Se un giorno si potesse rinunciare… (Zazie n. 43)

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Ieri mattina, domenica, mi sono svegliato con un’idea che in poco tempo si è trasformata in un tarlo. «Quanto siamo bravi, creativi, intelligenti, tutti noi che, come tanti apprendisti stregoni, cavalchiamo con ammirevole disinvoltura quello che la tecnologia ci offre! Non siamo più dei semplici consumatori, come erano un tempo i compratori di dischi o di sci o di occhiali da sole Ray-ban. Siamo diventati noi stessi creatori di qualcosa. Ci esprimiamo !» Ma poi, mi chiedo: «Non saremo troppo bravi? Non stiamo anche noi perpetrando una meritocrazia dell’apparenza? Non stiamo assecondando l’idea di un mondo che si riproduce sempre uguale a se stesso? Un mondo fondato sulle prerogative del l’avere che su quelle dell’essere? Quando saremo usciti, uno ad uno, da questa impietosa vetrina dove saremo stati sommariamente giudicati, inclusi o esclusi… cosa troveremo di fuori ?
Ho il sospetto che «fuori» e forse anche «dentro» di noi resterà la stessa, antica, inesorabile divisione schizofrenica del mondo tra chi vuole avere sempre di più e chi avrà sempre di meno…
Mentre il buon senso domenicale mi dice che non si può avere tutto.

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Se un giorno si potesse rinunciare…

Se un giorno si potesse
tutti quanti e ognuno
rinunciare a qualcosa!

Rinunciare, tutti insieme
alle bombe, ai veleni.

Rinunciare, uno ad uno
a tutto ciò che è di troppo
che non serve davvero.

Rinunciare a buttare
a sprecare, a considerare
il nostro privilegio
come un diritto.

Se si potesse rinunciare
subito
ad avere tutto
e tutti insieme lavorare
per ridare ad ognuno
il diritto di non rinunciare
alla sua vita.

Rinunciare a schiacciare gli altri
come mosche
rinunciare alla retorica
rinunciare all’ostentazione
della propria bravura
rinunciare a vantarsi
delle ricchezze accumulate
rinunciare alla barbarie che sgorga
a fiotti di sangue
dalla nostra eccellente
civiltà.

Rinunciare a una stanza
a un letto, a un pezzo
del nostro giardino
per abbellire il mondo
che era nostro
e regalarlo ad un’altra famiglia
ad un altro popolo.

Rinunciare a scandalizzarsi
rinunciare ad armarsi
rinunciare a cercare ovunque
lo sceriffo di Nottingham
rinunciare a sperare che, invece
arrivi in camicia e gilè
uno spilungone disinteressato
chiamato Gary
Cooper.

Rinunciare alla fascia di Gaza.
Rinunciare a mandare
i bambini a morire
rinunciare alla barbarie
che pretende di consolarci
con la promessa di isole vuote.

Rinunciare a imporre
le nostre collane, i nostri amuleti
i nostri tabù
rinunciare a mostrarci sconvolti
per le tragedie che noi stessi
inesorabilmente
automaticamente
quotidianamente
fabbrichiamo: l’intolleranza
non è il frutto
di vere differenze
ma soltanto
l’indole disturbata
di questa strana società
ammassata in una macchina
che avanza senza occhi
pilotata da un robot
che non si ferma più, ormai
perché sa bene
che non si deve mai
rinunciare a nulla.

E invece dovremmo
tutti quanti e ognuno

rinunciare
al delirio d’onnipotenza
di cui il denaro è semenza
per ottenere
in cambio, senza inchieste
tante piccole cose
necessarie e oneste

rinunciare alla velocità
eccessiva
contentandoci di spiarla
riscoprendo lo stupore e la magia
di parlarne in poesia
riscoprendo la lentezza
di una tranquilla saggezza
senza freni inibitori
né forni crematori

rinunciare a mangiare i veleni
di una smodata ricchezza
e di una rovinosa velocità
che intanto, dappertutto
uccidono
l’uomo.

Giovanni Merloni

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Il mio libro più bello lo hai scritto tu (Zazie n. 60)

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Immagine presa al volo da qualche parte su Twitter…

Il mio libro più bello lo hai scritto tu

Da qualche parte
brucia una candela
mentre grida
o soffia
o si rotola
dal ridere
dal piangere
qualcuno che crede
di sentire la mia voce.

Forse
il mio libro
più bello
lo hai scritto tu
credendo davvero
che fosse il mio.

Altrove, forse
più vicino, più lontano
la mia mano ti cerca
uscendo dal foglio
afferrando una nuvola
confusa docilmente
a quell’ombra straniera
che balla follemente
tra una fila di candele
o di veri lampioni
sul muretto di un ponte.
O invece, si tratta
di una sagoma nera
che correndo si dispera,
stanca di leggere, ogni sera
tante storie di cera.

Tra i fili del cielo
camminando in equilibrio
sta ripetendo a memoria
le parole di un libro
scolpito nel cuore
quella bella protettrice
svagata, impulsiva
che potresti essere tu,
mia devota lettrice,
ma quel volto pensoso
che volteggia lassù
non puoi essere tu.

Qui dentro
il mio libro imbrigliato
esita a uscire
le mie parole sghembe
gridano a vuoto
la mia penna
senza inchiostro
scricchiola.

La mia mano
stecchita dal gelo
ha paura
di tornare sul foglio
i miei occhi
accecati dal buio
hanno paura
di trovare
sorridente
il tuo nome.

Giovanni Merloni

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« Io ti ho scelto ! » (Zazie n. 42)

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« Io ti ho scelto ! »

Natura nemica,
tempo nemico.
Da un secolo
una ressa di avversari
e di falsari invisibili
logorava senza pietà
la nostra ingenuità.

Natura dispettosa,
tempo inascoltato.
Tra le pieghe puntute
del nostro tetto austero
una strada si è aperta
di fiori verdi, di violette
appassite, distratte,
un sentiero di rocce
luminose e taglienti
contro la linea bianca
del mare.

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Natura malfidata,
tempo inerte.
Soli, liberati
dalle grucce della pazienza,
dai colori smorti
delle abitudini,
vivevamo lo stesso increduli:
che allucinazione
questa consapevolezza
tumultuosa,
questa strana libertà
mai conquistata
né vinta, come se
un divieto
ci imprigionasse il corpo
e i passi.

Natura amica,
tempo amico.
In un solo istante,
come collane di carezze,
le coincidenze e le circostanze
si sono scatenate.

