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la déchirure 740 antique

Lo strappo

Feci quell’eroismo di abbandonare Roma
quella costellazione di prodezze
di estenuanti amicizie
di progetti imbrattati, incollati male.
A ventisette anni si può essere vecchi
esausti, pigri
di sicuro alienati;
l’ascensore dentro il muro
sempre più stretto;
la casa non era un carillon
non era invasa dalle liane
e io non ero Tarzan
e i quadri e le poesie e i racconti
erano pennini spezzati;
il partito comunista mi sembrava
il dignitoso solidale coraggio dei funerali
dei compagni morti
la loquacità dei funzionari romani;
era una nuova adolescenza
telefonate telefonate
giornate per produrre un senso
alle rinunce, alle miserie
alle tragedie.

Il lavoro, questa cosa così seria
così importante
ti accorgi che per rubare
bisogna essere affabili
disposti a parlare di tutto
l’abito, certo, l’abito
le physique du rôle…

Che strano voler restare coerenti
tra tanti figli,
nipoti, cugini, parenti
di borghesi, di case di tappeti
di altre case
nell’Italia delle autostrade
(e dopo il casello e dopo le frecce
meno dieci meno cinque chilometri
Napoli; poi la chiassosa
rocambolesca via di Amalfi:
un pasticcino ti riempie la bocca
un finto carretto dipinto
gremito di pompelmi
trascina le scale
della piccola casbah
fino allo squallido albergo).

È difficile rigettare
la ridanciana sicurezza
dei benestanti
e stare lì, fuori posto
colla voglia di fare
di sprizzare chiarezza e rabbia
e intanto imparare
a conoscerli a conoscerti
quello che si vuole che tu pensi
quello che si vuole che tu sia.

E quei tempi del liceo
il ritmo repressivo
degli orari delle ore gettate
da pagina a pagina
esercizi di stentate parole
com’ero portato per la geografia
per il francese
e mi scoppiava la testa
e il cazzo-arnese
si impennava come gru non oliata
spettatore escluso e sgomento
di Alibech e del monaco crescinmano
rozza, rupestre, sudicia
voglia di violenza
di vestiti stracciati sulle cosce
di donne rosse
di sanguinose feste sotto la tenda del letto.

foro romano migliore 740

Di Roma non penso i giardini
le scale di Valle Giulia
i circospetti passeggi
dei compagni rivali;
su un lucido celeste
c’è disegnato-scritto un soliloquio
(creatività inutili
indirizzate a piccoli uomini
affannati, già pelati.

Per me Roma è l’ambiente complesso
vecchiotto, gli strati
la via di casa
il telefono baciato
le rovine moderne
i calcinacci neri
gli squarci di cielo rosso
nel viola plumbeo delle case
nate-morte, tragiche.
Roma è un labirinto, una madre
quello che c’era prima di nascere.
I prati e i pini
che c’erano prima di nascere.

Feci quell’eroismo di abbandonare Roma
la costellazione di prodezze
di estenuanti amicizie
di progetti imbrattati, incollati male…

Giovanni Merloni

TEXTE EN FRANÇAIS : 

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