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« La distribuzione della luce » di Stéphanie Hochet

30 jeudi Avr 2015

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Stéphanie Hochet

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« La distribuzione della luce » di Stéphanie Hochet

«La distribuzione della luce», questo potrebbe essere il titolo italiano de «La distribution des lumières» di Stéphanie Hochet (Flammarion, 2010), un bellissimo e importante romanzo polifonico, che ruota intorno alle chimere, alle ossessioni, o, se vogliamo, alle fissazioni di quattro personaggi, tre dei quali hanno la parola e si esprimono in prima persona – Pasquale, «l’italiano deluso» ; Auréle, «la ragazzina di periferia» (una periferia che a Lione si chiama «banlieue»); Jerôme, «il fratellastro idiota» — e il quarto — Anna Lussing, «la bella musicista» e perno di questa terribile storia — non si esprime in prima persona ed è solo «illuminata», di volta in volta, dagli altri tre.
In un singolare crescendo – che non lascia al lettore il tempo di respirare – la giustapposizione, apparentemente tranquilla, del diario «contraddittorio» di Pasquale, di quello «razionale e diabolico» di Aurèle e di quello «visionario» di Jerôme, si trasforma presto in dramma, in tragedia senza via d’uscita.
Con questo ultimo libro Stéphanie Hochet sembra voler aprire una nuova pista nella sua maniera di scrivere e di rappresentare la realtà. La scrittrice ripropone lo stesso spirito di verità e di chiarezza dei suoi libri precedenti, come ad esempio «Combat de l’amour et de la faim» («Lotta dell’amore e della fame»). Ma si spinge più avanti, a cominciare da questa «distribuzione della luce», fonte di una costante incertezza riguardo alla distribuzione delle parti tra i personaggi : ognuno lotta per il ruolo di protagonista, perché ognuno di loro – più o meno coscientemente – ha bisogno di comunicare la sua storia (e il suo problema), vorrebbe che qualcuno se ne facesse carico, aiutandolo a salvarsi.
A questo scopo Stéphanie Hochet dà al romanzo una struttura complessa, basata su parole e frasi «strategiche», una struttura che le serve a contrastare, a bilanciare e talvolta a sconvolgere ogni ordine logico a cui il lettore potrebbe affezionarsi. Si tratta di una struttura verticale, molto rassomigliante alla torre Eiffel (d’altronde citata a pag.183). In tale concezione, la prima parte del libro è dedicata alla salita, alla presa di coscienza di sé (della scrittrice stessa e del libro attraverso i suoi personaggi). In questa fase i personaggi restano abbastanza lontani l’uno dall’altro, tanto che il lettore non è in grado di immaginare quali saranno i rapporti tra di loro. Ma, prima di arrivare alla cima della torre, avviene un incidente, apparentemente esterno ai quattro personaggi, qualcosa che non ha niente a che vedere con loro. Questa intrusione provoca un certo fastidio. Ma poi si comincia a capire. Arrivati in cima, alla terrazza panoramica, si sanno ormai molte cose, e si vorrebbe già assaporare, di lì a poco tempo, un possibile epilogo della vicenda, basato sulla «luce», cioè sulla preferenza che sembra essere stata assegnata all’italiano trasferito a Lione, al suo amore per l’affascinante e un po’ misteriosa musicista. Ci si concentra sulla necessità di rimuovere gli ostacoli — primo fra tutto il citato incidente — che si frappongono alla sua felicità. Ma le cose non stanno così. Si deve ancora scendere. E la discesa sarà «vertiginosa», inaspettata e fatale (concetto del resto anticipato a pagina 11 e ripetuto alle pagine 142-143).
A questo punto ci troviamo, ormai, al di là di una semplice conoscenza dei personaggi e della loro presa di coscienza. Ci confrontiamo con testimonianze, sospetti e con tutti gli elementi necessari per dare alla fatalità e alla tragedia lo spazio e l’occasione di realizzarsi senza briglie e controlli.
Ci accorgiamo, sia pure in modo contraddittorio, che la luce si è ora spostata sui due personaggi più giovani, perché il malessere, che deriva soprattutto dall’abbandono operato dalla generazione dei padri e delle madri, si è più stabilmente e dolorosamente installato negli adolescenti. Così il fascio del riflettore teatrale si sposta continuamente da Aurèle a Jerôme, da lui a lei. Apparentemente è lei, Aurèle, la responsabile principale del dramma a cui si sta assistendo. Ma Jerôme non è esattamente il ragazzo ritardato e incosciente delle prime battute e pagine del libro.
E attenzione: questo spostamento della luce sui personaggi non è la sola novità di questo libro né la sola sua forza. Il lettore deve aspettarsi continui colpi di scena ed abituarsi alla particolare struttura del romanzo: una struttura trasgressiva, basata su frasi e parole che hanno la funzione di vere e proprie bombe a orologeria; una struttura che ha senza dubbio il potere di giustificare come del tutto reale una vicenda implicitamente ideologica e a tratti paradossale.
Non approfondirò qui la tematica dell’impatto della banlieue di Lione su Pasquale, l’italiano che ha forse scavalcato le Alpi per respirare un’aria migliore e che, per le vicende del tutto particolari che gli occorrono, potrebbe alla fine essere tentato, come la Dorothy del «Mago di Oz», a riconsiderare la propria scelta, si tratti di una fuga provvisoria o di un autoesilio definitivo.
Cercherò invece di dare una possibile interpretazione dell’epilogo paradossale. Tutti i personaggi – l’italiano scontento, la ragazzina nevrotica, il fratellastro disturbato, ed anche la musicista piena di buona volontà – non hanno una famiglia.
Per i due giovani, come si è detto, questa assenza di famiglia è la conseguenza di un abbandono che si ripete ogni giorno.
Per Pasquale è un rifiuto che egli non spiega e forse non spiega nemmeno a se stesso, un malessere che l’opprime assai.
Per Anna la famiglia d’origine, la sola che  abbia avuta, consisteva in una serie di doveri e obblighi che l’hanno spezzata in due. Anna vorrebbe una famiglia sua, per aprire finalmente la gabbia dove la sua vitalità è rimasta imprigionata.
Tutti e quattro sono dunque dei « senza famiglia ».

