8 agosto scorso, intento a nuotare tra onde appena increspate, non lontano dalla riva, a pochi metri da sua moglie e dai suoi due figli ormai grandi. All’improvviso, senza che si potesse percepire alcun segnale di malessere o di difficoltà, coloro che erano presenti hanno visto arrivare sulla battigia un corpo galleggiante, steso sul pelo dell’acqua come un «morto a galla».
« Sorrideva ! Non ha sofferto ! Non si è accorto di nulla ! » Si dice sempre così e  questa
 scena sconvolgente acquista addirittura, paradossalmente, una sua sconvolgente bellezza.
Romano Reggiani, che i suoi più vecchi amici chiamavano « Yuma« , era un uomo alto, robusto, che attingeva senza risparmio alle sue mani di « scultore di idee » per dare tanto di sé agli altri. Anche lui non era stato risparmiato dalle invisibili piaghe che il tempo scava con indifferenza sul suo cammino. Ma con tutto il suo entusiasmo e quella voglia instancabile di fare sembrava non accorgersi di nulla. Ecco quello che mi hanno raccontato, per aiutarmi a accettare questa morte violenta e inattesa. Chissà se questa ipotesi di serenità mi aiuterà anche a ricomporre le fisionomia di quest’uomo che, nel frattempo, non era cambiato rispetto ai tempi oramai lontani in cui si colloca il mio pur vivo ricordo di lui.
Mi sembra un po’ strano, sinceramente, di parlare di Romano dopo tanti anni, in cui ci eravamo per così dire « persi di vista ». Ma ho deciso lo stesso di farlo, seguendo una mia idea di cui sono un convinto assertore : nel corso della vita e anche dopo la morte, certi legami diventano dei fari indispensabili nella nostra mente. Quante volte mi sono ricordato di Romano, delle sue conversazioni con Francesco Curtarello a cui assistevo ? Ritorno anche, molto spesso, a certe parole o frasi, scambiate direttamente tra di noi, che costituiscono ormai delle vere e proprie pietre miliari lungo le vie difficili o fortunate delle nostre vite parallele. Se mi sono periodicamente fermato a ricordare la sua grande casa nel bel mezzo della campagna a San Giorgio di Piano, a ascoltare la sua voce di fumatore accanito, a ricostruire a mente il suo volto arrossato dal sole e dalle sue stesse energie vitali, se non posso dimenticare le sue certezze assolute, la sua benevolenza piena di calore nei miei confronti, è possibile, credo, che di tanto in tanto si sia ricordato anche lui di me.

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Tutto sparisce, e questo mio contributo per restituire ai vivi l’immagine di quest’uomo « sparito » sarà inevitabilmente inadeguato, molto meno efficace di una sola foto. Resterà la mia lacunosa descrizione che aprirà la strada, come nel caso del pittore di cui sopra, a un nuovo tradimento. Un doppio tradimento. Perché rivolgendomi a dei lettori francesi io tradisco, inevitabilmente, la lingua dei nostri incontri, risalenti all’epoca in cui vivevo e lavoravo a Bologna ed ora, lanciando dalla Francia questo mio ricordo confuso, finisco forse per tradire anche l’immagine che i miei amici di Bologna si sono fatta di me.
«Partire è un po’ morire», dice la canzone. Dunque, andando via, all’estero, «perdendomi» nei meandri di questa Parigi «super gettonata», nella mia condizione di «profugo di lusso», sono oramai scomparso in una specie di cortina fumogena che nessuno ha voglia di attraversare. «Che vuole da noi, questo «parigino»? si domanderebbero senza dubbio, ironicamente, i miei amici se sapessero che parlo di Romano…
Ma io lo faccio lo stesso.
Romano Reggiani era giustamente orgoglioso di essere un rampollo della grande e gloriosa famiglia del partito comunista in Emilia-Romagna, mentre le mie origini romane facevano di me un « parvenu » di questo stesso mondo e «scuola di vita». Ciò non impediva che io fossi ammesso a partecipare alla stessa esperienza di buona amministrazione delle città e del territorio a cui Romano dava il suo contributo. Abbiamo condiviso gli stessi ideali e le stesse illusioni, ma anche la gioia incancellabile di vedere realizzati molti progetti che altrove sono invece rimasti lettera morta.
Noi abbiamo avuto due vite «parallele», condividendo le stesse preoccupazioni legate a una professione obbligata a confrontarsi con un mondo che cambia, dove i margini per una valida e incisiva azione politico-amministrativa si riducono o sono diventati ormai del tutto inesistenti.
L’ultima volta che ho visto Romano è stata nel 2003, in occasione di un viaggio a Bologna, conclusosi con una gita in quella stessa spiaggia toscana… Poco tempo dopo, il primo maggio del 2006, ho interrotto tutte le mie attività, mentre Romano ha continuato tenacemente, fino al giorno di questa morte così folgorante e inattesa.
«È morto senza rinunciare ai suoi progetti ! » mi ha detto il mio amico Francesco.
Ecco perché la morte di Reggiani può essere ricordata come una bella morte.