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Natura indovina,
tempo inaspettato.
I tuoi occhi appassionati,
le tue braccia accecate,
il tuo corpo incendiato,
ora rannicchiato
(goffamente,
dolcemente)
accanto al mio,
strapazzano il mio destino,
senza troppe scosse,
perché ritrovi il suo cammino
sincero.

Natura felice,
felice tempo, incline
all’immobilità:
il tuo sguardo in tralice
di nascosto mi studia,
da tanta gioia sfinito.

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Natura amica del tempo,
non ha paura di spezzare
l’ordine della vita
né i riflessi sordi
della morte, mentre
il tuo labbro urla, svelto:
«Io ti ho scelto!»

Giovanni Merloni

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Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

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Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (regia di Giorgio Strehler)

Mi viene spesso da pensare che ogni persona di genio, alla fine della sua esistenza, viene punita con un male che lo colpisce, inesorabilmente, proprio nel punto più vivo e essenziale della sua espressione artistica.
A volte la natura si sbaglia, privando per esempio Edward Hopper dell’udito invece che della vista o dell’uso delle mani e dandogli, per così dire, in cambio la possibilità di raccontare ai posteri il suo speciale mondo ovattato, la sua visione «spaesata» dei rapporti umani al di qua e al di là del baratro.
Anche Omero, privato degli occhi, ha potuto sviluppare meglio la sua drammaturgia poetica imparando e restituendo a memoria le sue edificanti battaglie. E Tiresia, per veder meglio il futuro, poteva rinunciare senza troppe tragedie alla sua vista di uomo o di donna.
Ma non potrei mai sminuire la sofferenza di Ludwig van Beethoven, colpito nell’organo più importante per un musicista, l’udito, o per quel grande corridore dei cento metri che finì sulla sedia a rotelle, o per Auguste Renoir che cadendo dalla bicicletta compromise gravemente l’uso della spina dorsale perdendo progressivamente l’uso delle mani.
Certo Renoir dipinse fino alla morte e Beethoven riuscì à vedere nel buio della sua sordità le note della nona sinfonia senza perderne una battuta né la minima sfumatura.
Ma come doveva sentirsi Carlo Levi, un grande pittore (e scrittore) italiano del novecento, quando, diventato ormai cieco, cercava lo stesso di lasciare un’impronta del suo discorso interrotto, dipingendo all’interno di una speciale griglia sospesa sulla tela che lui chiamava «quaderno a cancelli»?
Altri grandi, come Michelangelo Antonioni, hanno dovuto passare gli ultimi anni della loro vita in uno stato di confusione o di assenza, privati dal solo clic di una malattia invisibile dell’acuta e inesauribile forza del loro ragionare, inventare, scandalizzare, rovesciare i parametri e finalmente trasmettere una nuova forma di arte e di cultura.

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Pierangelo Summa: il suo genio chiaroveggente e generoso cammina con noi

Pierangelo Summa fa parte di quei geni unici e straordinari che vengono interrotti lungo il loro generoso percorso artistico da un male subdolo che non si limita a colpire un organo o un senso, ma aggredisce progressivamente tutto il corpo. Guarda caso, Pierangelo Summa era appunto un artista che aveva il proprio fondamentale strumento di espressione nel corpo, in tutto il corpo: il corpo umano nella sua straordinaria elasticità e adattabilità alle più diverse azioni e emozioni; il corpo in maschera delle marionette o pupazzi più o meno elastici o smidollati che lui stesso creava o che lui faceva rivivere nel corpo di attori veri o improvvisati. Mettendo in moto la «seconda vita» di ognuno di noi, quella appunto del corpo, Pierangelo Summa ha inventato e fatto conoscere un teatro «al rovescio» o «all’improvvista» in cui l’antica tradizione della commedia dell’arte italiana si fonde «dialetticamente» e aggiungerei «ironicamente» con il teatro impegnato, dalla tragedia greca fino a Jean Genet.

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Creatore di maschere e animatore di spettacoli di strada per vocazione naturale, Pierangelo Summa è stato senza dubbio uno dei capofila del movimento teatrale italiano degli anni ’70, svolgendo gran parte della sua attività artistica in Lombardia, dove una ricchissima tradizione di canti e spettacoli popolari trovava un riscontro teatrale autorevole in figure carismatiche come Giorgio Strehler e Dario Fo, tra gli altri. Se la famosa messa in scena dell’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler non fu indifferente al giovane Summa per l’importanza conferita al ruolo della maschera, il «teatro della parola» di Dario Fo, con il suo straordinario recupero del mélange linguistico dei dialetti della valle Padana, divenne il secondo polo della formazione del Summa più adulto e aperto al nuovo. Ma bisogna attendere un evento assai importante e direi cruciale per lo sviluppo organico di una forma originale unica di espressione e di messa in scena teatrale da parte di Pierangelo Summa: il suo trasferimento a Parigi. Forse la piena consapevolezza dell’importanza dialettica e ironica del corpo rispetto alla maschera e alla parola non si sarebbe sviluppata così prodigiosamente in Pierangelo Summa se l’artista non si fosse profondamente calato anche nella cultura francese e nel suo vasto e stimolante mondo teatrale.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

Pierangelo Summa e il suo fratello gemello, Massimo, sono cresciuti, hanno studiato e lavorato a Como, ma fanno parte di una famiglia di Casalvieri, un piccolo paese della Ciociaria (provincia di Frosinone) a sud di Roma, situato in un paesaggio di montagna ancora oggi integro e selvaggio. Dunque, tutte le estati, la famiglia Summa si recava a Casalvieri per passarvi dei lunghi periodi di vacanza e di piena libertà. Rispetto alla «città» di Como, lambita da uno dei più bei laghi d’Italia, Casalvieri rappresentava la natura allo stato primitivo, ancestrale. Oltre all’affetto di una famiglia tradizionale molto calorosa, i fratelli Summa trovarono a Casalvieri le loro prime «fidanzate». Pierangelo vi conobbe Mirella, di tre anni più piccola, sin dalla più tenera adolescenza. Mirella, nata a Parigi, dove passava tutto l’anno con la sua famiglia che vi si era recentemente trasferita, parlava da sempre un perfetto francese senza accento, ma era perfettamente bilingue, la madre avendogli trasmesso l’italiano e, forse, anche qualche frase del dialetto ciociaro. Ma d’estate, il richiamo di Casalvieri valeva anche per la famiglia di Mirella che, tutti gli anni era presente.

