
Cara Catherine,
Il mio ritratto incosciente si moltiplica e si complica, a quanto pare. In verità mi ha lui stesso, il ritratto, un po’ troppo scombussolato con suggestioni e digressioni che mi hanno indotto : innanzitutto a abbandonare mio nonno per parlare di Pascoli ; poi ad abbandonare Pascoli e suo padre, giusto alle soglie della Repubblica romana del 1849, per tornare indietro al Leopardi di Recanati e finalmente a Foscolo, disperato come Aiace davanti al paesaggio aspro e doloroso degli Appennini. Nel mio viaggio a ritroso, ero ormai risalito alla Repubblica cisalpina del 1797…
D’altronde, Catherine, non si chiama forse ritratto incosciente? Se da una parte è difficile controllare un «incosciente», dall’altra è difficile sottomettere il «ritratto» a regole diverse da quelle dell’ispirazione. In più, questo ritratto incosciente si sviluppa all’interno di un blog che qualcuno legge un giorno sì uno no. Un ritratto vivente, che va precisando man mano la sua personalità.
Ci sono state anche delle coincidenze. Non soltanto coincidenze esterne, come la pubblicazione su publie.net dell’ultimo lavoro di Isabelle Pariente-Butterlin, «L’infini», che ho scoperto proprio il giorno dell’uscita della 18a puntata di questo «ritratto di una tavola» dedicata all’infinito del Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. C’è stata anche l’esperienza dei «vasi comunicanti» di marzo con Élisabeth_Chamontin. Un incontro molto positivo, almeno per me. Io la seguivo su Twitter e avevo molto apprezzato un racconto a sorpresa che la Chamontin aveva scritto a proposito di un muro e di una bicicletta.
Questo muro è arrivato al momento giusto, incontrandosi col nostro desiderio di parlare della traduzione e, attraverso la traduzione, della complessità dei rapporti tra le lingue, in particolare tra il francese e l’italiano, e vice versa. Dunque, abbiamo deciso di scambiarci testi imperniati sul tema del muro-frontiera. Un muro che unisce e separa due mondi che hanno tra l’altro molti punti in comune tra loro. Un muro divisorio, un tramezzo.
Sarei rientrato diligentemente nel mio antico impegno, ritrovando Foscolo e la sua idea molto attuale della morte e dell’eternità, oppure avrei parlato, finalmente, di un altro grande esule, Giuseppe Mazzini — il principale protagonista della Repubblica romana, nonché vero padre della patria italiana —, se a un tratto non mi fossi ricordato, mia cara Catherine, di quel racconto che avevo scritto tre anni dopo il mio arrivo a Parigi. Ti ricordi il titolo, Il tramezzo e l’infinito?
C’è una specie di magia, che guida le mie mani, anzi le mie dita sulla tastiera del computer. Questo racconto parla di un muro divisorio, di un balconcino, di una ringhiera, del piccolo infinito di un cortile parigino e del grande infinito imperscrutabile di Leopardi. E uno dei protagonisti… è venuto dall’Italia in bicicletta, superando tantissimi muri!
Ti chiedo dunque di avere ancora un po’ di pazienza. Infatti, dopo la piccola digressione, non ancora conclusa, sull’infinito e sulle infinite ringhiere possibili, questo messa in scena sul tema dell’infinito contribuirà, credo, alla coerenza finale del quadro. Dopo le quattro puntate di questa piccola tragedia, ritorneremo alla nostra appassionante routine.
Ciao, ti abbraccio
G.

Il tramezzo e l’infinito 1/4 (2011)
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22 luglio 2011, ore 17,30.
Un banale tramezzo separa due testate di letto assai malridotte e due camere analogamente sordide. Da un lato di questo muro divisorio, nella stanza più buia, abita da anni un italiano, ex corridore ciclista di salute sofferente e afflitto da vari disturbi. Dall’altro lato, nella stanza che invece beneficia di un pigro e impietoso raggio di sole, si trova di tanto in tanto un francese del sud di una quarantina d’anni, professore di lingue. Ambedue i confinanti sono a terra, schiacciati sotto il peso di pensieri sempre più difficili.