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Partendo da questa evidenza, Stéphanie Hochet lavora sui suoi personaggi come in un laboratorio. L’italiano deluso e incerto è sempre più coinvolto, con Anna, in un secondo rapporto coniugale. Aurèle, d’altra parte, cerca in Anna qualcuno che le apra la strada della vita, magari una seconda madre. Ma Pasquale riversa su Anna le sue contraddizioni esistenziali e amorose, mentre Aurèle vorrebbe far pagare alla nuova madre tutto il male che i suoi genitori effettivi le hanno provocato. In mezzo a questi due personaggi che chiamerei principali, un ruolo strategico è assegnato dalla Hochet a Jerôme, il deviato, il disadattato, l’idiota. Jerôme non è affatto idiota, anzi, vede chiaramente il confine tra ciò che è bene e ciò che è male (pagina 108). E’ dunque all’equilibrio emotivo di Jerôme che tutto è affidato. Lo si sente e lo si vede. Se la distribuzione della luce — e, in definitiva, delle attenzioni da parte di persone responsabili —, fosse stata più equilibrata, dando a Jerôme quanto gli era dovuto, forse gli avvenimenti avrebbero avuto un diverso corso.
Stéphanie Hochet ha bisogno di questi «figli diabolici» e del mondo cieco e sordo della periferia-banlieue per realizzare una vera e propria «tragedia greca», realizzata peraltro nello stile letterario di André Gide e con la classe indiscussa di un Hitckock o di uno Spielberg. La tragedia di Elettra (che guarda caso è chiamata in causa in una «lotta per la luce») si gioca in famiglia. Alla fine ogni personaggio del libro converge verso una stessa famiglia. Una tale spiegazione può allora giustificare il comportamento di Pasquale, il suo sacrificio o, perlomeno — dal momento che non si può sapere quello che il processo deciderà —, il suo slancio verso questi minori già condannati dalla loro stessa vita. Il comportamento di un padre.