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Pierangelo Summa incontra Patrizia Molteni di Focus In, Parigi, 2011

Da allora, Mirella è stata la compagna della vita di Pierangelo Summa. Per circa venti anni hanno vissuto a Como, dove ambedue lavoravano. Pierangelo, nelle ore libere dal suo impiego «alimentare», fabbricava le sue straordinarie maschere e allestiva spettacoli dove il teatro «improvvisato» e di strada si legava ad attività più tipicamente circensi, popolate di mangiatori di fuoco e di funamboli che avanzavano sui trampoli. Mirella, la «matematica» della famiglia, seguiva con entusiasmo suo marito in tutte le sue iniziative teatrali, partecipando attivamente, tra l’altro, ad un importante e approfondito lavoro di raccolta di canti tradizionali e storie popolari in molte realtà regionali del Nord Italia. In questo periodo Pierangelo Summa fu chiamato a sovrintendere la Festa di Isola Dovarese, dove per un’intera settimana si succedono ancor oggi spettacoli teatrali e musicali insieme ad attrazioni di vario tipo.

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Quando Mirella ottenne un incarico universitario a Parigi, Pierangelo la seguì con i due figli Sara e Robin, decidendo di dedicarsi a tempo pieno alla regia di spettacoli teatrali, con l’intenzione, tra l’altro, di introdurvi maschere e pupazzi del suo ricco universo fantastico.
Senza mai interrompere i legami con il mondo della sua ispirazione originaria, che egli fece conoscere ed apprezzare ai nuovi amici francesi, Pierangelo Summa trovò a Parigi e in Francia un contesto estremamente favorevole alle sue interpretazioni originali dei testi di autori già di per se stessi originali. È il caso delle «Bonnes» di Jean Gênet, un testo che Summa rende ancora più provocatorio e dirompente attraverso il paradosso della sostituzione del personaggio di Madame con un fantoccio a grandezza naturale, costruito dallo stesso regista.

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È il caso di Dario Fo… Si inserisce qui, da parte mia, una testimonianza diretta risalente all’ultimo trimestre del 2011. Sotto la guida di Pierangelo Summa, mia figlia Gabriella ha interpretato la parte di Maria in «Una donna sola» di Dario Fo al teatro dei Déchargeurs a Parigi. Personalmente, con l’aiuto artistico e manuale di mio figlio Paolo, ho partecipato anch’io a questa esperienza, realizzando alla bell’e meglio, secondo le benevole ma chiare indicazioni di Pierangelo, i modestissimi decori da lui concepiti : due o tre cornici dipinte di rosso, una specie di «quadro svedese» da collocare sul fondo, uno sgabello, un telefono grigio e una pistola giocattolo. Tutto ciò è stato più che sufficiente…
Non potrò mai dimenticare la voce di Pierangelo né il suo intendo sguardo blu-celeste (Piero era forse un Angelo?), capace di ascoltare gli altri, il suo coraggio dissimulato da una continua ironia e autoironia.
Già allora Pierangelo Summa combatteva con il Parkinson, questo male che si serve di un nome quasi divertente e invece, purtroppo, è una delle più terribili torture che possano capitare a un essere umano.
Durante lo spettacolo di Gabriella, che fu coronato da un certo successo di pubblico e di critica, Pierangelo era sempre presente, attento, a volte severo, ma sempre sorridente. Avevamo fatto amicizia, lui disse anche una volta, forse in ragione della vicinanza d’età, che per lui ero un fratello. Ma lui si era molto affezionato soprattutto a Gabriella e a Paolo.
Dopo lo spettacolo, per i tanti stupidi doveri che ci sembrano importanti, e anche per l’insorgere di preoccupazioni e dolori familiari, ci perdemmo di vista.

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Andammo con tutta la famiglia a trovare Pierangelo e Mirella Summa verso la fine del 2014. Fummo tutti felici di incontrarci, commossi e contrariati vedendo sul volto sereno e indomito di quest’uomo generoso le tracce evidenti dell’aggravamento del suo stato. Nonostante la fatica e l’emozione, Pierangelo disse una parola affettuosa ad ognuno di noi. Riuscimmo perfino a brindare all’italiana e a «incontrare» via Skype sua figlia Sara, in quel momento a Berlino
Poi Mirella si prese il carico di parlare per tutti, raccontandoci tutto quello che era successo, trasmettendoci contemporaneamente, e fedelmente, quello che Pierangelo, ne sono sicuro, avrebbe voluto dire egli stesso. Mirella parlò del calvario che suo marito stava subendo, ma anche le straordinarie attività artistiche che egli aveva saputo portare a termine, con la complicità della figlia Sarà, che aveva del resto splendidamente recitato negli ultimi drammi da lui creati e/o diretti, aiutandolo anche in un altro progetto più importante, lanciato verso il futuro: Pierangelo Summa non rinunciava a trasmettere, fino all’ultimo, il suo sapere coraggioso.

Il 2015 è stato un anno spaventoso per tutti. Ma è stato particolarmente terribile per Pierangelo Summa, reso sempre più debole dalla malattia che gli rendeva sempre più difficile il mangiare e il bere.
Ho avuto perfino l’impressione che le istituzioni ospedaliere lo abbiano «lasciato morire». Fino all’ultimo, questo povero corpo così difficile da dirigere e governare, avrebbe voluto vivere in pace, mentre la sua povera anima sensibile non avrebbe desiderato che le cure normali che si adottano per combattere la febbre, la fame e la sete.

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Pierangelo Summa a Radio Aligre, Parigi, 2011

In una delle sue ultime degenze in un ospedale parigino, il famoso «protocollo» che si stabilisce per «evitare cure eccessive o inutili» si era tradotto in una frase significativa che compariva sulla sua cartella clinica: «il paziente Pierangelo Summa non parla in francese». Un falso che serviva da pretesto per non dare al malato, tra l’altro, una qualsivoglia assistenza psicologica.
Un tale atteggiamento corrisponde forse a una delle tante prevenzioni ancestrali che non si possono discutere, come le tradizioni orali o i proverbi. Un luogo comune come quello di mettere insieme due italiani nella stessa stanza dando per scontato che saranno subito amici e si aiuteranno a vicenda. (Laddove la mia amicizia ricambiata con Pierangelo, per esempio, è senza dubbio un’eccezione alla regola che dice l’esatto contrario…)
Pierangelo Summa viveva a Parigi da più di trent’anni, una città che amava e conosceva bene già prima della definitiva installazione. Dunque, quando la recalcitrante psicologa, trascinata da Mirella, si recò al suo capezzale e gli disse:
— Di cosa ha bisogno, signor Summa?
Pierangelo aveva subito risposto, in perfetto francese:
— Vorrei che qualcuno mi aiuti a venire a patti con questo cervello che se ne va per conto suo…
Si può essere tutti d’accordo contro il cosiddetto «accanimento terapeutico», ma senza rinunciare a quel minimo di «umanità» che fa la differenza: a volte basterebbe molto poco.