Se il giovane professore si volta sulla sua sinistra, aldilà dell’esigua tavola di legno sovraccarica di pennelli e di tele arrotolate, vede la sua lunga finestra chiusa, circondata da un alone giallo o rosa denotante la piccola contrarietà del sole di fronte all’obbligo di dover tramontare. Durante questi lunghi pomeriggi silenziosi, quando va a chiudersi in questa stanza, non è sicuro di avere il tempo di godersi un pò, da solo, quest’arietta incostante che si diverte a cambiare velocità, a frugare negli angoli più reconditi per cogliervi gli odori, buoni o cattivi e le rare voci. Egli ama moltissimo questo balcone di ferro battuto che avrebbe però bisogno di qualche mano di vernice. Gli piace affacciarsi, guardare attentamente le finestre del cortile, perdendosi alla fine nel piccolo rettangolo dove l’infilata dei palazzi si interrompe e si può indovinare, dietro la grande magnolia, la confusione del viale.
Aldilà del muro, il vicino può sentire benissimo i suoi movimenti maldestri, lo stridio dei cavalletti e il rumore tipico della barra di ferro, che anche oggi deve sollevare, per sbloccare la sua metà di portafinestra.
Subito dopo, il giovane professore si proietta nel vuoto del cortile dove la sua voce, il suo avambraccio e il telefonino restano sospesi.
— Sì, ti aspetto da tre ore. Riesco benissimo ad ammazzare il tempo, ma… perché non vieni?
Attraversato da impulsi prevedibili e improvvisi, sprofonda in una leggera angoscia. Niente gli impedirebbe di riflettere in modo serio e appropriato a tutto ciò che si offre alla sua vista : alla gerarchia delle sporgenze e rientranze (condannate dall’ombra o ancora protette dal sole) che sprofondano nel suo sguardo. La sua testa è altrove. Dopo aver richiuso un po’ bruscamente la finestra, egli scarabocchia una frase su un pezzo di carta: “Mio padre aveva ragione, io sono un delinquente”.
Nel silenzio di quest’ora “che volge al desio e ai naviganti intenerisce il core”, il vecchio ciclista, seduto al centro del suo letto sgangherato, deve voltarsi invece sulla destra, se vuole vedere cosa succede aldilà della sua mezza finestra. Ma resta immobile. Non ha fretta, ha tutto il tempo per riflettere al firmamento di ricordi e di sogni che volteggiano alle sue spalle, in casa del professore.
Respira a fatica. Sua figlia Marina è salita, ha riscaldato al forno a microonde la pasta al gratin che aveva cucinato a casa sua, obbligandolo a mangiare troppo presto, a un’ora più adatta a una leggera merenda. Rimasto solo, con lo stomaco dolorante, osserva il triangolo grigio sulla sua testa. Quando l’appartamento fu diviso in due, gli stucchi furono rifatti e un gancio munito di filo elettrico fu piazzato al centro del nuovo soffitto. No, non ha nessuna voglia di accendere la luce e nemmeno di aprire la finestra: Non vale la pena. Quando si comincia a morire, si ha diritto all’inerzia e all’immobilità.

18,30.
Lassù, in quegli appartamenti del secondo piano che voltano le spalle a rue della Lune per affacciarsi sul grande cortile, queste finestre ostinatamente chiuse soffocano un pò i rumori del resto lontani del viale. Ma oggi sembra di galleggiare in un silenzio spettrale quando una voce femminile trapassa senza alcuna difficoltà il muro a cui si appoggia pesantemente la grossa testa dell’uomo anziano:
— Ecco, sono venuta… Sta per piovere.
— Era ora! Io ho la febbre.
— Mi dispiace, ma ti devo parlare…
— Attenzione, dice il giovane professore, abbassando la voce, il nostro vicino ci sente.
— E allora? Tanto meglio! Non mi fa né caldo né freddo.
— Fino a un certo punto.
— Comunque sia, questo… vicino, ha tali e tanti problemi, che non trova certo il tempo per occuparsi di noi due.
18,45.
Quello che fu un giorno campione non sente più nulla. I due amanti, in un grido soffocato, sono caduti sul letto. Crede di riconoscere i rumori della sua infanzia, quando, nella grande casa nelle Marche, si spostavano i mobili oppure delle persone di fatica portavano dentro la farina e l’olio per sistemarli in cantina. In quest’onda sinuosa, che gli sfiora la nuca come una carezza, sente le loro frasi spezzate e solitarie perdersi in una invisibile nuvola di fumo.