Giovanni Merloni

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écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Dernière modification 30 avril 2015

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« Bonjour, Anne » un libro di Pierrette Fleutiaux dedicato ad Anne Philipe

19 dimanche Avr 2015

Posted by giovannimerloni in il ritratto incosciente

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Anne Philipe, Bonjour Anne, Dante, Gérard Philipe, La Boétie, Montaigne, Pierrette Fleutiaux, Virgilio

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« Bonjour, Anne » un libro di Pierrette Fleutiaux dedicato ad Anne Philipe
Actes Sud 2010

Si dice « buongiorno » tutti i giorni. Ma c’è un « buongiorno » speciale, che ogni innamorato è felice di dire alla persona amata al momento del risveglio. Costui (o costei) è in realtà contento (o contenta) di condividere questo risveglio, di potersi rivolgere a qualcuno che « vive ancora ». Dicendo « Bonjour, Anne » Pierrette Fleutiaux immagina di parlare alla « sua » Anne, come si parla a qualcuno che esiste nello stesso presente.
Il titolo « Bonjour, Anne » ci fa pensare anche al capolavoro di Françoise Sagan, « Bonjour tristesse », pubblicato nel 1954 da Juillard, la casa editrice dove Anne lavorava. A noi italiani ricorda poi il terribile « Buongiorno, notte » di Marco Bellocchio.
Riuscirà allora questo libro – cronaca esatta e romanzesca, anzi romanzo tout court – nel suo percorso complesso e rischioso, a ridare la vita a Anne Philipe, prolungandola nel presente ?
Questa vita è oggi occultata dagli strati fangosi delle attualità successive ed emarginata dai cambiamenti storici e dalle mutazioni strutturali che la globalizzazione mediatica ha generato. Peccato, perché Anne Philipe è stata un personaggio di primo piano in Francia fino alla sua morte, nel 1990. Etnologa, scrittrice e editrice, Anne fu anche la moglie di Gérard Philipe, il più grande e famoso attore francese negli anni ‘50 — chi non ricorda « Fanfan La Tulipe » ?
Anne Philipe ha avuto la forza e la costanza di seguire il suo percorso  autonomo e originale — prima, durante e dopo il suo felice e doloroso matrimonio con l’attore prematuramente scomparso. D’altronde, come ci testimonia Pierrette Fleutiaux, Anne Philipe diceva spesso, citando Spinoza, che per l’uomo « la tristezza è il passaggio da una grande a una piccola perfezione » e che bisogna dunque « sforzarsi di vivere con eleganza », sempre, perché l’essenziale è « essere se stessi, il più possibile ».
Ma in cosa consisteva, nel fondo, questo « essere se stessa » di Anne Philipe ? Sin dalle prime parole di questo libro coraggioso, Pierrette Fleutiaux dichiara la sua amicizia senza riserve per questa donna che non ha avuto soltanto il merito di aver approvato il suo primo manoscritto  (« Histoire de la chauve-souris », 1975) — scrivendole semplicemente « Mi piace » —lanciandola nel mondo dei libri. Anne Philipe non si limitò, del resto, al ruolo di guida benevola e di maestra attenta. Fu una figura esemplare, unica.
Una figura esemplare per Marguerite, la giovane scrittrice che incarna « la prima età » di Pierrette Fleutiaux, dal suo soggiorno negli Stati Uniti fino alla fine degli anni ottanta, un personaggio da cui la Pierrette Fleutiaux di oggi si sente evidentemente distaccata.
Esemplare anche per un vasto universo di lettori — in via di disparizione —, che ai suoi tempi apprezzavano senza riserve lo stile di Anne Philipe, la sua discrezione e onestà intellettuale, che sono forse anche le ragioni profonde, oggi,  del suo oblio.
A partire dalla sua formazione di etnologa e di ardita viaggiatrice (« Caravanes d’Asie », 1955 ; « Promenade à Xian », 1980) e della sua rara disponibilità verso « l’altro », Anne è stata una scrittrice libera, che ha saputo difendere il suo equilibrio e, allo stesso tempo, vivere e esprimere i propri sentimenti e passioni, trovando sempre le parole giuste per parlare dell’amore e della morte (non soltanto in « Le temps d’un soupir », 1963, il romanzo del lutto per la morte del marito, ma anche nei romanzi successivi : « Les Rendez-vous de la colline », 1966 ; « Ici, là-bas, ailleurs », 1974 e « Roman interrompu », 1991).
Anne Philipe non fu soltanto una donna dal talento multiforme. E’ stata anche un personaggio discreto, in fondo solitario, pressocché indifferente al successo personale, che ha dato molto, impegnandosi in prima persona per sostenere tutti quelli che riscuotevano la sua stima. Anche in queste cose aveva un grande talento.
Vent’anni dopo la morte di Anne, Pierrette Fleutiaux è finalmente pronta a parlare di questa donna esemplare, eccezionale. Vuole rendergli un omaggio che possa servire alle generazioni future.
Nelle pagine spesso assai commoventi di questo libro — da leggere in un soffio, da rileggere attentamente e da consultare di tanto in tanto, per tutte le notizie, meno interessanti riguardo ai fatti che ai personaggi e all’atmosfera che si respirava a Parigi e nel sud della Francia in quei tempi perduti —, Pierrette Fleutiaux cade a volte nel pessimismo : tutto finisce, muore, si volatilizza, a cominciare da ciò che era attualità negli anni 50, 60, 70…
E dice molte volte che Anne Philipe è scomparsa per sempre in questo nulla.
Ma poi la Fleutiaux — scrittrice amata e molto stimata in Francia — fa lo sforzo straordinario di renderle omaggio, ricordandola ai lettori e a se stessa, ricostruendone l’immagine, facendo un ritratto « compiuto » della sua voce, della sua figura, del suo modo d’essere e della sua anima.