« Pierangelo Summa, scultore di maschere e di marionette e regista teatrale, ha chiuso gli occhi mercoledì 15 luglio 2015 — scrive Sara Summa, la figli primogenita, attrice e regista teatrale —. Quelli che l’hanno conosciuto sanno che, leggero ormai come l’aria, egli resta con noi per sempre, per tutto quello che ci ha trasmesso e perché siamo tutti impregnati da quella forza creatrice che lo ha sempre animato. »

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Pierangelo Summa con Gabriella Merloni, Parigi, 2011

Pensando ora a questo amico che ha tanto sofferto, resto esterrefatto al ricordo delle marionette a dimensione umana di Pierangelo Summa che ho visto nelle «Bonnes» di Jean Gênet e poi nell’«Edipo Re» di Sofocle del 2012. Quelle maschere «molli» o smidollate, che non erano fatte per stare in piedi come delle statue, ma per essere trascinate, abbracciate, malmenate, aggrappate a un chiodo o addossate a una spalliera… quelle maschere nate per contestare, rivoltare il senso scontato delle cose, erano, senza che lui lo sapesse fino in fondo, un presagio di quello che sarebbe, alla fine, capitato al suo corpo. Il suo corpo un dì sano e scattante sarebbe diventato sempre più dispettoso e incontrollabile col progredire della malattia.
Metaforicamente, egli stesso si sarebbe trasformato, suo malgrado, in uno dei suoi «pupazzi umani». Mentre la sua mente, fortunatamente per lui e tutti quelli che lo amavano, sarebbe restata sempre lucida, serena, attenta fino all’ultimo a cogliere ogni attimo di questa meravigliosa cosa che si chiama Vita.
Se dunque questo «vero artista» è stato colpito in quello che aveva più caro è necessario per il suo lavoro di artigiano e di maestro — il suo corpo, che gli era servito per tutta la vita a «insegnare» agli attori e alle stesse marionette come interpretare, «al rovescio», il mistero della rappresentazione teatrale — non si può non constatare che la sua intelligenza, intatta fino alla fine, ha saputo in un certo senso «prendersi gioco» del corpo stesso, invertendo per una volta la procedura da lui stesso creata per il suo straordinario «anti-teatro dal volto umano».

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Mirella Summa, Théâtre des Déchargeurs, 2011

Nel mese di novembre 2015, Mirella Summa ha «riportato» Pierangelo, simbolicamente, prima sulle rive del lago di Como — dove sono accorsi tutti i parenti e gli amici della Lombardia, compresi gli attori e le comparse di Isola Dovarese, per salutare in un clima festoso il sorriso di quest’uomo straordinario con una carovana in maschera — poi sulle montagne di Casalvieri, dove tutti gli amici italiani e francesi hanno ricordato la sua voce indimenticabile con la recita di un estratto dei «Giganti della montagna» di Luigi Pirandello, rielaborato in modo originale da Mirella Summa.

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Ora noi, commossi e smarriti per la perdita di un amico e di un maestro — che aveva il sorriso noncurante e lo sguardo penetrante di una guida ispirata, come il Gesù che rideva dei propri miracoli del «Vangelo secondo Gesù» di José Saramago —, ci sentiamo particolarmente tristi per la consapevolezza che avremmo seguito Pierangelo anche in capo al mondo, con fiducia e innocente complicità, mentre questo «cammino affascinante» è stato, invece, bruscamente interrotto.
Che fare, allora? Non ci resta che adoperarci perché l’immenso e delicato lavoro di creazione e di riflessione di Pierangelo Summa sia raccolto, protetto, studiato, riprodotto e divulgato a tutti i giovani che vorranno seguirne il cammino.

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Giovanni Merloni

Mentre ti conquisto ti perdo (Zazie n. 41)

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Mentre ti conquisto ti perdo

1
Cosa ho capito
dal tuo sguardo sorridente,
dai tuo modo sorprendente,
imbronciato o ardente
di aspettarmi?

Cosa ho capito
di me e di te,
stretti nel vialetto di pioggia
la mano nella mano
senza riuscire nemmeno
a parlare?

Cosa ho capito
cercandoti nella città
in una corsa felice
e trafelata
tra i suoni indifferenti
della mattina?

2
Ancora una volta,
oggi, ho provato
la voglia di essere
felice, il desiderio
di ridere grazie all’amore.

Ma quante speranze frustrate
appallottolate senza gloria
tra i residui di una ribellione
incapace di calde lacrime
e di vera pena.

3
Devo fingermi sordo e muto
come quell’indiano,
o invece
continuare a seguire l’istinto
di gentile arroganza
che mi regalò l’eleganza
di una straordinaria sequela
di affanni?

4
La libertà non scaturisce
dalle regole che piacciono
agli altri,

La libertà è il passaggio crudele
dall’euforia del dilettante
alle rughe del professionista.

La libertà
è il mestiere.

5
Un solo grido disperato, sprigionato
tra i rottami e il treno
sovrasta e cancella
i piccoli disegni
di un modesto tentativo di chiarezza.

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6
Da questo treno fermo
in un angolo senza bellezza

ti scrivo sulla mano
sul vetro appannato
sugli occhiali
sul fazzoletto

il mio desiderio sovrumano
il mio bisogno sconfinato
le mie voglie infernali
il mio amore perfetto.

Ma il rivolo d’inchiostro
si è seccato, improvviso
mentre pensavo, invano,
al tuo viso.

Oh quanto è remota la speranza
che questa mia penna
scriva!

7
Il tuo corpo abbandonato
in uno slancio
che sembra casuale,
scherzoso, imbarazzato,
è la tua maniera
tenera, consapevole
indimenticabile
di dichiarare
a me soltanto
il tuo amore.

8
Bisogna disabituarsi a tutto
se si vuole scoprire il pudore
di un’emozione violenta.

Devo rinunciare alla pace
se voglio incontrare, nell’ombra,
i tuoi gesti non studiati
il tuo viso sorridente.

Ah, se riuscissi ad amare
senza desiderare
che tutto scompaia
– le abitudini,
la pace,
l’emozione,
l’ombra –
che in quel preciso istante
qualcuno lasci, libero,
un posto per noi.

9
Quando avrò la forza
di aprire quella porta
e di entrare nel tuo letto
tra le arance e il sole,
la semplicità della vita
farà il resto,
regalandomi la gioia
di un ancestrale nascondiglio
di lenzuoli d’oro e di seta,
lo sbocciare ardito
delle nostre voci impercettibili,
dei nostri gesti invisibili
nel fondo buio del silenzio.