Per una coincidenza che non può essere casuale, egli è morto proprio l’8 agosto. Una giornata, quella dell’8 agosto 1848 illustrata dallo straordinario eroismo dei bolognesi, che furono capaci di sconfiggere l’esercito austriaco invasore. Se Romano lo sapesse, se ne consolerebbe. Tra le rare persone di cui ho potuto ammirare lo spirito combattivo e la coerenza ideale, Romano Reggiani è stato senza dubbio uno dei rappresentanti più sinceri e coraggiosi di un popolo che non cede mai al conformismo e all’indifferenza. E gli si deve anche riconoscere una grande ironia, che affiora con prepotenza, tra l’altro, nel suo recente libro « Et fiat porcus« , un omaggio raffinato e intelligente alla cultura del maiale, al centro della tradizione alimentare specifica dell’Emilia-Romagna.

«Quando i compagni della giovinezza e della vita ci vengono sottratti ci accorgiamo che tutto il tempo che abbiamo a disposizione lo consumiamo nell’abitudine, giorno dopo giorno a svolgere tutte le incombenze del quotidiano, a mettere a posto, a far fronte agli impegni e alle richieste della burocrazia, del fisco, dei fornitori di servizi», mi ha scritto una carissima amica di Bologna. «Una noia e un fastidio mortale.»

Version 3

Giovanni Merloni

TESTO DELL’ARTICOLO IN FRANCESE

Un’anima sorridente (Lettrici n. 5)

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Un’anima sorridente

Sarà sempre così
restia, corrucciata, scontrosa
gelosa della sua libertà
dell’autonomia invidiosa.

Sempre così sarà:
un’imprudente esploratrice
di lontani pensieri
un’indomita scrutatrice di misteri.

Ogni giorno intorno a lei
una nuvola volteggerà
di colori scarmigliati
da me stesso sparpagliati
solo per lei su un foglio:
un arzigogolato imbroglio
dai contorni accennati.

Sarà così
irremovibile, decisa, eroica
nel ricercare, indefessa,
dentro di me, se stessa.

Tutti i giorni sarà meravigliosa:
un abbagliante sole accecante
che guarderò senza mai posa
dal sorgere del dì bruciante
fino al tiepido ultimo istante.

Avrà la pelle bionda
la sua voce sarà profonda
quando vedrà la baraonda
sprofondare immonda
nella gola rotonda.

Sarà sempre così
costante e incostante
intellettuale e sensuale
emozionata e distaccata
calda e fredda
pronta a sopportare l’entusiasmo
a evitare il fiume in piena
a sconfiggere la pena
della vita crudele.

Sarà sempre pronta
a decifrare gli orrori
le luci nella notte
le sfumature nell’ombra
sarà indifferente ai rumori
schiva di ciò che ingombra
della nera precarietà
delle infinite malignità
dei vani malumori.

Sarà sempre coraggiosa
fiera, ardita e dignitosa
pronta a combattermi, 
a sconfiggermi, ingegnosa
con una sola parola esplosiva
come un nemico alla deriva.

Sempre così feroce
oramai senza voce
con un fiore all’occhiello
uscirà, come un piccolo uccello
dispettosa e stravagante
dalla trincea elegante
proprio in mezzo alla gente
la mia anima sorridente.

Giovanni Merloni

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Quel pomeriggio che persi la penna stilografica (Stella n. 32)

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Miei cari lettori,
ho appena terminato un primo riordino della mia raccolta di 32 poesie dedicate a Stella, nome di un personaggio ed anche tag o parola-chiave per rintracciare la raccolta in un solo clic.
Insieme all’elenco di queste poesie, propongo oggi « Quel pomeriggio che persi la penna stilografica », che era stata pubblicata solo nella versione francese.
Giovanni Merloni

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Quel pomeriggio che persi la penna stilografica

Mi sono innamorato
in un mesto prato dissestato.

In pochissimi istanti
divenimmo amanti,
smettendo di prendere appunti,
avvolgendoci, compunti,
in un velo inesistente
viola, giallo, trasparente.

Quanto tempo la terra
ha subito la guerra
delle palme mie gelate
tra le braccia tue incendiate !

E quante mai volte
le carezze tue, sconvolte
mi contavano una favola
che finiva in una botola ?

Quanti furono i giorni
aspettando che tu ritorni
e riempiendo la credenza
vuotata dalla tua assenza
coi rimorsi di quel tango
tra le pozzanghere e il fango
quando ballavo, frattanto,
con l’ombra tua a me accanto ?

Quanti mesi e anni
di ansie e malanni
quando eri il mio lenzuolo
ed io ero solo… solo ?