Dunque è possibile questo sforzo che ci coinvolge e ci trascina. Ed è necessario, perché la voce di Anne Philipe, parlandoci ancora, ci può comunicare emozioni di valore universale.
Un tale scopo è assai ambizioso e Pierrette Fleutiaux lo sa bene. Ha, certo, ormai, la somma padronanza di tutti i mezzi per una scrittura appropriata, ed ha anche l’autorità per proporre il recupero del « bene culturale Anne Philipe », che rischia veramente di essere definitivamente perduto.
Ma… non basta dare alla scrittrice morta un buon indirizzo per una nuova pubblicazione dei suoi libri. Bisogna accompagnarla. E accompagnarla non basta neppure. Bisogna occuparsi di lei, darle dei consigli, e non tirarsi indietro per tutto ciò che può succedere dopo.
E’ esattamente quello che Anne Philipe aveva fatto per Marguerite-Pierrette a metà degli anni settanta.
Dunque, Pierrette Fleutiaux si rende ben conto che si dovrà mettere personalmente in gioco, dando vita ad una vera e propria « invenzione » narrativa.
Tre personaggi sono invitati a raccontarsi o a lasciarsi raccontare : Anne Philipe, per prima. Ma con lei dovrà agire Marguerite (la Pierrette di quando Anne era viva). E per terza, obbligata a rivivere tutto quel passato e a sostenerne il peso in una corretta prospettiva, la Pierrette di oggi che, pur riscuotendo successo con la pubblicazione di nuovi libri sempre più belli, deve sempre muoversi con equilibrio e circospezione in questo mondo letterario di cui conosce bene i lati  vani e illusori.
E’ interessante a questo proposito notare che il passaggio del testimone da Marguerite a Pierrette avviene proprio con la morte di Anne Philipe, avvenuta nel 1989 (anno che rappresenta, tra l’altro, la fine di un’epoca per l’intero pianeta). In quel periodo Marguerite è alle prese con il suo lavoro più impegnativo, un « libro lungo », difficile. Lontana da Parigi aspetta con ansia il giudizio di Anne, che non arriverà mai. L’anno successivo Pierrette Fleutiaux, entrata con questa dolorosa perdita nella seconda fase della sua vita di scrittrice, otterrà il Prix Femina proprio con quel libro (« Nous sommes éternels », 1990).
Non si deve troppo credere al successo e bisogna, anzi, ricordarsi sempre di coloro che ci hanno aperto una porta. E io credo che la profonda riconoscenza di Pierrette verso Anne si può sintetizzare nello stile di vita che, come un testimone in una corsa, Anne ha regalato a Pierrette : uno stile basato sull’umiltà e la generosità, due qualità assai rare, che devono basarsi a loro volta su una vera capacità di amare. Del resto è solo attraverso un atto d’amore che la letteratura, il teatro e il cinema possono fare il miracolo di far rivivere e di rendere a volte eterno un personaggio o un mondo scomparso.
L’autrice di « Bonjour, Anne » ha vissuto parecchi anni in stretto contatto con Anne Philipe, può quindi aiutarci a « vederla » e a comprenderne fino in fondo il valore. Ma Pierrette Fleutiaux vuole arrivare al « vero » ritratto di questa donna « perfettamente compiuta ». Lei stessa vuole ora conoscere meglio colei che, anche per la differenza d’età, non le aveva aperto del tutto il suo cuore.
Ed è questo il punto nodale di questa « recherche », come infatti la Fleutiaux confida alla sua ideale interlocutrice, alla fine di questo bel libro :
« Quello che desidero, è incontrarvi oggi… per essere alla pari, ora che le nostre età si assomigliano, e parlarvi come non ho mai potuto veramente fare ».
Una intensa e ricorrente reciprocità è dunque alla base di questo libro : se non fosse esistita Anne Philipe, Marguerite (Pierrette giovane) forse non sarebbe stata una scrittrice riconosciuta in Francia e in altri paesi del mondo. Ora sono passati vent’anni dalla morte di Anne. Pierrette, che ha oggi circa la stessa età che Anne aveva il giorno del loro primo incontro, ha saputo incamminarsi nell’impresa di ridarle la vita e, con la vita, la gloria che merita.
Questa « ricostruzione » soggiace poi allo stesso meccanismo che legò Dante a Virgilio, o Montaigne a La Boétie.
Virgilio conduce Dante nell’Inferno e nel Purgatorio, è la sua guida nel viaggio nel passato, dove Dante ritroverà il senso della sua vita, dei suoi ideali e della fede. Il viaggio di Pierrette — nel suo passato e nei momenti che ha potuto ricostruire della vita di Anne – è anch’esso una ricerca di sé, una presa di coscienza e, allo stesso tempo, il miracolo di ricreare il passato. E, come per gli esempi del passato, questo miracolo nasce del tutto naturalmente dalla dialettica, dal « dialogo tra due ».
Montaigne, d’altra parte, esaltando il valore dell’amicizia con La Boétie prepara se stesso e i suoi contemporanei alla prima autobiografia della storia letteraria : « In verità, ciò che noi chiamiamo ordinariamente amici e amicizie, non sono che vicinanze e familiarità che scaturiscono da qualche occasione o comodità, attraverso cui le nostre anime si frequentano. Nell’amicizia di cui parlo, le nostre anime si confondono l’una dentro l’altra, in un miscuglio così universale da cancellare e rendere quasi invisibile la cucitura che le ha unite. Se mi chiedessero insistentemente di dire perché gli ero amico, sento di non poter esprimere un simile sentimento che rispondendo : perché era lui ; perché ero io. »
Molto spesso, in questo bel libro si leggono frasi che si potrebbero ricondurre   a Montaigne : « perché era lei ; perché ero io. »