10
Mentre ti perdo
ti conquisto
mentre ti conquisto
ti perdo.

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Vista del nuovo asse tra boulevard Richard Lenoir e boulevard Voltaire in corrispondenza delle stazioni della metropolitana RICHARD LENOIR (linea 5) e SAINT-AMBROISE (linea 9). In questo spazio pedonale si sta realizzando réaliser un giardino pubblico. Ecco una delle cose senza dubbio positive che una società come la nostra ha saputo fare, con tenacia e eleganza! 

Giovanni Merloni

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Quest’ultima capacità di ragionare e sognare (Zazie n. 39)

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Quest’ultima capacità di ragionare e sognare

Mi confortano
questi segni di matita
su fogli a perdere
quest’ultima capacità
di ragionare
e sognare.

Mi resta
la prigione dei miei desideri
che appannano
la cornice di vetro
del mondo.

Mi resta
questo lamento introverso
questa confusione angosciosa
questa solitudine rabbiosa.

Mi resta
la delineata prospettiva
di un solitario viaggio
tra gli ubriachi
tra i derelitti
tra i focosi paladini
di inutili battaglie
tra i rami
smorti e appassiti
di un bosco di cartapesta.

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Giovanni Merloni

Questa poesia è protetta da ©Copyright

È libero chi muore libero (Zazie n. 38)

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È libero chi muore libero.

E’ libero chi si abitua
a rimanere solo
in mezzo agli altri.
chi sa scegliersi gli amici
le compagne, i compagni.

È libero chi sa
tenersi un segreto
chi sa farsi carico
nella giusta misura
delle proprie responsabilità
del caos
di questa società
dei suoi sfavorevoli equilibri
della repressione
che aleggia dappertutto.

E’ libero chi mai oltrepassa
il suo limite, chi non parte
né crede
ai colpi di scena
alle lettere omicide
ai ricatti morali
alle vendette
ai silenzi definitivi,
chi sa parlare
al proprio corpo,
chi sa calarsi
per gradi nella lotta
nella scoperta
di nuovi mondi,
chi riesce a mantenere intatta
la propria identità
senza pagare il prezzo
di pesanti legami
col mondo.

È libero chi vive
con distacco,
chi lavora, lotta, si schiera
si incontra con gli altri
con distacco,
chi evita con cura
di trascinare di coinvolgere
di prevaricare
gli altri.

È libero chi si spoglia
della violenza,
chi guarda in faccia la realtà
con coraggio
e determinazione,
chi cerca
di fare chiarezza.

È libero chi muore libero.

Giovanni Merloni

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«Per un punto Martin perse la cappa» (Caramella n. 5)

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«Per un punto Martin perse la cappa»