Senza di te, quanta pena
ripensare a quella scena
cinematografica
dove persi la mia penna
stilografica…

Giovanni Merloni

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TESTO IN FRANCESE

Stella, indice delle poesie

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ARCHIVES DE TAG: STELLA cronologico

Africa, 1973 (Stella n. 1)
20
Dimanche
Jan 2013

Va il treno, 1973 (Stella n. 2)
22
Mardi
Jan 2013

Una poesia per te, 1973 (Stella n. 3)
29
Mardi
Jan 2013

Io sono cresciuto, 1973 (Stella n. 4)
03
Dimanche
Feb 2013

Quante parole, 1973 (Stella n. 5)
05
Mardi
Feb 2013

Cara amica, 1973 (Stella n. 6)
06
Mercredi
Feb 2013

Che cosa dà senso, 1973 (Stella n. 7)
14
Jeudi
Feb 2013

Non so proprio, 1973 (Stella n. 8)
17
Dimanche
Feb 2013

Io sono un rottame, 1973 (Stella n. 9)
19
Mardi
Feb 2013

Lo strappo, 1973 (Stella n. 10)
06
Mercredi
Mar 2013

Ieri era la Malacappa, 1973 (Stella n. 11)
04
Jeudi
Jul 2013

Fare fagotto, 1973 (Stella n. 12)
06
Samedi
Jul 2013

Dimenticare, 1973 (Stella n. 13)
08
Lundi
Jul 2013

Io credo che tu mi stia cambiando, 1973 (Stella n. 14)
09
Mardi
Jul 2013

Solo un metro, 1973 (Stella n. 15)
10
Mercredi
Jul 2013

Vicina di banco, 1973 (Stella n. 16)
11
Jeudi
Jul 2013

Prima di conoscerti, 1974 (Stella n. 17)
13
Samedi
Jul 2013

Una poesia mia, inconfondibile, 1974 (Stella n. 18)
12
Lundi
Aug 2013

Un fiume grigio, 1974 (Stella n. 19)
14
Mercredi
Aug 2013

Sognare di smettere di sognare, 1974 (Stella n. 20)
15
Jeudi
Aug 2013

Quando l’amore sembra allontanarsi, 1974 (Stella n. 21)
20
Dimanche
Oct 2013

A che serve? 1974 (Stella n. 22)
25
Vendredi
Oct 2013

A diecimila distanze da qui, 1974 (Stella n. 23)
26
Samedi
Oct 2013

Improvvisamente, 1974 (Stella n. 24)
27
Dimanche
Oct 2013

Comincia la schermaglia, 1974 (Stella n. 25)
02
Samedi
Nov 2013

Vedi? Il disordine più totale avvolge la stanza, 1974 (Stella n. 26)
03
Dimanche
Nov 2013

Vorrei descriverti in un solo disegno, 1974 (Stella n. 27)
08
Vendredi
Nov 2013

Si parte con gesti tetri, 1974 (Stella n. 28)
09
Samedi
Nov 2013

Ragionamenti, 1974 (Stella n. 29)
10
Dimanche
Nov 2013

Nel castello delle tue orecchie, 1974 (Stella n. 30)
03
Vendredi
Jan 2014

Se la vita è lotta, 1974 (Stella n. 31)
31
Jeudi
Jul 2014

Quel pomeriggio che persi la penna stilografica
21
Feb
2016

Giovanni Merloni

INDICE DEI TESTI IN FRANCESE

 

Istante blu (Lettrici n. 2)

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Photo empruntée à un tweet de Laurence @f_lebel

Istante blu

« Mi sono sdraiata sul letto, tutta vestita, a volte senza nemmeno levarmi le scarpe. » Questa frase, giusto con le varianti linguistiche o dialettali determinate dal tempo, avrebbero potuto dirla tre donne importanti della mia famiglia : la mia irraggiungibile nonna Mimì, che si «buttava» sul letto credo per disperazione ; mia madre Pia, che vedevo assopirsi col gomito sul cuscino e la testa inclinata sui gialli di Agata Christie o sulla Settimana Enigmistica per allentare la tensione dei suoi fervidi d altruistici pensieri ; mia moglie Claudia, lettrice indefessa in segreto, anche lei, forse, per rimuovere qualche pensiero angoscioso…
Questa circostanza era ormai un’abitudine, la ricerca fiduciosa di un porto sicuro di fronte ai tormenti, ai fantasmi minacciosi e alle voci agitate che accompagnano, ahimé, ogni vita, sia essa esageratamente impegnata, sia essa invece semplice e discreta. Nella mia famiglia, questo «bisogno di stendersi »», del resto diffuso a macchia di leopardo dappertutto nelle case di tutto il mondo — e, avvalorata da inconfutabili testimonianze —, mi fa pensare che forse questi tre mariti — un figlio, un padre, un nonno — avevano qualcosa in comune. Qualcosa che costringeva queste mogli «travolte» a rifugiarsi sul letto come su un prato fiorito, almeno il tempo di un istante blu.

Giovanni Merloni

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