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Su tale base, fondandosi su una struttura della memoria che alterna i ricordi recenti ai fatti più lontani, Pierrette Fleutiaux, trasformata a sua volta in Virgilio o Montaigne, ci porta con sé in una storia sempre più affascinante e emozionante che si sviluppa secondo un flusso unitario della narrazione. A metà del libro, per esempio, si parla delle vacanze estive di Anne Philipe a Ramatuelle, vicino Saint-Tropez : una pausa tra tanti eventi che ci toccano, ci angosciano o ci fanno ben comprendere come si svolgevano i fatti in certi angoli del passato, o nel mondo della letteratura e delle case editrici.
« Bonjour, Anne » è un libro che non si può raccontare troppo facilmente — ed è anche questo uno dei suoi meriti principali —, un libro che va largamente al di là di un mero ritratto letterario. Conosco molti scrittori che nella loro vita hanno conosciuto persone di talento e di genio, personalità straordinarie che la vita o la storia hanno abbandonato all’oblio. Se avessero fatto, anche in piccola parte, ciò che Pierrette Fleutiaux ha fatto per la memoria di Anne Philipe, il nostro piccolo mondo avrebbe fatto un grande passo avanti ; la letteratura cesserebbe di essere una pura e semplice consolazione davanti alla solitudine e alla morte.
Si sente sempre più il bisogno di uscire dal « virtuale » dalle « fictions » o dalle fotografie – violente e minimaliste – di tragedie, intorno a noi, che finiamo per considerare inevitabili, accettandole. Certo non bisogna dimenticare, ma ricordare deve servire a capire, a evitare di sbagliare, a trovare la forza per reagire. Perciò, accanto alle memorie più dolorose, in qualche modo necessarie, anche nella loro negatività ––, abbiamo bisogno di memorie positive, edificanti : uomini e donne che — grazie alla loro intelligenza e talento, grazie ad una condotta saggia, equilibrata, generosa — sono riuscite a far prevalere sui mali del mondo una visione positiva della vita. Essi si sono sforzati, come ci dice Anne Philipe, con disarmante semplicità, « di vivere con eleganza, sempre, perché l’essenziale è essere se stessi il più possibile ».
Ogni ricostruzione « creatrice » di questa umanità rivolta al bene vale molto di più di una memoria presa dai libri di storia e dai giornali. Questo ha saputo fare per noi oggi Pierrette Fleutiaux, con la sua forza tranquilla.