«Per un punto Martin perse la cappa»… Dovrei essere ormai abituato a certi «incidenti di percorso» che in me nascono, quasi sempre, dall’entusiasmo e dalla fretta, pessimi consiglieri tutti e due. Dopo simili incidenti farei meglio ad avanzare con un sorriso ebete e spavaldo, scrollando le spalle in segno di indifferenza. Non ne sono capace… Ma è necessario che almeno io cerchi di fare ordine, come il povero abate Martino, che rimetta al più presto al suo posto quel benedetto punto…
La storia di Martino e della cappa mi perseguita sin da bambino. Mio padre, che era molto intonato e sapeva suonare il violoncello, me la canticchiava spesso, seguendo il ritmo di danza dolorosa di Sheherazade o, a volte, il ritmo solenne e sognatore dell’incompiuta di Schubert… Non posso dilungarmi su questo punto del punto di Martino nella storia di famiglia, ma è certo che mio nonno materno perse quasi tutti i suoi risparmi per essersi ostinato, con sacrifici inenarrabili, ad accumulare e conservare titoli di stato che, si scoprì un giorno, valevano meno che francobolli scaduti. Le sue alte conoscenze di matematica infinitesimale gli avevano forse fatto sottovalutare l’importanza dei coefficienti, dei punti e delle virgole… mentre mio nonno paterno, per aver voluto tenere il punto dell’antifascismo, perse la vita.
Quanti punti e quante virgole si dovrebbero poter rimettere al loro posto per fare giustizia, magari postuma, ai tanti Martini che si aggirano per il pianeta, vivi, morti o moribondi, ignari tutti del loro comune destino! Ma nessuna riparazione potrebbe restituire quello che hanno ormai perduto: né la borsa né la vita!
Resta la cappa, su cui mio padre amava appoggiare, musicalmente, un piccolo tocco di enfasi finale. Nella leggenda, la cappa è appunto il mantello perduto o mai ottenuto dall’abate Martino per avere scritto una frase ambigua. O per meglio dire, per aver commesso l’errore — nell’entusiasmo della sua sincera bontà e nella fretta di ricevere un premio — di mettere un punto e forse anche una virgola là dove dovevano essere messi. Col tempo, man mano che la voce perentoria e cantante di mio padre si allontanava da me, a volte senza darmi il tempo di salutare, la cappa è diventata per me un qualcosa che inevitabilmente si perde, perché è quasi impossibile ottenerla e soprattutto mantenerla. In più, se la cappa può confondersi idealmente con la gloria o con una bellissima donna che decide di punto in bianco di ricambiare il nostro amore… la cappa rappresenta anche, di per se stessa, la paura di perderla. Il flessuoso mantello di lana che potrebbe coprirci e offrirci un indimenticabile calore provvisorio si trasforma inevitabilmente in una cappa… di piombo. E, di colpo, all’illusione subentra la beffa, alla casa magnifica e confortevole subentra una prigione gelida e impenetrabile.
Ah, quanto mi piacerebbe passare inosservato tra i banchi di scuola per andare a parlare un momento con il professor Steno Vazzana, di italiano… Sono certo che mi aiuterebbe a sbrogliarmela. Lui che ha trovato delle affinità tra Dante e Lucrezio e che tanto ha apprezzato l’apertura mentale di Italo Svevo, che egli amava definire «il primo scrittore italiano di portata europea»… Basterebbe pensare a Zeno Cosini e alla sua meravigliosa indecisione : due sorelle certamente diverse l’una dall’altra, ma con tantissimi punti in comune. Come fare a distinguere se si è distratti e obnubilati dalla paura di perdere la cappa? Perché scegliere? Così direbbe Steno Vazzana. Potrei raggiungerlo al suo ultimo liceo, il Vivona, nel quartiere dell’EUR dove si era trasferito… E, certo, avrei potuto chiedergli un appuntamento, l’ultima volta che lo vidi, nel 2000. Chissà se lui sapeva che presto, di lì a un anno… Il nostro professore di Italiano era una figura schiva e perfino trasparente, che vedo avanzare a passi corti e leggeri, sgusciando in mezzo a colossi come Punzi e Pagani o Manacorda senza curarsi di quello che poteva succedere alla sua povera ombra… L’ultima volta che gli parlai, non ebbi la presenza di spirito di chiedergli il perché della mia vocazione a farmi del male da solo, come direbbe Nanni Moretti. Una sua risposta mi sarebbe servita moltissimo, peccato. Ma posso forse trovare qualche spunto nel ricordo delle sue lezioni su Dante e in quello che mi disse un giorno a proposito della poesia.
Sull’onda di quelle lezioni, mi sono domandato con insistenza quello che deve aver passato Dante con Beatrice. Povero Dante! Un uomo venuto dritto per dritto dal dolce stil nuovo, uno dei fondatori di quella lingua «volgare» che finalmente si liberava dal latino raccogliendo tutte le virtù e le sfumature della «loquela», cioè della lingua parlata, un creatore così «concreto» e profondamente umano non avrebbe mai potuto «idealizzare» una donna inesistente. Colui che disse «amor che nullo amato amar perdona» non poteva elevarsi verso il divino senza portare con sé non solo la propria corporea e appassionata umanità, ma soprattutto quella dell’amata. Se per traversare l’Inferno e il Purgatorio Dante può contentarsi di un suo «pari» — il più grande dei suoi pari, Virgilio —, per ascendere nei cieli del Paradiso ha bisogno dell’aiuto di un essere «altro», di una figura diversa e complementare che faccia da tramite tra l’umano e il divino. Ed ecco che Beatrice, quella che Dante chiamava «la donna mia» diventa «l’avvocata nostra», un essere a metà umano a metà divino come la Madonna secondo tutti i Vangeli cristiani.
Certo noi due, Caramella, navighiamo, anche retrospettivamente, nella sacralità del ricordo di un passato comune, in una dimensione molto più pagana e disincantata di quella in cui viveva Dante. Siamo cresciuti in un Paese dove attraverso successive conquiste la donna ha potuto ottenere, sia pure ancora in modo insoddisfacente, una sorta di parità con l’uomo. Un paese è una società, anche qui in Francia, in cui si dà per scontata la cosiddetta «privacy», una parola divenuta secondo me orribile ma che fotografa abbastanza bene un problema…
Tornando a Dante e Beatrice, io mi domando quanto deve essere costata al nostro poeta sommo la scelta di fare della sua donna amata un personaggio e per di più l’ago della bilancia della sua gigantesca scommessa umana e letteraria. E mi domando se, allora, la cosiddetta «vox populi», invece di «seguir vertute e conoscenza» e di elevarsi, attraverso le parole di Dante, verso più ambiziosi traguardi, non abbia cercato «terra terra» di far risaltare, nella Divina Commedia la questione dell’amore sacro o profano tra Dante e Beatrice come se fosse quello e solo quello il suo motore… Mi sono visto davanti un gruppetto di sedicenti «parenti di Beatrice» assediare la Casa di Dante, a Trastevere, proprio mentre il professor Vazzana stava spiegando il canto… del Paradiso… Un gruppo armato di forconi innocui e antidiluviani, naturalmente. Ma «il modo ancor m’offende» avrà detto Dante, sentendosi mortificato da queste ingiuste e soprattutto squallide accuse.
Rileggendo la storia di Dante e Beatrice insieme a Steno Vazzana e Italo Svevo, verrebbe da dire: ma forse Beatrice aveva una sorella!
Purtroppo, Caramella, il mondo di oggi, quello che abbiamo creduto e sperato migliore per i nostri figli, sembra andare all’indietro. Non solo si impone l’intolleranza guerresca di popoli che vorrebbero inculcare ad altri popoli la loro ignoranza in cui sembrano inscindibili la violenza e il disprezzo della vita umana, in particolare delle donne. Ma anche i popoli cosiddetti evoluti sembrano scivolare e addirittura compiacersi in un colossale analfabetismo di ritorno.
Niente è scontato se ben ci ricordiamo quanto hanno sofferto D.H. Lawrence per il suo «amante di Lady Chatterley» o Vladimir Nabokov per «Lolita».
Il tempo ha dato loro ragione o, per meglio dire, qualcuno, in qualche parte del mondo civilizzato, ha dato loro una mano. E a nessuno importa se Dante fosse stato o no amante di Beatrice o della sua splendida sorella che, se fosse realmente esistita, avrebbe potuto perfettamente svolgere la parte della «donna schermo».
Ma il tempo è sempre galantuomo, con tutti? Quanti Martini, miseramente degradati e ingiustamente accusati riavranno mai la cappa?
Tutto questo giro di parole per dire che anch’io, Caramella, potrei imbattermi, per via della mia imprudenza, in qualche cupo malinteso. Come successe a Beatrice… Perché certo, se Dante avrà pianto Beatrice non avrà certo riso…
A volte le parole, o le immagini, sono ancor più gravi che i fatti reali… Purché si riesca a farli passare sotto silenzio, una vita di vera violenza e di vera e spesso grave prevaricazione può essere dimenticata o, per così dire, «condonata». Mentre le parole portano con grande facilità ai processi sommari, con il rischio sempre presente di perdere la cappa o la vita.

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Non posso sapere se noi continueremo o no, Caramella, questa nostra traversata. Ma sono contento che alcune cose essenziali si siano chiarite tra noi. Per esempio, avrei preferito lasciar credere che tu fossi la sola che potesse interessarmi tra le tante compagne e ombre vaganti della nostra strana classe… Ma cosa cambierebbe, in fondo, se d’ora in poi tu le rappresentassi tutte? D’altra parte, ora so bene con quale entusiasmo tu mi aiuteresti, con il tuo sguardo fulmineo e spiritoso, a portare a compimento la mia «Gerusalemme Liberata», proteggendomi da coloro che potrebbero cercare di convincermi a riscriverla all’infinito, e magari a rovinarla…

Giovanni Merloni

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«Chi segue segue; chi non segue seguirà in seguito!» (Caramella n. 4)

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«Chi segue segue; chi non segue seguirà in seguito!»