19,00.
— Ma guarda, piove!
— Ho saputo un sacco di cose sul tuo vicino!
— Cosa?
— Ha traversato l’Italia e la Francia in bicicletta. Per amore!
— Si chiama Trepaoli, dice lui gravemente. Cinque anni fa, dall’oggi al domani, si è strappato dalla famiglia.
— Non so perché, ma questo Trepaoli mi incuriosisce.
— Vuoi conoscerlo? Suona alla sua porta. Ti aprirà.
— Vorrei solo sapere cosa pensa di noi. E parlargli un pò di quello che ho sentito giù al bar, prima di salire.
— Qualcuno ti ha parlato?
— Non direttamente. Erano in quattro, in un angolo, c’era una donna. Mi hanno sicuramente riconosciuta. Io bevevo il mio tè, non mi decidevo a venire…
19,15.
Dopo due o tre minuti di silenzio, sento di nuovo la voce del giovane professore. È agitatissimo e non riesce a controllare la valanga di parole che gli spuntano sulle labbra.
— Dunque, non mi ami? Perché allora mi fai credere il contrario?
— Perché riporti sempre tutto all’amore, a questo benedetto amore?
— Ho capito, tu sei arrabbiata con me…
— No, io non sono arrabbiata, e nemmeno offesa. È che non ce la faccio… non ce la faccio più!
— E io, come faccio?
— Tu non sei nemmeno capace di dirlo: fac-cio, fac-cio.
— Tu sei bella, Antonia.
— Anche tu sei bello, Jérôme. Ma è inutile cincischiare… È finita!
È proprio un’italiana… È strano che non me ne sia mai accorto fino ad ora… Antonia! Ha detto «è finita» una sola volta. Ma è come se continuasse a dirlo, ininterrottamente, anche adesso che non parla.
— Tu vuoi la rottura? È così?
19,30.
Questo Jérôme è decisamente straordinario. Vuole sentirla dire : Sì, io rompo ! Tremo a questa parola che da chissà quanto tempo giace in un angolo del mio diario segreto. Rottura fa rima con avventura, frattura, ingessatura… Ed è certo una parola che non rassicura… Fu di luglio, la mia personale rottura si è svolta in modo del tutto differente se non opposto. All’inizio, fui io a tagliare il cordone ombelicale. Nell’incidente che ha segnato le mia vita… avevo perduto certe facoltà vitali di cui non si apprezza mai abbastanza l’esistenza. Io ho dovuto abbandonare la bicicletta… ma, poco a poco, ho ritrovato il respiro, poi il pieno uso delle mani e la scioltezza del passo. Tuttavia, avevo perduto, insieme alle forze, tutti i tipi d’appetito, come il desiderio amoroso… Sì, ero diventato una larva. Una larva amata certo, benvoluta e rispettata anche, ma pur sempre una larva. Ogni tanto, cercavo di avvicinarmi ad Hélène, ma sbagliavo sempre il momento… Cominciai a pensare che quella parte essenziale di me non si sarebbe più espressa. Un’ultima volta, provai con lei, ma fu un disastro. Hélène non si era mostrata né stupita né delusa: avevo avuto un terribile incidente, dunque era una cosa normale! Protestai che invece non c’era niente di normale. Avevo perso la mia spontaneità, era come il povero Abelardo ma non potevo mettere Hélène sotto chiave in un convento. Non ne esistono più, del resto! Quel giorno, io ho varcato per l’ultima volta la soglia del mio appartamento di viale Voltaire.
Giovanni Merloni
«Potrebbe esserci virtù senza l’immaginazione?» (Baudelaire)
«Nonostante fosse molto ricco, l’artista viveva semplicemente, in una casa con giardino nel quartiere di Notting Hill, dove aveva anche il suo atelier, al primo piano. L’artista, che non sopportava i vincoli della vita familiare, ha passato i suoi ultimi anni da celibe, avendo avuto due spose poi varie compagne successive, una decina di figli e nipoti.» (« Il pittore inglese Lucian Freud è morto » Le Monde 22.07.2011)
«Anche Trepaoli non sopportava i vincoli della vita familiare.»
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écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 7 mars 2013
TEXTE ORIGINAL EN FRANÇAIS : http://wp.me/p2Wcn6-mR
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