Giovanni Merloni

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écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première publication 5 décemre 2012 Dernière modification 18 avril 2015

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Sono passato senza essere visto (Solidea n. 25)

27 mardi Jan 2015

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Solidea

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Sono passato senza essere visto (1)

1. Dal pessimismo

Sono passato, per vedere
ed essere visto
nei luoghi e nei volti
che non ho rimosso.

Sono sceso appena
nell’altra dimensione
che fu mia.

Schizofrenicamente ritessendo
trame di affetto
che il treno spezzerà
renderà vane.

Ho visto come sono visto:
come un ex di cui ognuno
ha un brandello privato
forse importante;
ma nessun ricordo
unico ed vero per tutti.

Oggi sono cambiato,
vorrei che la città lo sapesse.
Ma forse non lo saprà.

Sono passato senza
essere visto.

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2. Dall’ottimismo

Mi trascina a Bologna
una corrente sicura
il benefico pathos
dell’amor filiale.

Una madre sbrigativa
ma pur sempre affettuosa.

Un mondo in cui
tante cose di me importanti
sono nate
e qui
non altrove
possono sopravvivere.

Sia pure lottando
con fratelli gelosi.

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3. Dal viaggio

Resterei a Bologna.
Resterei a Rimini, a Imola, a Casalecchio
o a Terra del Sole
in una casa come questa
in una via come questa.

Nella malinconica incertezza
di un mondo di affetti
da ricreare, di vuoti inaspettati
da riempire.

Nella imbambolata certezza
di un proprio “dovere”
più limitato, più regolare
meno spropositato e avventuroso.

Resterei qui.

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Giovanni Merloni

(1) Viaggio a Bologna, 1989.

écrit ou proposé par : Giovanni Merloni. Première et Dernière modification 4 janvier  2015

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La poesia stracciata, 1976 (Ossidiana n. 43)

20 mardi Jan 2015

Posted by giovannimerloni in poesie

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Ossidiana

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La poesia stracciata

La poesia stracciata
era bella,
la poesia stracciata era
vera,
la poesia stracciata
era un’ombra
dove è penetrata la luce
un angolo di polvere
dove il groviglio
del dolore e della felicità
si è sciolto.

La poesia stracciata
era un nuovo sforzo
per comprenderti,
per liberarmi
(come dici tu)
dal luogo comune.

La poesia stracciata era
la verità più dolorosa
tramutata in un fiore.

La poesia stracciata
mi ha tramortito
ridandomi
il profumo caldo
del tuo corpo.

La poesia stracciata
è tornata tra le mie mani
tra le mie gambe
nello stomaco malato
della vita.

Giovanni Merloni

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Il progetto di una poesia, 1975 (Ossidiana n. 42)

18 dimanche Jan 2015

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Ossidiana

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Il progetto di una poesia 

Il progetto di una poesia
nella fragile geografia
dei ricordi
delle attese
dei gesti nascosti
si stende come una lingua
di carta
tra le vesti
e le maschere
di un amore in disuso
fino a che la rabbia
di sentirci vitali
dischiude le pareti calde
della sacra reliquia.