Caramella,
prima del nostro incontro di Ostia mi sembrava che tutto fosse attaccato a un filo, come nei film di Indiana Jones. Ma tu sei stata indulgente: all’altro capo della corda lì lì per spezzarsi, affacciata sull’orlo del pozzo scuro e gelato, mi hai tirato su. Quante volte ti sarai domandata «chi me lo fa fare?», ma poi il braccio l’hai allungato, preoccupandoti di far arrivare il filo fino alle mie mani. Energicamente, forse con l’aiuto di qualcuno, hai fatto passare la corda sulla carrucola e… mi hai salvato.
Ma poi, invece di correre subito ad abbracciarti, mi sono lasciato attrarre dalle sirene di Scilla e Cariddi come Ulisse. Tu eri una Penelope assediata che aspettava il suo vecchio amico. Non avrei dovuto tergiversare: questo incontro così raro, così unico, era più importante delle parole, più importante delle ansie che ingombrano la mia testa come droghe vere e proprie. Insomma, ti ho deluso.
Come Ulisse, sono arrivato sotto falso nome, rivestito di stracci e di cicatrici a te sconosciute. Non ti ho dato la possibilità di scoprirmi a modo tuo, seguendo il tuo infallibile istinto. Forse, se avessi saputo liberarmi della mia corazza di cartapesta, sarei riuscito a espugnare la tua isola!
Ora… mi ritrovo tra le mani un foglietto spiegazzato, su cui tu hai scarabocchiato una domanda: «che c’entra Punzi con Paparozzi?»
Ma tu lasci ancora sospeso tra me e te un esile filo… Un lunghissimo capello castano che, visto dall’aereo, sembra una tortuosa strada bianca che sparisce e ricompare al passaggio delle nuvole e al sottopassaggio delle montagne, per poi impaludarsi tra i riflessi accecanti dell’immenso delta del Rodano e… risalire, risalire, arrivando chissà come fino al mio portone. Già, davvero, che c’entra Punzi con Paparozzi?
Forse, qualcuno che non esiste, se fosse stato alunno dell’uno e dell’altro avrebbe potuto aiutarmi a spiegare oggettivamente e una volta per tutte una tale questione basilare o, più probabilmente, avrebbe suggerito di lasciar perdere: Punzi è Punzi e Paparozzi è Paparozzi.
Sta di fatto che per cinque anni di seguito io sono stato compagno di scuola e di classe di Paparozzi, cumulando di anno in anno la sublime esperienza di avere a che fare con un inguaribile primo della classe che era anche, cosa rara, un fuoriclasse. Nella maggior parte delle «galere chic», come io chiamo le scuole, come io le chiamo e considero, il primo o la prima della classe non è necessariamente un genio che ha la scienza infusa. Al contrario, si tratta di persone soprattutto volenterose e metodiche, spinte da un desiderio quasi religioso di primeggiare e che, se non primeggiassero, non saprebbero cosa fare.
Nella nostra classe, Caramella, se ben mi ricordo, non c’erano primi della classe né geni. Eravamo lo specchio dell’Italia pre-risorgimentale, costellata di staterelli decaduti e incapaci di primeggiare. In altre classi, come quella di mia sorella o quella di mio fratello, la regola più diffusa era rispettata, con dei «Pierini» che non perdevano un colpo e degli «elementi» capaci talvolta di exploit sorprendenti in questa o quella materia.
Nella classe da cui venivo, facevo parte dell’agguerrito gruppetto di coloro che perennemente inseguivano il fuoriclasse in fuga. Paparozzi eccelleva nelle materie letterarie e in disegno, ma se la cavava anche in matematica e in geometria. Per questa sua supremazia, perché nessuno lo copiasse, veniva relegato all’ultimo banco durante i compiti in classe. Più tardi, tra le leggende che serpeggiavamo nei corridoi fumosi all’ora delle pizzette — che i bidelli scaldavano per qualche minuto sui grandi termosifoni di ghisa —. si diceva che Musmarra, il professore di latino e greco della sezione D, faceva per lui un’ eccezione, sfidandolo a tradurre dal greco al latino e viceversa, essendo la versione in italiano troppo facile e scontata. Più tardi, quando Paparozzi era ormai una leggenda tra i professori della sua scuola, il liceo Pasteur, si raccontò che Paparozzi, non contento di decifrare testi greci e latini scoloriti e difficilissimi, aveva intrapreso una fitta corrispondenza con un professore dell’Università di Oxford che si divertiva a mandargli, dopo averli bruciacchiati qua e là, certi poemi sconosciuti. E Paparozzi rispondeva: certo si trattava di un’interpretazione… ma la soluzione era talmente brillante che ci si poteva giurare.
Ai tempi miei, Paparozzi era buono, calmo, riflessivo, silenzioso. Devoto della penna stilografica Pelikan, se ne serviva in classe per fare a tempo perso degli esercizi di calligrafia in gotico. Eravamo amici, in qualche modo, come lo si può essere quando la superiorità dell’uno sull’altro è fissata una volta per tutte. Abitava a Monte Mario, in un piccolo appartamento dietro al cinema Edelweiss. Figlio unico molto devoto, è stato sempre vicino ai suoi genitori che avranno passato la vita, io credo, a domandarsi come mai avevano potuto generare un figlio così speciale.
Dalla seconda media fino al quinto ginnasio avevo condiviso con Paparozzi la passione per il francese e la Francia. Per lui forse, questa cultura, sempre all’avanguardia dal punto di vista letterario, filosofico e scientifico, era una porta, un veicolo per introdursi e avanzare più speditamente nel suo gigantesco bisogno di sapere. Per me il francese era la chiave per entrare in un mondo che non poteva cambiare e dove, soprattutto, si respirava una particolare aria di libertà. Sia alle medie che al ginnasio avemmo la fortuna di due bravissime professoresse di francese. Ma Ortensia Lami, quella signora piccola e freddolosa con i capelli bianchi e vestito di lana nero alla Strehler, che forse avrai visto circolare per i corridoi del Mamiani seguita da un codazzo di fedelissimi «portatori» delle sue indispensabili stufe, fu un vero e proprio mito. Come non amarla, come non assimilare ogni angolo delle sue precise e indimenticabili parole francesi. Venendo a Parigi, ho poi immaginato che la Lami, se fosse rimasta in Francia con la sua famiglia, si sarebbe chiamata Hortense Lamy… ma la mia intraprendenza si ferma lì. A differenza di Paparozzi, che andava regolarmente a trovare la vecchia e arzilla professoressa, io non ci sono mai andato, se non una volta. Eppure, davanti a tante materie che amavo o odiavo in modo alterno, il francese, insieme alla geografia, erano le materie in cui ottenevo i migliori risultati. Al punto che capitò, qualche volta, in occasione di un compito in classe di francese, la Lami mi facesse sedere in fondo, vicino a Paparozzi…
Ti risparmio, Caramella, il ricordo di quegli strani e straordinari dibattiti che la Lami sapeva suscitare parlando della « religiosità » di Rousseau o della « vita reale » scritta-dipinta da Prévert, che furono tutti e due i miei primi maestri… Fatto sta che questa interminabile stagione di classi maschili, in cui si affacciava prepotentemente ma senza grosse speranze la questione amorosa, si interruppe bruscamente quando, invece di continuare a frequentare la sezione D, insieme a Paparozzi e al gruppetto dei pochi amici che pure mi ero creato, i miei genitori decisero per me, trasferendomi nella C.
Tra i nostri nuovi professori c’era Giuliano Manacorda, una persona nobilissima e carismatica che, si sapeva, era un intellettuale di sinistra… Ma non credo ci potesse essere solo questa motivazione. Perché « levarmi » da una classe dove in fin dei conti me l’ero sempre cavata? Mistero. E perché io non dissi niente? Forse perché tutto mi era indifferente? Ero diventato così, secondo loro, a forza di stare nell’ombra, e quest’ombra rischiava di diventare un alibi per non sforzarmi di primeggiare e, al limite, per non studiare.
Certo la classe con il fuoriclasse Paparazzi sembrava ipotecata da un destino implacabile. Per di più, tra la quarta e la quinta ginnasio, io avevo definitivamente perduto la cosiddetta « pace dei sensi » e non riuscivo più a studiare con la testa leggera, come prima. E Paparozzi, che mi sembrava ancora indenne da queste turbe disastrose, non poteva più essere per me lo stesso interlocutore. Ma, Caramella, i primi giorni che mi trovai catapultato nella classe dove c’eri anche tu… una classe finalmente mista, devo confessarti che, pur non avendo la consapevolezza di aver perduto, tra i vecchi compagni, qualche vero amico, mi trovavo ancora molto spaesato e confuso.