Dal fondo di una cripta
di cipolle e vino
il mio grido è arrivato
oltre la botola d’erba
a lambire il tuo vestito
nel grembo bianco
di fiori ricamati
e ci siamo messi
a rotolare
nell’infinita spirale
di una chiocciola di pergamena
trasparente.

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Tu mi rendi consapevole
della mia nascita
dei miei primi passi
della mia curva timidezza
di scolaro.

Tu mi accogli
in un disegno più vasto
più ricco
con qualche spreco
con qualche colore in più.

Tu mi regali
la certezza
che la vita
ci appartiene.

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Giovanni Merloni

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Oramai quasi niente mi resta (Zazie n. 23)

30 mardi Déc 2014

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Zazie

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Oramai quasi niente mi resta

Mi confortano
questi segni di matita
su fogli a perdere
testimoni recalcitranti
e involontari
della mia capacità
estrema
di ragionare
o di sognare.

Mi consolano
i muri di questa prigione
definitiva
dove i miei desideri
si scontrano
come altrettante mani
rattrappite.

Mi lusinga
il ricordo
dell’infima resistenza
di questo velo ridicolo
di vetro o di cellophane
che separava il mio corpo
dal tuo,
che attirava
pericolosamente
la mia bocca ansimante
verso le tue labbra
miracolosamente vicine
ma ancora imprigionate
da quella pellicola
invisibile
appannata
inerte.

Mi calmano
o mi agitano
secondo i giorni
i ricordi
duri a morire
dei tuoi esili bordi.

Oramai quasi niente
mi resta
a parte l’eco
di un lamento introverso
di una confusione angosciosa
di una solitudine rabbiosa.

Mi resta, forse
la delineata prospettiva
di un solitario viaggio
tra gli ubriachi
tra i derelitti
tra i focosi paladini
di inutili battaglie
tra i rami
smorti e appassiti
di un bosco di cartapesta.

Mi resta, forse
questa foto
fatta a pezzi
bruciata, abbandonata
alle sevizie del vento,
questa foto che forse
non si cancella mai
come una tenda aerea
inafferrabile
che mi permetterei di chiamare
Amore.

Giovanni Merloni

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La sorte di un « ex » (Zazie n. 22)

28 dimanche Déc 2014

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Zazie

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Giovanni Merloni, Bonnie & Clyde a Parigi, 2014

La sorte di un « ex » 

È una sorte nera
quella di un « ex »
ex generale
ex amante
ex mercante di bugie
ex uomo, ex donna
ex rimasuglio.

Va a finir male
anche
per questo canto d’amore
— di ieri —
che io e te
abbiamo trascinato
come un bambino
o un cancro.

Rasento l’esistenza
e ben vedo che non la muovo
per niente
che tutto diventa innato
anche la vita spietata
dei buoni
che noi fummo
degli ex buoni
che ora siamo.

Io sono un ex felice
un ex credulone
un ex illuso dello stupore
estasiato
che potevo suscitare.

Io sono un ex vanitoso
per l’invidia stravagante
che potevo conquistare
con le mie peripezie
esuberanti
con le mie prodezze
eccessive.

Sono un ex vivo
questo è il guaio.

Anche per me
è scomodo sparire
sarebbe più facile
incontrarmi ancora
nelle vite degli altri
nelle loro cravatte
nei loro caroselli impietosi
e anche nel loro caos
esecrabile.

Sarebbe facilissimo,
ma io morirei
ancor più di ora,
morirei per sempre
perché il mondo
non vuole specchi
e nemmeno la mia compassione
di ex sopravissuto.

Facendo finta di morire,
come una città russa
assediata,
il mondo brucerebbe
più di sempre
intorno
al mio ex corpo
accanendosi
contro la mia sorte
sempre più
esigua.

Giovanni Merloni

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Quella gioia fuggente (Zazie n. 17)

04 jeudi Déc 2014

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Zazie

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Quella gioia fuggente

È possibile ricostruire
il mondo di fuori
anche in prigione

ma ci vuole una fatica
immensa
ogni parola un giorno
del calendario
un segno su un muro
sempre più nero

costruire
come facevo da bambino
un capanno tra i rami
un soppalco segreto
senza le ragazze

è possibile vedere
prima di dormire
tante persone avventarsi
tra i suoni indistinti
rimbombanti
sul cuscino

e poi, d’incanto
come una domenica
in abiti freschi e puliti
rivivere in un istante
la mia storia
prima di entrare qua dentro
gli ultimi gesti
di una follia e di un dramma
che avevo subito
senza capirlo.

È possibile capire,
da qui dentro
questa rinuncia,
capire perché
tutto ciò sia avvenuto

perché
non ti sono corso dietro
e non ho lottato
contro la violenza del mondo,

perché
non ho rubato
distrattamente
allegramente
senza sensi di colpa
quella gioia fuggente,
inafferrabile
oramai.

Giovanni Merloni

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Mi sei vicina (Zazie n. 16)

02 mardi Déc 2014

Posted by giovannimerloni in poesie

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Zazie

001_enigmistica 180

Mi sei vicina

Un suono di telefono.
Poi due parole scontate,
un tentativo di sopraffazione
finché io parlo e tu taci
oppure sei tu che mi parli
e io credo davvero
di sprofondare.

Eppure mi sei vicina.

Non potrò mai scordare
le tue parole:
«Va bene, raccontami qualcosa»
«No, non di te… né di me»
«Basta, non voglio più
parlare».

Mi sei vicina
perché spero i tuoi baci
perché se sei seria, o anche cupa,
dentro di me tu ridi.

Anche se sei lontana
tu sei vicina.

Vedi, non c’è più
neanche una briciola
di orgoglio. Invece
di ucciderti nel mio cuore
invece di tradirti
io ti inseguo.

Vedi, sei qui, scolpita
in mezzo alla fronte,
nell’unico punto
dove arriva la luce.

Mi sei vicina.

002_ceramica nb paolo 180

Paolo Merloni, Disoccupato, ceramica, 1998

Giovanni Merloni

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Uno sguardo ambizioso al di là (Zazie n. 13)

04 lundi Août 2014

Posted by giovannimerloni in poesie

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Zazie

001_un regard ambitieux a 180

Uno sguardo ambizioso al di là (2014)

I
Uno sguardo ambizioso
rimpallato da una vetrina
nel rimirarsi capriccioso
del mio cappello.

Una lunga passeggiata
quasi una scampagnata
ci accompagna, che facilità
giù giù nel cuor della città.

Intanto il marciapiedi
non la smette di mostrare
il volto tetro del quartiere,
il popolo senza mestiere
i disperati senza arte
né parte, i disgraziati
in disparte.

Intanto il metrò
non la finisce di strillare
vomitando folle
affaccendate
inghiottendo uomini
vestiti alla bell’e meglio
esibendo donne
appena svegliate, già stanche.

Fiduciosi avanziamo
aggrappandoci alla fortuna
alle piccole diversità
alle enormi differenze,
accettando, finalmente,
la contesa quotidiana.

Questo cuore immenso
che non smette di pulsare
è la città stessa. Un’ossessa,
l’invisibile guardiana
della nostra vita
intensa.

II
Che debbo fare
perché tu diventi
la mia città,
il mio corto o lungo
largo o stretto
marciapiedi
per arrivare di là?

Come posso
tranquillizzarti,
perché tu sia
davvero convinta
di porgermi una sedia
e di ascoltarmi, magari
distratta, mentre
rigoverni ?

Quante ferite, quanti
ricoveri, quante macchie
della pelle o dell’anima
debbo risuscitare
perché tu accetti
questo corpo ritardatario,
scampato per un pelo
a un’incresciosa disfatta,
questo cervello
saltellante,
che più non ricorda
dove ha mai messo i suoi
gloriosi trofei?

Cosa debbo esibire,
scavando nel passato
degli errori, delle private
virtù, perché tu inviti
(nelle tue sale di specchi
nei tuoi giardini frizzanti)
questo naufrago
della terra
ferma?

Quali accenti o tic
o gesti, quali pensieri,
quali sogni inconfessati
posso conservare
perché tu accetti
di rivolgermi la parola
magari camminando
sull’altro marciapiedi,
al di là della strada?

Giovanni Merloni

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