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«Siete quaranta!» urlò Punzi, con quell’inflessione dialettale avellinese che fu poi l’occasione di tante e tante imitazioni. Già all’inizio del liceo, nell’ottobre 1961, eravamo in soprannumero. Tre anni dopo, al primo anno di architettura, dove si iscrissero con me altri cinque nostri compagni, eravamo cinquecento! Si parla oggi della nostra generazione, quella dei nati alla fine della guerra, come della generazione dei « baby boomers », credo più « maschi » che « femmine », se vogliamo usare il gergo scolastico. La prima generazione che ha dovuto da un giorno all’altro fare i conti con quel cambiamento radicale della società occidentale di cui vediamo oggi una fase ancora più inquietante e minacciosa. Ma Punzi non era cattivo. Era terrigno, autentico, burbero ma benefico come il personaggio di Goldoni. Legato ancora ad un’idea, arcaica ma solidale, di una società che desiderava sinceramente sana e giusta, dove si doveva continuare a «dare a Cesare quel che è di Cesare»…
Lui non mi avrebbe sgridato, come invece faceva Manacorda, per tutti i fastidiosi avverbi — energicamente, metaforicamente, oggettivamente, probabilmente, necessariamente, perennemente, talmente, speditamente, regolarmente, prepotentemente, bruscamente, definitivamente. finalmente — con cui ho condito fin qui il ricordo del mio « faticoso passaggio » alla vigilia del nostro primo incontro. Punzi non si sarebbe nemmeno scandalizzato se, nell’imbarazzo della mia ignoranza di fronte a una domanda difficile, avessi detto, durante i miei incubi ricorrenti di esami che non finiscono mai, quel fallimentare «praticamente», una vera e propria gruccia secondo il professore di storia. Punzi era un tipo essenziale, consapevole dei suoi limiti. Severo ma non troppo. Un Bignami ambulante e in definitiva un ottimo professore, se si considera che tutta la classe arrivò in modo indolore alla maturità, credendo di sapere poco o niente e invece…
«Anacreonte viaggiò molto, oriente… occidente…» questa fu una delle sue frasi più celebri, insieme a quel «Non accetto più, non accetto più!» che rimbombava nel fondo della classe mentre la sua voce diventava gracchiante al momento topico del ritiro dei nostri compiti appena scodellati. Qualche giorno dopo, quest’uomo spelacchiato con gli occhiali spessi, piccolo e cicciottello nel suo abito grigio, entrava in classe sbattendo la cartella con i compiti, urlando: «Non ci avete capito un cazzo!»
Nel ricordo, questo suo comportamento era alla fine liberatorio, se si pensa che nell’interregno tra il compito e il voto le sue dichiarazioni erano spesso minacciose: «sto correggendo i vostri compiti col bilancino», oppure «la stretta di viti sarà ancora più sanguinolenta», oppure ancora «chi segue segue, chi non segue seguirà in seguito»…
Il ricordo di Punzi, che condividiamo con tantissimi ex alunni del Mamiani e si è tradotto in numerose «punzeidi» e, insieme agli amori segreti e forse inventati tra Pagani e la Rizzo — cioè tra il carismatico e tossicchiante professore di matematica e la vispa è un po’ algida professoressa di scienze — una delle poche cose vive e forti del nostro tempo trascorso su quei banchi senz’anima.
Per fortuna, oltre alla paura di dire «praticamente» o altri avverbi e parole di cui avremmo dovuto diffidare come di altrettante grucce verbali e alla certezza di essere di punto in bianco stigmatizzati per la nostra mancanza di… tutto, la cosiddetta « pace dei sensi » era da tutti, di comune tacito accordo, identificata con la polvere dei libri. Nella nostra «prima C», a parte la «signorina» Di Giulio e pochissimi altri, nessuno studiava. O per meglio dire nessuno strafaceva. Da questo punto di vista, andando a ritroso con la macchina del tempo, devo correggere il giudizio che mi sono portato dietro per tanto tempo. Quella classe apatica, amorfa, divisa in tanti staterelli come l’Italia all’indomani del congresso di Vienna del 1815, quella classe che Metternich avrebbe chiamato « mera espressione geografica »; questa classe formatasi nel 1961, che poteva assimilarsi all’Italia che si era formata proprio cento anni prima, in cui si dovevano ancora fare gli italiani… era in realtà quanto di meglio avrei potuto desiderare. Lo specchio delle mie e delle nostre brame.
Perché allora, in un epoca in cui già aleggiava la contestazione e l’insofferenza verso questo mondo adulto « imbalsamato », nessuno di noi avrebbe voluto uno specchio che gli dicesse «tu sei il più bravo e il più bello», perché tutti, invece, desideravamo, sotto sotto, che lo specchio ci dicesse, come ci diceva : «vedi? tutto scorre senza cambiamenti e tu, ancora una volta, sei passato inosservato!»
Vedi, Caramella, che cosa può produrre la solitudine e lo strano rimorso per delle colpe che sono certo di non avere commesso ? Finché tu non ti rifarai viva, io non farò altro che entrare e uscire da quello specchio.

Giovanni Merloni

TESTO IN FRANCESE

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